Porti di mare

di
genere
etero

Luci, luci ovunque. Luci in cielo, dai grattacieli talmente alti da sembrar toccarlo quel cielo illuminato quasi a giorno, luci poco sopra la testa dalle mille insegne lampeggianti e colorate, luci a terra dai fari delle auto. In quel momento, avendone visto solo la strada dal JFK sino al quartiere di TriBeCa nel cuore dell’isola di Manhattan, se mi avessero chiesto cosa è l’america avrei risposto senza alcun dubbio luce, luci.
Fa freddo, e c’è la neve, è dicembre, ma non mi dispiace, anzi mi fa un effetto piacevole, mi sento un po’ come gli U2 in una delle loro famose canzoni, “When we touched the ground at JFK, snow was melting on the round…”* Niente taxi, Eleanor, il motivo di quella trasvolata oceanica, è riuscita a venirmi a prendere. La vedo, non senza difficoltà, mentre si sbraccia a tratti, in bilico tra la voglia di attirare la mia attenzione e la paura di mostrarsi ridicola, e di dar spettacolo. E’ bella come la ricordavo, nonostante gli anni che passano, e nonostante il cappotto che la rinchiude come un involucro, i lunghi capelli neri, lucidi, selvaggi, quasi spettinati, probabilmente pettinati con cura proprio da sembrar spettinati, gli occhi quasi più neri dei capelli, lucidi anch’essi, umidi, la bocca increspata in un sorriso quasi ebete. 
Le vado incontro, tirandomi dietro la rumorosa valigia a rotelle, ci abbracciamo, sono passati quattro anni dall’ultima volta che la avevo stretta tra le braccia, sempre in un altro aeroporto, Fiumicino, Roma, Italia. Continuiamo a stringerci, incuranti della folla, come la folla è incurante di noi, solo lì capisco appieno una frase sentita spesso, si è soli tra milioni. Le nostre labbra si toccano per un istante, poi di nuovo, strofinandosi, sfiorandosi, incollandosi come a non volersi più staccare, sino a quando gli occhi si riaprono, gli sguardi s’incrociano, e scoppiamo a ridere entrambi. 
Il baciarci prima ancora di salutarci, senza aver ancora proferito parola ci rammenta il tempo in cui c’eravamo conosciuti, qualcosa più di dieci anni prima, quando appena ventenni, lei al suo primo viaggio in Italia, con un vocabolario di termini noti che poteva far invidia solo ad un bambino che aveva appena pronunciato per la prima volta ma-mma, io in possesso ancora solo di un maccheronico inglese scolastico, avevamo trovato più conveniente dopo i primi comici tentativi di dialogo lasciar parlare le nostre mani e le nostre labbra.
“Non è cambiato nulla, vedo” dissi io, stringendole le mani guantate. 
“Nothing” rispose lei, baciandomi di nuovo, facendo capolino con la lingua guizzante tra le mie labbra, scoppiando subito dopo nuovamente a ridere. 
Non c’è mai stato un rapporto stabile tra noi, lei troppo americana per viver più del tempo di una vacanza in Italia, io troppo italiano per passare la vita in america, ma non ci siamo mai persi di vista, incontrandoci quando possibile, sentendoci quando non lo era, anche a seconda delle alterne vicende sentimentali di entrambi. Un confortevole porto, scomodo per via della distanza, ma forse proprio per quello perfetto, lontano dalla normalità e dai problemi, in cui approdare per riparare la propria nave danneggiata dalle burrasche della vita prima di far rotta per altrove, questo eravamo l’uno per l’altra, a vicenda. 
L’ascensore non funziona, sorrido ironicamente, anche lì nell’america delle mille luci succede. Qualche rampa di scale, fortunatamente non vive in un grattacielo, penso. La bacio di nuovo sul pianerottolo, mentre cerca le chiavi nella borsetta. Lei risponde al bacio, lasciandosi andare completamente chiudendo gli occhi quando si apre la porta alla nostra destra, da cui con la coda dell’occhio vedo uscir un’altra giovane donna, che scende dalle scale da cui noi siamo appena saliti, da quel suo modo di lasciarsi andare in quel bacio, quasi ostentato, indovino i suoi rapporti non precisamente idilliaci con la vicina. Entriamo, finalmente si toglie quell’armatura a forma di cappotto, la imito sistemando il loden sullo stesso appendiabiti, di fianco al suo, ci guardiamo, quasi immobili. 
- Sarai stanco ed assonnato " In italiano, come a volermi far sentir a casa " il viaggio, l’aereo, il fuso orario, i biorhythms…
Io non le rispondo subito, mi avvicino, la abbraccio di nuovo, lasciando scivolare lentamente le mani dietro la schiena, sopra il maglione, sino a posarle sul suo culo, ed a schiacciarla contro di me.
- No, non sono stanco. In aereo ho dormito, " mento, e lei lo sa " e non ho mai avuto problemi di bioritmi io…
- Certo, dimenticavo che non li hai mai avuti dei biorhythms normali… " Continua lei, portando una mano sui pantaloni, sbottonando i primi bottoni, infilando la mano da sopra dentro i boxer, massaggiando lenta, mentre riprendiamo a baciarci. "
Vestiti sparsi disordinatamente a terra dall’ingresso sino alla camera da letto, come novelle molliche di Pollicino a segnar la strada, noi nudi sul letto, ormai esausti, che parliamo, raccontiamo, un giorno che volge ormai al termine, almeno per noi, mentre tutt’attorno la città pulsa di vita, preparandosi a soddisfare le legioni d’amanti della vita notturna.
di
scritto il
2009-12-19
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