Dalia
di
Andrea Sada
genere
tradimenti
Dopo che, fin dai primi giorni della prima media, io e Federico diventammo migliori amici, frequentavo casa di Fede, come lo chiamavo in amicizia, quasi ogni giorno, e perciò conoscevo sua madre Dalia altrettanto bene, soprattutto perché, da casalinga qual era, usciva molto di rado. Crebbi dunque con un sua immagine ben chiara nella mente: lei di spalle, con il grembiule blu intorno ai fianchi, impegnata in qualche servizio di casa tutte le volte che facevo i compiti insieme a suo figlio. Aveva un corpo minuto, da donna che non aveva nemmeno raggiunto i 35 anni, e una vita stretta che terminava con un sederino che avrebbe di certo potuto essere sensuale se non si fosse sempre vestita in modo trasandato; possedeva due seni di grandezza media che portava di solito racchiusi in un reggiseno ordinario; i suoi capelli erano biondi e corti, e di tanto in tanto li legava in una piccola coda che ne metteva in evidenza la nuca, tanto liscia e bianca da farmi letteralmente morire dal desiderio di baciarla. Tuttavia, non era solo bella ma anche intelligente e spiritosa; tutto quel tempo libero le aveva permesso di leggere e studiare quanto volesse.
Lei fu il mio primo amore.
In tutti questi anni anche io fui una presenza costante nella sua vita ed ebbi perciò modo di vedere come il rapporto di Dalia con il marito divenne con il tempo freddo e distaccato: avevano avuto un figlio molto giovani, ma non il tempo di imparare a essere una famiglia. Quando io e Fede andammo al liceo, lo stesso, il padre di lui praticamente non c'era mai, e ciò avvenne nello stesso periodo in cui iniziai a sentirmi attratto da Dalia e anche soltanto la sua presenza rapiva completamente tutta la mia attenzione. Ben presto ne fui consapevole: se non avessi messo fine a quella situazione, me ne sarei pentito, forse avrei persino perso l'amicizia di Fede, e non lo volevo. Perciò, presi la decisione di non frequentare più così spesso casa loro; sebbene, prima, avrei dovuto almeno fare un'ultima cosa.
Una sera, io e Fede eravamo a casa sua per prepararci a uscire con gli amici, ma quando arrivai lui non era ancora pronto.
«Devo solo fare la doccia, ci metto dieci minuti» mi assicurò mentre correva di sopra, e io non ebbi nemmeno tempo di rispondergli.
«Accidenti, ma lo sapeva che dovevamo uscire a quest'ora… » mi lamentai io entrando in cucina e sedendomi al tavolo.
«Perdonalo» mi disse Dalia sorridendo e porgendomi una tazza di tè mentre il suo odore di fresco, inondandomi, mi ubriacava.
Io ridacchiai confuso e mormorai qualcosa distogliendo lo sguardo e lei tornò a mettere in ordine la cucina. Quando calò il silenzio, rialzai gli occhi sulla sua schiena e mi resi conto che non ci sarebbe stata mai occasione migliore di quella per dire quello che dovevo dire.
«A settembre inizierò Giurisprudenza all'università, perciò penso non ci vedremo più così spesso».
«Ah, peccato» replicò lei con il suo solito mesto sorriso di cortesia. «Ma è per il tuo futuro, quindi è meglio così».
Scese di nuovo il silenzio, interrotto solo dal tintinnare proveniente dal lavabo. Mentre continuavo a fissarla, feci davvero difficoltà a non perdere il filo dei pensieri di fronte al suo corpo avvolto in un paio di leggings neri e una t-shirt. Se solo non avesse indossato... e subito agitai la testa per tornare in me.
«E non penso ci vedremo più molto nei prossimi mesi».
«Che peccato» replicò lei senza notare il mio respiro teso e il mio tono serio. «Ma con Fede ti vedrai comunque spesso, vero?»
«Certo, a scuola e per uscire insieme, senza considerare che andremo nella stessa università» le garantii io quasi commosso per come riuscisse a preoccuparsi così di suo figlio.
Ad ogni modo, dovevo farlo ora. Mi alzai lentamente e mi avvicinai alle sue spalle, tanto vicino che riuscivo a vedere distintamente il ferretto del suo reggiseno in evidenza sotto la maglietta. Mi resi conto di essere ormai diventato più alto di lei e il mio petto era più ampio di tutta la sua schiena; ero uno studente che portava gli occhiali e si stava preparando per la facoltà di Legge, perciò di tanto in tanto finivo per essere abbastanza trasandato, ma facevo regolarmente dello sport: diciamo che, umilmente parlando, sembravo più Clark Kent che Superman. Tuttavia, quella sera ero vestito abbastanza bene, con pantaloni di pelle e camicia slacciata, perciò mi sentivo più sicuro e meno imbarazzato del solito.
«Ma devo dirti tutta la verità, Dalia, non è solo per lo studio che lo faccio» le dissi io avvolgendola completamente con le mie mani, passandole sul suo ventre morbido e piatto, e tirando la sua schiena contro il mio corpo. «E che, se continuassi a vederti ogni giorno, prima o poi non riuscirei più a resistere al desiderio».
Mentre lei se ne stava irrigidita per lo stupore, le baciai leggermente quella nuca liscia e bianca che mi faceva impazzire, quindi la lasciai. Fede stava scendendo e, senza voltarmi, uscii di casa.
Passò qualche settimana, durante le quali rispettai la mia parola e, con una scusa o un'altra, non andai più a casa sua. Finché un giorno, mentre nel cortile della scuola studiavo con Fede il passo di un autore che probabilmente sarebbe uscito agli esami, lui non mi disse:
«Sai, mamma mi ha fatto una domanda strana, ieri».
«Che domanda?» replicai io, più preoccupato di una parafrasi che mi pareva debole che della risposta.
«Mi ha chiesto se io e te fossi ancora amici…»
«E perché ti ha chiesto una cosa tanto scema?»
«Non lo so, probabilmente solo perché non ti vede da un po' a casa e si è preoccupata, oppure…» fece lui allusivo.
«Oppure?» chiesi io, adesso ben attento, chiedendomi se Dalia avesse detto qualcosa di troppo a suo figlio.
«Oppure vuole solo sfruttarti un po': mi ha chiesto se ti va di venire a svuotare il garage, oggi pomeriggio».
Tirai su lo sguardo dal libro di testo e guardai Fede alzando le sopracciglia, mentre un fiume di pensieri e possibilità mi invase la testa, ma dovetti accettare la spiegazione più ovvia: se chiedeva a me e a Fede di farle un semplice servizio in casa, voleva far finta che nulla fosse successo e che io non avessi detto niente.
«È proprio una cosa urgente?» chiesi io per metà sperando che la risposta fosse "No" e per metà che fosse invece un assenso.
«Pare di sì, ha insistito parecchio».
«E va bene» sospirai io, domandandomi tuttavia quando avremmo potuto finire di scrivere la tesina, andando avanti così.
«Allora vieni per le tre» mi disse lui, e tornammo a studiare.
Quel pomeriggio arrivai al cancello della bella villetta di periferia in cui abitava Dalia con il cuore che mi tempestava la cassa toracica. Mi ripetevo di smetterla, che io e Fede avremmo soltanto svuotato un garage e che la giornata sarebbe probabilmente finita con un tè e due chiacchiere, come era sempre accaduto prima; eppure, ci misi diversi minuti per bussare il campanello. Quando premetti il pulsante e la voce di Dalia uscì fuori dall'altoparlante, il mio respiro quasi si bloccò e riuscii a pronunciare il mio nome con estrema difficolta. Il cancello quindi si aprì e io entrai, ma prima che potessi arrivare alla porta d'ingresso, fu Dalia ad apparire dietro di essa.
«Ciao» mi salutò lei, ma mi guardò con uno sguardo insolito: non sorrideva in modo mesto, come suo solito, ma mi guardava seria, distogliendo lo sguardo per farlo ritornare poi su di me.
«Ciao» replicai io senza fiato: forse era tutta quella tensione nel mio corpo, forse era l'aria diversa che aveva, ma la vidi dieci volte più bella di quanto bella la vedessi ordinariamente.
Passandole accanto per entrare, il suo odore mi fece deglutire e la sua voce mi prosciugava la bocca. Per un folle secondo, mi dominò il desiderio di pregarla, anche in ginocchio se fosse stato necessario, affinché pronunciasse il mio nome con quella sua bella voce cristallina. Tuttavia, scacciai subito quest'assurdità.
«Fede ti ha detto che devi fare?» domandò lei senza guardarmi.
«Certo» replicai io a bassa voce, «dammi solo un minuto per togliermi la giacca e andiamo a svuotarti il garage».
Dalia non replicò e io feci come avevo detto, rimanendo soltanto in jeans e camicia leggera. Tuttavia, mentre mi tiravo al gomito le maniche e mi apprestavo a uscire sul retro, la sentii da una finestra e con una voce un po' strana chiedere debolmente:
«Andiamo? Ma Fede non ti ha detto che non c'è?»
Io rimasi congelato sul posto, lì dov'ero in giardino, a metà strada tra la portafinestra e la porta del garage.
«C-che significa "non c'è"?» balbettai io.
«È dal suo tutor e tornerà stasera» rispose lei da dentro.
Stavolta fui io a non replicare, ma deglutii e continuai a camminare fino a raggiungere la rimessa, imponendomi nel frattempo di non lasciar correre i pensieri; tuttavia, arrivato a destinazione, notai che il suddetto "garage da svuotare" si riduceva a quattro o cinque scatole di media grandezza da spostare sulla strada che dava sul retro affinché qualcuno le portasse via la mattina dopo: un lavoro di dieci minuti. Ce ne misi quindici, ma più di così non potei ritardare, e perciò, non senza una certa tensione che mi irrigidiva il corpo, dovetti ritornare dentro, dove vidi Dalia come adoravo vederla: con i fianchi avvolti dal grembiule, i capelli corti tirati in una piccola coda dietro la testa e voltata di spalle sul lavabo, intenta a fare i servizi di casa.
«Ho finito» feci io senza annunciarmi, facendola saltare appena sul posto.
«Bene» replicò lei, tornando al suo posto senza voltarsi.
Pareva sul punto di aggiungere qualcosa, ma esitò un paio di volte, aprendo la bocca e richiudendola. Mentre io attendevo senza dire nulla, alla terza volta che tentò di parlare ci riuscì.
«Siediti che ti preparo qualcosa».
Non risposi, mossi semplicemente le gambe automaticamente verso il tavolo, spostai una sedia e mi sedetti. Il cuore mi batteva nel petto con la forza di un cannone e quando mi misi a guardarla sentì distintamente il sangue fluire nel mio corpo al contrario e verso la tensione nel mio basso ventre che avevo da quando ero entrato, ma che cercai di nascondere affinché lei non la vedesse. Non riuscii più a dominare i miei pensieri: le fissai i vestiti e desideravo sfilarli dal suo corpo minuto, le passai gli occhi sulla schiena e volli baciarne ogni parte, le osservai le mani e immaginai che mi toccassero come io sognavo di toccare lei. Trattenni il mio respiro pesante con tutte le mie forze. Intanto, Dalia preparava lo stesso tè che offriva sempre agli ospiti, ma lo fece senza mai voltarsi una sola volta né dire una parola, cosa che ingigantiva la mia agitazione. Quanto tuttavia finì dovette voltarsi: lo fece senza fissarmi nemmeno una volta, poggiò con un sorriso gentile la tazza di fronte a me e tornò al lavabo. Mi parve che avesse trattenuto il respiro vicino a me.
«Grazie» tentai di dire io senza balbettare, cercando di spezzare il silenzio. «Il tuo tè mi è mancato».
«Allora prendine pure quanto vuoi» ribatté lei con gentilezza.
Io balbettai un secondo e imbarazzato "grazie" e qualche altra vaga parola, ma lei non aggiunse nulla. Il tè non era bollente, Dalia lo rendeva magicamente tiepido con una qualche trucco che comprendeva dei cubetto di ghiaccio fatto con dell'acqua mischiata ad altre cose, forse succo di limone, perciò non dovevo aspettare che si raffreddasse; ad ogni modo, del tè in quel momento non me ne importava molto, i miei occhi erano solo per lei, volevo avvicinarla. Tirai dunque giù tutto il bicchiere in tre sorsi e mi alzai, facendo però fare alla sedia un leggero rumore che, non appena giunse alle orecchie di lei, le fece raddrizzare la schiena. Quel gesto fu fatale.
Era mia intenzione poggiare soltanto la tazza sul piano accanto al lavabo, ma quella reazione mi fece prestare più attenzione a un dettaglio che lei sembrava voler nascondere: Dalia stava trattenendo dei respiri agitati proprio come me. Ciò mi fece smettere di pensare e mi impose di far altro; invece di andare al piano, mi avvicinai lentamente alla sua schiena fino a fermarmi a solo pochi centimetri da lei, che mi sentì, e non disse nulla. Feci passare le mie mani sui suoi fianchi e mi appoggiai su di lei, poggiai la tazza nel lavabo con delicatezza e le accarezzai il ventre, mentre le baciavo la nuca una, due, tre volte. Ad occhi chiusi, Dalia mi lasciò fare.
«Me ne andrebbe dell'altro, se ti va che resti ancora» sussurrai io al suo orecchio, sfiorandolo con le labbra, per poi allontanarmi con estrema difficoltà e tornare vicino al tavolo.
Tutti i miei organi interni si stavano rimescolando, le orecchie mi fischiavano e i miei pantaloni ormai mi torturavano mentre un unico pensiero mi riempiva la mente: quello di venire subito cacciato per quell'avventatezza. Dalia non lo fece, ma rispose.
«Sì, certo: ne ho fatto molto» sospirò lei a bassa voce.
Non poteva essere vero. Eppure, pensandoci, non poteva essere altrimenti: avermi invitato a casa quando non c'era nessuno, il garage semivuote e adesso quello. Non poteva essere vero.
Mi avvicinai a lei di nuovo in silenzio, ma stavolta con meno esitazione e abbracciai ancora la sua schiena voltata, con più forza della precedente volta, e stavolta lei si appoggiò a me, senza tuttavia guardarmi. Le passai le mani sui fianchi, sulle cosce e sul ventre con molta più decisione mentre le baciavo la nuca, l'incavo del collo e dietro l'orecchio cercando di comunicarle tutto il mio desiderio di lei, e stavolta iniziò a respirare pesantemente leccandosi le labbra. Infine, portai una mano alla sua guancia e le voltai delicatamente il viso verso di me: i suoi occhi azzurri pieni di paura ed eccitazione si piantarono nei miei, in cui forse c'erano gli stessi sentimenti, ma subito si richiusero quando le mie labbra si posarono sulle sue. Erano calde e umide, un solo bacio non mi bastò e gliene diedi un secondo e un terzo, quindi allontanai il viso e lei riaprì gli occhi.
«Non può essere che un sogno» sussurrai io baciandola ancora.
Per tutta risposta, fu stavolta lei a baciare le mie labbra. Quell'assenso silenzioso era tutto ciò che mi serviva. La voltai verso di me, la strinsi e cominciai a baciarla con più passione, finché le nostre lingue non iniziarono a toccarsi, prima delicatamente poi avvolgendosi l'una sull'altra forsennatamente; ad occhi chiusi, premeva il viso sul mio, ma li riapriva quando rimaneva a corto di fiato, spalancava la bocca, ansimava nella mia e tornare poi a baciarmi; senza esitare, le feci scorrere le mani sulle sedere, soffermandomi a sentire le sue due natiche sode tra le mie mani, per tirarla su e metterla a sedere sul piano della cucina, e, mentre lei mi avvolgeva la braccia intorno al collo, cominciai a esplorare la sua schiena cercando di slacciargli i grembiule. Quando giunsi alle sue scapole, notai che non lo portava, e quel dettaglio mi eccitò: le tolsi il grembiule e le avvicinai il bacino al mio per farle sentire tutta il mio desiderio nel punto per lei più sensibile. Dalia mugolò e allacciò le gambe dietro alla mia schiena per fare altrettanto.
Mi concesso solo una istante di pausa, durante il quale, balbettando e ansimando, cercò di darmi una spiegazione.
«Quando… quando mi hai detto quelle cose, per la prima volta in vita mia mi sono sentita solo come una ragazza, e mi sono resa conto di non essere mai stata una ragazza, perciò…»
La interruppi subito e, serio e innamorato, mi proposi.
«Allora, vuoi essere la mia ragazza?»
Lei mugolò felice e tornò a baciarmi focosamente.
Afferrandole saldamente il sedere, la alzai dal piano e, così allacciati, la portai rapidamente vicino alla sedia dove stavo poco prima. Sedendomi, mi assicurai che la mia erezione, ben dritta in verticale, si piazzasse ancora meglio all'esatto centro di lei, e Dalia, con un mugolio di piacere, cominciò a muoversi su e giù. Entrambi continuavamo a gemere, ansimando l'uno nella bocca dell'altra, le mie mani si infilavano sotto la sua maglietta per afferrare i suoi due bei seni e stuzzicarne i capezzoli eretti, mentre lei mi sbottonò la camicia e mi lasciò a torso nudo. Tornando di tanto in tanto alla mia bocca, senza mai smettere di agitare il suo bacino sul mio, prese a baciarmi ovunque e io, che la desideravo tanto quanto lei desiderava me, le tirai su la maglietta affinché anche rimanesse seminuda; ma con due gesti rapidi, lei fu più veloce, e se la tolse con tanta foga che i suoi seni mi apparvero davanti agli occhi ballonzolando. Fiondandomi su di loro e iniziando a succhiarli uno alla volta, sussurrai:
«Questo è troppo, mi hai quasi fatto venire».
Dalia, per tutta risposta, mi slacciò il bottone dei jeans e mi tirò giù la zip, quindi mi disse:
«La prossima volta che succede, dimmelo».
Riiniziò a baciarmi e a muovere il suo caldissimo fiore lungo tutta la mia erezione, stavolta non impedito dal jeans. Io ero inesperto, in piena tempesta ormonale e innamorato, perciò non ci misi molto ad arrivare al limite. Dopo averle sussurrato che stavo per avere un orgasmo, lei si staccò da me, scivolò sulle ginocchia e allungò le mani verso i miei boxer. Quando estrasse il mio pene, si fermò soltanto un secondo per emettere un sospiro di apprezzamento, quindi si tuffò per prenderlo tra le labbra e cominciò a ruotare la lingua sulla punta. Muoveva le mani lungo l'asta per masturbarmi e succhiava con forza; la sua bocca era umido, morbida e caldissimo; ma la cosa che mi fece superare il limite era che, da quella posizione, le vedevo distintamente la nuca. Le infilai allora una mano nei capelli biondi e, gemendo di piacere, muovendomi convulsamente, venni riempiendole la bocca di seme.
«Oh dio, Dalia, ti amo!» gemetti io al terzo fiotto.
Lei trattenne la mia punta in bocca per ingoiare tutto il succo. Poi, pulendosi le labbra, alzò lo sguardo sorridendomi finalmente felice e non mestamente come l'avevo sempre vista, ma non disse nulla. Si tirò in piedi e mise le mani sui fianchi, ancora avvolti dai leggings, desiderosa di tirarseli giù e continuare, ma io trattenni le sue mani.
«Mi può stare bene dare il mio primo bacio e fare il mio primo sesso orale in cucina» gli dissi io ansimando di piacere, «ma la mia prima volta vorrei che fosse nel tuo letto».
Per commenti, idee o altro: Andrea Sada (Twitter, Skype); email000a@virgilio.it
Lei fu il mio primo amore.
In tutti questi anni anche io fui una presenza costante nella sua vita ed ebbi perciò modo di vedere come il rapporto di Dalia con il marito divenne con il tempo freddo e distaccato: avevano avuto un figlio molto giovani, ma non il tempo di imparare a essere una famiglia. Quando io e Fede andammo al liceo, lo stesso, il padre di lui praticamente non c'era mai, e ciò avvenne nello stesso periodo in cui iniziai a sentirmi attratto da Dalia e anche soltanto la sua presenza rapiva completamente tutta la mia attenzione. Ben presto ne fui consapevole: se non avessi messo fine a quella situazione, me ne sarei pentito, forse avrei persino perso l'amicizia di Fede, e non lo volevo. Perciò, presi la decisione di non frequentare più così spesso casa loro; sebbene, prima, avrei dovuto almeno fare un'ultima cosa.
Una sera, io e Fede eravamo a casa sua per prepararci a uscire con gli amici, ma quando arrivai lui non era ancora pronto.
«Devo solo fare la doccia, ci metto dieci minuti» mi assicurò mentre correva di sopra, e io non ebbi nemmeno tempo di rispondergli.
«Accidenti, ma lo sapeva che dovevamo uscire a quest'ora… » mi lamentai io entrando in cucina e sedendomi al tavolo.
«Perdonalo» mi disse Dalia sorridendo e porgendomi una tazza di tè mentre il suo odore di fresco, inondandomi, mi ubriacava.
Io ridacchiai confuso e mormorai qualcosa distogliendo lo sguardo e lei tornò a mettere in ordine la cucina. Quando calò il silenzio, rialzai gli occhi sulla sua schiena e mi resi conto che non ci sarebbe stata mai occasione migliore di quella per dire quello che dovevo dire.
«A settembre inizierò Giurisprudenza all'università, perciò penso non ci vedremo più così spesso».
«Ah, peccato» replicò lei con il suo solito mesto sorriso di cortesia. «Ma è per il tuo futuro, quindi è meglio così».
Scese di nuovo il silenzio, interrotto solo dal tintinnare proveniente dal lavabo. Mentre continuavo a fissarla, feci davvero difficoltà a non perdere il filo dei pensieri di fronte al suo corpo avvolto in un paio di leggings neri e una t-shirt. Se solo non avesse indossato... e subito agitai la testa per tornare in me.
«E non penso ci vedremo più molto nei prossimi mesi».
«Che peccato» replicò lei senza notare il mio respiro teso e il mio tono serio. «Ma con Fede ti vedrai comunque spesso, vero?»
«Certo, a scuola e per uscire insieme, senza considerare che andremo nella stessa università» le garantii io quasi commosso per come riuscisse a preoccuparsi così di suo figlio.
Ad ogni modo, dovevo farlo ora. Mi alzai lentamente e mi avvicinai alle sue spalle, tanto vicino che riuscivo a vedere distintamente il ferretto del suo reggiseno in evidenza sotto la maglietta. Mi resi conto di essere ormai diventato più alto di lei e il mio petto era più ampio di tutta la sua schiena; ero uno studente che portava gli occhiali e si stava preparando per la facoltà di Legge, perciò di tanto in tanto finivo per essere abbastanza trasandato, ma facevo regolarmente dello sport: diciamo che, umilmente parlando, sembravo più Clark Kent che Superman. Tuttavia, quella sera ero vestito abbastanza bene, con pantaloni di pelle e camicia slacciata, perciò mi sentivo più sicuro e meno imbarazzato del solito.
«Ma devo dirti tutta la verità, Dalia, non è solo per lo studio che lo faccio» le dissi io avvolgendola completamente con le mie mani, passandole sul suo ventre morbido e piatto, e tirando la sua schiena contro il mio corpo. «E che, se continuassi a vederti ogni giorno, prima o poi non riuscirei più a resistere al desiderio».
Mentre lei se ne stava irrigidita per lo stupore, le baciai leggermente quella nuca liscia e bianca che mi faceva impazzire, quindi la lasciai. Fede stava scendendo e, senza voltarmi, uscii di casa.
Passò qualche settimana, durante le quali rispettai la mia parola e, con una scusa o un'altra, non andai più a casa sua. Finché un giorno, mentre nel cortile della scuola studiavo con Fede il passo di un autore che probabilmente sarebbe uscito agli esami, lui non mi disse:
«Sai, mamma mi ha fatto una domanda strana, ieri».
«Che domanda?» replicai io, più preoccupato di una parafrasi che mi pareva debole che della risposta.
«Mi ha chiesto se io e te fossi ancora amici…»
«E perché ti ha chiesto una cosa tanto scema?»
«Non lo so, probabilmente solo perché non ti vede da un po' a casa e si è preoccupata, oppure…» fece lui allusivo.
«Oppure?» chiesi io, adesso ben attento, chiedendomi se Dalia avesse detto qualcosa di troppo a suo figlio.
«Oppure vuole solo sfruttarti un po': mi ha chiesto se ti va di venire a svuotare il garage, oggi pomeriggio».
Tirai su lo sguardo dal libro di testo e guardai Fede alzando le sopracciglia, mentre un fiume di pensieri e possibilità mi invase la testa, ma dovetti accettare la spiegazione più ovvia: se chiedeva a me e a Fede di farle un semplice servizio in casa, voleva far finta che nulla fosse successo e che io non avessi detto niente.
«È proprio una cosa urgente?» chiesi io per metà sperando che la risposta fosse "No" e per metà che fosse invece un assenso.
«Pare di sì, ha insistito parecchio».
«E va bene» sospirai io, domandandomi tuttavia quando avremmo potuto finire di scrivere la tesina, andando avanti così.
«Allora vieni per le tre» mi disse lui, e tornammo a studiare.
Quel pomeriggio arrivai al cancello della bella villetta di periferia in cui abitava Dalia con il cuore che mi tempestava la cassa toracica. Mi ripetevo di smetterla, che io e Fede avremmo soltanto svuotato un garage e che la giornata sarebbe probabilmente finita con un tè e due chiacchiere, come era sempre accaduto prima; eppure, ci misi diversi minuti per bussare il campanello. Quando premetti il pulsante e la voce di Dalia uscì fuori dall'altoparlante, il mio respiro quasi si bloccò e riuscii a pronunciare il mio nome con estrema difficolta. Il cancello quindi si aprì e io entrai, ma prima che potessi arrivare alla porta d'ingresso, fu Dalia ad apparire dietro di essa.
«Ciao» mi salutò lei, ma mi guardò con uno sguardo insolito: non sorrideva in modo mesto, come suo solito, ma mi guardava seria, distogliendo lo sguardo per farlo ritornare poi su di me.
«Ciao» replicai io senza fiato: forse era tutta quella tensione nel mio corpo, forse era l'aria diversa che aveva, ma la vidi dieci volte più bella di quanto bella la vedessi ordinariamente.
Passandole accanto per entrare, il suo odore mi fece deglutire e la sua voce mi prosciugava la bocca. Per un folle secondo, mi dominò il desiderio di pregarla, anche in ginocchio se fosse stato necessario, affinché pronunciasse il mio nome con quella sua bella voce cristallina. Tuttavia, scacciai subito quest'assurdità.
«Fede ti ha detto che devi fare?» domandò lei senza guardarmi.
«Certo» replicai io a bassa voce, «dammi solo un minuto per togliermi la giacca e andiamo a svuotarti il garage».
Dalia non replicò e io feci come avevo detto, rimanendo soltanto in jeans e camicia leggera. Tuttavia, mentre mi tiravo al gomito le maniche e mi apprestavo a uscire sul retro, la sentii da una finestra e con una voce un po' strana chiedere debolmente:
«Andiamo? Ma Fede non ti ha detto che non c'è?»
Io rimasi congelato sul posto, lì dov'ero in giardino, a metà strada tra la portafinestra e la porta del garage.
«C-che significa "non c'è"?» balbettai io.
«È dal suo tutor e tornerà stasera» rispose lei da dentro.
Stavolta fui io a non replicare, ma deglutii e continuai a camminare fino a raggiungere la rimessa, imponendomi nel frattempo di non lasciar correre i pensieri; tuttavia, arrivato a destinazione, notai che il suddetto "garage da svuotare" si riduceva a quattro o cinque scatole di media grandezza da spostare sulla strada che dava sul retro affinché qualcuno le portasse via la mattina dopo: un lavoro di dieci minuti. Ce ne misi quindici, ma più di così non potei ritardare, e perciò, non senza una certa tensione che mi irrigidiva il corpo, dovetti ritornare dentro, dove vidi Dalia come adoravo vederla: con i fianchi avvolti dal grembiule, i capelli corti tirati in una piccola coda dietro la testa e voltata di spalle sul lavabo, intenta a fare i servizi di casa.
«Ho finito» feci io senza annunciarmi, facendola saltare appena sul posto.
«Bene» replicò lei, tornando al suo posto senza voltarsi.
Pareva sul punto di aggiungere qualcosa, ma esitò un paio di volte, aprendo la bocca e richiudendola. Mentre io attendevo senza dire nulla, alla terza volta che tentò di parlare ci riuscì.
«Siediti che ti preparo qualcosa».
Non risposi, mossi semplicemente le gambe automaticamente verso il tavolo, spostai una sedia e mi sedetti. Il cuore mi batteva nel petto con la forza di un cannone e quando mi misi a guardarla sentì distintamente il sangue fluire nel mio corpo al contrario e verso la tensione nel mio basso ventre che avevo da quando ero entrato, ma che cercai di nascondere affinché lei non la vedesse. Non riuscii più a dominare i miei pensieri: le fissai i vestiti e desideravo sfilarli dal suo corpo minuto, le passai gli occhi sulla schiena e volli baciarne ogni parte, le osservai le mani e immaginai che mi toccassero come io sognavo di toccare lei. Trattenni il mio respiro pesante con tutte le mie forze. Intanto, Dalia preparava lo stesso tè che offriva sempre agli ospiti, ma lo fece senza mai voltarsi una sola volta né dire una parola, cosa che ingigantiva la mia agitazione. Quanto tuttavia finì dovette voltarsi: lo fece senza fissarmi nemmeno una volta, poggiò con un sorriso gentile la tazza di fronte a me e tornò al lavabo. Mi parve che avesse trattenuto il respiro vicino a me.
«Grazie» tentai di dire io senza balbettare, cercando di spezzare il silenzio. «Il tuo tè mi è mancato».
«Allora prendine pure quanto vuoi» ribatté lei con gentilezza.
Io balbettai un secondo e imbarazzato "grazie" e qualche altra vaga parola, ma lei non aggiunse nulla. Il tè non era bollente, Dalia lo rendeva magicamente tiepido con una qualche trucco che comprendeva dei cubetto di ghiaccio fatto con dell'acqua mischiata ad altre cose, forse succo di limone, perciò non dovevo aspettare che si raffreddasse; ad ogni modo, del tè in quel momento non me ne importava molto, i miei occhi erano solo per lei, volevo avvicinarla. Tirai dunque giù tutto il bicchiere in tre sorsi e mi alzai, facendo però fare alla sedia un leggero rumore che, non appena giunse alle orecchie di lei, le fece raddrizzare la schiena. Quel gesto fu fatale.
Era mia intenzione poggiare soltanto la tazza sul piano accanto al lavabo, ma quella reazione mi fece prestare più attenzione a un dettaglio che lei sembrava voler nascondere: Dalia stava trattenendo dei respiri agitati proprio come me. Ciò mi fece smettere di pensare e mi impose di far altro; invece di andare al piano, mi avvicinai lentamente alla sua schiena fino a fermarmi a solo pochi centimetri da lei, che mi sentì, e non disse nulla. Feci passare le mie mani sui suoi fianchi e mi appoggiai su di lei, poggiai la tazza nel lavabo con delicatezza e le accarezzai il ventre, mentre le baciavo la nuca una, due, tre volte. Ad occhi chiusi, Dalia mi lasciò fare.
«Me ne andrebbe dell'altro, se ti va che resti ancora» sussurrai io al suo orecchio, sfiorandolo con le labbra, per poi allontanarmi con estrema difficoltà e tornare vicino al tavolo.
Tutti i miei organi interni si stavano rimescolando, le orecchie mi fischiavano e i miei pantaloni ormai mi torturavano mentre un unico pensiero mi riempiva la mente: quello di venire subito cacciato per quell'avventatezza. Dalia non lo fece, ma rispose.
«Sì, certo: ne ho fatto molto» sospirò lei a bassa voce.
Non poteva essere vero. Eppure, pensandoci, non poteva essere altrimenti: avermi invitato a casa quando non c'era nessuno, il garage semivuote e adesso quello. Non poteva essere vero.
Mi avvicinai a lei di nuovo in silenzio, ma stavolta con meno esitazione e abbracciai ancora la sua schiena voltata, con più forza della precedente volta, e stavolta lei si appoggiò a me, senza tuttavia guardarmi. Le passai le mani sui fianchi, sulle cosce e sul ventre con molta più decisione mentre le baciavo la nuca, l'incavo del collo e dietro l'orecchio cercando di comunicarle tutto il mio desiderio di lei, e stavolta iniziò a respirare pesantemente leccandosi le labbra. Infine, portai una mano alla sua guancia e le voltai delicatamente il viso verso di me: i suoi occhi azzurri pieni di paura ed eccitazione si piantarono nei miei, in cui forse c'erano gli stessi sentimenti, ma subito si richiusero quando le mie labbra si posarono sulle sue. Erano calde e umide, un solo bacio non mi bastò e gliene diedi un secondo e un terzo, quindi allontanai il viso e lei riaprì gli occhi.
«Non può essere che un sogno» sussurrai io baciandola ancora.
Per tutta risposta, fu stavolta lei a baciare le mie labbra. Quell'assenso silenzioso era tutto ciò che mi serviva. La voltai verso di me, la strinsi e cominciai a baciarla con più passione, finché le nostre lingue non iniziarono a toccarsi, prima delicatamente poi avvolgendosi l'una sull'altra forsennatamente; ad occhi chiusi, premeva il viso sul mio, ma li riapriva quando rimaneva a corto di fiato, spalancava la bocca, ansimava nella mia e tornare poi a baciarmi; senza esitare, le feci scorrere le mani sulle sedere, soffermandomi a sentire le sue due natiche sode tra le mie mani, per tirarla su e metterla a sedere sul piano della cucina, e, mentre lei mi avvolgeva la braccia intorno al collo, cominciai a esplorare la sua schiena cercando di slacciargli i grembiule. Quando giunsi alle sue scapole, notai che non lo portava, e quel dettaglio mi eccitò: le tolsi il grembiule e le avvicinai il bacino al mio per farle sentire tutta il mio desiderio nel punto per lei più sensibile. Dalia mugolò e allacciò le gambe dietro alla mia schiena per fare altrettanto.
Mi concesso solo una istante di pausa, durante il quale, balbettando e ansimando, cercò di darmi una spiegazione.
«Quando… quando mi hai detto quelle cose, per la prima volta in vita mia mi sono sentita solo come una ragazza, e mi sono resa conto di non essere mai stata una ragazza, perciò…»
La interruppi subito e, serio e innamorato, mi proposi.
«Allora, vuoi essere la mia ragazza?»
Lei mugolò felice e tornò a baciarmi focosamente.
Afferrandole saldamente il sedere, la alzai dal piano e, così allacciati, la portai rapidamente vicino alla sedia dove stavo poco prima. Sedendomi, mi assicurai che la mia erezione, ben dritta in verticale, si piazzasse ancora meglio all'esatto centro di lei, e Dalia, con un mugolio di piacere, cominciò a muoversi su e giù. Entrambi continuavamo a gemere, ansimando l'uno nella bocca dell'altra, le mie mani si infilavano sotto la sua maglietta per afferrare i suoi due bei seni e stuzzicarne i capezzoli eretti, mentre lei mi sbottonò la camicia e mi lasciò a torso nudo. Tornando di tanto in tanto alla mia bocca, senza mai smettere di agitare il suo bacino sul mio, prese a baciarmi ovunque e io, che la desideravo tanto quanto lei desiderava me, le tirai su la maglietta affinché anche rimanesse seminuda; ma con due gesti rapidi, lei fu più veloce, e se la tolse con tanta foga che i suoi seni mi apparvero davanti agli occhi ballonzolando. Fiondandomi su di loro e iniziando a succhiarli uno alla volta, sussurrai:
«Questo è troppo, mi hai quasi fatto venire».
Dalia, per tutta risposta, mi slacciò il bottone dei jeans e mi tirò giù la zip, quindi mi disse:
«La prossima volta che succede, dimmelo».
Riiniziò a baciarmi e a muovere il suo caldissimo fiore lungo tutta la mia erezione, stavolta non impedito dal jeans. Io ero inesperto, in piena tempesta ormonale e innamorato, perciò non ci misi molto ad arrivare al limite. Dopo averle sussurrato che stavo per avere un orgasmo, lei si staccò da me, scivolò sulle ginocchia e allungò le mani verso i miei boxer. Quando estrasse il mio pene, si fermò soltanto un secondo per emettere un sospiro di apprezzamento, quindi si tuffò per prenderlo tra le labbra e cominciò a ruotare la lingua sulla punta. Muoveva le mani lungo l'asta per masturbarmi e succhiava con forza; la sua bocca era umido, morbida e caldissimo; ma la cosa che mi fece superare il limite era che, da quella posizione, le vedevo distintamente la nuca. Le infilai allora una mano nei capelli biondi e, gemendo di piacere, muovendomi convulsamente, venni riempiendole la bocca di seme.
«Oh dio, Dalia, ti amo!» gemetti io al terzo fiotto.
Lei trattenne la mia punta in bocca per ingoiare tutto il succo. Poi, pulendosi le labbra, alzò lo sguardo sorridendomi finalmente felice e non mestamente come l'avevo sempre vista, ma non disse nulla. Si tirò in piedi e mise le mani sui fianchi, ancora avvolti dai leggings, desiderosa di tirarseli giù e continuare, ma io trattenni le sue mani.
«Mi può stare bene dare il mio primo bacio e fare il mio primo sesso orale in cucina» gli dissi io ansimando di piacere, «ma la mia prima volta vorrei che fosse nel tuo letto».
Per commenti, idee o altro: Andrea Sada (Twitter, Skype); email000a@virgilio.it
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