La mia hostess
di
Raffaele Contini
genere
dominazione
L'eleganza e per alcune anche la naturale sensualità, delle hostess che per anni mi accoglievano all'Expo, mi ha sempre affascinato. Belle ma non volgari, sorridenti ma non artificiose, decorative ma mai inutili.
Le più affascinanti per me sono sempre state quelle “istituzionali”. Non le ragazze scosciate e spesso volgari degli stand. Quelle sono assoldate dai titolari, dagli espositori. Cambiano una fiera dopo l'altra, uno stand dopo l'altro. Le puoi trovare sdraiate su una moto in una fiera di motori, o col grembiule a pulire il pavimento (finto) in una fiera di elettrodomestici.
Quelle che mi sono piaciute di più sono le ragazze che lavorano per l'ente fiera. La loro divisa è elegante: un tailleur scuro, solitamente blu, una cravatta rossa sopra una camicia bianca. La gonna poco sopra il ginocchio, le calze coprenti nere, le scarpe rigorosamente col tacco, chiuse.
Tante volte sono entrato ed uscito dall'Expo sbirciando sotto una gonna, tra i bottoni non proprio chiusi di una scollatura. Ma quello che accadde in quell'inverno di molti anni fa non era previsto mi divertì moltissimo.
Deborah, la ragazza giovanissima con cui uscivo in quel periodo, una mora diciannovenne, molto alta, dai capelli lunghi, lisci e color mogano, fu chiamata dall'ente fiera a sostituire all'ultimo momento una sua amica hostess in malattia. Non ho mai capito bene come andò quella volta. Pare che la hostess con l'influenza fosse una sua compagna di scuola (Deborah era allora all'ultimo anno del liceo, preparava la maturità) e che fosse stata proprio la malata a suggerire all'ufficio personale della fiera il nome di un'amica che avesse il fisico, la presenza e l'intelligenza (spero) per sostituirla al meglio.
Fu così che quell'anno, entrando nel palazzo delle fiere per il mio consueto giro di consulenze, vidi per prima proprio lei, la mia giovanissima compagna. Non mi aveva detto niente. L'avevano chiamata la sera prima, le avevano detto che scarpe, calze e camicia mettere, assicurando che il tailleur le sarebbe stato consegnato la mattina successiva, venti minuti prima dell'apertura della fiera. Per sua fortuna il compito assegnatole non era dei più proibitivi: doveva ritirare i biglietti all'ingresso e consegnare il depliant con la piantina del palazzo e l'ubicazione degli stand. Nove volte su dieci non doveva nemmeno parlare, ma la decima riusciva comunque a fare buona figura.
La vidi ben prima di arrivare al rullo mettalico dell'ingresso. Era impossibile non notarla. Alta così, mora così, con quel seno generoso stretto nella camicia bianca, con i bottoni in tensione e la cravattina rossa che si infilava nella giacca del vestito, era di una bellezza assoluta. Ci frequentavamo da molti mesi, ma così attraente non l'avevo mai vista. Mi vide avvicinarmi, non disse nulla, si spostò i capelli dalla fronte con un soffio ed alzò il sopracciglio sinistro. Adoravo quel gesto, anche perché nell'intimità era seguito quasi sempre da lunghi istanti di assoluto piacere. Una specie di segnale di una pronta disponibilità, non solo a divenire oggetto del mio desiderio ma anche ad essere protagonista delle mie fantasie.
Non le dissi niente, passai oltre sorridendo, mi voltai poi per riguardarla e la vidi incrociare i piedi, alzare una gamba e con essa il tacco dieci, sorridermi, prima di volgere lo sguardo altrove, al successivo visitatore.
L'expo quell'anno non presentava grandi novità né attrazioni imperdibili. Feci quel che ero venuto a fare, distribuì biglietti da visita e molti altri li raccolsi, firmai un paio di contratti di consulenza ma ne vidi sfumare qualcuno in più.
La verità è che di stand in stand non riuscivo a pensare ad altro che a lei. Quante volte avevo desiderato, negli anni precedenti, un'avventura con una hostess della fiera. Retaggio di stagioni adolescenziali in cui la hostess del “Pala” era simbolo di bellezza quasi irraggiungibile. L'eccitazione stava salendo e quando terminai il mio giro in fiera ne uscì con l'impressione di aver combinato veramente poco. Lei non c'era. Nelle ultime ore di apertura le avevano affidato un'altra mansione, quella di restiruire capotti e soprabiti ai visitatori che se ne tornavano a casa.
Ed a casa l'aspettai.
Abitavo al secondo piano di un edificio ottocentesco. Una vecchia filanda riadattata al vivere civile. Era un appartamento molto luminoso, con finestre su entrambi i lati. Vidi la sua “Polo” arrivare dalla strada, imboccare la stradina di casa, fermarsi sotto le mie finestre. Attraverso il parabrezza, nonostante fosse ormai buio, intuivo bene le sue lunghe gambe avvolte nelle calze scure. Spento il motore la gamba sinistra si alzò. La gonna risalì la coscia di qualche centimetro. La portiera si aprì e l'una e l'altra gamba, ne uscirono toccando l'asfalto sugli stessi tacchi con cui l'avevo vista al mattino. Il tailleur era coperto da una giacca pesante, lunga fino ai fianchi. Entrò dal portoncino e sentì i suoi passi, abbastanza svelti, salire gli scalini. La porta era già aperta. Lei entrò dicendo soltanto un “ciao”, strascicato e intriso di maliziosa sufficienza. Aveva già capito tutto.
Si tolse il giaccone che lasciò cadere sul divano. Si sciolse i capelli che aveva legato, per guidare, in una coda bassa. Un altro gesto che faceva parte della nostra dialettica di coppia. Deborah sapeva benissimo che ero innamorato dei suoi capelli, che mi piaceva accarezzarli, guardarli, sfiorarli. Adoravo l'elegante “V” molto verticale con cui se li era tagliati pochi giorni prima.
“Allora?” le dissi. “Che sorpresa questa mattina... potevi anche dirmelo che ti avrei trovato lì a fare la furbetta...”.
“E perché mai? A parte che l'ho saputo la sera prima e poi perché rovinarti la sorpresa. Volevo farti venire un colpo. Hai visto i bottoni della camicetta?”.
Deborah era così. Stupendamente così. Aveva una sensualità tutta sua, forse non troppo raffinata, ma estremamente accattivante.
Senza togliersi la giacca blu né le scarpe, si sedette sul divano. Il tacco era così alto e le gambe così lunghe che il ginocchio si elevava ben al di sopra della linea consueta. Quelle ginocchia una sopra l'altra, le cosce scolpite e avvolte nella calza nera, furono un atteso colpo di grazia.
Deborah restò pochi secondi su quel divano.
Le andai incontro. Lei mi vide avvicinarsi con un passo ed un'espressione che ben presagivano quel che le sarebbe successo. Non si mosse. L'unica cosa che fece fu lasciar trasparire un lieve sorriso, malizioso e compiaciuto, mentre raddrizzava la schiena. Quasi a voler sottolinarea ancora di più la sua altezza e la sua innata sensualità.
I codici tra noi erano chiari. Deborah sapeva che di fronte ad un certo tipo di atteggiamento avrebbe ricevuto una reazione forte, apparentemente violenta, ma sempre frutto di una precisa sintonia. La presi per i capelli, le tirai la testa indietro, la guardai negli occhi: “Quanti ci hanno provato oggi”.
“Mi hanno lasciato un sacco di biglietti da visita, tutti col numero di cellulare, e un espositore ha detto che mi prende già il mese prossimo, se mi metto al banco del suo stand, vende...”.
Non le lasciai finire la frase. La tirai per i capelli, facendola alzare dal divano. Con quei tacchi, in piedi, era forse un paio di centimetri più alta di me. Anche questa cosa mi eccitò molto. Le presi (e lei se li lasciò prendere) i polsi incrociandoglieli dietro la schiena. Tenendola così e mettendomi dietro di lei la feci camminare per i pochi metri che separavano la sala dalla camera da letto. I suoi tacchi battevano sulle piastrelle in cotto, i suoi capelli scendevano ancora più giù per la testa piegata all'indietro. Entrati in camera la spinsi sul letto, lasciandole polsi e capelli. Non disse nulla. Finì sul materasso faccia in giù e restò in silenzio per alcuni secondi, muovendo leggermente solo la schiena.
“Il vestito no, però...”.
Non voleva sgualcire l'abito da lavoro della fiera. Si girò sul letto, si mise seduta. Iniziò a togliersi la giacca sfilandosa prima dalle spalle, poi dalle maniche. Io restai in piedi, a guardarla. La lentezza con cui faceva ogni gesto era un regalo per me. Una hostess dell'expo si spogliava solo per me.
Senza la giacca il suo seno pesante divenne subito protagonista di quella visione. La camicetta sembrava non resistere più alla pressione di una quinta generosa (anche se sull'etichetta c'era il simbolo “VI”). La stanza era illuminata solo da una luce calda e diagonale che arrivava dalla sala. Lei si sdraiò sul letto, di traverso, questa volta a pancia in su. Muovendo schiena e fianchi si spostò mezzo metro più in su, trovando così lo spazio per raccgliere sul letto anche le gambe. Aveva ancora le scarpe ai piedi e per nessun motivo gliele avrei lasciate togliere.
La presi per i polsi, glieli incrociai sopra la testa. Molte altre volte l'avevo legata a quel letto, ma questa volta non era la corda che volevo. Volevo tenerla così, ferma nella mia mano sinistra, mentre quella destra iniziava a sollevare i bottoncini della camicetta da quella pressione così esibita. Uno dopo l'altro, dal colletto fino all'ombelico, li aprì tutti. Al venir meno di quel contenimento il seno si mosse verso il basso, ai lati del torace, con un movimento anch'esso estremamente eccitante, che sapeva di resa, di disponibilità. Tenendola sempre bloccata con una mano, infilai l'altra sotto la sua schiena arcata, a cercare il malefico gancetto del reggiseno. Appena aperto, quei due pesanti seni furono imponenti e liberi. Le tette uscirono dai lati del reggiseno, divenuto subito inutile, sgonfio. Lo presi, lo sollevai verso l'altro, fino sul viso di Deborah. A quel punto lo avvicinai alla sua bocca, e lei l'apri. Infilai il lembo di tessuto che unisce le due “coppe” tra i suoi denti, e lei lo strinse. Il gioco si faceva più eccitante. L'avevo legata ed imbavagliata senza corde né bavaglio.
Così, piacevolmente indifesa, decisi di portare a termine la punizione che Deborah si era così ben guadagnata. Le afferrai il seno sinistro, lo strinsi spingendo così il capezzolo, largo e rosato, verso la mia bocca. La sentì gemere, intuì il suo collo stendersi e la testa spingersi all'indietro. Il suo petto era nudo, indifeso, di fronte a me. La sua gola, elegante e liscia sembra pronta per essere morsa e leccata. Scelsi la seconda opzione. Lunghi colpi di lingua dal capezzolo fin sotto il suo mento. Ed ancora scenendo tra i seni, dove sapevo di trovare la sua pelle umida, leggermente sudata, quantomai saporita. Deborah si stava eccitando con me e più di me. Il contrasto visivo tra il suo petto bianco e materno e le lunghe calze nere, che ancora sparivano sotto la gonna blu del vestito, mi confondeva. Non sapevo più dove guardare. La mano invece apparve subito più decisa. La infilai sotto la gonna, a cercare l'elastico del collant. Presi le sue lunghe gambe sulle mie spalle, e le tolsi il collant trascinandolo con forza fino a metà cosce. Eccola la pelle bianca, liscia e pulita delle sue leve. Ed ecco la peluria nerissima che spuntava dalle mutandine bianche, in tessuto liscio, viscoso. Gli slip seguirono a ruota i collant e si fermarono a mezz'asta. Non avevo voglia di spogliarla completamente. Volevo prenderla così, quasi fossimo dietro un separò dell'expo, nascosti in qualche stand dagli sguardi di migliaia visitatori. Volevo goderla così, sapendo che quella gonna ora arricciata sul suo ventre, domani sarebbe stata di nuovo ammirata da centinaia di occhi maschili.
Con il suo sesso finalmente scoperto, nero e peloso come le avevo imposto di conservarlo, Deborah era finalmente a mia completa disposizione. Iniziai con un solo dito. Le penetrai le grandi labbra, andai a cercare i rilievi all'interno del suo sesso. Il dito piegato ad uncino, a solleticarla. Sentivo i suoi gemiti, smorzati dai denti che stringevano il tessuto del suo reggiseno. Insistetti. Il secondo dito entrò con più forza, ed insieme all'altro puntò finalmente in profondità, a solleticarla nella parte più intima e irraggiungibile. Allora Deborah urlò. Il reggiseno le scappò dalla bocca, si fermò sul collo, mentre lei con una mossa improvvisa e brusca piegò la testa indietro e leggermente di lato. Stava provando un piacere intenso, e tra le sue gambe colava il suo umore, sulla mia mano e sul copriletto di lana colorata.
Mai in tutto questo mentre avevo lasciato la presa sui suoi polsi. Sentivo il peso del mio corpo sulla mia mano. E immaginai che anche lei doveva sentire il mo peso sui suoi polsi incrociati. Ma non si lamentava. Si muoveva insieme alle mie dita, ansimava, teneva gli occhi chiusi e le ciglia nere tremavano leggermente. Le labbra rosa, sottili ma eleganti, i denti bianchi, aggiungevano forza al mio desiderio. In quel momento, mentre la penetravo con la mano, avrei voluto possodere quella sua bocca e irrorarla del mio seme caldo. Ma non potevo né volevo lasciare la presa. Tolsi la mano destra dal suo sesso, le spinsi le cosce in modo da divaricarle ancora di più. Debora non era più lucida, si era persa nel piecere di quell'assalto, che probabilmente aveva immaginato fin dal mattino. Le strinsi la mano, ancora umida dei suoi umori, prima attorno al seno destro, poi, solleticatole ancora il capezzolo, la strinsi dolcemente intorno al collo.
“Piccola puttanella, adesso ti faccio tutto quello che avrebbero voluto farti quei bei maschioni che ti hanno squadrato per tutto il giorno...”.
Non so se mi sentì. Era persa nel suo piacere. Di certo sentì il mio membro che sfiorandole la coscia sinistra entrava finalmente gonfio e palpitante prima nella sua morbida e fradicia lanuggine, poi nella sua carne. Solo in quel momento, per un istante, sembrò volersi divincolare. Ma fu un secondo. Poi tornò a gemere: suoni lunghi e mantenuti si alternavano a gemiti alti e intensi ad ogni spinta che riceveva tra le cosce.
Non ricordo bene quanto durò quella splendida penetrazione. Ma ricordo che dovetti fare il possibile per non guardare né i suoi enormi sensi balzellanti, né le sue stupende cosce coperte solo a metà da slip e calze nere. Riuscì a resistere qualche minuto, ma quando capì che ogni cosa doveva compiersi, afferrai la sua caviglia destra, la strinsi e la alzai il più possibile, aprendomi così la strada alla più completa, profonda, ed appagante penetrazione. Non sentivo più la mano sinistra, che da troppo tempo la teneva immobile e schiava del mio piacere. Sentì invece molto bene tutto il mio seme che allagava il suo sesso e completava il suo e il mio piacere.
Da quella volta non sentì più il desiderio di avvicinare, sedurre e punire una hostess della fiera.
Le più affascinanti per me sono sempre state quelle “istituzionali”. Non le ragazze scosciate e spesso volgari degli stand. Quelle sono assoldate dai titolari, dagli espositori. Cambiano una fiera dopo l'altra, uno stand dopo l'altro. Le puoi trovare sdraiate su una moto in una fiera di motori, o col grembiule a pulire il pavimento (finto) in una fiera di elettrodomestici.
Quelle che mi sono piaciute di più sono le ragazze che lavorano per l'ente fiera. La loro divisa è elegante: un tailleur scuro, solitamente blu, una cravatta rossa sopra una camicia bianca. La gonna poco sopra il ginocchio, le calze coprenti nere, le scarpe rigorosamente col tacco, chiuse.
Tante volte sono entrato ed uscito dall'Expo sbirciando sotto una gonna, tra i bottoni non proprio chiusi di una scollatura. Ma quello che accadde in quell'inverno di molti anni fa non era previsto mi divertì moltissimo.
Deborah, la ragazza giovanissima con cui uscivo in quel periodo, una mora diciannovenne, molto alta, dai capelli lunghi, lisci e color mogano, fu chiamata dall'ente fiera a sostituire all'ultimo momento una sua amica hostess in malattia. Non ho mai capito bene come andò quella volta. Pare che la hostess con l'influenza fosse una sua compagna di scuola (Deborah era allora all'ultimo anno del liceo, preparava la maturità) e che fosse stata proprio la malata a suggerire all'ufficio personale della fiera il nome di un'amica che avesse il fisico, la presenza e l'intelligenza (spero) per sostituirla al meglio.
Fu così che quell'anno, entrando nel palazzo delle fiere per il mio consueto giro di consulenze, vidi per prima proprio lei, la mia giovanissima compagna. Non mi aveva detto niente. L'avevano chiamata la sera prima, le avevano detto che scarpe, calze e camicia mettere, assicurando che il tailleur le sarebbe stato consegnato la mattina successiva, venti minuti prima dell'apertura della fiera. Per sua fortuna il compito assegnatole non era dei più proibitivi: doveva ritirare i biglietti all'ingresso e consegnare il depliant con la piantina del palazzo e l'ubicazione degli stand. Nove volte su dieci non doveva nemmeno parlare, ma la decima riusciva comunque a fare buona figura.
La vidi ben prima di arrivare al rullo mettalico dell'ingresso. Era impossibile non notarla. Alta così, mora così, con quel seno generoso stretto nella camicia bianca, con i bottoni in tensione e la cravattina rossa che si infilava nella giacca del vestito, era di una bellezza assoluta. Ci frequentavamo da molti mesi, ma così attraente non l'avevo mai vista. Mi vide avvicinarmi, non disse nulla, si spostò i capelli dalla fronte con un soffio ed alzò il sopracciglio sinistro. Adoravo quel gesto, anche perché nell'intimità era seguito quasi sempre da lunghi istanti di assoluto piacere. Una specie di segnale di una pronta disponibilità, non solo a divenire oggetto del mio desiderio ma anche ad essere protagonista delle mie fantasie.
Non le dissi niente, passai oltre sorridendo, mi voltai poi per riguardarla e la vidi incrociare i piedi, alzare una gamba e con essa il tacco dieci, sorridermi, prima di volgere lo sguardo altrove, al successivo visitatore.
L'expo quell'anno non presentava grandi novità né attrazioni imperdibili. Feci quel che ero venuto a fare, distribuì biglietti da visita e molti altri li raccolsi, firmai un paio di contratti di consulenza ma ne vidi sfumare qualcuno in più.
La verità è che di stand in stand non riuscivo a pensare ad altro che a lei. Quante volte avevo desiderato, negli anni precedenti, un'avventura con una hostess della fiera. Retaggio di stagioni adolescenziali in cui la hostess del “Pala” era simbolo di bellezza quasi irraggiungibile. L'eccitazione stava salendo e quando terminai il mio giro in fiera ne uscì con l'impressione di aver combinato veramente poco. Lei non c'era. Nelle ultime ore di apertura le avevano affidato un'altra mansione, quella di restiruire capotti e soprabiti ai visitatori che se ne tornavano a casa.
Ed a casa l'aspettai.
Abitavo al secondo piano di un edificio ottocentesco. Una vecchia filanda riadattata al vivere civile. Era un appartamento molto luminoso, con finestre su entrambi i lati. Vidi la sua “Polo” arrivare dalla strada, imboccare la stradina di casa, fermarsi sotto le mie finestre. Attraverso il parabrezza, nonostante fosse ormai buio, intuivo bene le sue lunghe gambe avvolte nelle calze scure. Spento il motore la gamba sinistra si alzò. La gonna risalì la coscia di qualche centimetro. La portiera si aprì e l'una e l'altra gamba, ne uscirono toccando l'asfalto sugli stessi tacchi con cui l'avevo vista al mattino. Il tailleur era coperto da una giacca pesante, lunga fino ai fianchi. Entrò dal portoncino e sentì i suoi passi, abbastanza svelti, salire gli scalini. La porta era già aperta. Lei entrò dicendo soltanto un “ciao”, strascicato e intriso di maliziosa sufficienza. Aveva già capito tutto.
Si tolse il giaccone che lasciò cadere sul divano. Si sciolse i capelli che aveva legato, per guidare, in una coda bassa. Un altro gesto che faceva parte della nostra dialettica di coppia. Deborah sapeva benissimo che ero innamorato dei suoi capelli, che mi piaceva accarezzarli, guardarli, sfiorarli. Adoravo l'elegante “V” molto verticale con cui se li era tagliati pochi giorni prima.
“Allora?” le dissi. “Che sorpresa questa mattina... potevi anche dirmelo che ti avrei trovato lì a fare la furbetta...”.
“E perché mai? A parte che l'ho saputo la sera prima e poi perché rovinarti la sorpresa. Volevo farti venire un colpo. Hai visto i bottoni della camicetta?”.
Deborah era così. Stupendamente così. Aveva una sensualità tutta sua, forse non troppo raffinata, ma estremamente accattivante.
Senza togliersi la giacca blu né le scarpe, si sedette sul divano. Il tacco era così alto e le gambe così lunghe che il ginocchio si elevava ben al di sopra della linea consueta. Quelle ginocchia una sopra l'altra, le cosce scolpite e avvolte nella calza nera, furono un atteso colpo di grazia.
Deborah restò pochi secondi su quel divano.
Le andai incontro. Lei mi vide avvicinarsi con un passo ed un'espressione che ben presagivano quel che le sarebbe successo. Non si mosse. L'unica cosa che fece fu lasciar trasparire un lieve sorriso, malizioso e compiaciuto, mentre raddrizzava la schiena. Quasi a voler sottolinarea ancora di più la sua altezza e la sua innata sensualità.
I codici tra noi erano chiari. Deborah sapeva che di fronte ad un certo tipo di atteggiamento avrebbe ricevuto una reazione forte, apparentemente violenta, ma sempre frutto di una precisa sintonia. La presi per i capelli, le tirai la testa indietro, la guardai negli occhi: “Quanti ci hanno provato oggi”.
“Mi hanno lasciato un sacco di biglietti da visita, tutti col numero di cellulare, e un espositore ha detto che mi prende già il mese prossimo, se mi metto al banco del suo stand, vende...”.
Non le lasciai finire la frase. La tirai per i capelli, facendola alzare dal divano. Con quei tacchi, in piedi, era forse un paio di centimetri più alta di me. Anche questa cosa mi eccitò molto. Le presi (e lei se li lasciò prendere) i polsi incrociandoglieli dietro la schiena. Tenendola così e mettendomi dietro di lei la feci camminare per i pochi metri che separavano la sala dalla camera da letto. I suoi tacchi battevano sulle piastrelle in cotto, i suoi capelli scendevano ancora più giù per la testa piegata all'indietro. Entrati in camera la spinsi sul letto, lasciandole polsi e capelli. Non disse nulla. Finì sul materasso faccia in giù e restò in silenzio per alcuni secondi, muovendo leggermente solo la schiena.
“Il vestito no, però...”.
Non voleva sgualcire l'abito da lavoro della fiera. Si girò sul letto, si mise seduta. Iniziò a togliersi la giacca sfilandosa prima dalle spalle, poi dalle maniche. Io restai in piedi, a guardarla. La lentezza con cui faceva ogni gesto era un regalo per me. Una hostess dell'expo si spogliava solo per me.
Senza la giacca il suo seno pesante divenne subito protagonista di quella visione. La camicetta sembrava non resistere più alla pressione di una quinta generosa (anche se sull'etichetta c'era il simbolo “VI”). La stanza era illuminata solo da una luce calda e diagonale che arrivava dalla sala. Lei si sdraiò sul letto, di traverso, questa volta a pancia in su. Muovendo schiena e fianchi si spostò mezzo metro più in su, trovando così lo spazio per raccgliere sul letto anche le gambe. Aveva ancora le scarpe ai piedi e per nessun motivo gliele avrei lasciate togliere.
La presi per i polsi, glieli incrociai sopra la testa. Molte altre volte l'avevo legata a quel letto, ma questa volta non era la corda che volevo. Volevo tenerla così, ferma nella mia mano sinistra, mentre quella destra iniziava a sollevare i bottoncini della camicetta da quella pressione così esibita. Uno dopo l'altro, dal colletto fino all'ombelico, li aprì tutti. Al venir meno di quel contenimento il seno si mosse verso il basso, ai lati del torace, con un movimento anch'esso estremamente eccitante, che sapeva di resa, di disponibilità. Tenendola sempre bloccata con una mano, infilai l'altra sotto la sua schiena arcata, a cercare il malefico gancetto del reggiseno. Appena aperto, quei due pesanti seni furono imponenti e liberi. Le tette uscirono dai lati del reggiseno, divenuto subito inutile, sgonfio. Lo presi, lo sollevai verso l'altro, fino sul viso di Deborah. A quel punto lo avvicinai alla sua bocca, e lei l'apri. Infilai il lembo di tessuto che unisce le due “coppe” tra i suoi denti, e lei lo strinse. Il gioco si faceva più eccitante. L'avevo legata ed imbavagliata senza corde né bavaglio.
Così, piacevolmente indifesa, decisi di portare a termine la punizione che Deborah si era così ben guadagnata. Le afferrai il seno sinistro, lo strinsi spingendo così il capezzolo, largo e rosato, verso la mia bocca. La sentì gemere, intuì il suo collo stendersi e la testa spingersi all'indietro. Il suo petto era nudo, indifeso, di fronte a me. La sua gola, elegante e liscia sembra pronta per essere morsa e leccata. Scelsi la seconda opzione. Lunghi colpi di lingua dal capezzolo fin sotto il suo mento. Ed ancora scenendo tra i seni, dove sapevo di trovare la sua pelle umida, leggermente sudata, quantomai saporita. Deborah si stava eccitando con me e più di me. Il contrasto visivo tra il suo petto bianco e materno e le lunghe calze nere, che ancora sparivano sotto la gonna blu del vestito, mi confondeva. Non sapevo più dove guardare. La mano invece apparve subito più decisa. La infilai sotto la gonna, a cercare l'elastico del collant. Presi le sue lunghe gambe sulle mie spalle, e le tolsi il collant trascinandolo con forza fino a metà cosce. Eccola la pelle bianca, liscia e pulita delle sue leve. Ed ecco la peluria nerissima che spuntava dalle mutandine bianche, in tessuto liscio, viscoso. Gli slip seguirono a ruota i collant e si fermarono a mezz'asta. Non avevo voglia di spogliarla completamente. Volevo prenderla così, quasi fossimo dietro un separò dell'expo, nascosti in qualche stand dagli sguardi di migliaia visitatori. Volevo goderla così, sapendo che quella gonna ora arricciata sul suo ventre, domani sarebbe stata di nuovo ammirata da centinaia di occhi maschili.
Con il suo sesso finalmente scoperto, nero e peloso come le avevo imposto di conservarlo, Deborah era finalmente a mia completa disposizione. Iniziai con un solo dito. Le penetrai le grandi labbra, andai a cercare i rilievi all'interno del suo sesso. Il dito piegato ad uncino, a solleticarla. Sentivo i suoi gemiti, smorzati dai denti che stringevano il tessuto del suo reggiseno. Insistetti. Il secondo dito entrò con più forza, ed insieme all'altro puntò finalmente in profondità, a solleticarla nella parte più intima e irraggiungibile. Allora Deborah urlò. Il reggiseno le scappò dalla bocca, si fermò sul collo, mentre lei con una mossa improvvisa e brusca piegò la testa indietro e leggermente di lato. Stava provando un piacere intenso, e tra le sue gambe colava il suo umore, sulla mia mano e sul copriletto di lana colorata.
Mai in tutto questo mentre avevo lasciato la presa sui suoi polsi. Sentivo il peso del mio corpo sulla mia mano. E immaginai che anche lei doveva sentire il mo peso sui suoi polsi incrociati. Ma non si lamentava. Si muoveva insieme alle mie dita, ansimava, teneva gli occhi chiusi e le ciglia nere tremavano leggermente. Le labbra rosa, sottili ma eleganti, i denti bianchi, aggiungevano forza al mio desiderio. In quel momento, mentre la penetravo con la mano, avrei voluto possodere quella sua bocca e irrorarla del mio seme caldo. Ma non potevo né volevo lasciare la presa. Tolsi la mano destra dal suo sesso, le spinsi le cosce in modo da divaricarle ancora di più. Debora non era più lucida, si era persa nel piecere di quell'assalto, che probabilmente aveva immaginato fin dal mattino. Le strinsi la mano, ancora umida dei suoi umori, prima attorno al seno destro, poi, solleticatole ancora il capezzolo, la strinsi dolcemente intorno al collo.
“Piccola puttanella, adesso ti faccio tutto quello che avrebbero voluto farti quei bei maschioni che ti hanno squadrato per tutto il giorno...”.
Non so se mi sentì. Era persa nel suo piacere. Di certo sentì il mio membro che sfiorandole la coscia sinistra entrava finalmente gonfio e palpitante prima nella sua morbida e fradicia lanuggine, poi nella sua carne. Solo in quel momento, per un istante, sembrò volersi divincolare. Ma fu un secondo. Poi tornò a gemere: suoni lunghi e mantenuti si alternavano a gemiti alti e intensi ad ogni spinta che riceveva tra le cosce.
Non ricordo bene quanto durò quella splendida penetrazione. Ma ricordo che dovetti fare il possibile per non guardare né i suoi enormi sensi balzellanti, né le sue stupende cosce coperte solo a metà da slip e calze nere. Riuscì a resistere qualche minuto, ma quando capì che ogni cosa doveva compiersi, afferrai la sua caviglia destra, la strinsi e la alzai il più possibile, aprendomi così la strada alla più completa, profonda, ed appagante penetrazione. Non sentivo più la mano sinistra, che da troppo tempo la teneva immobile e schiava del mio piacere. Sentì invece molto bene tutto il mio seme che allagava il suo sesso e completava il suo e il mio piacere.
Da quella volta non sentì più il desiderio di avvicinare, sedurre e punire una hostess della fiera.
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