Maia
di
A_C_
genere
etero
Foto quattro: bianco e nero; grana grossa; lo sfondo sfocato, composto da mille tonalità vorticanti; a dominare sul lato sinistro una cascatella eterea; a destra Maia, il corpo a tre quarti, la testa in movimento, i capelli corvini che tracciano scie confuse.
Ho conosciuto Maia a una mostra. Studentessa di belle arti fuori corso e fuori sede con un amore smisurato per la fotografia. Corpo minuto, belle forme, troppi tatuaggi, troppi piercing. Intelligente ma idealista. L’arte salverà il mondo. Tutte stronzate.
Camminiamo in fila indiana su un sentiero destinato a sparire. La sto portando in uno dei posti più belli che conosco. Ha bisogno di qualche foto per un esame, o un concorso. Le macchine fotografiche a tracolla; gli zaini coi treppiede, gli obbiettivi e i rullini.
Manca poco ormai. Superiamo le ultime decine di metri ed eccoci: una gola di pietra nera e luccicante circondata da alberi umidi, ricoperti di muschio verde, con grosse radici in vista che si avvinghiano ai massi. E poi acqua. Acqua dappertutto. Rivoli e cascatelle che costellano tutta la zona e che, alla fine, convergono in una pozza, semplicemente, troppo blu.
Maia guarda il paesaggio, e io guardo Maia. Sta ridendo, è felice.
“È bellissimo”, dice.
Lo so che è bellissimo. Mi allontano sorridendo.
Il sole filtra appena attraverso la coltre composta dalle chiome degli alberi.
Sono seduto su un grosso masso piatto. Fumo e guardo Maia perlustrare il luogo in cerca di immagini. Seguo con gli occhi le sue contorsioni: si mette in punta di piedi, si abbassa, si piega su un lato, poi sull’altro. Ogni tanto scatta con la reflex digitale. Mi gusto le flessioni del suo corpo.
Schiaccio il mozzicone su una pietra. Controllo la mia 35mm. Faccio avanzare il rullino di una posa. Poi mi alzo e, silenziosamente, mi metto alle calcagna di Maia.
C’è poca luce. Devo stare il più fermo possibile o avrò solo foto estremamente mosse. Respiro lentamente. Punto i gomiti ai fianchi. E scatto: foto uno (inutilizzabile). Maia non si accorge di niente. È troppo presa. Scatto ancora e ancora: foto due e tre… da buttare. Cambio punto di vista. Scivolo e perdo l’equilibrio. Maia si accorge di me. Si volta nella mia direzione. Riprendo l’equilibrio. Mi riassesto. Avanzo. Un raggio di sole penetra ritmicamente il fogliame scosso dal vento. Maia si gira: prima la testa, poi il busto. Piroetta su se stessa. Scatto: foto quattro.
Dopo il sopralluogo si inizia a fare sul serio. Maia recupera la suo medio formato e il treppiede. Cerca l’inquadratura perfetta. Posiziona il tutto e inizia a lavorare.
Passa un’ora. Il sole si sposta privandoci quasi del tutto della luce di cui abbiamo bisogno. La temperatura si abbassa. Io e Maia ci stringiamo un attimo, l’uno all’altra. Ci baciamo delicatamente.
“Grazie”, mi dice quasi sussurrando, “grazie di avermi portata qui…”
Sorrido e la bacio sulla fronte. La stringo un po’ più forte.
Gli uccelli cinguettano. L’acqua scorre. Le nostre labbra si dischiudono. E i nostri respiri iniziano a farsi pesanti. La sua mano dietro la mia testa. Le mie mani, invece, la scorrono dall’alto in basso: un braccio intorno alla vita.
Il ritmo accelera. Ci tocchiamo. Cerchiamo di guadagnare l’accesso alla pelle sotto alle magliette e poi giù, oltre ai jeans. Ansima quando le sfioro il clitoride. Continuiamo a baciarci mentre iniziamo a masturbarci vicendevolmente. Le magliette cadono ai nostri piedi. I suoi seni premono sul mio petto. Glieli strizzo. Glieli bacio. Glieli mordo. Via le scarpe, i pantaloni e le mutande. Proseguiamo completamente nudi.
Ci spostiamo come una cosa sola verso un masso nei paraggi. Maia si volta, ci si appoggia e mi mostra il culo. Mi guarda di traverso con le guance arrossate. In ginocchio affondo la mia lingua nel suo sesso. Inarca la schiena. Gode. E io con lei.
“Scopami”, dice con gli occhi chiusi e la voce rotta.
Così mi alzo. Piego un po’ le ginocchia, divarico le gambe, ed entro in lei.
Grugnisco mentre la scopo. Vado deciso e ritmato. Un ritmo basso e profondo.
Le gambe di Maia si fanno molli. Le punte dei piedi rivolte verso l’interno. Le ginocchia a x. Accelero. Mi aggrappo ai suoi fianchi. Accelero ancora. Mi avvento su di lei afferrandole con una mano i seni mentre con l’altra le premo circolarmente il clitoride.
Viene lasciandosi andare. Il suo corpo si fa pesante e quasi si accascia sul sasso. Il tutto mentre la figa le si contrae violentemente intorno al mio cazzo. Non riesco a fare nient’altro che venirle dentro.
Maia è provatissima. La porto quasi di peso agli zaini. Si sdraia. Mi guarda negli occhi un istante e scoppia a ridere. Le sorrido di rimando. Poi inizia a fissare lo scorrere dell’acqua alle mie spalle. Allora prendo la macchina fotografica e scatto: foto diciassette.
Foto diciassette: bianco e nero; grana grossa; quasi a coincidere con il bordo inferiore dell’inquadratura una donna sdraiata su un fianco. I seni a malapena sopraffatti dalla forza di gravità, le gambe leggermente accavallate, i capelli corvini sul viso. Attraverso i capelli due occhi spalancati fissano l’infinito. Dietro, come sfondo, si intravedono dei grossi massi neri dai quali sgorgano miriadi di rivoli e cascatelle.
Ho conosciuto Maia a una mostra. Studentessa di belle arti fuori corso e fuori sede con un amore smisurato per la fotografia. Corpo minuto, belle forme, troppi tatuaggi, troppi piercing. Intelligente ma idealista. L’arte salverà il mondo. Tutte stronzate.
Camminiamo in fila indiana su un sentiero destinato a sparire. La sto portando in uno dei posti più belli che conosco. Ha bisogno di qualche foto per un esame, o un concorso. Le macchine fotografiche a tracolla; gli zaini coi treppiede, gli obbiettivi e i rullini.
Manca poco ormai. Superiamo le ultime decine di metri ed eccoci: una gola di pietra nera e luccicante circondata da alberi umidi, ricoperti di muschio verde, con grosse radici in vista che si avvinghiano ai massi. E poi acqua. Acqua dappertutto. Rivoli e cascatelle che costellano tutta la zona e che, alla fine, convergono in una pozza, semplicemente, troppo blu.
Maia guarda il paesaggio, e io guardo Maia. Sta ridendo, è felice.
“È bellissimo”, dice.
Lo so che è bellissimo. Mi allontano sorridendo.
Il sole filtra appena attraverso la coltre composta dalle chiome degli alberi.
Sono seduto su un grosso masso piatto. Fumo e guardo Maia perlustrare il luogo in cerca di immagini. Seguo con gli occhi le sue contorsioni: si mette in punta di piedi, si abbassa, si piega su un lato, poi sull’altro. Ogni tanto scatta con la reflex digitale. Mi gusto le flessioni del suo corpo.
Schiaccio il mozzicone su una pietra. Controllo la mia 35mm. Faccio avanzare il rullino di una posa. Poi mi alzo e, silenziosamente, mi metto alle calcagna di Maia.
C’è poca luce. Devo stare il più fermo possibile o avrò solo foto estremamente mosse. Respiro lentamente. Punto i gomiti ai fianchi. E scatto: foto uno (inutilizzabile). Maia non si accorge di niente. È troppo presa. Scatto ancora e ancora: foto due e tre… da buttare. Cambio punto di vista. Scivolo e perdo l’equilibrio. Maia si accorge di me. Si volta nella mia direzione. Riprendo l’equilibrio. Mi riassesto. Avanzo. Un raggio di sole penetra ritmicamente il fogliame scosso dal vento. Maia si gira: prima la testa, poi il busto. Piroetta su se stessa. Scatto: foto quattro.
Dopo il sopralluogo si inizia a fare sul serio. Maia recupera la suo medio formato e il treppiede. Cerca l’inquadratura perfetta. Posiziona il tutto e inizia a lavorare.
Passa un’ora. Il sole si sposta privandoci quasi del tutto della luce di cui abbiamo bisogno. La temperatura si abbassa. Io e Maia ci stringiamo un attimo, l’uno all’altra. Ci baciamo delicatamente.
“Grazie”, mi dice quasi sussurrando, “grazie di avermi portata qui…”
Sorrido e la bacio sulla fronte. La stringo un po’ più forte.
Gli uccelli cinguettano. L’acqua scorre. Le nostre labbra si dischiudono. E i nostri respiri iniziano a farsi pesanti. La sua mano dietro la mia testa. Le mie mani, invece, la scorrono dall’alto in basso: un braccio intorno alla vita.
Il ritmo accelera. Ci tocchiamo. Cerchiamo di guadagnare l’accesso alla pelle sotto alle magliette e poi giù, oltre ai jeans. Ansima quando le sfioro il clitoride. Continuiamo a baciarci mentre iniziamo a masturbarci vicendevolmente. Le magliette cadono ai nostri piedi. I suoi seni premono sul mio petto. Glieli strizzo. Glieli bacio. Glieli mordo. Via le scarpe, i pantaloni e le mutande. Proseguiamo completamente nudi.
Ci spostiamo come una cosa sola verso un masso nei paraggi. Maia si volta, ci si appoggia e mi mostra il culo. Mi guarda di traverso con le guance arrossate. In ginocchio affondo la mia lingua nel suo sesso. Inarca la schiena. Gode. E io con lei.
“Scopami”, dice con gli occhi chiusi e la voce rotta.
Così mi alzo. Piego un po’ le ginocchia, divarico le gambe, ed entro in lei.
Grugnisco mentre la scopo. Vado deciso e ritmato. Un ritmo basso e profondo.
Le gambe di Maia si fanno molli. Le punte dei piedi rivolte verso l’interno. Le ginocchia a x. Accelero. Mi aggrappo ai suoi fianchi. Accelero ancora. Mi avvento su di lei afferrandole con una mano i seni mentre con l’altra le premo circolarmente il clitoride.
Viene lasciandosi andare. Il suo corpo si fa pesante e quasi si accascia sul sasso. Il tutto mentre la figa le si contrae violentemente intorno al mio cazzo. Non riesco a fare nient’altro che venirle dentro.
Maia è provatissima. La porto quasi di peso agli zaini. Si sdraia. Mi guarda negli occhi un istante e scoppia a ridere. Le sorrido di rimando. Poi inizia a fissare lo scorrere dell’acqua alle mie spalle. Allora prendo la macchina fotografica e scatto: foto diciassette.
Foto diciassette: bianco e nero; grana grossa; quasi a coincidere con il bordo inferiore dell’inquadratura una donna sdraiata su un fianco. I seni a malapena sopraffatti dalla forza di gravità, le gambe leggermente accavallate, i capelli corvini sul viso. Attraverso i capelli due occhi spalancati fissano l’infinito. Dietro, come sfondo, si intravedono dei grossi massi neri dai quali sgorgano miriadi di rivoli e cascatelle.
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