Memorie dal grand'hotel V°
di
brunodantecrespi
genere
etero
PORTIERE DI NOTTE
Mentre riusciva ancora a connettere vagamente, se non proprio a collegare logicamente tra loro dueideedue, sul punto di essere sopraffatto dalla vertigine, aveva staccato la cornetta e composto il numero della reception. Nikolett Pòsàn era trasalita per la sorpresa e l’emozione quando aveva visto comparire sul display del centralino il numero della camera di Juan Tenorio Rodriguez de Urtago. Senza neppure essere sfiorata dall’idea che potesse presentarlesi l’occasione tanto agognata, piuttosto, invece, con la sensazione vaga e confusa di un’emergenza, aveva risposto turbata ed agitata: “Buonasera signore, in cosa posso servirla?”, sforzandosi di dare alla sua voce un tono sollecito e calmo. Juan aveva dovuto formulare, con fatica, nella sua mente, la frase che aveva poi articolato incespicando nelle parole. Poi una luce bianca, violenta, aveva ferito e suoi occhi, e aveva dovuto piegarsi in due, sulla sponda del letto, premendosi il palmo delle mani sul volto, i gomiti poggiati sulle ginocchia. Il cuore aveva accelerato il proprio battito acuendo il dolore, e spremendogli un’altra ondata di sudore. Juan aveva bizzarramente pensato che, ormai, doveva avere addosso più sudore che pigiama. Nikolett Pòsàn era riuscita a decifrare solo alcuni mozziconi: “molto male, … finito farmaci … farmacia … non … uscire … può … aiuto?”. Le era bastato: ”Stia calmo signore … non si muova … salgo subito”. Si era precipitata nel corridoio sul retro della reception. In uno dei locali riservati al personale, su un divano, stava riposando, con indosso la divisa, il portiere di riserva. C’era giusto per le emergenze, anche se nessuno aveva certo pensato a una di quel genere. L’aveva messo sommariamente al corrente della situazione. “Mi raccomando Nikolett, sai le regole … il tempo di vedere di che si tratta, e avvertire chi di dovere … poi diventa assenza ingiustificata!”. L’aveva ammonita il collega. Aveva risposto con insofferenza: “Non preoccuparti … non voglio farmi licenziare … è un’emergenza”, e si era subito precipitata agli ascensori. Si era voltata quasi subito: “Grazie, Antonio. Sei un tesoro!”. “Sì, come no …”, aveva pensato Antonio, ma senza lasciar trasformare quel pensiero in parole. Era stato uno dei tanti pretendenti respinti: cioè tutti quelli che portavano pantaloni tra il personale i gestori e gli amministratori dell’Hotel. E anche con la gonna,non pensate male. Pareva peraltro obbligatorio, con una bellezza splendida come quella di Nikolett, e chi non ci avesse provato sarebbe stato all’istante iscritto nella lista di quelli dell’altra sponda, Antonio non se l’era presa più di tanto per il rifiuto. Ormai, chi ci provava lo faceva, diciamo, per dovere di macho, o sapendo di ripetere una macchietta, un gioco delle parti obbligatorio, che non avrebbe offeso nessuno. Nemmeno fatto ridere, se è per quello. A meno che non si fosse trattato di un nuovo assunto che, per antipatia o per noia, non fosse stato edotto su come stavano le cose. Allora era una commedia dell’arte. Tutti sapevano, Nikolett per prima, e il poveretto aveva a subir modi bruschi, dure ripulse, gelida indifferenza. Fino alla gran canzonatura collettiva, che fungeva anche per sdrammatizzare i toni, e non lasciar strascichi nei rapporti. Detto tutto. Di rapporti positivi, in quell’Hotel, non se ne potevano contare poi molti. Invidia, competizione, gelosia, rancore, così che di quasi tutti si poteva dire, senta tema di essere smentiti, con Ariosto Ludovico: qualche rea femina, / con la qual aveva prima avuto pratica, / l’à così concio per invidia. Giunta al piano, Nikolett Pòsàn si era mossa cauta e prudente, con un leggero affanno, e il cuore turbato da sentimenti contrastanti. Con il duplicato del badge aveva aperto la porta. Se l’era chiusa alle spalle, appoggiandovisi, in attesa che i suoi occhi si adattassero alla penombra della camera. Da lì non poteva vedere null’altro che uno scorcio dell’interno, con il tavolo e le sedie, la poltrona accanto a un basso, e, tra i due, il tavolino con lampada. Il chiarore tenue e ammiccante della notte inondava la camera dalle vetrate non oscurate dai tendaggi, profilando in risalto la base in cemento delle finestre, che spuntava come una merlatura, interrotta da strette feritoie. Juan aveva appena percepito lo scatto leggero dell’aprirsi della porta. Non aveva potuto vederla schiudersi appena appena, ma una voce esitante gli aveva chiesto il permesso di procedere oltre. Non ricevendo risposta –Juan non aveva trovato abbastanza fiato- Nikolett si era sporta all’interno con tutta la testa, e, alla fine, si era risoluta a entrare. Quando si era sentita abbastanza sicura da orientarsi e muoversi nella penombra, s’era sfilata la scarpe con i tacchi a trampolo, che avrebbero ticchettato in modo molesto, ed era avanzata. Superato il disimpegno, aveva scorto in controluce la sagoma di lui, con-fusa con quella del letto su cui era accasciato. Sembrava del tutto assente. Sul letto sfatto e scompigliato, Juan era piegato a metà, il suo capo quasi scompariva tra le gambe, poggiato sulle braccia incrociate, sostenute dalle ginocchia. Un suo ulteriore, timido “Permesso …” non aveva parimenti avuto risposta. Silenzio. Rumori e voci della vita notturna non passavano le vetrate, che mostravano un mondo di luci muto. Incerta, le era parso di captare un singhiozzo, o un singulto. Aveva pregato che non stesse per vomitare. No, non era nausea, era un lamento. Strozzato, soffocato. Un suono gutturale e rabbioso. Straziante. Velocemente si era subito avvicinata, ed era andata ad accosciarsi accanto a lui, impicciata e intralciata dalla gonna della divisa, così stretta e corta, che si era ridotta a poco più d’una fastidiosa, comprimente fascia alla cintola. Juan era completamente abbandonato al suo dolore. Nikolett Pòsàn, per riscuoterlo, aveva voluto posargli una mano sul braccio. L’aveva ritirata d’impulso, quando aveva toccato il panno fradicio di sudore, tal quale fosse appena uscito da sotto una doccia fatta col pigiama indosso. Se ne era vergognata, e si era forzata di superare quello sgradevole fastidio dato dall’umore tiepido e appiccicaticcio, che continuava a fluire copioso ancor prima che potesse iniziare a evaporare quello già versato. Juan era rimasto così, piegato in due, volgendo solo il capo con uno strano contorcimento, e gli occhi lucidi, confusi ma spenti, avevano fissato le ginocchia di lei. Il viso di Juan era tirato, come se il dolore, la sofferenza avessero incollato la pelle alle ossa direttamente, non lasciando nulla a riempire quell’intercapedine. Il suo patimento traspariva lacerante dal contrarsi improvviso, violento, delle sue mascelle, che poi si rilassavano con estrema lentezza. Nikolett Pòsàn si era sentita confusa, impotente, sull’orlo del panico. A denti stretti, con uno sforzo che l’aveva sorpresa, Juan era riuscito a farle capire che sul comodino c’erano le ricette, infilate sotto la copertina del suo passaporto. Aveva percepito come il corpo di lui fosse teso come un arco che stesse per scoccare un dardo. Aveva biascicato qualcosa ... Lei non aveva potuto non coglierne il significato al balzo: era forte e chiaro. Aveva afferrato il tutto, si era sforzata di posare la sua mano sul fradiciume del braccio di Juan, rassicurandolo: ”Faccio in un attimo … signore … non si preoccupi … non si muova … Torno subito signore ... stia calmo ... faccio in un attimo”, aveva cercato di avere una voce decisa e convincente. “Intanto ... vuole che l’aiuti a sdraiarsi?”. Aveva ricevuto come risposta un grugnito che aveva preso per un NO. “Va bene signore ... stia calmo ...torno subito ...”. Repertorio limitato, ma era scattata in piedi, scossa dall’urgenza del dolore di Juan. Si era risistemata la gonna con qualche contorcimento, aveva trovato passaporto e ricette, afferrato tutto d’impulso, raccattato le scarpe, che si era rinfilate solo dopo essere uscita dalla camera, e si era fiondata verso la farmacia, senza nemmeno ripensare a quel suo goffo e maldestro tentativo di rassicurare Juan. “Attenta! Stai per sforare …!”. L’avvertimento di Antonio non era arrivato al suo cervello, forse nemmeno alle orecchie. Quella di turno, di farmacia, era vicina, grazie a Dio, almeno per lei che sapeva come muoversi in quel dedalo di vicoli, in cui Juan, invece, si sarebbe smarrito anche di giorno.
MINICORSO DI PRONTO SOCCORSO. Arrivata alla farmacia, in affanno, Nikolett Pòsàn aveva premuto con decisione il campanello, trattenendo il dito un attimo più a lungo del dovuto. Il farmacista, che forse aveva iniziato a pensare si trattasse del tossico di turno, aveva aperto la finestrella, evidentemente seccato. Il viso arrossato, gli occhi lucidi, i capelli in disordine, le mani e la voce tremanti di Nikolett avevano messo a tacere la sua insofferenza. Data un’occhiata alle prescrizioni che lei gli aveva porto, l’aveva invitata a entrare dall’ingresso sul retro. “Non sono farmaci … semplici”, le aveva detto. “Per un vostro ospite ... immagino?”. La sua più che una domanda era stata un’affermazione. Il farmacista, dato un’occhiata alle prescrizioni, l’aveva guardata con aria triste: “Sta molto male, vero?”, un’ altra affermazione. Nikolett Pòsàn aveva assentito decisamente col capo: ”… Sì… molto … anzi … di più”. Comprensivo e premuroso il farmacista si era già voltato, estraendo da una parete una scaffalatura a rientro, ripetendo poi l’operazione con una seconda. “E … sa come fare delle iniezioni?” La voce del farmacista era pacata, rassicurante. “No ... ecco ... non ...”. Si era inceppata. Il farmacista aveva avuto un cenno di comprensione. Lei un brivido. A questo non aveva proprio pensato, non le era passato nemmeno per l’anticamera del cervello. Aveva visto come preparare e praticare iniezioni. Non altro. All’Hotel aveva dovuto seguire un breve corso di primo soccorso, ma quell’intervento non era stato neppure accennato. Era scossa, trepidante. Si sentiva persa. Adattandosi a quella realtà dolorosa, il farmacista l’aveva incoraggiata: ”Guardi, non è difficile”. E con attenzione, pazienza, usando parole semplici e chiare, le aveva dato spiegazioni e istruzioni precise e risolute. Poco era mancato che non si praticasse lui stesso un’iniezione nella coscia, per essere più efficace nel suo disperato tentativo di addestramento istantaneo. Non che l’agitazione di lei si fosse del tutto calmata, ma, ripetendo la sequenza delle operazioni da compiere, concentrandosi solo sulla loro esecuzione, le aveva infuso un minimo di fiducia. La siringa da 5 cc.; le due fiale, di due diversi farmaci, da spuntare. L’ago cui togliere la protezione, dopo averlo inastato sulla siringa. Aspirare il liquido dalle due fiale. Picchiettare con un dito, come giocando alle biglie, sulla siringa, per far venire a galla le bollicine d’aria. Premere lo stantuffo per espellere l’aria fino alla comparsa della prima gocciolina di liquido. Rimettere la protezione all’ago e posare la siringa, insieme a una bustina di salviettine disinfettanti, sul comodino. Il paziente era sdraiato? A quella domanda, Nikolett aveva avuto un tremore, un attimo di sgomento, comprendendo in tutto lo spessore del significato e della realtà come a lei fosse rimesso tutto il peso di prendersi cura di Juan, di lenire il suo dolore. Lei e solo lei. Lei da sola. Sola. Lei. Non avendo avuto risposta: ”Beh, se è sdraiato è più facile, se no veda di scoprirgli la parte superiore del gluteo, e trovi un punto in cui i muscoli non siano del tutto irrigiditi ... se proprio non lo trova, passi direttamente alla faccia superiore della coscia ... anche attraverso il pigiama ... se proprio non ha alternativa”. Nikolett Pòsàn non si era più stupita di nulla. Si era concentrata tutta sulle istruzioni. La sua mente si era arresa, non pensava più alle difficoltà dell’esecuzione, ma alla semplice realtà che sarebbe stata lei l’esecutrice. “Appena fatto”, il farmacista aveva proseguito implacabile, “lo spogli ... metta sulle lenzuola sotto di lui degli asciugamano grandi, da bagno ... anche più di uno ... e ne tenga altri a portata. Lo stenda ... e, se è già steso, glieli infili sotto. Tengaa portata di mano altri asciugamani più piccoli, con cui asciugargli, o almeno tergergli il sudore continuamente ... non frizioni ... tamponi. Non si stupisca ... questi farmaci sono per dolori così forti e devastanti che spremono fuori ogni goccia di sudore ... ah, e lo tenga idratato. Acqua, molta acqua, non gelata ... fresca. E’ probabile che all’inizio faccia un po’ di resistenza ... lo forzi ... anche energicamente ... poi berrà con avidità. Niente aria condizionata ... né correnti d’aria ... con tutto quel sudare si prenderebbe una polmonite. Ecco trovata la spiegazione al perché il sistema di condizionamento era spento, e solo la portafinestra socchiusa. “Dopo l’iniezione rimarrà sedato ... dovrebbe assopirsi, ma non a lungo ... un bel sonno se lo farà solo domani, sul tardi. Quando si sveglia gli dia due di queste ...”, aveva indicato un flacone, che aveva posto sul banco, “... con un bicchiere d’acqua ... pieno, e deve berlo tutto ... Ogni due ore. Prima riesce a mettere qualcosa di solido nello stomaco meglio è ... qualsiasi cosa. Probabilmente chiederà zuccheri, va bene. Ma aggiunga anche un paio di queste”, aveva sollevato una confezione piuttosto XXL, “sono integratori ... Col sudore, il dolore, l’effetto dei farmaci, deve riidratarsi ... assumere di sali minerali ... Glieli dia fino a esaurimento”. Si era fermato, a raccogliere i pensieri, a scorrere a occhi chiusi la check-list che si era formata in mente. Aveva riaperto gli occhi guardandola con aria serena, rassicurante: “OK, è tutto ... faccia esattamente come le ho detto e andrà tutto bene ...”. Lei si stava chiedendo cosa l’avesse mai spinta a far la buona samaritana. “Cioè, dottore ... devo fare tutto io? ... forse è meglio chiamare qualcuno ... il pronto soccorso ...”. Il farmacista aveva esitato, non tanto per riflettere su quelle parole, ma sul come non essere troppo duro, forse anche sgarbato: ”Il servizio di assistenza medica continua? ... NO, è da scartare. Arrivassero anche con la velocità di un lampo, prima lo visiterebbero, lo interrogherebbero, poi al pronto soccorso … visite ed esami … No, già prima dell’eventuale trasporto, probabilmente prima dell’arrivo dei soccorsi, sarebbe svenuto, e, nonostante la presenza delle prescrizioni dei farmaci, nessuno oserebbe farvi ricorso sic et simpliciter. Troppo complicato, e, soprattutto, troppo tempo perso inutilmente, quando invece s’impone un intervento d’urgenza. No ... lei ormai è qui ... tocca a lei ... direi che abbiamo già perso anche troppo tempo”. HIC RHODUS, HIC SALTA! Vero, troppo logico, se c’era qualcosa di logico nell’essersi infilata in quel brutto guaio. “Già, dopotutto perderò solo la reputazione ... e il lavoro ...”. Il farmacista, di fronte a quella commovente rassegnazione, non aveva potuto fare a meno di cercare di rassicurarla con un sorriso di incoraggiamento, e stringendole un attimo le spalle con un braccio, scuoteldola un poco. A dire il vero, era preoccupato almeno quanto lei. Ci fosse stato qualcuno, lì con lui, anche solo il commesso, si sarebbe azzardato ad allontanarsi il tempo necessario almeno per praticare le iniezioni, e somministrare i primi farmaci ... ma era solo. “Non si preoccupi, sono sicuro che farà tutto come un’infermiera ... comunque, guardi, le scrivo il numero del mio cellulare, per qualsiasi evenienza non esiti ...”. Nikolett Pòsàn l’aveva fissato più incredula che speranzosa: “Veramente ...?”. Il farmacista aveva annuito, in modo grave e serio. Aveva aggiunto alcune confezioni di salviettine disinfettanti, un paio di flaconi dal contenuto sconosciuto, infilato tutto in un sacchetto, e aveva messo mano al registratore di cassa. Da pallido che era, il volto le si era imporporato. Nell’impeto dello slancio non si era curata di portarsi appresso la borsa, o, almeno, il borsellino. Aveva cercato di balbettare qualcosa, ma le sue labbra si erano appena mosse, aveva boccheggiato. Era rimasta immobile, sopraffatta da quell’incalzante susseguirsi di eventi di cui non aveva esperienza alcuna, e, pure, nessuna padronanza. Ancora una volta il farmacista l’aveva tolta d’impiccio: ”Su … non si preoccupi … mi pagherà domani … conosco quelli dell’albergo”. Non aveva precisato meglio quel vago “quelli”, ma lei si era rilassata con un sospiro di sollievo. Poi il farmacista aveva aggiunto: ”Trattengo il passaporto …”. Aveva trattenuto il fiato, stava avvampando di nuovo, poi il farmacista aveva concluso: ”… solo perché devo accertarmi dell’identità dell’intestatario delle ricette … sa … per legge … non per altro ... ci mancherebbe!”. E le aveva sorriso, quasi imbarazzato, quasi chiedendo scusa. “Ora corra ... “.
NIKOLETT NIGHTINGALE - I. Nikolett Pòsàn era volata via, verso l’Hotel, ancor più rapidamente di quanto non fosse andata alla farmacia. Non appena era rientrata Antonio aveva cercato di fermarla, tentando anche di rincorrerla, irrimediabilmente impedito dal bancone della reception: “Nikolett! … dal direttore … subito … o puoi considerarti licenziata …”. Lei aveva pensato a Juan, e aveva sentito battere forte il cuore. In un certo modo stava trovando eccitante darsi da fare per lui. Aveva pensato che forse stava agendo in modo avventato e impulsivo, ma, al momento non avrebbe saputo dire se Juan o quella strana circostanza, stava esercitando un fascino quasi inspiegabile su di lei. Al momento, però, non le si stavano delineando all’orizzonte prospettive particolarmente allettanti. D’improvviso era trasalita, piena di spavento, sentendosi afferrata per un braccio e trascinata da parte. Era –nomini il diavolo e spunta la coda- il signor Direttore. Quello nuovo. “Cos’è successo ... ?!”. Esigeva una risposta. “Cosa dovrebbe essere successo?”, aveva farfugliato lei, “Il signor Tenorio ... era quasi svenuto … ho faticato parecchio ...”. “Oh, santo cielo!”, avrebbe voluto essere un urlo ed era invece stato un gemito di scherno, “Ma che gli ha fatto?!”. Nikolett Pòsàn: “Niente! Non gli ho fatto proprio niente … ancora. Ho qui i medicinali che sono corsa a prendere in farmacia … volente o nolente non potevo non farlo”, aveva sollevato in bella vista il sacchetto ben gonfio. Il Direttore l’aveva fissata, dubbioso, con le palpebre socchiuse: “Non sembra che le stia costando troppa fatica … se posso metterla in questi termini …”. Non si era saputa trattenere di fronte a tanta idiozia: “La metta nei termini che vuole … non me ne importa un … fico secco delle … sue cavolate!”. Il Direttore aveva inarcato le sopracciglia, guardandola dal basso verso l’alto –avrebbe voluto fosse stato il contrario, ma lei era decisamente più alta di lui-: “Deve saperlo lei quello che fa … “. Determinata e salda: “Certo che lo so!”. Il Direttore: ”E ricordarsi per chi lavora. Non mi renda difficile le cose … e se proprio non può fare a meno di … ehm … sa cosa intendo dire … insomma … “. Nikolett Pòsàn si era chinata verso di lui: “Siii!!?”, aveva sibilato. Il Direttore: “ … fatelo non qui e non durante il suo orario di lavoro ...”. E aveva fatto un passo indietro. Era rimasta un attimo in silenzio, si era grattato il mento e, scrollando le spalle, si era diretta verso gli ascensori: “Lei non capisce un beato niente! Vada un po’ al diavolo!”. Il Direttore, a voce alta, ma anche acuta, per lo smacco subito: “Lei … lei … è licenziata … da … da … da adesso. Anzi da prima … da quando ha lasciato il suo posto!. Lei … lei non lavorerà più in nessun albergo … glielo prometto … Cazzo!”. Parole al vento. Le aveva sentite, e capite, ma, si era detta: non ti curar di lui ma guata e passa.
NIKOLETT NIGHTINGALE - II. Nonostante la sua inesperienza e i tanti imprevisti e molti timori, il come si erano messe e si stavano svolgendo, stava prendendo maggior fiducia e decisione. Prima di rientrare nella camera di Juan, era passata dal magazzeno, facendo scorta di asciugamani grandi e piccoli, un paio di accappatoi, cercando, però inutilmente, una grembiale da addetta alla pulizia delle camere, con il quale avrebbe voluto sostituire la sua divisa così scomoda, d’impiccio e d’impedimento. E già così stazzonata e zuppa di sudore. Dal deposito aveva preso un paio di confezioni da sei di acqua, e diversi bicchieri di plastica. Nella camera tutto era come l’aveva lasciato. Un fermo immagine. Edotta dal farmacista su quanto fosse dolorosa, per Juan, ogni luminosità, anche indiretta, anche solo attraverso le palpebre, aveva tirato le pesanti tende, e acceso solo la luce di cortesia. Aveva ritrovato anche lui così come l’aveva lasciato. Aveva allineato sul tavolo il contenuto del sacchetto, costringendosi a stare calma, convincendosi, o almeno tentando di farlo, di avere tutto sotto controllo. Beh, quasi. Doveva solo domare le esitazioni e le incertezze che si accavallavano troppo velocemente nei suoi pensieri: avrebbe saputo fare tutto quanto era necessario. Sarebbe stata la prima volta, ma non c’era forse sempre per tutto una prima volta? Si era sentita rinfrancata quando si era liberata delle scarpe dai tacchi che erano quasi trampoli. Eseguendole, aveva ripercorso in ordine e con calma le istruzioni e i consigli del farmacista, concentrandosi sul fare, sul ripetere, senza permettersi indecisioni o dubbi. Si era trovata subito a litigare con la giacchetta della divisa, e sapeva che lo stesso avrebbe dovuto fare con la gonna. La impacciavano non poco nei movimenti. L’aveva slacciata, senza volersela togliere: sotto indossava solo un reggiseno molto leggero, del quale non aveva nessun bisogno, ma che il decoro dell’Hotel esigeva. Incomprensibile, ma tant’era. L’articolazione delle braccia, specialmente ai gomiti, non era sufficiente. Se n’era sbarazzata. Aveva visto nell’armadio, le cui ante erano spalancate, alcune camicie. Ne aveva presa una e l’aveva indossata, arrotolando le maniche, e allacciandosi i capi in vita. Terminati i preparativi, aveva dovuto, stavolta necessariamente, accosciarsi accanto a Tirso. Al diavolo anche la gonna. Se l’era sfilata, aveva snodato la camicia e ne aveva allacciati i bottoni, facendone quasi un camice. Tornata al capezzale aveva sussurrato all’augusto infermo: ”Andrà tutto bene …”, pregando che non si accorgesse di quanto lei stessa era non del tutto convinta. Aveva allineato sul tavolo, nell’ordine d’uso, il contenuto del sacchetto avuto dal farmacista. Accanto, alcune bottiglie d’acqua e una piccola pila di bicchieri in plastica. Poi, sull’altro lato del letto asciugamani piccoli e grandi. Con cautela, stesi gli asciugamani necessari, accorgendosi subito di aver sbagliato nel calcolo: ne sarebbero servito almeno un doppio stato, e delicatezza l’aveva aiutato a stendersi sul letto, tenendogli le gambe con le mani sotto l’incavo delle ginocchia, lentamente, con attenzione e fatica. In tutta quell’operazione lui era rimasto inerte, senza un lamento né una contrazione, quasi fosse del tutto assente, o insensibile. Sarebbe potuto sembrare pazzesco, ma probabilmente era proprio così: il suo dolore era così violento, pervasivo, da averlo isolato da ogni altra sensazione. Non riusciva più a riceverne altre, in sovraccarico di quelle che già lo tormentavano. ‘Un dolore sordo, forse rende sordi al dolore. Niki! Disciùlati se no questo poi vedi che magari volta là’. Si era sintonizzata sulla check-list del farmacista: la siringa da 5 cc.; le due fiale, di diverso farmaco, da spuntare; l’ago cui togliere la protezione, dopo averlo inastato sulla siringa; aspirare il liquido dalle due fiale; picchiettare con un dito, come giocando alle biglie, sulla siringa, per far venire a galla le bollicine d’aria; premere lo stantuffo per espellere l’aria fino alla comparsa della prima gocciolina di liquido; rimettere la protezione all’ago e posare la siringa, insieme a una bustina di salviettine disinfettanti, sul comodino. Si era disinfettata le mani, già prima lavate accuratamente, con due salviettine, una per mano. Se è sdraiato, è più facile –Juan era sdraiato- trovi un punto ... trovato. Si aspettava una reazione al liquido oleoso, duro a penetrare, doloroso; ma era stata minima, molto molto meno di quanto si aspettasse. O era talmente abituato al dolore, o talmente abbrutito dal dolore. Appena fatto aveva applicato la salviettina con una pressione leggera, in un movimento circolare, per aiutare l’espandersi e l’essere assorbito del liquido. Aveva rimesso la protezione all’ago. Aveva gettato ago, siringa, fialette e salviettine nel cestino. Lo aveva spogliato ... Questa era stata dura... Lui era sussultato, aveva strizzato gli occhi già chiusi, aveva stretto i pugni, ma non si era lasciato sfuggire nessun lamento. Aveva presto sentito l’effetto dei farmaci iniettati diffondersi in lui, con la loro azione benefica. Il dolore si andava quietando, e una calma corrente di distensione lo stava pervadendo. Si era sentito sprofondare in un vuoto oscuro, su una zattera che non riusciva più a governare e che precipitava oltre il bordo di una cascata. Le palpebre gli si erano fatte pesanti, e mentre ancora in un barlume cercava di mantenersi aggrappato alla realtà, il buio l’aveva trascinato via. Il buio era un tutt’uno indistinto. Non gli suscitava angoscia, né gli incuteva timore, ma faceva girare lo sguardo della sua mente verso se stesso. Non avendo nulla su cui fissarsi fuori di sé, tornava verso se stesso incontrando immagini, riconoscendo sensazioni, riscoprendo umori che voleva invece rimanessero sepolte. C’era un’immagine che gli ritornava da quei bui fitti, densi, pesanti cui cercava sempre di sottrarsi. Quella di se stesso in uno spazio indefinito. Uno spazio che non aveva limiti visibili, anche se lui sapeva che era circoscritto da pareti insormontabili, invisibili, ma incombenti. Nere, le pareti. Nero tutto. Lui vedeva se stesso, come un osservatore nascosto che stesse spiando, nella notte, attraverso un visore notturno. Immagini evanescenti, lattiginose, aureolate. Meglio, una sola immagine, la sua. Il resto era il nulla. Non il vuoto, ma assenza di presente, il nulla come un’incombenza malvagia e inquietante. E in quel nulla lui correva. Correva senza muoversi. Le sue gambe affondavano nel nulla, che ne assorbiva e spegneva lo slancio, esaurendone la forza e rimandandogli stanchezza. Una fatica che lo sfiniva. E tanto maggiore era la foga con cui cercava di progredire, anche di un solo passo, tanto maggiore era la sua pena nel vedere ogni suo sforzo più che vanificato, svuotato, prosciugato di ogni energia, e restituito sotto forma di sfinimento. E, con lo sfinimento, aumentava l’angoscia, il senso d’incapacità, di frustrazione, d’inettitudine. E, al risveglio, si sentiva già esausto. Per questo evitava il buio, perché gli riportava quegli incubi anche nella veglia o nel dormiveglia. Il ventaglio di luce che gli lasciava indovinare forme note, amiche, rassicuranti, guidava anche il suo abbandonarsi, alle fantasticherie o al sonno, su strade più sicure, ove non avesse a temere agguati di briganti che volevano depredare la sua quiete, privarlo della sua pace. Le immagini che andavano emergendo e reimmergendosi nell’ombra gli tendevano invece la mano come vecchi amici. Andava riscoprendole con gli occhi della mente, della fantasia o del desiderio, così come si cerca di immaginarsi il volto e le sembianze di un antico amore o di un vecchio amico, che non vediamo da tempo, ma che è rimasto nel nostro cuore e nel nostro ricordo. Sappiamo che non può essere rimasto immutato, ma non sappiamo come e quanto sia mutato. Così, dai lineamenti noti, o, meglio, da quelli conservati nella nostra memoria, che già hanno perso molto del loro legame con la realtà nota ma vecchia, essendosi sbiaditi come il nostro ricordo, cerchiamo di ricostruire un identikit che modifichi l’aspetto noto con quello nuovo. Non possiamo farlo che con tentativi successivi ma tutti vani. Se è la vita che ci cambia, imprimendo sul nostro volto, nel nostro sguardo, nei nostri atteggiamenti i segni delle nostre esperienze vissute, non conoscendo noi del tutto, o solo lontanamente tali esperienze, come possiamo avere gli elementi necessari alla ricostruzione di quell’identikit? Siamo i testimoni distratti di rapine che ci hanno colto di sorpresa, di incidenti di cui crediamo di conoscere lo svolgimento, ma che, in realtà, ignoriamo, perché, in entrambi i casi ci siamo accorti solo dopo che si trattava di una rapina o di un incidente. A cose fatte. E non ricostruiamo, per chi svolge le indagini e raccoglie le nostre testimonianze, un’immagine che ci siamo ben impressi nella memoria per conservarla e poi ricostruirla e restituirla. Ricostruiamo ricordi, spezzoni, emozioni, sensazioni, ricomponendo nella mente un nostro identikit per poi fornirne i connotati. Tanti sono i presunti testimoni, tanti sono gli identikit. Quanti sono gli identikit di quelle persone che cerchiamo di figurarci nel loro cambiamento ormai avvenuto, senza mai riuscirci perché ci mancano le conoscenze necessarie anche solo a immaginarci quali segni si possano essere impressi su di loro. Lo stesso avveniva a Juan, in quella fiacca penombra, con gli oggetti. Si animavano, gli raccontavano spezzoni della sua vita. Tessere sparse e confuse dì un puzzle che non riusciva mai a completare, e che, ogni volta, non poteva o sapeva riprendere da dove si era interrotto la volta precedente, ma doveva ricominciare daccapo. Senza neppure la vaga memoria di come fosse la combinazione dei pezzi, neppure di quelli che già aveva riaccostato e ricomposto. Un abbandono che lo faceva scivolare nel sonno, nella reggia dei ricordi senza sogni, di una notte di quiete. O di una notte confusa e irrequieta nella quale i ricordi non si facevano sogni solo perché una fitta cortina di nebbia impediva loro di trovare la strada del suo sonno.
L’INFERMIERA DI NOTTE. Nikolett Pòsàn si era chinata su di lui, con una spugna inumidita, cercando di attenersi con precisione alle istruzioni del farmacista. Era stata attenta a non premere, con grande cautela perché non sentisse male. Il suo torso era segnato da una ragnatela di cicatrici. Non era riuscita a trattenersi dal farvi scorrere, sfiorandole appena, la punta delle dita, come cercando di trovare un orientamento in quell’intrico. Aveva capito che alcune erano vecchie, lisce, altre erano ancora pulsanti. Si era chiesta se ancora dolorose o già rese insensibili dall’effetto dell’iniezione, certa che il loro ricordo fosse ancora vivo e sconvolgente in lui. E altrettanto convinta che la sua vita fosse egualmente complicata e intricata da far smarrire l’orientamento e renderne impossibile la comprensione ad altri, anche solo immaginarla. Situazioni complesse e confuse cui non si sarebbe riusciti a dare senso. Inimmaginabile, poi, riuscire a individuare e analizzare il groviglio di percorsi tortuosi in cui trovare un orientamento. Era sicuramente stato difficile e doloroso anche per lui. Lacerante, forse. Non solo un intrico di concetti, ma soprattutto un complesso di stati d’animo, sentimenti. Intrico di vite, di percorsi in cui anche lei, si fosse trattato della sua vita, avrebbe rischiato di perdere l’orientamento prima di trovare l’unica che non presentasse ostacoli e conducesse alla riuscita. Finite le cure immediate, si era ritrovata con la camicia fradicia di sudore quasi quanto il pigiama di Juan, e ancor più gli indumenti intimi. Una sensazione sgradevolissima, impossibile a sopportarsi a lungo. Tutto era già divenuto umido e si era incollato alla pelle. Era come stare in una tinozza di miele caldo, si sentiva esausta. Era scarmigliata, aveva la pelle lucida di sudore e la camicia era tutta chiazzata da grandi aloni scuri, sotto le ascelle e sul petto. Si era spogliata, concedendosi poi una doccia sotto la quale aveva indugiato a lungo, trovandola tonificante, e non solo per il corpo. L’acqua più calda che le era riuscito di sopportare, insaponandosi ripetutamente, abbondando con la schiuma, sentendosi così più leggera. Era uscita dalla doccia e si era raccolta i capelli ... che avevano deciso di tramutarsi in una massa ispida. Aveva afferrato una spazzola e aveva iniziato a metterli in piega con un phon. A metà dell’opera si era fermata. Perché in quella circostanza avrebbe dovuto disturbarsi a truccarsi? Buttata la spazzola, si era riavviata i capelli con le dita. Aveva scosso la testa e i capelli le erano ricaduti nuovamente sul viso. Aveva sistemato qualche ciocca dietro le orecchie, ed era tornata in camera. Si era avvicinata al letto, tentando di mostrarsi pudica con un minuscolo asciugamano, non aveva voluto sprecarne di più. Senza trucco, i suoi tratti erano, se possibile, ancora più belli. Aveva un naso per nulla sfuggente ma delicato, labbra piene; il tutto dominato da due occhi che esprimevano calore e intelligenza, intensi e, insieme, pieni di vita. Rientrata in camera era stata subito colta da un senso di seppur incolpevole negligenza. Si era rimproverata per aver essersi trattenuta senza fretta, con tranquillità, quasi indolenza sotto i getti della doccia, come se da quell’assenza dipendesse la vita di Juan. Sentiva, però, ora, sollievo e conforto.
Juan era sveglio, malamente sollevatosi un poco sui cuscini, e la stava fissando con occhi interrogativi, un po’ sorpresi un po’ stupiti, un po’ di riconoscimento un po’ di elogio. Tutto sotto un velo d’incertitudine delle cose, d’inconsapevolezza. Non riusciva ancora a rendersi pienamente conto di quello che era accaduto, come fosse accaduto in un’altra dimensione, senza che ne avesse coscienza. Probabilmente era esattamente così, o circa. Nikolett Pòsàn aveva velocemente ripassato le istruzioni datele dal farmacista: l’interazione dei due farmaci avrebbe sedato il dolore, e avrebbe poi avuto un rebound di spossata euforia subdolo e infido. Avrebbe gradatamente ripreso le forze, ma con fatica, dovendo superare lo stordimento, sciogliersi dal rallentamento ,e ricaricare le pile. Se non sostituire le sue del tutto esaurite. Si era rimessa solo l’accappatoio, sedendosi poi sulla poltrona. Juan aveva un’aria assente, distante. Era sicura che stesse pensando a qualcosa che lo tormentava. Sdraiato a letto, aveva sollevato le palpebre, ancora pesanti, e si era sentito sopraffatto da un’intensa sensazione di vertigine, come immobilizzato. Eppure quando l’aveva vista, lì seduta sulla poltrona, i piedi poggiati sul pavimento, le gambe divaricate, mentre tutta sudata si stava asciugando il viso e il corpo con un asciugamano, aveva dovuto confessare a se stesso che se gli fosse stata lì vicina avrebbe cercato di prenderla ed abbracciarla. Un lungo silenzio, poi Juan l’aveva fissata e aveva annuito lentamente; era stato il suo apprezzamento, il suo grazie. Nikolett era turbata, molto impressionata, sconcertata di trovare come, nonostante la sua statura, le sue spalle larghe, il suo fisico ancora robusto, lui appariva cereo e rattrappito. Così vulnerabile. Era disteso su un letto sfatto, la gola arsa gli aveva strappato un gemito. “Deve avere una gran sete”. Si era alzata dalla poltrona, era andata al tavolo, e ne era tornata con un bicchiere colmo d’acqua fresca, ma non fredda. Si stava preoccupando di alternare le bottiglie d’acqua nel frigobar per averne sempre a disposizione alcune di un fresco che sarebbe potuto sembrare naturale. Aveva fatto in un attimo, era andata a sedersi sul bordo del letto, e gli aveva porto un bicchiere d’acqua con due capsule. Juan aveva percepito la silenziosa presenza di un’antica abitudine al sospetto e alla diffidenza. Poi aveva preso le compresse e le aveva inghiottite svuotando il bicchiere d’acqua. Aveva deglutito con difficoltà, e allungato il bicchiere a chiedere altra acqua. Poi, come aveva previsto il farmacista, aveva chiesto la bottiglia, dalla quale aveva bevuto direttamente, svuotandola senza staccarsi. Lei aveva prontamente tolto un’altra bottiglia dal frigobar. Poi si era seduta sulla sponda del letto, vicina a Juan. Lui, dopo averla vista con indosso solo un fazzoletto di asciugamano, poi nuda prima di rimettersi l’accappatoio, poi ancora con le gambe spalancate mentre tentava di detergersi il sudore, si era reso conto in di quanto fosse attraente, sensuale, così fine e dolce, con quei lineamenti vagamente esotici, in armonioso contrasto con i capelli neri e luminosi, come gli occhi, che le incorniciavano il viso, bello e malinconico insieme. Un tremito gli aveva attraversato il corpo. Non aveva pronunciato parola, e lei aveva iniziato a sentirsi in impaccio, restando lì, impalata, finché lui non le aveva posato una mano sulla sua. Più che posata, abbandonata, rilasciata con languido sfinimento. “Grazie ... è stata meravigliosa ...”, la voce era sommessa ma chiara. Aveva dovuto subito riprender fiato.
“Sono Nikolett Pòsàn ... ricorda? La receptionist ...”. Juan aveva fatto un piccolissimo cenno di sì col capo, e si era sentita rinfrancata e sollevata, orgogliosa anche, e aveva cercato, in modo schivo, di dare rilievo alla parte avuta dal farmacista. “In ogni caso ... la signora Blanco”, già, come chiamarla in simile frangente?, non aveva precisato, “avrebbe fatto molto meglio ...”, aveva concluso. Juan aveva debolmente sorriso, con le labbra e con gli occhi: ”Per Anabel è ormai una routine, ma per lei ... e spogliarmi, asciugarmi il sudore, e coprirmi con un lenzuolo asciutto, cambiandolo appena si infradiciava ... non credo le sia abituale ... davvero molto brava, mi creda...”, aveva ripreso fiato, “... comunque in genere me la cavo da solo, riconosco i sintomi subito ... e non aspetto, quando appena si accennano ... questa volta mi sono scordato di controllare i farmaci che mi porto appresso ... fortuna che ho sempre le prescrizioni ... per ogni emergenza … Ah … e … comunque … Anabel … è il mio capo”. “Desidera qualcos’altro, signore?” Aveva sentito la mano di lui stringere per un secondo la sua. Juan: ”Non siamo così formali ... credo possiamo passare al tu. Dopotutto stiamo passando la notte insieme ... mi hai spogliato e rivoltato come un bebè ...”. Nessuno dei due aveva sorriso. “Juan, credo già tu lo sappia ... Nikolett”, aveva lasciato a lei. ” Niki … Niki và bene”. “Ok Niki ... amici?”. Aveva di nuovo accennato a stringere la sua mano, e lei aveva risposto alla stretta, con un sorriso. “Sei stata straordinaria.”, l’aveva sorpresa e fatta sobbalzare con quelle parole, “Mi hai soccorso … beh, sarebbe meglio dire accudito … in modo perfetto … e ... stavolta … ho avuto paura. E’ stata una gran fortuna che sia venuta tu... la tua gentilezza e il tuo coraggio ... non posso che esserti grato ... anzi, di più … ma non mi viene la parola giusta … scusami”. Era la prima volta che Nikolett udiva rivolgerle un complimento senza riserve. Sebbene non ne avesse sentito finora la privazione, ne era contenta, perché Juan, le pareva, la riteneva persona capace, e di fiducia. Il volto di lui non aveva mai mutato espressione, e lei aveva iniziato a convincersi che avesse una stone face, una faccia da poker. Qualsiasi stato d’animo, emozione, sentimento traspariva solo se, quando e quanto lui l’avesse voluto. E non necessariamente corrispondeva al vero ... Si era alzata, richiudendo e riannodando l’accappatoio. Juan l’aveva trattenuta per una manica scuotendogliela: “Credo che i tuoi indumenti non siano ancora asciutti, e, comunque sono stati un bell’intralcio no? E’ meglio che ti metta un’altra delle mie camicie ... quella rosa a righe bianche ti stava bene … ora … potresti mettere quella azzurra …”, non si era aspettato una risposta, “comunque con quell’accappatoio addosso faresti una sauna”. Nikolett era avvampata, in forte disagio e impaccio. Come poteva sapere con tale precisione di particolari tutto quello che aveva fatto? Vabbé, che si fosse tolta divisa e indumenti intimi era intuitivo, indossava un accappatoio. Da questo era deducibile la doccia, con tutta probabilità dovuta al grande sudore. Quindi, indumenti ancora umidi. E la camicia? Come poteva sapere della camicia? E come lei avesse scelto quella e proprio quella? Ed anche cosa lei aveva fatto e gli aveva fatto? Non poteva aver finto incoscienza, e completo abbandonarsi. Non era ancora tutto. “Ah, ... non darti pena per il pagamento, e soprattutto per aver dovuto lasciare il mio passaporto al farmacista ... è normale, in casi come questo”. Nikolett era rimasta del tutto sconcertata, confusa, attonita. Come poteva sapere che lei s’era scordata il portafoglio, e non aveva dunque pagato i farmaci? Che il farmacista avesse dovuto trattenere il passaporto, OK, lo sapeva perché funzionava così; ma il pagamento? Poteva aver controllato il suo portafoglio, ma non quello di lei, che non era lì. Poteva quell’assenza essere stata sicuro indizio di conto non saldato? Di più, da dove la certezza che lei non avesse preso e poi riposto il proprio portafoglio nei locali del personale? Se non addirittura lì in camera, in un posto non visibile a lui?. Provava un certo fastidio a quella … invadenza, anche se non era il termine esatto, ma anche una non meglio definita benevolenza, gradevole, per il riguardo, l’attenzione e la cortesia che le mostrava, anche se in quel modo un po’ inquietante. Nei suoi occhi era passato una specie di lampo, che era scomparso prima che lui stesso se ne rendesse conto e potesse definirlo. Indecifrabile. L’aveva osservato per un poco, quasi diffidente, e aveva bisbigliato come tra sé e sé, ma pronunciando la frase proprio per lui: “… come farai a sapere tutto!”, una resa non una domanda. Juan aveva sorriso guardandola con occhi limpidi e trasparenti come acqua marina. Per un attimo lei aveva osservato con stupore quel sorriso. Aveva capito di non aver nessun motivo per lasciarlo lì solo, e ciò le aveva dato una ancor nuova speranza. Ciò che l’aveva colpita di più era stato quella miscela di afflizione e durezza. “Queste ferite”, aveva proseguito lui, quasi fosse obbligato a darle spiegazioni, “non sono state curate tutte con la dovuta tempestività, e qualcuna anche con professionalità approssimativa e mezzi inadeguati, e in ambienti … improvvisati … da disperati. Colpa di nessuno ... in quei frangenti ... Ogni tanto tendono a ricordarmelo ed a lamentarsi, risvegliandosi”. La voce era piatta, senza emozioni, un’esposizione neutra. Nikolett aveva abbassato gli occhi, chiedendosi ancore una volta come sapesse tutto quello che lei aveva fatto, e come fosse stata colpita dalle sue ferite, che stavano pulsando dolorosamente facendo contrarre i muscoli, fremere il corpo, e tremare anche lei. Aveva risollevato lo sguardo, il volto di Juan non era più terreo e tirato, il corpo molto meno rattrappito. Nikolett era rimasta allibita da quelle affermazioni, quasi più che dalla familiarità con il dolore, con la sofferenza, tali che l’avevano abituato a farvi fronte da solo al primo cenno di pericolo. Non trovava tutto ciò coraggioso ma triste, un’assenza di affetti intimi. Non sapeva se fosse per un suo carattere solingo, per conservar sua pace, o per il non trovar conforto e sostegno in altri. Già l’averlo, Anabel, moglie amante o capa che fosse, lasciato lì, solo, quando pur aveva avuto i primi sintomi di un malessere che a lei doveva pur esser ben noto ... NO, non voleva trarre conclusioni troppo affrettate, ma tutto le sembrava così strano. O forse lo era per lei, perché ne faceva la prima esperienza? Juan aveva proprio abbandonato, dimenticato la mano nella sua. “Puoi metterti qui, accanto a me ...”. Nell’accorgersi che la camicia di Juan che lui le aveva scelto aveva accentuato –invece di nascondere- l’esuberanza del suo seno, e di tutto il resto, era arrossita, tenendo gli occhi bassi: “Non sappiamo praticamente nulla uno dell’altra ...”. Aveva rialzato gli occhi rivolgendogli uno sguardo di grande orgoglio. “Ah, potrei aver bisogno di un’altra iniezione ... questi attacchi ... accessi di dolore, sono subdoli ... traditori ... ”. “Cioè?”. “Ti sto chiedendo di restare qui … con me, stanotte”. Lei era andata all’altro lato del letto. Juan si era sporto verso di lei, “Sicura? al di là di ogni ragionevole dubbio …?”. “Perché?”. “Perché puoi rischiare di compromettere la tua posizione … una ragazza bella come te rischierebbe di non apparire del tutto credibile nei panni di Florence Nightingale … tanto più che panni ... poco niente”. Nikolett era arrossita di nuovo, aveva chinato la testa, esitando. “Tanto il danno è già fatto. Mi hanno già licenziata.. … Se poi alludevi a … ad altro … nelle tue condizioni …”. Juan aveva sorriso e scosso la testa, guardandola sorpreso, a dire come l’obiezione era tanto banale da non meritare risposta. Una voce gli era però dal sen fuggita: “Beh! … una donna bella come te ... non è poi detto … Hai già fatto miracoli. Per il licenziamento mi spiace tanto, comunque no problem, rimedio … promessa”. Nikolett era arrossita, sbigottita, interdetta.
L’improvviso vibrare del cellulare e la sua suoneria, al minimo ma con il comodino che aveva fatto da cassa di risonanza, li aveva colti di sorpresa. Juan si era guardato intorno e i suoi occhi avevano incontrato quelli di Nikolett. “Meglio che risponda tu”, le aveva detto con calma, senza mostrare alcuna difficoltà. Automaticamente lei aveva allungato la mano tenendolo come fosse potuto scoppiarle in faccia da un momento all’altro. Sul display aveva letto: A.B. ... Anabel Blanco, presumo”. Aveva d’impulso fatto cessare quel ronzio molesto: “Sì …?”, con voce bassa e titubante. “Oh! … ommìoddìo! ... ha avuto la crisi!”. Nikolett le aveva risposto che sì, che era stata abbastanza violenta, aveva riferito concisamente quanto era successo, rassicurandola alla fine come ora fosse tutto sotto controllo. “Non so come sia potuto succedere”, era sinceramente sorpresa e preoccupata, ”non avrei dovuto lasciarlo, in genere se la cava da solo, non ha mai avuto una crisi così improvvisa, e, da quel che mi dice violenta”. Nikolett aveva rammentato le parole di Juan: in genere me la cavo da solo. “Chi avete chiamato?”. Nikolett le aveva rispiegato tutto dall’inizio, con calma, nel modo più semplice e chiaro possibile, chiedendosi alla fine se avesse dimenticato qualcosa. Lei le aveva chiesto con chi stava parlando. “Mi scusi … sono Nikolett, Nikolett Pòsàn, la receptionist“. “Sì, mi ricordo. Così ora lo sta assistendo lei …”. Un’affermazione: aveva capito finalmente! “Sì, e per questo perderò il mio lavoro … anzi l’ho già perso. ”Ma com’è possibile?!”, la voce di Anabel era indignata. “Ho abbandonato il mio posto di lavoro, senza il tempo per giustificarmi”, aveva sospirato, sgravata dal peso. “Non si preoccupi, la ripagherò … ma posso pregarla di rimanere con Juan fino a … a quando sarà necessario? Ho capito che ha fatto molto, le sono immensamente riconoscente … ora non posso fare di più … da qui non posso proprio muovermi … glielo confermerà Juan stesso …”. “L’avrei comunque fatto”, l’aveva interrotta Nikolett, piccata, con una punta astiosa. “Signorina … “. “Nikolett”. “Grazie, Nikolett … le ripeto che le sono enormemente grata, non volevo offenderla … solo rassicurarla che non la lascerò a piedi … Anzi …” –l’idea doveva esserle venuta all’improvviso, apparendole anche come la migliore e più appropriata … come aveva fatto a non pensarci subito … - se vuole accettare … mi farebbe molto piacere … potrebbe considerarsi da subito al nostro servizio … cioè … mi scusi –si era accorta della gaffe- nostra assistente … ecco, assistente …”. “La ringrazio … ma non se ne faccia un problema ora … ne parlerò con Juan, e vedremo. Comunque … la ringrazio molto”. Aveva chiuso la comunicazione con rabbia. Aveva sentito una sensazione dolorosa di rancore che l’adombrava. In lei si era insinuato il sospetto che dietro tutte quelle parole non ci fosse proprio nulla. Anabel aveva sicuramente sproloquiato, profondendosi in promesse che non aveva già la minima intenzione di rispettare. Le era importato solo mettere subito una pezza allo strappo. Poi, per prima cosa, si sarebbe affrettata a buttare il vestito strappato e comprarne uno nuovo. In ogni caso aveva preferito non affrontare in quel momento quel problema con Juan. Nikolett si era seduta sul letto, accanto a Juan, per rispondere alla chiamata. Era girata per metà nella direzione opposta, e era rimasta sorpresa quando Juan le si era rivolto, “Sono molto orgoglioso di te”. Si era voltata verso di lui, era così vicino, e sembrava mangiarla con gli occhi. Lei sentiva il suo respiro, aveva sentito il cuore salirle in gola. Nei suoi occhi aveva visto uno scintillio. Sembrava emanare ondate di calore ... o forse era soltanto effetto dei farmaci?”. Si era accovacciata di fianco a lui, senza perdere il suo sguardo. Juan le aveva fatto scivolare una mano tra i capelli, un sorriso gli sfiorava gli angoli della bocca. “In ogni caso, sono contento che tu sia così ragionevole e per bene”, aveva mormorato, “Almeno potremo restare amici”. La risposta era stata piatta, senza calore né entusiasmo, “Sì, è magnifico”. Per qualche istante erano rimasti in silenzio, limitandosi a guardarsi. Poi lei aveva riso sommessamente, e si era sdraiata sul letto.
RISVEGLI. Un tale, non riusciva più a ricordare chi fosse stato, le aveva detto che, risvegliandosi la mattina presto, era meraviglioso trovare, almeno nel complesso, tutte le cose allo stesso posto dove erano rimaste la sera prima. Dormendo e sognando si sarebbe stati, almeno in apparenza, in uno stato essenzialmente diverso dalla veglia e –come le aveva detto giustamente quel tale- ci sarebbe voluta una sconfinata presenza di spirito o meglio di prontezza, per afferrare, aprendo gli occhi, tutte le cose, per così dire, nel medesimo posto dove le si erano lasciate la sera. Perciò il momento del risveglio sarebbe il più rischioso della giornata; una volta superato senza essere stati trascinati via dal proprio posto, si sarebbe potuto restare tranquilli per tutto il giorno. Nikolett era stata molto contenta di poter lasciar vagare i suoi occhi, anche se arrivavano soltanto a scorgere una brevissima cerchia. Il buio la opprimeva, già più volte comprendendone l’inutilità aveva guardato verso l’alto e dal buio aveva visto volare, per così dire, le tenebre contro di lei da ogni parte. All’orizzonte s’era acceso un bagliore, che aveva illuminato soltanto il soffitto, scendendo poi lungo le perderti, fino al pavimento. Di colpo tutta la stanza era diventata chiara, e fuori la luce si stava intensificando ancora. Per lei era stato molto piacevole, così che era rimasta lì scoperta ed esposta, nel luogo poc’anzi così sgradevolmente oscuro. Era rimasta sdraiata a guardare il giorno nascere aprendo uno squarcio nel cielo. Le tende non erano chiuse, aveva potuto vedere l’alba tingere le cime delle colline. Chiudendo gli occhi aveva pensato a Juan. Si era girata su un fianco e tirata su il lenzuolo fino al mento, domandandosi in quali mondi sconosciuti stesse per entrare. Si era sentita sollevata, non aveva avuto nessun calo d’umore, come aveva pensato dovesse succedere. Anche se la notte le aveva lasciato una sensazione di vuoto. Era rimasta ancora qualche istante immobile a letto avvolta dal silenzio, che percepiva come rassicurante e rasserenante. D’altra parte con l’illuminazione ci sarebbe stato da aspettarsi il risveglio di Juan, che certo non sarebbe mai sceso dal letto brancolando nel buio. Si era lasciata cullare dalla calma che empiva la camera. Non aveva trovato altro che gli stessi pensieri, che stavano continuando a volare in circolo nella sua mente. L’ideale per girare in tondo imbattendosi continuamente in se stessa. Aveva tentato di concentrarsi su qualcos’altro, ma le era sembrato di buttarsi alla cieca in qualche buco giusto per nascondervisi. D’un tratto aveva avuto l’impressione che il vero problema fosse tutta la sua vita. Aveva corso come una pazza, ma era stato come correre su una pista circolare: aveva continuato a passare davanti alla stessa tribuna, e ogni volta le era sembrato di avere sempre meno vie d’uscita. Aveva trovato l’aiuto giusto per andarsene di lì, volando diritto, e non illudendosi di farlo sorvolando sempre la stessa maledetta situazione. Aveva bisogno di riordinare i pensieri, di calmarli. ‘Chiedi il suo aiuto. E accettalo, fa qualsiasi cosa, di qualsiasi cosa si tratti. Non hai niente da perdere. Conosci la tua età vero?!’. Sì, certo, la conosceva, non occorreva che se lo ripetesse. Ma cosa significa accettare qualsiasi cosa? Nella vita non aveva mai cercato di imporsi sfruttando unicamente le proprie doti fisiche, aveva talento. Significava andare a letto con Juan? ‘Beh, non mi spiacerebbe … cioè, nel letto ci sono già … Scopare con lui … sì, mi … non so, mi affascina, ma non è solo questo, non so come dirlo … non ancora. Dopo, forse. Se l’era detto sorridendo. Si sentiva fiduciosa, anche se il suo cuore stava battendo più veloce del solito. ‘Non so perché, con Juan me ne sta pungendo vaghezza … mi sentisse mamma! Non sono pensieri da ragazza perbene …. OK, con Juan … non so perché … penso sarà il modo più piacevole … E sono sicura che poi … lui … non permetterebbe che altri … Comunque voglio lottare fin dove è possibile’. Aveva avuto la consapevolezza che c’erano molte ragazze dotate di talento, ma per tutta la vita aveva fantasticato su un momento come quello: avere un’audizione, e lavorare alla scuola del grande maestro. Se non fosse riuscita ad arrivare oltre quell’incontro, se fosse dovuta tornare a casa a mani vuote, avrebbe potuto sempre dirsi che era arrivata fin là per un paio di peculiarità del suo carattere: integrità e perseveranza. ‘Integrità!? E come la mettiamo con Juan? … Beh, non rientrava nel programma, lui … con lui … è un’altra cosa. Quest’uomo deve avere conosciuto i dolori dell’inferno, e sento che il suo animo è … aspetta, come dice Dante? … Virgilio, d’Enea parlando, in sua maggiore lode pietoso lo chiama … o giù di lì … Scommetto che è un uomo che non ha paura di piangere … di piangere come una donna … e, aspetta, è in uno dei quattro libri ebraici: Dio ama le lacrime delle donne, perché hanno conosciuto tutto il dolore del mondo … sì! … Se fosse solo per le cose che ho mandato a memoria, meriterei il posto di primadonna. Mah! Un’accozzaglia … uno zibaldone medioevale … di tutto un po’ …’. All’improvviso aveva sviato lo sguardo da Juan, perché le era venuta una gran voglia di piangere. In quel momento aveva visto scorrere davanti agli occhi tutta la sua vita. Gli anni in cui aveva cercato invano un contatto, in cui aveva bussato a porte che non si erano aperte, in cui aveva chiesto senza mai udire una parola di risposta; solo indifferenza, come se lei per il mondo non fosse esistita. Nella testa le stavano ronzando tutti i NO ascoltati quando qualcuno si era reso conto che, invece, era viva e meritava almeno una risposta. ‘Non posso piangere!’. Sapeva di dipendere da Juan. Per un lungo periodo della sua vita aveva avuto problemi a rapportarsi con gli altri. Aveva faticato molto per imparare questa lezione, ma, alla fine, aveva capito l’importanza del prossimo nella sua vita. E lui era il suo ultimo prossimo. Non aveva più bisogno di fingersi forte, e questo le stava procurando una grande tranquillità. ‘Compiere una scelta è forse la cosa più difficile nell’esistenza di un essere umano. Oh, devo ammettere che sul lavoro di attrice sono cascata anch’io in molti luoghi comuni … il più delle volte pregiudizi infondati, ma anche tanti miti da sfatare. Ci si ritrova catapultate in una realtà aspra e dura … scivolosa. Immagino anche sia piena di trucchi, trappole e insidie, oltre che di percorsi ad ostacoli. Eh sì, diciamolo pure, non è un lavoro facile: sempre di corsa per presenziare a tutti gli eventi possibili … perché le vere opportunità sono poche, tantissime le ragazze, alta la concorrenza e quindi sempre più miseri i compensi. A ventitré anni, qualsiasi ragazza si sentirebbe, a buon diritto, nel fiore della propria giovinezza, mentre in quell’ambiente si vive l’amara consapevolezza di essere già vicine alla fine della carriera. Ai casting si ritrovano circondate da ragazzine sempre più giovani, dai corpi ancora acerbi e con i volti che spesso trasudano innocenza. Non ci sono mai orari né festività … a Teatro poi … Anche dopo dieci lunghe ore di prove, riprove, sarti,truccatrici, si deve dare il meglio, sorridere, esser disponibili e concentrate. E in diretta … buona la prima. Altro pregiudizio e tasto dolente: ma chi l’ha detto che le attrici non devono mangiare?! Nell’immaginario si è formato uno stereotipo: devono essere magre come chiodi, infelici e sole. E va bene se al massimo ti offrono un’insalata e una coca light. No, ti offrono di tutto e di più, ma il tuo corpo deve corrispondere al physique du ròle. A volte diventando a geometria variabile, come Renée Zellweeger quando deve interpretare Bridget Jones, e quando invece, che so … Ritorno a Cold Mountain. A dirla tutta ne ho conosciute che agli inizi erano troppo magre e senza forme, ma poi il corpo cambia, si sviluppa naturalmente e quando non è più quello di una teenager, te lo fanno pesare. E’ un’indecenza. Non solo per loro, soprattutto per una quantità di ragazzine che vogliono imitarle sperando di diventarlo anche loro. Un’attrice … ma anche una modella, dovrebbe essere il ritratto del benessere, della salute, il simbolo di una bellezza sana. Questo sarebbe il messaggio più corretto da lanciare. E invece no. Per essere belle, … ma il criterio vale poi per tutte e tutti, come un letto di Procuste, si deve essere magre … e più si è magre più si è belle. E così, dalla… anoressia alla bulimia … malattie che dovrebbero spaventare al solo pronunciarne la parola, ma esistono tante e tante colleghe, tanti miti o simboli da imitare, che ne sono succubi’.
‘Stare sdraiata fianco a fianco con lui può cambiare il mondo’. La testa dl Nikolett era appoggiata sul petto di Juan. Si era raggomitolata contro di lui, e le sembrava di essere tornata sedicenne. L’aspetto straordinario della situazione, era che le piaceva stare a letto con lui, e, nel contempo, si sentiva appagata, perché non era successo nulla. Intanto, Juan girava gli occhi per la stanza, fingendo di aver colto solo allora la presenza accanto a lui, nel letto. Era rimasto immobile. Stava zitto, l’aria di chi cercava di decifrare la scena che si era trovata di fronte. Muovendosi leggera come una piuma, Nikolett si era alzata, aveva attraversato la stanza, aveva aperto la porta a vetri e aveva salutato il mare, le dune, il rumore delle onde sulla sabbia. Sì, stare sdraiata fianco a fianco con Juan poteva cambiare il suo mondo. Era tornata a letto, e aveva appoggiato la testa sul petto di lui, le gambe raccolte a sé. Non era affatto semplice trovare pensieri razionali sulla sua presenza lì, riflettere sul perché era sdraiata sullo stesso letto con un uomo che conosceva da ... da quanto? Da meno di ventiquattr’ore, invero. Mentre rifletteva su come dare un ordine, un senso logico a tutta quella incoerenza e ... insensatezza, aveva visto nella sua mente uno stormo di pensieri che giravano in tondo, blaterando mentre descrivevano le loro evoluzioni, e le loro metafore. Si era sollevata un poco, in modo da poter guardare Juan in volto. Aveva gli occhi semichiusi, e aveva arricciato il naso, in un’espressione che le era piaciuta molto. Poi le aveva detto: “Ci sono pensieri che sono come le oche selvagge. Alcune vengono e altre volano via. E poi ce ne sono altre che girano in tondo”. ‘Porca miseria, ma ... ma sa leggere nel pensiero?! Nei miei ci riesce benissimo ... come accidenti farà?’. Ma aveva detto: “Che vuoi dire?”. “Che a un certo punto, dovresti imboccare una direzione”. “Io non giro in tondo!”, aveva protestato, senza troppa convinzione. Voleva arrivare a capire dove lui stava andando a parare. “Invece è così ... forse non ti sembra così perché compi giri abbastanza ampi che a te ... e agli altri, non so a chi tieni di più a dimostrarlo, sembrano una direzione”. “Trovo tutto molto astratto”. “Perché stai qui, in questo Hotel?”. “Per lavoro, intanto che ...”. Juan l’aveva fermata solo scuotendo la testa più volte, per significare un NO. “No, non è per questo ... non raccontarmi favole. Non ti piace fare questo, e non sei come fingi di essere. Né tosta come cerchi di presentarti. Né contenta ... e certamente non eri qui per farmi da infermiera”. Niki aveva sussultato. La sua mente si era concentrata sull’assurdo ... quella era un’affermazione cui doveva rispondere con serietà ... o forse no? “Ma è quello che faccio”, aveva risposto caparbiamente. “Non lo metto in dubbio. Dico soltanto che non sei qui per questo. E’ capitato, e tu mi stai vicino ... ma per altro. Giusto?”. “E’ una fesseria!”. Juan le aveva cinto le spalle e l’aveva attirata a sé. Nella leggerezza del bacio il sole si era alzato allo zenit e lì si era inchiodato. Niki aveva incrociato le braccia sul petto di Juan, vi aveva appoggiato il mento, e gli aveva rivolto uno sguardo di grande fierezza. “Mia madre mi ha consigliato di parlarne con te. Da quando le ho detto che eri qui non ha mai smesso. E del resto anch’io non posso darle torto … sul tuo giornale scrive Heinrich Shiller … e a volte anche tu ti occupi di spettacoli … sicuramente lo conosci … e sai …”. Aveva di nuovo abbassato lo sguardo, e si era persa, ancora una volta in pochissimo tempo quella mattina, nel pensiero che stare così, a fianco a fianco, avrebbe potuto cambiare il mondo. Avevano mantenuto entrambi il controllo. Il controllo, però, aveva subito pensato, è quello di cui si ha bisogno per perdere il controllo nel momento giusto. Non aveva ben chiaro cosa sarebbe successo dopo quella notte da Sherazade, ma sapeva che non era quello il momento in cui lasciarsi andare. Anche se non era mai possibile programmare o pianificare sui sentimenti. Era rimasta lì, rannicchiata vicino a Juan, che aveva iniziato a carezzarle la nuca. Juan: “Ci posso provare. Dovrò convincere Rich che ho una grande stima di te, perché ti conceda l’alto privilegio di un’audizione … ammesso che si possa chiamarla tale”. Nikolett aveva chinato modestamente il capo: “Conosco le mie capacità, e le mie doti”. Aveva accantonato la domanda sul: ammesso che si possa chiamarla tale. ‘Accidenti, devo iniziare a scrivere le cose che devo chiedere perché stanno diventando tantine!’. “Una bravissima attrice, e in più bellissima: una combinazione rara. Rich comunque non ha la tendenza a perdonare il più piccolo errore, intendiamoci. In ogni caso è in difetto con me … Oh non intendo certo far leva su questo per favorirti … non lo farei … e se anche lo facessi sarebbe un karakiri, ma me ne ha combinata una … beh, inutile dirla, non c’entra nulla …”. Lei si era sporta verso di lui, incredula: “Davvero lo faresti?”. Non aveva preso nota di quest’altra allusione a chiarire: ma me ne ha combinata una. L’intensità della gioia, la vivacità dell’euforia, avevano cancellato tutto. Juan, senza alcun sarcasmo: “Senza dubbio alcuno, prima dovrai convincere me. Che cosa ti fa pensare di riuscirci?”. Nikolett si era sentita sicura. Juan sapeva apprezzare e rispettare le donne. Glielo aveva fatto capire il suo modo di parlare, di comportarsi, di esprimere o cercare di nascondere le sue emozioni.
VERRÀ GIORNO IN CUI ... “Perché ... perché hai ragione. Finora non sono stata abbastanza adulta da andarmene”, aveva ridacchiato, d’imbarazzo, “Ho trovato una bella struttura circolare, per girare in tondo. Il problema è che qui m’imbatto continuamente in me stessa. A ogni angolo incontro qualcuno che conosco, ma alla fine è sempre me stessa che incontro. Può essere bello o brutto ... nel mio caso un disastro, sono un’oca che non è mai emigrata. Mi sono sempre cercata qualcos’altro, per allontanarmi da dov’ero, e ogni volta ho ritrovato tutto ... una vera catastrofe. Non mi riesce niente, ovunque sono in agguato delusioni e guai. Corro come una pazza, ma corro su una pista circolare: continuo a passare davanti alla stessa tribuna, ogni volta mi sembra di avere meno vie di uscita. In più, i consigli degli amici non sono più tanto originali. Così, un bel giorno dovrò ammettere la sconfitta. Finché mi sono ... mamma mi ha convinta che le cose potrebbero andare a meraviglia e che potrei comunque essere più felice altrove. Se facessi le valige ... e potessi andare da Schiller ... altrimenti prima o poi mi calmo, le aspirazioni svaniscono, non cerco più ... non tento più, perché vivo come ospite di me stessa, e delle mie insoddisfazioni, e sarò sempre amareggiata, e non ancora abbastanza ... non giovane per esserlo. Con l’età sono già al limite ... un paio d’anni e disillusione e frustrazione si faranno vive come vecchie conoscenze che vengono a prendere il tè. E sarò quasi contenta di aver ritrovato quei complessi così familiari. Perciò non vivrò nemmeno malaccio, dopo tutto, e, senza neppure accorgermene, al massimo cercherò una nuova pista per girare in tondo, solo ... più ampia. Juan le aveva sorriso ... compiaciuto, “Puoi andare fiera di te, invece. Se hai capito tutto questo ... significa che puoi dare prova di un impegno di cui sicuramente non ti sospetti capace”. Niki si era tirata su, e poi si era chinata su di lui per baciarlo. I capelli le erano ricaduti sul viso, e per entrambi era stato come ritrovarsi sotto la chioma di un salice. “Questo non era nel conto”, gli aveva bisbigliato. “Lo so”, aveva risposto Juan sottovoce, “non ero preparato al fatto che stanotte potessi abbassare tutte le mie difese ... beh, credo sia più vero dire … quelle del mio orgoglio, e cedere all’idea di adottare il nuovo principio di lasciarmi soccorrere ed aiutare ... Deve essere stato per quanto sei seducente”. “Stai bluffando ... non sapevi che sarei venuta io ... eppoi non sono seducente ...”. “Nient’affatto. Sei straordinariamente bella”. “Non è vero”. “Invece sì Niki ... una donna è tanto bella quanto i complimenti che ha ricevuto. Quelli veri intendo ... quelli sinceri. E tu devi averli ricevuti tutti in una volta”. Con gentilezza le aveva arruffato la criniera , e quella massa di capelli aveva preso vita. L’aveva guardata strizzando un occhio, “Siamo in tempo per farci portare la colazione in camera?”. Niki l’aveva osservato, “Non è ancora troppo tardi ... almeno credo”. Si era girata, interrompendo di malavoglia quel momento di quiete, ed era andata in bagno per regalarsi una doccia. Non ne aveva avuto il tempo. Aveva sentito Juan muoversi e brontolare qualcosa, ed era uscita subito per avvicinarsi al letto, neppure tentando di mostrarsi pudica. Nuda era uscita dal letto, nuda era rimasta. Juan aveva ruotato le spalle, e stirato le braccia sopra la testa, lasciandole poi ricadere. Aveva scostato il lenzuolo, con una mossa che era stata un primo tentativo di alzarsi. “Dici che riesco a fare una doccia?”. “Certo … vuoi che ti aiuti?”. Lui era riuscito a sedersi buttando le gambe … Si era fermato, e lei gli si era avvicinata per stringerlo e aiutarlo. “Sei bellissima … stupenda. Sei appena uscita dallo spumeggiare delle onde del mare?! Sì, più stupenda della Venere del Botticelli”, la sua voce era ancora roca. Improvvisamente Nikolett si era spinta verso di lui e lo aveva baciato sulle labbra. Un bacio leggero, ma fascinoso. Erano rimasti a lungo così, abbracciati, sorpresi e stupiti del loro gesto spontaneo quanto avventato, impulsivo quanto sconsiderato. Poi, Juan aveva cercato l’equilibrio e l’energia per muoversi, non da solo, sempre aiutato da lei. Era riuscito, e lo sforzo maggiore era stato quello di vincere la forte vertigine, alzarsi, e percorrere la stanza fino alla stanza da bagno. Sempre assistito da Nikolett, aveva tentato di mettersi da solo sotto il getto della doccia. Non ci era riuscito. Avevano dovuto fare la doccia insieme. Avevano trascorso venti minuti buoni sotto il getto d’acqua. Avevano dovuto. Dovuto … Se qualcosa di doveroso c’era stato, a parte l’igiene, era stato quietare i bollenti spiriti. Insomma, loro malgrado, indipendentemente dalla loro volontà, era stato loro d’obbligo. Suvvia, usiam loro indulgenza. Finito, si erano poi messi a sedere al tavolo.
Durante la colazione, Nikolett aveva dovuto sforzarsi di non sorridere di continuo. Di rado le capitava di essere così assonnata, e di rado si era goduta la cosa così tanto. Quell’uomo così bello la stava guardando come se preferisse mangiarsi lei piuttosto che il pane tostato, ben imburrato e ricoperto di marmellata: rigorosamente burro salato e marmellata di arance amare. Nikolett aveva preso nota, mentre gli angoli delle labbra di lui guizzavano, pronti a esplodere in una risata. Quella mattina avrebbe volentieri recuperato ciò che si era negata durante la notte, ma Juan si stava comportando da arrovellarcisi, non esponendosi in nessun modo, anche se qualsiasi osservatore non del tutto disattento, avrebbe saputo interpretare gli sguardi di si scambiavano di continuo. Nikolett si sentiva battere forte il cuore. Era eccitante stare con lui. Esercitava un fascino inspiegabile su di lei. Quasi inspiegabile. Al suo orizzonte non si delineavano prospettive particolarmente allettanti per quello che era convinta fosse la sua ultima chance. Mettersi con lui solo per quello la trovava una perfetta idiozia. D’altra parte, sarebbe stata un’idiozia ancora più grande, più peggiore, se era quello il prezzo del biglietto. La giornata stava scivolando via lenta e indolente. Juan mostrava ancora segni di prostrazione fisica, di grande stanchezza per i postumi degli antidolorifici oppioidi. Anche Nikolett si sentiva sfinita. Era passato il farmacista, non solo per riportare il passaporto e ricevere il dovuto. Aveva, anche, con scrupolosa sollecitudine, portato con sé sfigmomanometro, stetoscopio, martelletto, abbassalingua e pila a matita, in una borsa floscia da “doc” del vecchio west. Mancava solo la tradizionale fiaschetta di whisky. Forse. Pur non essendo un medico, si era premurato di esaminare lo stato generale di Juan, dando un responso fausto di soddisfacente recupero. Non aveva posto domande sulle cicatrici sulle quali il suo sguardo si era soffermato quell’attimo in più che tradisce lo stupore e l’interesse. Juan gliene era stato molto grato. Nikolett aveva chiamato al telefono la madre, e poi una collega che avrebbe preso servizio quella mattina, accordandosi perché mamma le preparasse, e la collega passasse a ritirare per poi consegnarglieli in albergo, alcuni capi d’abbigliamento con cui sostituire la divisa, nonché –non metterebbe conto dirlo, tanto era prevedibile e certo- tutto il necessaire. Al momento aveva preferito un paio di calzoncini e una canottiera in cotone, e, ai piedi, delle infradito. Il reggiseno era un capo estraneo al suo guardaroba, e poteva comodamente e serenamente permetterselo, salvo che per ordini di servizio. Un servizio, però, non l’aveva ormai più. Si erano fatti portare colazione e pranzo in camera, passando il resto del tempo a discorrere, liberi da pensieri e affanni, serenamente dediti a qualche svago. E gioco. Forse non c’è altra parola per descrivere questo particolare momento. Apparentemente disimpegnati, il che vale a dire impegnati in attività sottratte a ogni pressione, obbligo, norma, condizionamento ... Disimpegnati veramente? Disimpegnati oppure in attesa? Era una parte dello sviluppo della capacità relazionale tra i due, di aggiustamento dell’interazione, davvero cruciale. Non s’impegnavano, ma non si stavano inibendo. Trattenevano contemporaneamente una risposta conformista e una antagonista. La capacità di farlo era questo punto critico: si stavano invitando. Non incitando, ma reagendo ai segnali che si stavano mandando. Poteva sembrare, di solito si usava dire, che in questo gioco fosse necessaria ben poca capacità di concentrazione. Eppure si stavano dando continuamente un auto-feedback, un’autostimolazione, che era pure un messaggio. Sempre. Il disimpegno avrebbe creato una barriera, avrebbe escluso. Non avrebbe avuto senso discutere in termine di quale finalità spingeva l’uno e l’altra. Possiamo solo vedere che cosa stava succedendo fra i due. Qualunque cosa uno faccia, sempre, in ogni epaca, è una segnale per l’altra. Non c’è disimpegno, non c’è nulla di simile; sempre che non si dica che è disimpegnato il rapporto reciproco. E non so che cosa potrebbe significare. Credo che si debba fare molta attenzione a usare la parola finalità, che mi pare molto scivolosa e alquanto ambigua. Il concetto di finalità spesso nasconde l’ignoranza dei fatti. E’ uno dei motivi per cui si fa confusione, ci si perde nel labirinto dei riferimenti e nel moltiplicarsi delle piste. Ci si mette alle prese con contraddizioni insolubili, con dubbi e incertezze di cui non si verrebbe più a capo. Questo gioco, per essere possibile, ha bisogno di una serie di regole sue proprie, ma di regole paradossali, che, se rispettate fino in fondo, finirebbero per ottenere l’effetto opposto, per chiudere in una rigidità che non permette né gioia, né fantasia, né creatività. In altre parole, che non permette la vita stessa del gioco. Che ha bisogno invece di atmosfere, di sfondi, di un insieme di circostanze, condizioni e aspetti in cui si possa agire. C’è bisogno di pasticci, d’intersezioni, di agio. Di aggio. Strutture, inquadrature, cornici che ammettano piena libertà, su cui basare una logica più simile a quella dei sogni che a quella della scienza o della filosofia. Una logica che colga la natura ambigua delle cornici apparenti, delle pellicole dell’esteriorità. E’ come un anello di fumo, che si avvolge all’infinito su se stesso, girando sul suo asse. E questo suo avvolgersi intorno all’asse su cui si ripiega, è quello che conferisce un’esistenza propria dell’anello di fumo. E ha proprie caratteristiche, chiara definizione, esatta percezione e un certo grado di sublimazione, che solo per la virtù di chi sa starvi ripiegato all’interno assumono sostanza, opportunità, giudizio, evoluzione. Non mette conto riportare cosa avessero fatto in quel giorno, perché il significato era segreto, il senso in un codice cifrato noto solo a loro perché da loro creato. Con la semplicità e il candore dell’improvviso, inaspettato e vivo stupore che produce la scoperta che non rivelava ciò che era nascosto, ma palesava ciò che finalmente sapevano guardare con occhi diversi. Senza dover indossare maschere, attenersi a ruoli, rispettare convenzioni, senza preconcetti o pregiudizi, senza precauzioni, circospezioni, cautele. Sarebbe azzardato avere la pretesa di stabilire se a dominare fosse il godere di quel reciproco e pieno rivelarsi, o non, invece, della libertà che in cotal guisa già l’antiche genti, si crede essersi godute al secol d’oro. Se mai qualcuno fosse colto da pazza idea, e insana, di videoregistrare quei momenti per poi poterli rivedere, così come si usa racchiudere in un filmato ricordi ed emozioni, come invece un tempo si usava cogliere un fiore e riporlo tra le pagine di un libro per conservare un attimo d’intensa emozione provato, rimarrebbe perplesso, stupirebbero nel vedere quelli che credeva incanti essersi fatti sciocchi, quasi credesse questa passione piacevolissima d’amore solamente nelle sciocche anime de’ giovani capere et dimorare. Non meno importante era l’esigenza di iniziare la conoscenza percependo la consistenza dell’altro, scrutandone la cifra del modo d’agire, leggendolo col far scorrere le dita sulla sua superficie interiore, senza avere una chiara idea di cosa fare ma facendolo, scandagliando le profondità dell’animo, liberando il terreno col rimuoverne le mine, senz’altro rivelatore che la punta di una baionetta che solca leggera prudente e circospetta la terra. Affioravano così, con attenzione e riguardo, le particolarità dei caratteri, l’inclinazione delle preferenze, le propensioni degli stati d’animo, i criteri di valutazione. Ognuna, una alla volta, le maneggiavano con pazienza, ne cercavano l’incastro che permettesse di comporre il quadro, smussando gli spigoli, attenuando i toni, mitigando le dissonanze, schivando dissidi. Quanto alla diversità, non senza grandissimo rovellar guatata lungamente e riconosciuta fu mai qual più diversa e nova cosa in qualche stranio modo molto magnificamente onorevole. Insomma, costruendo fondamenta comuni di affinità, affettività e condivisione, finché nonfossero sufficientemente solide da reggere le diversità, soprattutto le meno o non mediabili. Fino a riconoscerle come un dono reciproco, che fa più ricchi di doti e migliori, e non temerle come limite se non danno personale o contaminazione dell’identità. Il giorno era finito per unirsi agli altri giorni. Il mondo non diceva mai altro che una cosa sola: interessa e poi stanca. Arriva sempre un momento in cui, a forza di ripetere, conquista, e ottiene il premio della sua perseveranza. Giorni tessuti nella stoffa lussuosa delle risa e dei gesti semplici, che si stendono e sdraiano sulla notte gonfia di stelle. Nel cielo ardente e segreto Nikolett e Juan avevano visto brillare il volto della notte scura, e le stelle farsi più grandi, poi più piccole, scomparire e rinascere, intrecciando tra loro instabili figure e congiungendole ad altre.
SILENT NIGHT. Nel silenzio la notte aveva ripreso il suo spessore e la sua carnalità, piena dello scorrere delle sue stelle. Avevano abbandonato gli occhi ai giochi delle sue luci che avevano dato loro lacrime. Ed entrambi, tuffandosi nella profondità del cielo, avevano ritrovato in quel punto estremo il pensiero tenero e segreto che costituiva tutta l’intimità della loro vita. Nikolett aveva allungato una mano e l’aveva accarezzato, sfiorandolo con tenerezza: “Sei dolce”. Gliela aveva posata sul braccio con un gesto rapido, che aveva voluto significare un’infinità di cose: grazie, conta su di me, d’accordo. Juan si era sentito spinto a darle un bacio, lieve, sulla guancia. Un semplice slancio, un’espressione di gratitudine. Aveva letto nei suoi begli occhi lo stupore, ma anche altro: il dolore. Ed era rimasto stupito dalla calorosità con cui lei l’aveva abbracciato e baciato, qualcosa di più di quello che lui le aveva appena dato. Poi lei aveva distolto lo sguardo, imbarazzata. “Mi vergogno a confessarlo”, gli occhi bassi, “ma temevo che la mia richiesta potesse apparirti priva di valore. Ho perso un po’ di fiducia, mi era sembrato inutile avvicinarti …. In fondo io già speravo di avere un’occasione … poi è andata così …”. Juan: “Non mi pare … cioè, non credo proprio sia utile che tu seguiti a condurre questa vita sospesa, come un adulto che si nutre di cibi da bambini; credo che questo sarebbe mal fatto e indegno di qualsiasi sacrificio”. Nikolett, sollevata e lieta, decisa: “Io sono nata per fare teatro, per recitare a teatro, ma quello vero. Mia madre ha sempre detto che le possibilità di sfondare nel mondo della celluloide le sembrano molto più concrete di quelle del teatro, che per lei resta una favola. Ma per me recitare è vitale, tangibile e immanente come l’aria che respiro, che mi colpisce col vento. Già a scuola ero un’aspirante drammaturga, i soli momenti in cui ero davvero felice erano quando studiavo un copione o leggevo qualcosa di teatro. Tutti mi hanno sempre detto che anche se avessi ottenuto qualche parte, non ci avrei guadagnato molto. Per me i teatri scolastici, e poi le piccole compagnie di provincia sono stati i migliori palcoscenici per imparare la drammaturgia, quella vera, creativa, non cervellotica … che ho provato a leggerne qualche copione, ma non ci ho capito niente. Così non ho trovato spesso delle parti, qualche ruolo ogni tanto. Non ci ho mai guadagnato più di 3-4.000 € l’anno, quando con cinema, tv, pubblicità, ne avrei potuto ottenere facilmente 12.000 il mese. Ho una memoria prodigiosa. Posso dire, senza falsa modestia, di essere camaleontica, so calarmi nei ruoli come possedessi lo spirito del personaggio. Ho anche un buon talento per accenti e dialetti … non che sia essenziale, ma …”. Juan: “E scommetto che non sei disposta ad accettare parti qualunque”. Nikolett: “Sì, sono testarda, vorrei fare l’attrice a tempo pieno, e so che lo so fare … E non ho alcuna intenzione di prostituirmi”. Juan: “Rich sostiene che ogni generazione ha talenti potenzialmente geniali, e a lui piace accettare solo allievi di talento per aiutarli ad affinarlo. Purché quando recitano siano assolutamente credibili. Sul palco non ci deve essere l’attore, ma il suo personaggio. Non so, dimmi tu: Tennessee Williams, Arthur Miller, i classici greci, Luigi Pirandello … ma anche altro …”, Nikolett l’aveva fissato, Look back in anger, di John Osborne … Milosz: Miguel Mañara, mistero in sei tabole, L’annuncio a Maria di Paul Claudel …”. Lui aveva fischiato di ammirazione, sgranando gli occhi, deliziati, colmi di gioia e piacere: “Credo che a Rich verrà l’acquolina in bocca … e i tuoi saranno molto orgogliosi di te”.
RICORDA, CON RABBIA. Lei aveva chinato il capo: “Mia madre, e mio padre ... certo. Anche mio fratello, fosse qui ... ma lui ... non c’è più”. Juan era rimasto in dubbio se superare quel confine, ma il suo istinto l’aveva spinto, infine: “Mi spiace, mi spiace tanto. Come?”. Ripensandoci, “Scusami … mi spiace ... non volevo”. “No, voglio che tu lo sappia … Devo cominciare dall’inizio. Imre, i miei l’avevano voluto battezzare Imre, in onore e memoria di Imre Nagy ...”, Juan l’aveva interrotta, “L’eroe e martire della rivoluzione del ’56, si sarebbe meritato un Nobel alla memoria”. Nikolett era rimasta sorpresa, molto piacevolmente sorpresa, “E’ fantastico quanto incredibile trovare uno che sappia di Nagy e del ’56!”, aveva premiato Juan con un grande bacio. “Comunque, Imre era più vecchio di me, avevo sedici anni e lui era già direttore di Banca. Papà aveva trovato lavoro in una fabbrica di Eternit”, Juan aveva sbarrato gli occhi e la sua fronte si era corrugata in modo tale da farlo sembrare vecchio; aveva già capito, ma non l’aveva interrotta. “L’hanno pensionato presto, per invalidità. Una pensione molto, molto modesta ... e il divieto di lavorare, pena vedersela togliere. Imre aveva studiato e lavorato, ed era riuscito, aveva avuto un ottimo lavoro. Io ho lavorato, studiato ... e poi mi sono messa a girare in tondo, finendo in questo cul de sac”. “Forse nel mio sacco ...”. “O tu nel mio?”. “O entrambi nello stesso? Per caso ... o per destino. Che importa? Purché ne usciamo ... ma scusami, continua”. “In Banca avevano subito una rapina da titoli a scatola sui giornali. Due milioni di Euro, mentre li stavano consegnando. Tutto era andato bene … cioè … nessuno si era fatto male. C’era ordine di non reagire a rapine a mano armata, ma, quella volta, c’era stato anche un errore da parte dei rapinatori … non si erano accorti che il capo cassiere aveva già avuto in consegna gli stampati con i numeri di serie delle banconote. Era come se avessero lasciato sassolini quasi invisibili … ma non a chi sapeva cosa cercare … dietro di loro. Un paio di settimane dopo erano state intercettate due banconote che risultavano nell’elenco. Ne era venuto fuori un mistero. Le due banconote non erano tra loro collegabili, né lo erano i possessori, che, oltretutto, erano insospettabili. Un vero rompicapo. Più o meno in quei giorni, subito dopo anzi, Imre è andato con la sua segretaria e un cliente di quelli che contano a bersi un caffè, una piccola pausa durante una … trattativa … credo si dica così. Si erano appena seduti a uno dei tavolini, quando sono arrivati tre malviventi … TRE ASSASSINI ….”, Nikolett aveva inghiottito con fatica e con pena le lacrime. “Portavano passamontagna, sono entrati, c’è stata una sparatoria … e hanno ammazzato tutti … tutti … cinque persone … barista, cassiera, i due con mio fratello … e … e lui, Imre. Così … per poche centinaia di dollari. La Polizia non è mai riuscita a spiegare perché i rapinatori avessero sparato. Hanno pensato che qualcuno avesse cercato di opporsi alla rapina, provocando la reazione dei bastardi. Il barista aveva un’arma sotto il bancone, ma l’hanno trovata al suo posto, e poi lui è stato ucciso lontano dall’arma. Imre sì, aveva una pistola … ma l’hanno trovato nella fondina … alla caviglia …, e ancora col cinturino allacciato. Hanno deciso che si era trattato di una rapina finita male. Eppoi Imre e i due con lui li hanno trovati accasciati sulle sedie o riversi sul tavolino … capisci … gli hanno sparato mentre erano ancora seduti … Alla fine hanno chiuso il caso come rapina finita male”. Nikolett si era presa una pausa di silenzio, per riprendersi, e come soffermandosi colma di tristezza su quel “finita male”, che aveva associato alla rapina, ma per lei era sempre e solo associata a suo fratello Imre. “Dopo alcuni mesi è iniziato a emergere qualcosa, di molto più grave e complesso. E’ stato intercettato un numero crescete di banconote che comparivano su quell’elenco, ma, come le prime due, non c’erano elementi … né indizi, non la minima ombra di sospetto, su chi li avesse usati. La Banca, con la Polizia che brancolava nel buio, si era rivolta a un’agenzia privata d’investigazione. Prima ancora che avessero potuto iniziare a indagare ci sono stati altri due morti, ammazzati. Due impiegate della Banca Centrale, quella che aveva inviato i due milioni, derubate, violentate e uccise. I due investigatori, un uomo e una donna, hanno subito sospettato di una rapina cui avevano fatto seguito ben sette vittime, delle quali quattro erano ricollegabili a quella. Anche sulle due impiegate della Banca Centrale nessun sospetto, e nessun movente. Uno degli investigatori … alla fine ... ha detto qualcosa che al momento non avevo neppure capito … mi era sembrata strana: “segui i soldi, cretino!”, e si era dato un pacca in fronte, perché stava dando del cretino a se stesso. Quella di seguire i soldi non l’avevo capita … ma anche gli altri mi sono sembrati scettici … fino ad allora proprio la pista dei soldi s’era rivelata un vicolo cieco …”. Juan aveva preferito non interromperla, anche se avrebbe voluto spiegarle che, molto probabilmente, l’investigatore aveva voluto dire che quei soldi si erano rivelati una pista sbagliata … quindi quasi sicuramente un depistaggio. E ci si sarebbe dovuti mettere sulle tracce di quelli veri. Anche se entrambi erano risultati essere non contraffatti. Quello era il momento di Nikolett, non il suo. “Si sono messi al lavoro e hanno trovato una … consonanza … sì ... sì, hanno usato questa parola”. Juan non aveva potuto sottrarsi, la spiegazione era d’obbligo: “E’ un’espressione gergale, nostra, significa che non è una coincidenza, delle quali comunque diffidiamo sempre, è una connessione. L’ipotesi … meglio … l’intuizione di un nesso”. “Ah, avevo pensato a una cosa simile, ma non precisamente a questa … grazie … comunque. Hanno notato che il capo cassiere e un’impiegata della Banca Centrale erano quelli che avevano avuto in custodia gli elenchi dei numeri di serie delle banconote. E hanno chiesto alla Polizia se i due elenchi coincidevano. Diciamo, per carità, che i poliziotti non avevano nemmeno pensato a quel controllo … e sì che appena i tuoi amici … o colleghi … ne hanno parlato, mi è subito sembrata una cosa che andava assolutamente fatta, e che chi fa indagini dovesse saperlo come l’ABC. In ogni modo i due elenchi coincidevano. Non solo quelli cartacei, anche quelli nella memoria dei computer e dei server. Era sembrato un altro vicolo cieco. Una cosa risultava però chiara: le banconote con il numero di serie in elenco … intanto ne erano saltate fuori altre … erano distribuite in modo disperso, sia quanto ai possessori che quanto alle località … non c’era nessun nesso tra i possessori, tutti risultati puliti, e erano più usate di quanto non avrebbero dovuto essere. Così … hanno suggerito di far analizzare le banconote dall’Unità Scientifica della Sicurezza del Tesoro. Anche qui una figuraccia da andarsi a nascondere. Vabbè che adesso, col senno di poi … ma ti assicuro che già al momento era stato anche questo l’uovo di colombo. Le banconote ricomparse … che poi non erano mai scomparse … quindi non dovrei dire ricomparse … mah, comunque … le banconote facevano parte di quattro consegne di 500.000 Euro negli ultimi due mesi. Tenute “da parte per l’occasione”, cioè per la rapina: erano stati il vero bottino. Quelle dell’ultima consegna erano regolarmente state distribuite dalla Banca alle filiali, e i due elechi scambiati ad arte. Così i rapinatori si erano assicurati il buon esito dell’operazione e la possibilità di usare in futuro i soldi senza rischi. Scomparsi senza lasciar traccia. Quelli scomparsi erano ricomparsi nei normali circuiti, alla spicciolata. Quelli rubati realmente erano ancora nel caveau della banca. Qualcosa però doveva essere andato storto tra loro, o … il depistaggio della Polizia non era riuscito del tutto. Più probabilmente, il trucco non avrebbe retto a lungo, e i complici interni erano diventati fonte di pericolo. Era ovvio che i rapinatori avevano dovuto contare su qualcuno di interno alle due Banche per progettare e portare a termine il colpo. E quei complici interni non potevano squagliarsela all’inglese a indagini ancora aperte. Era anche possibile che gli altri avessero già cominciato a servirsi dei soldi, mentre i due avrebbero dovuto rinunciarvi e non per poco”. Juan: “L’hanno capito, e tra essere incastrati e tentare di squagliarsela con la loro fetta … devono aver messo pressione agli altri. Così hanno eliminato le due talpe … secondo me era già nella pianificazione del colpo, era il punto debole del piano”. Nikolett: “Sì, alla fine questa è stata la conclusione … E non li hanno mai trovati. E’ stata una cosa orribile … terrificante … di un dolore crudele ... atroce. Per tentare ancora di depistare ancora la Polizia, e, a quel punto i tuoi colleghi, hanno fatto una mattanza. Altre cinque persone per eliminarne quante per loro pericolose? Forse uno implicato. Forse anche nessuno, tanto per gettare sabbia negli occhi. E le donne sempre una rapina con stupro. Una cosa barbara … da belve feroci … pazzesca! … E hanno ammazzato il mio Imre …! Come un cane …”. Non era più riuscita a contenere le lacrime, che erano state l’unico modo di difendersi, per quel poco che aveva potuto, dal dolore brutale, struggente e tormentoso dolore; questo che divorò, pestifero sangue, / il pregio e il fior de la latina gente.
PIÙ CHE IL PUDOR ... “Oh, cazzo. Mi spiace veramente. Non avrei dovuto”. Era seguita una pausa silenziosa, ma nessuno dei due era sembrato sentirsi a disagio, commosso sì. Nikolett si era alzata ed era andata a prendere da bere per entrambi. Juan le aveva assicurato che avrebbe potuto raccontargli tutto quello che le fosse passato per la mente, in qualunque momento, senza doversi preoccupare. Le aveva sorriso, aveva bevuto un lungo sorso d’acqua, e non aveva fatto altre domande. “Non meriti di essere così infelice”, le aveva detto sottovoce. Poi aveva scosso il capo: “Possiamo parlare di qualcos’altro? Credo che siamo entrambi stanchi di tutto questo. Possiamo rilassarci e dimenticare tutto per un po’. Se non ti spiace”. Le aveva posato le mani sulle spalle. Non era stata la prima volta che l’aveva toccata, ma questa le era sembrata una volta speciale. L’aveva attirata a sé, un po’ esitante. Non aveva opposto resistenza. Con lui si sentiva al sicuro, era un uomo gentile e buono, la apprezzava e la rispettava. Le labbra di Juan erano piene e asciutte, la sua pelle calda. Era stato un lungo delizioso momento. Nikolett, con un sorriso di dolcezza pieno: “Baciami”. Lui aveva iniziato a passarle la punta della lingua sulle labbra, per poi mordicchiarle. Con la mano le aveva accarezzato il collo e la nuca. Erano stati stretti nell’abbraccio sentendo di desiderarne ardentemente quel contatto. Non erano riusciti a resistere, e si erano lentamente adagiati sul letto. Juan si era chinato a baciarla di nuovo, e lei l’aveva attirato a sé, d’impulso, senza neppure ben capire costa stesse accadendo. Affondando le dita nei suoi capelli. Juan l’aveva trattenuta ancora in quel lungo, languido, appassionato bacio. Le aveva posato una mano sulla coscia, ma lei l’aveva scostata. Si stava trattenendo nel dubbio e nel timore che stessero per imboccare una via insidiosa, e aveva cercato conferme nell’atteggiamento di lui. Anche lui le era sembrato deciso a non farsi travolgere. Aveva ripreso a carezzarle il volto, il collo, la nuca, e lei non aveva trovato motivo per non permetterglielo. Aveva sentito Juan ripercorrere le sue gambe con la mano, l’una dal polpaccio fino al sedere; poi l’altra, quella sul lato dove si erano appoggiati, dal ginocchio fino all’inguine. L’aveva sentita, attraverso la stoffa, fermarsi lì, e muoversi, senza premere né strofinarsi. Un movimento circolare del polso, col palmo della mano semplicemente appoggiato lì, come lo si posa su un braccio o su una mano. O su un fiore che si vuole sfiorare senza nessuna intenzione di coglierlo. A Nikolett era accaduto di sentire il suo corpo sussultare –chiedendosi, ma solo per un istante se anche Juan l’avesse percepito- e il respiro farsi corto. Improvvisamente, senza curarsi d’altro, aveva iniziato a spogliare Juan, aspettandosi che lui facesse altrettanto. L’avevano fatto iniziando a frugarsi l’un l’altra in fretta, senza fiato, timorosamente, come se ciascuno cercasse nell’altra un nascondiglio, come se il piacere che stavano godendo fosse appartenuto ad un altro cui lo stavano rubando. Gli si era abbandonata scorgendo, nei lineamenti sfocati per la vicinanza, il corpo di Juan chinarsi su di lei. Sdraiata sul letto gli si era offerta, tutta quanta, senza riserva, nei suoi seni, nelle sue parti più intime, e lui aveva sentito che il mondo sarebbe continuato nel tepore delle sue labbra e delle sue pieghe. Nikolett gli aveva posto la mano sul cuore, sulla pelle nuda. Lui l’aveva ancor più attirata a sé, e, stringendola, l’aveva baciata sulla nuca. Alla fine, col fiato corto, si erano voltati di fianco uno di fronte all’altra. Il volto di lei si era fatto rosso, i capelli scarmigliati, la bocca umettata e socchiusa. Gli occhi, profondi e brillanti, lo avevano fissato incantati e a loro volta incantevoli. Nikolett si era sentita anche sopraffatta dall’imbarazzo mortificante di rimanere lì, immobile per la forte emozione, senza sapere come muoversi, come da troppo amor costretta condursi. Aveva sentito le mani di Juan tornare a muoversi con carezze di sensualità tenera, lungo le gambe, e così suasive nel fargliele scostare perché potesse divenire più intime. Aveva sentito aumentare l’eccitazione, e, insieme, lo smarrimento. A fatica aveva trattenuto l’impulso di scivolar via e sottrarsi. Poi aveva sentito le labbra di Juan posarsi sulle sue gambe, baciandole, ripetendo l’andamento lento che avevano percorso le sue mani, per poi tornare a farlo ancora, questa volta con la lingua. Un calore quale non aveva mai provato era andato montando dentro di lei, fino a sciogliere il suo blocco. Non, però, la trepidazione. Era molto piacevole, anzi … ma lui cosa stava facendo? Lei cosa avrebbe dovuto fare? Non aveva avuto grandi esperienze, anzi … giusto una. Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno. Nikolett si era sentita scossa da un’eccitazione che l’aveva turbata, e aveva pensato che avrebbe provato quel godimento assoluto di cui tanto aveva sentito parlare. Era arrivata al culmine in modo inaspettato, con un urlo soffocato di sorpresa e piacere intenso. Juan, invece, si era fermato di nuovo, l’aveva fatta ruotare a distendersi sul ventre, e aveva ripreso e continuato a farle tutto quanto le aveva già fatto, supina. Era rimasta allibita e confusa da quello che lui le stava facendo vivere, che aveva trovato incantevole, seducente. Stava dandole piacere e traendolo da tutto il suo corpo, da sensibilità che neppure aveva saputo esistessero, e che andavano oltre il sensuale, perché, aveva concluso, se era tutto, ma tutto il suo corpo a essere oggetto della sua attenzione e del suo desiderio, e stava facendo in modo che lei gli rispondesse con ogni centimetro quadrato di se stessa, era la sua intera persona ad essere amata, non solo quelle parti che aveva sempre visto essere come le uniche cui i maschi fossero interessati, e per piacer loro, poco nulla curandosi di quello dell’altra. Aveva avuto un sussulto di sorpresa, di apprensione e di smarrimento quando aveva sentito la lingua di Juan giungere a muoversi nel solco del suo fondoschiena. No, si era detta, non può volerlo fare lì. Non è possibile arrivi a tanto. Gli piacerà tutto di me, ma … insomma … in quel punto … come poteva trovarlo piacevole!?. Si era sbagliata, irrigidendosi quasi con ritrosia, quando aveva sentito la punta della lingua fermarsi proprio lì, e ripetere quello che già le aveva fatto tra le gambe. La coscienza di sé, che già si era attenuata, ora si era smarrita, intorpidita, di più, era naufragata. Sconvolta nel profondo dal fremito che la stava agitando tutta, trattenendosi e desiderando che si la faceva stendere supina, e si sdraiava su di lei, introducendosi a poco a poco, con attenzione e cautela.
OPS!!! Quando aveva avvertito un ostacolo, si era subito fermato: “No …”, aveva detto a se stesso sentendosi a disagio, turbato. Poi a lei: “ … non sono riuscito a trattenermi … Scusami!”. Juan si era ritratto e messo a sedere sul letto: “Non succederà nulla che tu non voglia … è una promessa ...”. L’aveva detto alzando entrambe le mani all’altezza delle spalle, in segno di resa, ma anche a significare che sarebbe stato tanto obbediente e tanto servente. Nikolett era più allibita e imbarazzata di lui. L’amore l’aveva già fatto. Sì, una sola volta, comunque non avrebbero più dovuto esserci ostacoli. Cos’era quella cosa in cui Juan si era imbattuto, e anche lei aveva sentito resistere alla sua penetrazione? Era arrossita, vergognandosi, non sapeva di cosa e per cosa, ma proprio in quello stava il suo senso di imbarazzo, il suo sentimento di profondo turbamento e di mortificazione. Per togliersi dall’impiccio, con un sorriso d’allegrezza pieno, gli aveva chiesto: “Baciami ancora”. Aveva risposto al suo bacio come volesse esserne consumata totalmente. “Sei sempre così perbene, scrupoloso, riguardoso?”. Juan aveva riso di buonumore: “Non è una domanda da rispettabile signora …!”. Si era finta risentita di quella risposta: “No … dico sul serio … cioè …?”. Juan si era di colpo rabbuiato, anzi, intristito, e non aveva risposto. Nikolett aveva visto delle lacrime riempirgli gli occhi, e scivolare sul suo volto, senza che lui ne provasse vergogna o tentasse di nascondergliele, era anche lei scoppiata in lacrime, e l’aveva stretto a sé carezzandolo dolcemente, come un bambino cui togliere paure e placare ansie. Avrebbe voluto che lui le dicesse di più, si confidasse con lei. Aveva pensato che probabilmente la sua era stata una pretesa egoista e indiscreta. Indelicata, anzi. Tutto, ora, anche in Nikolett esprimeva una grande tristezza, una sfinitezza. Non era assolutamente, nemmeno minimamente, il pensiero che potesse sfumare la sua audizione con il maestro. Si era veramente innamorata di quell’uomo entrato per caso nella sua vita?! E ora non voleva che ne uscisse? Era stupida, se aveva potuto anche solo pensare che se avessero fatto l’amore si sarebbero legati in modo definitivo … Era stata una pretesa infantile … se mi prendi non mi lasci più. No, se anche Juan fosse stato innamorato di lei questo suo modo di comportarsi avrebbe dovuto esserle molto caro … e non credeva proprio che lui cercasse solo la botta e via … era stato pur sul punto di averla … e non era stata lei a trarsi indietro … Era veramente un uomo molto complicato … Erano rimasti così, raggomitolati nel loro abbraccio e nella struggente melanconia. Quando erano usciti da quel torpore, quando erano tornati dal viaggio nel passato o nell’impossibile, erano rimasti lì, Nikolett aggrappata a Juan, finché lui, con delicata dolcezza, si era mosso per scivolare via da quell’abbraccio.
Niki avrebbe voluto veder se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato, sentendosi come avesse subito una violenza, ché violenza è quando quel che pate niente conferisce a quel che sforza. La sua stanchezza le era parsa svanita. Se ne era sentita sopraffatta, ma ora tutte quelle ore erano come scomparse nel mondo dell’irrealtà. In quel momento si era solo sentita essere accanto ad un uomo misterioso, e a suo modo affascinante, ad aspettare che si aprisse. Le era sembrato tutto così distante, che aveva pensato che nulla avrebbe più potuto meravigliarla. Quel giorno stava portando con sé un meraviglioso forse. Aveva sentito come fosse sempre in agguato la paura della delusione. Tantomeno le stava piacendo la pesante goffaggine che sembrava essersi impossessata di lei. Juan non era un cinico, lei l’aveva percepito chiaramente. E neppure uno scettico. Da quando lo scettico è l’uomo onesto che si rifiuta di credere al bugiardo? Cercava di farsi passare per tale, sforzandocisi in tutti i modi. Non le era chiaro quale fosse per lui lo scopo di tutto ciò. Si era anche chiesta, e con maggior empatia, cosa sarebbe successo se Juan avesse manifestato la sua umanità, il suo affetto, le sue debolezze come anche il suo stoicismo. All’improvviso aveva sentito un moto di tenerezza nei suoi confronti, e nello stesso tempo aveva avuto la certezza che quella storia non avrebbe avuto un lieto fine. Per un attimo si era sentita profondamente rattristata. D’altra parte, perché mai quella storia avrebbe dovuto avere una fine? Lieto fine non era semplicemente un altro modo per dire che il film si chiudeva perché non c’era più nulla da dire? Che tutto si fermava, che l’avventura era finita? Quando Juan sarebbe ripartito, da quel momento in poi, la sua sarebbe divenuta un’esistenza borghese e tranquilla, con un futuro già prestabilito fino all’ultimo respiro. Commovente e vergognosa aveva sussurrato a se stessa, o, chissà, forse a Dio: ‘Non si può fare che io scompaio?’. Con quel tarlo nella mente, e con quell’angoscia nel cuore, si era fatta un po’ ombrosa. Inaspettatamente Nikolett aveva provato uno strano distacco nei confronti di Juan. Non nasceva tanto dall’esperienza, quanto da qualcosa di non detto, e dalla paura che qualcosa potesse mettersi tra loro, e ricreare la situazione che Juan aveva appena evitato. Con la differenza che, a quel punto, le sarebbe mancato qualcosa di cui prima non aveva sentito il bisogno. Per quanto le premesse continuare da dove lui si era fermato, e far diventare vero ciò che aveva prima considerato un prezzo da pagare, e ora desiderava con tutta se stessa, ora le sembrava più inopportuno che mai. Era rimasta lì, indecisa su cosa fare. ‘Sii disinvolta. Non è niente. Non hai preso nessun impegno. Come ha detto lui, non c’è nulla che debba accadere per forza’. Da una parte Nikolett avrebbe seguito Juan molto volentieri. Nello stesso tempo le era sembrato impossibile. Era pazza? Che doveva fare? Se non fosse andata con lui, ci sarebbe stato il rischio molto concreto e imminente che tutto per lei fosse rimasto un sogno, che tutto si fosse allontanato di nuovo. Non era solo la delusione in agguato. D’un tratto si sentiva bloccata, la disponibilità e leggerezza che avevano dominato i suoi pensieri si erano dileguate, lasciando il posto ad una vuota percezione della realtà. La stessa che faceva sempre scivolare via i suoi sogni al momento del risveglio. Le ultime quarantott’ore sembravano scomparse nel mondo dell’irrealtà. In quel momento era semplicemente accanto a un uomo affascinante, ad aspettare che la congedasse da un momento all’altro. Sembrava tutto così distante. La notte, quello che si erano raccontati nel letto, il loro tergiversare, l’eccitante rinuncia. La notte aveva portato con sé un meraviglioso forse. Ora s’imponeva un sì o un no?. Qualsiasi esitazione, sua o di Juan, l’avrebbe annientata. Non avrebbe voluto nemmeno sapere perché esisteva.
PERPLESSITÀ. Juan, stava percependo con evidenza che qualcosa non andava come lei se l’era immaginato, previsto. “Sei arrabbiata?”, la stava guardando. Lei aveva scosso il capo: “No … nessun problema …”. “E pretendi che ci creda? Dài, sputa il rospo”. Niki aveva preso il coraggio a due mani, rammaricandosi di averne solo due. Metaforicamente, va’ da sé. “E’ una cosa che ho pensato ... su te e Schiller … non è che mi stai nascondendo qualcosa? … Com’è possibile per te essere un critico, e un giornalista, e … soprattutto … per quel mi riguarda, essere e restare in buoni rapporti con i colleghi … con Rich … e nel contempo fare il lavoro che fai? Sei il numero due di una società di contractor … sempre in giro, sempre in pericolo … E’ un dubbio così atroce, incontenibile, incontrollabile, che non ho potuto fare altro di arrovellarmicisi, e ora chiederti …”. Non c’era voluto nulla perché lui capisse tutto il significato di quella domanda, così che si era trattenuto dalla risata svagata che era stata il suo primo impulso, e le aveva spiegato, parlandole in modo tranquillo e rassicurante: “Innanzitutto, per fugare i tuoi timori più … fondati, e, credo, quelli che più temi, io non sono più un agente operativo sul campo, questo è impossibile ormai per me. Sono un analista investigativo, un aanalista di intelligence, un analista tattico … scegli il termine che preferisci. Qualcuno mi chiama agente accademico, e sono sicuro che per pochi è un complimento, i più lo usano per prendermi per il culo. Io replico sempre che se uno deve finire in galera, o magari per farsi sparare, pensa che tanto vale sia per mano di un agente con laurea e dottorato. Non so … potrei dire che sono un profiler di situazioni di crisi internazionali … di un certo tiopo. Sono anche consulente del Dipartimento della Difesa … non so che dirti di più …”. Niki sembrava a mezzo convinta e sollevata, a mezzo con riserva di ulteriare verifica, “Per ora mi hai abbastanza confusa, sentirò anche la tua capa … o qualsiasi cosa sia per te …”. Juan aveva subito sollevato una mano per interroperla: “Ti prego solo di non fare troppe domande … insomma, va’ beh, te lo dico, ma rimanga una segreto … sto pensando di dar vita a un piccolo servizio di … supervisione comune a più società come la SOE … ti prego di non mettere pulci nelle orecchie con le tue domande … te ne prego con calore, anche per te … cioè, per noi”. Questa confidenza, nel doppio senso della parola, di affidare un segreto e di fidarsi nel farlo, aveva convinto e commosso Niki, che a quel punto si era scordata degli altri dubbi. Juan no, voleva chiarire fino in fondo. “Quanto al giornale, oggi i giornalisti, soprattutto editorialisti e critici ... ma tutti in genere ... beh, con l’eccezione dei fotoreporter di guerra, quelli che stanno al fronte e rischiano la pelle, e ce la rimettono anche, possono lavorare anche restando dietro una scrivania. Lavorano sulle notizie d’agenzia … guarda … l’inviato speciale del più importante e diffuso quotidiano di questo Paese, ha un inviato speciale nel Golfo, che firma come inviato speciale nel Kuwait … ma non si è mai avvicinato a quella zona del mondo …. Riceve tutte le notizie dalle Agenzie stampa di colà, le ingurgita, digerisce e ... butta fuori un collage di pezzi di terza o quarta mano”. Nikolett era scoppiata a ridere divertita, fissandolo negli occhi. “Non ti sembra di essere un po’ eccessivo e ingiusto ?”. Juan aveva preso tempo per rispondere, cercando di non perdersi nei suoi occhi. “No, quell’ … inviato speciale … ha l’esclusiva di dette agenzie ... e ... ecco, forse capisci meglio così ... Ti sarà capitato di trovare lo stesso articolo, … su giornali diversi e sotto firme diverse ... ma simili, a volte con qualche variazione sul tema, a volte invece proprio identici, con le stesse frasi, gli stessi dati, gli stessi errori, le stesse espressioni. Lo stesso titolo?”. “Questo sì … usano le stesse agenzie... ? Ma mi hai appena detto che ne hanno l’esclusiva ...”. Juan: “Esatto! Però gli stessi pezzi di agenzia, vengono comprati o scambiati con altre Agenzie, di altre zone e Paesi, sui quali altri hanno un’esclusiva ... Non sono però gli incidenti di percorso più temuti. Che sono invece le buche … che si prendono quando gli altri pubblicano una notizia che o è proprio sfuggita … o è stata sottovalutata e passata sotto silenzio … Perciò, meglio passare per copioni che bucare ... quelle sono mazzate sui denti. Ciò che invece importava, e dovrebbe ancora veramente importare nel nostro mestieraccio sono le parole, incastonate, radunate per viaggiare contro la morte e resistere al gelo, alle bombe, alle epidemie. Neppure i peggiori dittatori sono mai riusciti a far arrestare Don Chisciotte per gettarlo definitivamente, zavorrato con dieci chili di cemento ai piedi, in fondo ad un lago. O al mare. Scripta manent, e resistono al tempo come le rive del mare. Nel Mediterraneo, gli scogli e le coste frastagliate sono cambiate poco da quelle di Omero, sono scomparse solo schegge di quarzo e di silice, come se scomparisse dall’ Odissea qualche lettera qua e là, slavata via dalle maree”. Nikolett aveva fatto l’atto di applaudire, senza però arrivare a battere le mani, con una strana aria irascibile: “Bravissimo … sei un poeta, ma ancora una volta non mi hai detto di te e Rich … non è che mi stai nascondendo qualcosa? … magari che non lo conosci, perché non metti mai piede in redazione? … o anche qui farai fare a quello che usa il tuo pseudonimo?”. Era stato un crescendo, e aveva terminato con il volto paonazzo. Juan era sinceramente divertito, ma aveva capito che se si fosse lasciato scappare anche un sorriso Nikolett l’avrebbe potuto interpretare come un atto di scherno, di derisione: “Oh! scusami … sì, hai ragione, non è il giornale la causa efficiente della nostra … non so come dire … Rich e mio padre erano cugini … ah, giusto … erano perché mio è morto …”, aveva visto gli occhi di Niki diventare umidi, non avrebbe saputo dire se per il ricordo di suo fratello, o per pena verso Juan, “… ma erano più che fratelli. Stessa fede politica … sono fuggiti insieme arruolandosi nel Tercio … poi avevano potuto ricominciare una nuova esistenza. Rich è … è … è Rich! …”. Nikolett gli aveva sorriso con la stessa gioia con la quale un bimbo si sorprende nello scoprire l’acqua calda … che per lui resta comunque un notevole progresso. “Ti avanza ancora qualcuno dei tuoi meravigliosi baci?”, con l’aria di un gatto che sta per mangiarsi l’usignolo. Il suo sguardo l’aveva catturata. Si sentiva attratta da lui, e nello stesso tempo capiva che lei stessa lo attirata. Niki sentiva la sua rigidità allentarsi e sciogliersi come neve al sole. Solo in quell’istante si stava rendendo conto che tutti i suoi muscoli erano contratti. Aveva sorriso, e si era abbandonata contro di lui, chiudendo gli occhi. Ecco che le tornava il freddo bollente. “Puoi avermi tutta per te in un unico bacio ... diciamo lungo almeno un’oretta”, gli aveva sussurrato. “Che mi dici, invece, di una piccola eternità?”, aveva replicato lui. All’improvviso tutto era ritornato: il batticuore, l’eccitazione ... il tempo era di nuovo dalla sua parte.
Il pomeriggio, quando già si era andata facendo rapidamente sera, Nancy e Tirso erano scesi al bar. Seduti su un divano molto confortevole, attendevano le loro ordinazioni, e a Juan, non sapeva lui nemmeno perché, era ritornato in mente un vecchio episodio dei suoi esordi da critico tearale, che aveva voluto raccontare a Niki. “E’ sempre a causa del successo dei romanzi che il cinema piomba loro addosso. Contrariamente ad un pregiudizio diffuso, i produttori sono persone che leggono quantità enormi di romanzi. Non ne parlano, perché sono colti e discreti, ma sognano di adattare allo schermo le più grandi opere letterarie. Cento anni di solitudine, L’educazione sentimentale, L’Uomo senza qualità, Alla ricerca del tempo perduto ... Si capisce che i film ad effetti speciali, cui pure sono affezionati per ragioni di cassetta, non sono i loro preferiti. Avendone conosciuto qualcuno, posso dire che parlano di letteratura correntemente e citano i migliori dieci romanzi delle classifiche più accreditate. In genere più che i migliori sono i più venduti, ma, alla fine, è sempre questione di cassa. Quelli di teatro hanno invece i testi già bell’e pronti, li conoscono già, ma devono trovare registi e interpreti perfettamente ad hoc per ogni lavoro. E non possono limitarsi a quelli in circolazione. Hanno pubblici esigenti, che pretendono sempre di più e di meglio, così devono continuamente setacciare le scuole, le accademie, soprattutto come quella di Rich. E ne dipendono anche. Dipendono dal giudizio del maestro, è lui che sceglie chi è pronto, e per far cosa. E i contratti che si firmano hanno clausole precise, quasi capestro su questo. Così, quello che veramente conta, non è avere un buon agente, ma chi abbia la chiave per aprire l’accesso a uno di questi maestri. Fossero già capaci e da Oscar, è sempre il maestro che apre le vere stade della carriera e del successo. Tu, del resto lo sai benissimo”. Niki era leggermente arriossita. “Una sera, ad una cena dopo una prova generale, riservata ai critici, di una piéce d’avanguardia,”, aveva pronunciato quella parola come si trattasse di una cosa indecente, “per me assolutamente demenziale, era seduta vicino a me Ina Rivachs, finlandese. Una ragazza molto molto bella. Ma, bastava guardarla, con un’ idea tutta sua della sensualità. Canottiera, salopette, uno spolverino di pelle nera indistinguibile da quello di un uomo, stivaletti pesanti. Aveva una naturalezza indifferente. che metteva in rilievo la fragilità del corpo, la tenerezza della pelle chiara. Un viso strafottente, dai lineamenti aggraziati, il corpo nervoso. La avevo subito definita una monella, alla quale qualcosa era andato storto fin dall’ infanzia e l’ aveva resa cattiva. Alla fine degli antipasti si era chinata verso di me, mi aveva chiesto con uno sguardo ammaliatore: “Trova bella?”. Avevo frainteso che parlasse dell’opera, se così si poteva chiamarla. Non mi ero trattenuto dal risponderle che l’avevo trovato bruttina, insulsa. Si era raddrizzata, irritata e offesa, rigida, e non mi aveva rivolto più la parola per tutta la cena. Solo alla fine aveva chiesto: “Dove scrivi?”. Quando avevo fatto il nome del giornale aveva avuto un sussulto “Ah !”, aveva esclamato. Le avevo chiesto se parlasse inglese, francese o spagnolo, le lingue che conoscevo bene. Si era illuminata. “Preferisco l’inglese”. E aveva voluto sapere se già avevo scritto qualcosa su quel tipo di … opere teatrali. Non avevo osato dirle che non ricordavo neppure che esistesse quel genere ... e che avevo intenzione di passare l’invito per la prima a un collega alle prime armi, che doveva farsi le ossa, e accettava di buonissimo grado ... di tutto. Per glissare le avevo fatto notare, abbastanza solennemente, che non tutto si adatta al teatro. C’erano scene di nudo che in un film potevano anche risultare efficaci, riprese da diverse angolazioni … con sfumature, dissolvenze ... ma sul palcoscenico … mi erano sembrate assolutamente gratuite, incongrue. Inutile dirti che le interpretava lei. Mi aveva risposto che ci sono generi differenti, ma quella è la sfida, tentare l’impossibile. Mi aspettavo che mi desse del vecchio parruccone retrogado. Deve aver avuto pietà”. Niki aveva sorriso. “Le avevo domandato dei suoi progetti. Mi aveva spiegato che tutto dipendeva dalle recensioni alla sua parte, e che, comunque, lei aveva il migliore degli agenti. Devo confessare che mi ero un po’ impuntato, così le avevo spiattellato nudo e crudo come si illudesse, come stavano le cose veramente. Come le ho dette a te, prima. Lei mi aveva sfidato, provocato, o forse preso in trappola: mi aveva chiesto di farle un esempio”. “E tu le hai detto di Schiller!”, Nikolett sembrava irritata e … gelosa. “No, non sono così stupido, nemmeno quando voglio essere stupido. Le ho fatto il nome del terzo grande maestro Jay Allen. Mi aveva guardato, in attesa del mio responso, cioè se intendevo presentarla a Jay o no, esibendo un sorriso che brillava di mille fuochi. Aveva voluto il mio numero di telefono, “Dobbiamo parlare ancora”, mi aveva detto. Le avevo dato il mio biglietto da visita. Lei aveva strappato un pezzo dal biglietto e vi aveva scritto il suo numero. Me lo aveva porto con un sorriso e mi aveva richiesto, se la trovavo davvero bruttina. Forse era perché ero abituato alla bellezza mediterranea, e lei era un scandinava, anzi finnica, anzi ancora, una sami. Solo allora mi ero accorto della mia gaffe. Avrei voluto sprofondare. Per rimediare le avevo detto che la trovavo non bella, ma stupenda. Il suo sorriso si era accentuato: “Sei un grande bugiardo, esattamente come Velazquez”. Ero rimasto senza parole. E senza capire esattamente il significato delle sue. Sicuramente si riferiva a una delle scene di nudo della piéce, in cui si riproduceva la Venere allo specchio di Velazquez. Ma di più ... non sapevo. Avrei capito solo più tardi. L’avevo incontrata di nuovo, per un invito a casa sua: un tè e un’intervista. Era tutta fatta di stranezze, un viso di storie mischiate, e lo sguardo inquisitore che solo una ragazza possiede. Mi aveva chiesto la mia età. Le avevo mentito, non so perché, ero molto giovane. Non quanto lei, ma … insomma. Non avrei dovuto farlo. Ma era andata così. Mi aveva chiesto quante donne avevo avuto. Non avevo voluto parlare di donne. Le conoscevo poco, le avevo confessato, e non avevo buona inventiva.
D’ altra parte, con loro, non avevo scelta, non potevo che inventare, perché non avevo diritto che alla loro superficie. Io ero lì solo per scrivere di lei, fotografarla, scoprirla. Attrice in carriera, non donna. Non era bello da dirsi, ma tu lo sai quanto me, prima che all’arte guardano al corpo, e la situazione può anche degenerare e finire tutta a pecoreccio. Beh, poi, le avevo detto, l’avrei guardata partire, un giorno, piena di un mistero con cui si prendeva gioco di me, ma che mi aveva preso tanto che avrei dovuto inventarmela perché la vita valesse la pena di sopravvivere. In effetti, era semplice: c’era chi sogna e chi era sognato. E a nessuno era mai spiaciuto di vedere in continuazione delle cosce sfilare nella sua testa. E le smorfie, la peluria delle nuche. Le gambe allungate che si schiudevano senza dover insistere, che si scostavano per connivenza. Fianchi e seni, profumi che restavano sulle dita e che si conservavano nella memoria come il marchio del segreto. All’ inizio c’erano solo le labbra, poi venivano le parole, poi ancora subentrava il silenzio degli sguardi. Si sapeva che era così, sempre, ma era un copione al quale si teneva. Quasi sempre. D’ altra parte, nel momento in cui me l’ aveva chiesto, stavo pensando a tutt’ altra cosa. “Sei un grande bugiardo, esattamente come Velazquez”. Era la stessa frase della sera in cui ci eravamo incontrati. Ed era proprio a Velazquez che stavo pensando quando mi aveva chiesto della mia età, e delle mie donne. Avevo avuto l’ occasione di rivedere il quadro di Velazquez, ma non avevo capito il giudizio dato da Ina. Glielo avevo detto. Ne era rimasta entusiasta, per la mia ignoranza. Mi aveva fissato: “Velazquez raffigura Venere allo specchio nuda, dipinta di schiena, adagiata su un letto, una gamba sulle coltri, l’ altra poggiata a terra. In primo piano i suoi fianchi, le sue natiche. Il viso è girato verso il pittore. Un paggio regge uno specchio perché lei possa vedersi in volto, ma…”. Quell’ immagine mi era esplosa nella mente. In quel momento mi era apparso con tutta evidenza che Velazquez aveva mentito. Un’ intuizione fino ad allora sepolta, e che si era liberata alle parole di Ina. Il paggio presentava lo specchio orientato in modo tale che era il sesso della dama che si sarebbe dovuto vedere riflesso, e non il suo viso. Al contrario di Hitchcock che non amava le donne che portavano il loro sesso in volto, Velazquez, senza dubbio, amava quelle il cui sesso era un volto. Ok, avevo ammesso che avevo ragione lei per il quadro. “Ed è proprio questo uno dei messaggi della nostra rappresentazione: la menzogna messa lì, sotto gli occhi di tutti, ben in vista … ma che nessuno vede, perché hanno detto loro che devono vedere altro. Nessuno usa la sua testa, nessuno osa opporsi al giudizio comune … Allora? Sempre bruttino?!”. Non gliela avevo data vinta, anche perché non aveva colto il pumto, “No, ancora peggio, perché, anche se ho visto la prova, dove nelle scene di nudo eravate vestiti, e fa differenza, il pubblico non vedrà altro che quello che tutti hanno sempre visto. Ripeto, non ho visto la scena reale, ma mi è facile sapere che, anche nelle migliori posizioni, nessuno vedrà il … il tuo sesso nello specchio. E anche se fosse, penserebbe a una prospettiva diversa a quella del quadro, sbagliata sul palcoscenico rispetto al dipinto”. “Ma”, l’aveva detto con tutta la malizia e la sensualità possibili insieme, io ho una bella pelliccia ... e per buona misura ci metterò un ... un toupet di scena.”, Niki si era portata una mano alla bocca per trattenere una risata che sarebbe suonata troppo sgangherata. “Eppoi, sullo sfondo sarà proiettato proprio il dipinto, enorme …”. “Peggio ancora! il dipinto è a due dimensioni, vedranno quello che hanno sempre visto … dalla platea, con prospettive già da sotto verso sopra, poi dirette, oblique, vicine, lontane, parziali … ma figurati … farete un buco più grosso di quello della Fossa delle Marianne”. Nikolett sembrava molto soddisfatta. “No, non è possibile!”, “Avete provato a fare foto del palcoscenico, durantela scena, dalle diverse angolazioni? Se no fatele … sono pronto a scommettere quello che vuoi. Anzi, ci scommetto il presentarti o meno a Jay Allen”. “Perché non una notte di sesso sfrenato con me?”. “Perché se ti evito una prima da flop con massacro della critica, e ti presento a Allen, notti di sesso sfrenato me le concederai comunuqe. Se invece manderai tutto a puttane, dovrai farlo perché ti aiuti a uscirne”. Niki l’aveva fissato, ironicamente scandalizzata, “Ma ... lo pensavi veramente? Non mi ero accorto fossi così ... così porco!”. Juan aveva respinto al mittente, “Figurati! Era il solo linguaggio che potesse scuoterla, farle capire che la mia critica era seria, anzi serissima ... il contorno era però d’obbligo, perché riuscissi efficace. In ogni caso mi aveva chiesto se, avendo la mia attrezzatura fotografica, era possibile fare lì una prova, se me la sentivo. In fondo non eravamo a teatro, ma posizionandomi io, anche sdraiato a terra, avrei potuto riprodurre abbastanza bene gli angoli e le prospettive di visuale del pubblico, comunque abbastanza da farle capire. Avevo potuto solo obiettare che mancavano il putto e lo specchio. Era scossa, spaventata. La sua voce era incerta, tremante, quando mi aveva replicato, “Nessun problema”, un tavolino e uno speccio tolto dalla parete dell’ingresso avevano fatto da sostituti. Avevamo sistemato tutto per bene, seguendo una copia del dipinto e i bozzetti di scena che lei aveva. Senza che glielo avessi chiesto si era spogliata completamente. Beh, spogliarsi doveva, per verificare, ma poteva tenersi reggiseno e mutandine … comunque, almeno, mi aveva risparmiato il toupet. Ah, se non ricordo male, mi ero chiesto a che servisse ... ce n’era già ad abundantiam”. “Più o meno della mia? A te come piacciono?”. ‘Oh cazzo! ma guarda se è questo il tipo di domande che mi devo sentir fare. Sto raccontando una storia seria, un aneddoto da “vita di giornalista”, e l’attenzioine va tutta al pelo pubico’. Non aveva potuto esimersi: “Come la tua, nessuna. E’ ... la densità perfetta, perfetta arricciatura, diametro, morbidezza ... non ci sono paragoni”. Lo stava inzigando con metodo e con un pizzico di malignità. “Bene, con le mie Nikon avevo fatto del mio meglio. Avevo usato quelle digitali, anche se preferisco le altre … così avevamo potuto subito avere un’idea, visionandole sullo schermo del suo PC. Come avevo annunciato, lei aveva ragione, guardando lo speccio stando alle sue spalle; ma gli spettatori avrebbero visto una quantità di scene diverse, e incomplete, e il loro punto di riferimento sarebbe rimasto il quadro sullo sfondo. Si era afflosciata, aveva perso tutte le forze, e, così mi era parso, tutte le speranze: una scena madre saltava. Ed era la sua scena madre”. “E tu?”, ‘Ancora! Inizio ad essere irritato. “Un po’ mi sentivo in colpa, ero stato io a disilluderla … e per ripicca. Mi sentivo in obbligo di fare qualcosa. “E cosa ti sei inventato?”. ‘Cazzo, perché una donna deve sempre considerati subito un suo possesso? Gelosia reatroattiva, niente di più illogico … isterico’. “Ho suggerito una soluzione, l’unica che mi era venuta al momento. Rifare le foto in teatro. Poi, sullo sfondo, proiettare, abbibate, il quadro e le foto. Prima quella che riproduceva esattamente il quadro, poi le altre, sempre in accoppiamento. Alla fine quella di spalle, vicinissima, per finire con solo quella che prendeva tutto lo schermo. Avrebbe dovuto convincere il regista e avrebbero dovuto lavorarci tutta la notte, usando come indicazione le mie foto. “Geniale”. “No, zappa sui piedi … per non dire sugli ... attributi … ha voluto assolutamente che facessi io le foto”. “E tu naturalmente, a una bella attrice giovane. A gnocca libera, con toupet o senza …”. ‘Sta cominciando a farmi incazzare, un’altra osservazione del genere e scatta il va’ da via ‘l cù’. Non aveva poturo dirlo, e neppure che, allora, qualcosa negli occhi di Ina si era dilatato fino a far loro invadere la superficie del suo viso. Non aveva potuto, lui, fare a meno di guardarla fisso. Ina lo guardava con aria divertita, piena di profonda impertinenza. Se aveva imparato a farlo, era da Oscar. Più si guardavano e più si rendeva conto che i suoi occhi erano una porta attraverso la quale accedere al centro dell’ universo, e che avrebbero potuto caderci dentro per andare alla deriva nello spazio stellato fra galassie, nebulose, spirali, ed universi isolati. Anche Ina teneva gli occhi fissi sui suoi, per trasmettergli il loro messaggio d’amore … o di quello che era … seduzione, profferta per ottenere quello che voleva … puro desiderio ... risucchiandolo fino a dargli le vertigini. E comunque volgesse lo sguardo i suoi occhi lo seguivano, amabilmente ma ostinatamente. Con la sua faccia strafottente dai lineamenti aggraziati, con il suo corpo sorprendente, gli scaldava la testa e gli scioglieva l’ anima. Ina era una ragazza già donna, giovanissima, bellissima, ma, come dire, acerba. Se ne infischiava delle passioni che provocava. Su di lei non si poteva mai giurare né contare. Aveva comportamenti sempre devianti, spiazzanti, imprevedibili. Mescolava desideri ardenti e gelide distrazioni, calore ed indifferenza, atteggiamenti di autocancellazione e scatti d’ indipendenza. Nessuno poteva tenerla sotto controllo e l’imprevedibilità era la sua forma, particolarissima, dell’ essere fatale. Fatale anche a se stessa. La bellezza che Ina andava cercando non aveva più come riferimento l’ uomo, rivelava una spietatezza verso di sé, che applicava fermamente nell’inseguire il proprio ideale personale di perfezione. Estrema anche con il proprio corpo. Era l’ antitesi dell’ideale corrente di aspirante attrice, ciarliera, con seni prorompenti, labbra pneumatiche, abiti a guaina per un esibizionismo da bordello, enfasi provocatoria ed irridente. Alla fin della fiera, i cambiamenti di scenario erano stati un successone, ed il merito era andato tutto a lei. Non avevo voluto neppure saperne di comparire o essere anche solo citato in un ringraziamento ... o altre cazzate del genere. E lei era completamente cambiata. Aveva improvvisamente deciso, con uno di quelli che, avrei imparato, erano i suoi normali cambiamenti, di non fare più l’attrice, voleva divenire scenografa e forografa di scena. E io, va’ da sé, avevo ad esserle da maestro. Il giorno che me l’aveva comunicato, non chiesto, i suoi capelli cercavano di esser pari ai riflessi arancio sulle cime delle montagne. Un giorno d’inizio inverno, limpido, secco, senza promesse. Un giorno nel quale le questioni di cuore vertevano più sulla capacità di pronunciare e restare ai patti, che su quella di fare fatti. L’ amore non era il luogo dei complimenti, ma il luogo segreto in cui l’invisibile attraeva perché vi si manifestava l’ignoto, lo strano, il violento, il tenero. Una forza che spingeva a voler legare qualche parola all’eternità per vivere istanti di felicità, rassicurare che un pensiero attento, anche assente, poteva morire per oblio, per negligenza. Stavamo attenti a chi eravamo, a chi amavamo. Non lo scorderò. Avevo fatto l’ amore con Ina, ero diventato il suo amante”.
‘SI DICE CHE L’ AMORE È LA SOLA COSA DA NON CERCARE MAI, perché non lo si trova certamente così. Cercandolo. Allora, bisogna appostarsi all’ angolo di una strada, in primavera ed in inverno, e non attendere nulla e nessuno. Essere lì con solo le proprie risorse e la propria miseria. Sapere che ciò può durare secoli, ma restare lì, poiché nulla è scritto da nessuna parte che possa dare certezze in merito. Tutto è approssimazione, esitazione, compromesso. I film ed i romanzi parlano senza sosta di amore, ma la vita tace. La vita è mormorio, sfioramenti e carezze. Tutti sono organizzati solo per sfiorare i muri, i passanti, le stazioni e non essere deformati dalla velocità di un corpo lanciato negli anni, fin dalla nascita, non importa dove, se non su un altro corpo. Le collisioni sono casi fortuiti. L’ amore è un caso fortuito. Tutto è organizzato perché non avvenga, e ciononostante ogni proiezione dell’ immaginazione non fa che parlarne. Oggi viviamo tutti separati. Separati da qualcun altro. Particelle di vita, briciole di mondo. Nelle città non c’ è più il cielo, e neppure i bambini. Le amanti dormono sole, o con mariti che guardano dormire mentre loro sono altrove e trattengono il ricordo della bocca fresca dell’ ultimo bacio dell’altro. A volte, nell’incavo dei pugni tengono stretta ancora una traccia del profumo che vi si è posato all’ inizio della notte, il suo profumo, di lui assente. E’ stata lei a chiedere questo campione di profumo, un giorno, in un grande magazzino. L’amante, lei, dice: “vorrei provare questo profumo da uomo”. Ma mente, perché conosce ormai talmente bene quel profumo, che talvolta piange portandosi al volto il minuscolo recipiente, sotto la bocca, come incenso’. Juan non era riuscito a capire a cosa volesse alludere, o dove volesse andare a parare Niki, perrò tutto il suo atteggiamento, la sua gelosia retrograda non gli piacevano. Così l’aveva voluta provocare. “No, non era una amante in quel senso, né io né lei avevamo legami. Ma non saprei trovare altro termine. Credo fossimo più felici e appagati quando creavamo insieme qualcosa, quando lei imparava, e non ci voleva molto perché superasse il maestro. Invero non era difficile, dopotutto, io in quello ero un dilettante, ma ... ma lei non solo mi superava, sapeva prendere dal poco che le davo e farlo maturare e crescere a livello di professionista. Può esssere che avesse un talento naturale, che doveva solo essere svelato, liberato. Sai, la via dell’attrice, quella che tutte tentano: credono che essere belle e giovani e matte sia sufficiente”, lo sguardo acido di Niki, che l’avrebbe disciolto se avesse potuto lo aveva avverttito della sua gaffe, e aveva cercato di rimediare di corsa, “Non tutte sono come te, belle e mature, che con la volontà, la disposizione, la disposizione, la tenacia ... insomma, tra Nikolett Pòsàn e le altre ... dal giorno alla notte”. Aveva sorriso, se per il salvataggio in angolo di Juan, o per la sincerità delle sue affermazioni, era difficile da capire. Forse ambo le cose. “E l’amore ... come era a scopare?”.
‘Minchia! Ci risiamo, provocatrice nata. Beh non speri che mi lasci impressionare. “Matta più di in cavallo. Capricciosa come una lepre di marzo. A volte era una nave scuola, prendeva lei l’iniziativa, non per dominarmi: facendo, e chiedendomi di fare. Un sopra e sotto non solo fisico, un up-down nel rapporto. Ad esempio, mi metteva supino, e lei mi montava a cavalcioni. Aveva un modo tutto suo di farmelo rizzare, con le unghie e con i denti ... letteralmente. Lo prendeva e, né troppo forte né troppo leggera, lo striava, soprattutto sulla parte inferirore ... era irresistibile. Quando le sembrava abbastanza pronto, lo teneva, e, strisciando con le ginocchia sul letto, si avvicinava fino a infilarselo. Si muoveva in tutte le direzioni, e quando era al massimo ... non lei, il mio ... pene, si lasciava cadere sopra. Non iniziava subito a fare su e giù, continuava a ondeggiare in tutte le durezioni, con tutto il busto, dal bacino alle spalle, anche la testa. Quando decideva, faceva leva sulle ginocchia, iniziava a sollevarsi a abbassarsi. Aumentava il ritmo, fino a quanto non si anzava ad accosciava, insomma, sarà poco romantico, ma era proprio come si fa quando si ha un bisogno all’aperto, o su un cesso alla turca ... e allora sì che il su e giù si faceva frenetico ... era abilissima a afferrarmelo quando si alzava tanto che avrebbe potuto sfilarsi. Lo lasciva uscire fino all’inizio della punta, ma non più, e quando poi calave di colpo, un po’ trattenevo il respiro, temevo me lo sbucciasse come una banana, poi era ... era poco meno di un orgasmo. Quando veniva ... allora il suo ritmo calava, poi riprendeva ... anche dopo che ero venuto io. Non so quanti orgarmi riusciva ad avere, perdevo il conto, anche perché resistere a quei tour de force era sfinente”, vedendo l’espressione perplessa a scettica di Nikolett, “Non è meglio se prendi appunti?”, dagli occhi di lei erano usciti metaforiche serie di pugnali per conficcarsi a ripetizione in lui. “Perché mi vuoi umilare così?”, i pugnalini si stavano per licquefare in lacrime. “Non ci sto prendendo gusto, tesoro, con Rich sarà molto peggio ... te lo assicuro, ti sto solo preparando”. Niki era rimasta perplessa, e intimidita: cosa doveva aspettarsi da Schiller? “Altre era una ragazzina che lo faceva per la prima volta. Aspettava che io facessi tutto, e che, facendolo, glielo spiegassi, con parole piuttosto volgari ... anzi, decisamente molto volgari. Dovevo sempre iniziare dalla posizione del missionario, con lei che non apriva neppure del tutto le gambe, mi costringeva a farlo. Quando riuscivo a penetrare completamente, per quel che si poteva in quella posizione, e a entrare, trattenermi, ritrarmi, iniziava chiedermi se altre posizioni non potevano essere migliori, facilitare, appagare di più. E se ti metto le gambe dietro la schiena ... e sulle splalle, e se ti alzi sulle ginocchia e me le tieni completamente sollevate ... Dovevo eseguire io, tanto lei era impacciata. Non sembrava simulare, sembrava una regressione, come soffrisse di attacchi di schizofrenia. Quando la tenevo per le caviglie, le gambe completamente sollevate e spalancate, tuffato su e dentro di lei alla più non posso, mi chiedeva perché non la penetrassi sempre più a fondo ... perché non facessi entrare anche i testicoli, e se le alzavo il bacino con un cuscino, con due ... mi voleva dentro di più, ancora di più. E: sbattimi da uomo, non fare il damerino. Aspetta che mi volto, il culo in su, petto e faccia in giù, spalacami le gambe, e sfondami adesso. Nel culo, nel culo ... Adesso vengo, rimettilo dentro ... inondami. Già così mi vergogno, ma era anche peggio. Insomma, un ciclone, da perderci la testa”. “E quanto hai resistito?”, più che riprovazione e biasimo, amara tristezza, pena. “Ricorda che sono uno dalla pelle dura ... ci vuol altro”, e con un pizzico di cattiveria, che solo le donne sanno insinuare anche nel più dolce dei sorrisi, “Mi chiedo se ti sei mai beccato una bella mazzata”, aveva borbottato lei, “da una donna, voglio dire. Se sei mai stato innamorato perso, da balbettare come uno scolaretto, poi lei ti ha mollato e tu ti sei preso una bella botta”. “Molte più volte di quante tu possa immaginare”. Le aveva fatto scivolare le mani tra i capelli, Io sono andato in missione, lei ha trovato un contratto in America ... e ci siamo persi di vista. Beh, sul finale non prendere appunti. Non voglio tra noi finisca così”. Nikolett non aveva avuto il tempo per replicare. Qualcuno si stava muovendo verso di loro con passo deciso e greve.
AL BAR CON CAPONE. Un uomo in un tre pezzi nero, camicia bianca più bianca del bianco, cravatta e pochette, appena le aveva visti aveva virato verso di loro con incedere deciso e solenne: petto in fuori –la pancia in dentro sarebbe stata un miracolo, al nono mese di gravidanza-, muso duro. Si era subito parato dinanzi a Nikolett, senza degnare Juan di uno sguardo, e senza neppure presentarsi, si era subito scagliato verso di lei con parole violente. “Lei …! Come diavolo si chiama … non pensavo proprio che la sua impudenza arrivasse fino a restare ancora qui … Avrebbe dovuto andare a fare la … la escort … in qualche albergaccio giù al porto … qui ha messo a repentaglio il nostro buon nome. Gli altri –che altri? Si era chiesto Juan- erano propensi a passare tutto sotto silenzio, a mettere a tacere … ma ora … continua a fare la puttana qui da noi … Ora si convinceranno tutti a farle causa … ah! se dovrà pentirsene! … e non potrà scoparsi tutti per venirne fuori … non tutti sono così coglioni da andare a puttane … non nel nostro albergo almeno”. E’ nella natura umana che di fronte a simili contingenze, la prima reazione che venga alla mente sia anche la più sciocca. Può essere per difesa, o per vincere l’incredulità e mettere bene a fuoco che ciò che sta accadendo è reale, oppure ancora per prender tempo e dare una risposta pertinente ad affermazioni che sono del tutto incoerenti. Così, la prima reazione di Juan era stata chiedersi dove fosse andato a prendere, qual gradasso, tutto il fiato per quello sproloquio vomitato di colpo, in una volta, senza pause. Un’idea che, però, era durata i pochi secondi che gli erano occorsi per chinarsi su Nikolett che era scoppiata in lacrime, sconvolta, il viso, prima raggelato, ora in fiamme. Juan le aveva carezzato dolcemente la fronte sollevandole il mento tra indice e pollice, tenendola per sussurrarle qualcosa all’orecchio, e lei si era calmata quel poco che le era riuscito, ma aveva mantenuto la testa alta e lo sguardo fisso sull’energumeno. Juan era alzato e il tizio aveva dovuto fare un passo indietro, perché non lo urtasse, guardandolo con occhi sempre espressivi di superiorità. Juan l’aveva fissato e aveva sorriso dolcemente. Dopo un lungo minuto il tizio aveva voltato gli occhi verso il bar. Juan, le mani sprofondate nelle tasche, le spalle incassate –era l’ atteggiamento che preferiva quando non voleva in alcun modo sembrare minaccioso, nonostante la sua corporatura massiccia ed il suo aspetto poco rassicurante, era rimasto a mezzo centimetro di distanza –ovviamente misurando dal pancione del tipo- e lo aveva fissato dritto negli occhi. Non aveva fatto altro, il suo portamento era sembrato rilassato, quasi amichevole, ma l’altro non era riuscito a staccare il suo sguardo, neppure per abbassarlo. Juan aveva continuato a tenere i suoi occhi puntati in quelli dell’altro, che lo stavano fissando sotto l’effetto di una suggestione irresistibile. Era stato un lungo momento di silenzio, molto lungo. Poi, senza quasi aprire le labbra, ma sorridendo, Juan aveva sussurrato: “Ma tu … chi sei …?”. L’altro, che finalmente aera riuscito ad abbassare gli occhi e a ridarsi un minimo di tono: ”Io … io sono il nuovo Direttore … cavalier Luca Capone”. Juan aveva sorriso, un sorriso accentuato: “Ah! … ma allora tutto cambia … perché non si è presentato subito? … vero Niki …?”. Nikolett, per il vero, non stava credendo a quello che i suoi occhi stavano vedendo e le sue orecchie sentendo; si stava chiedendo frastornata: ‘Ma che cazzo sta dicendo …?!’. Juan aveva continuato: “Facciamo le dovute presentazioni … poi avremo modo di intenderci … lei certo ha le sue buone ragioni … “. Nikolett e il cavalier Capone avevano avuto una reazione comune, basiti e a bocca aperta, letteralmente. Juan aveva teso la mano al cavaliere, che a sua volta aveva teso la sua. Era stato un attimo. Aveva afferrato Capone per un polso, glielo aveva rigirato, costringendolo a piegarsi in avanti, e gli aveva premuto la faccia sul piano del tavolino del bar, bloccandolo con l’avambraccio, sempre tenendogli la mano rigirata. Il cavalier Capone aveva dato un sordo e lungo grugnito di dolore e rabbia, cercando di divincolarsi e protestando, ma Juan lo aveva immobilizzato, abbassando la spalla in modo da far premere ancor più il braccio sulla schiena. “Juan! … che cosa stai facendo ?”. Aveva esclamato Nikolett. “Credo che il signor Capone si voglia scusare …”. Capone, con la voce alterata dal dolore e dal petto schiacciato: “Mi dispiace …”. Un sussurro, senza convinzione né anima. Fingendo una sorpresa che era stata una promessa di guai in arrivo, Juan: “Ti spiace?! E’ l’unica frase che riesci a dire adesso?! Quando hai insultato la signorina Pòsàn, mi parevi più in forma”. Francesco Barbieri, il barman, e Ashley Spalding, che stava servendo ai tavoli, si erano guardati in faccia un attimo, reprimendo un sorriso. Lui le aveva strizzato l’occhio. Aveva ricevuto per risposta il chiudersi della mano di Ashley, sul fianco, non in vista ad altri, col pollice alzato. Il cavalier Capone, col volto congestionato aveva biascicato: “Signorina Pòsàn … “, Juan l’aveva interrotto aumentando di un amen la pressione sul braccio, e si era avvicinato al suo orecchio per sussussare, in modo che restasse tra loro due: “Signora Tenorio Pòsàn … è mia moglie, da oggi … e, va’ da sé, tutte le spese di mia moglie vanno sul mio conto”. “Signora Tenorio … signor Pòsàn”, tutti coloro che avevano sentito si erano trattenuti dallo scoppiare in risate giusto per la criticità della situazione, tranne Niki, che non aveva capito, “le mie più umili e profonde scuse …”, la stretta di Juan gli aveva dato un imput per continuare, “ … si è trattato … ecco … sì … è stato un deplorevole equivoco. Siete nostri graditissimi ospiti … fino a quando volete … se vorrete prolungare la vostra luna di miele ... non ci sono problemi ... sempre nostri ospiti”. Juan aveva lasciato che si rialzasse, tenendogli però sempre il polso torto. “La cosa finisce qui … ora … se dovesse giungermi anche un debole fiato che non è stato così …”, aveva proseguito sussurrandogli all’orecchio, e ciò che aveva detto l’avevano potuto sentire solo Capone e Juan. Nikolett aveva solo potuto vedere come da paonazzo il volto di Capone si fosse fatto terreo, e il suo sguardo da furioso, atterrito. Quando l’aveva lasciato libero, Capone aveva avuto la stessa espressione di certi sospetti che vengono arrestati e sanno di essere colpevoli. “Sorridi!”, gli aveva detto Juan. Il Direttore aveva distolto lo sguardo e si era voltato prima che ancora che lui fosse potuto tornare a sedersi accanto a Nikolett, il sorriso accentuato. Un gruppo di ragazze e ragazzi, habitué del bar, non clienti dell’Hotel, avevano invece riso e commentato ad alta voce. Avevano voluto far sapere la loro opinione. Nikolett l’aveva baciato sulla guancia, tenendosi stretta al suo braccio: “Mi hai difeso”, gli aveva detto con voce tenera e commossa,: ”Mi difenderai sempre, vero?”. Juan era rimasto confuso: non aveva già sentito quelle parole? Non aveva risposto. Nikolett ne era rimasta turbata, e si era ripromessa di cercare ... a veder se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Poi gli aveva chiesto: “Cosa gli hai sussurrato all’orecchio?”. “Meglio tu non lo sappia!”, bacio al seguito. In Nikolett stava avvenendo una veloce e sconvolgente rotazione di sensazioni e sentimenti. Quell’evento improvviso aveva effetti sconvolgenti, una serie di rapidi e violenti slanci affettivi contrastanti. Un conflitto interiore di emozioni, un convulso scontro di pensieri. Nella sua mente, nel suo cuore, nella sua anima il frastuono, l’insieme di rumori assordanti e confusi insieme, stava provocando reazioni violente, in grande disordine e confusione, con un ritmo che si diffondeva ora sfrenato, ora con andamento lento, grave e solenne. Smarrisce il bel volto in un colore / che non è pallidezza, ma candore, dall’altero e raro faccia / d’un dio pandemio agitata, vedea i suoi sentimenti come larve guerriere cercar la pugna, e chi può imaginare i combattimenti di quell’animo. Piuttosto smarrita in un groppo ... di emozioni. Ma quel Dio ... che l’inique spade / frange una volta, e gli oppressor confonde, l’avea illuminata. Quello di Juan era amor di vero ben, pien di letizia, che non si sarebbe dissolto se l’universo pria non si dissolve. No, non era un calesse. Lui la stava osservando con uno sguardo e un sorriso increduli. Non gli riusciva di capacitarsi che Nikolett non comprendesse … non si rendesse conto … O, forse, voleva non capire … Eppure era stato sicuro che fosse quello che anche lei voleva. O, forse ancora, lo stava mettendo alla prova. “Domani si parte”. Era stata colta di sorpresa, più che non aver pensato a quella scadenza, l’aveva del tutto rimossa. Aveva sognato, si era illusa che quella non sarebbe stata una parentesi, un intervallo meraviglioso, ma temporaneo. Prima che il nodo alla gola le impedisse di farlo: “Intendi partire?”. Juan: “Certo … ormai mi sono ripreso”, bacino, “e devo recuperare il tempo perduto ...”. Si era subito accorto della gaffe. “Intendo il lavoro che non ho fatto ... scusami, ma è un modo di dire. Di tempo non ne ho certo perso ... anzi ... tutto guadagno. Se il giusto prezzo è stato il ritorno di quei dolori, bene, sono pronto a pagarlo di nuovo. Senza esitazioni ... con una Florence Nightingale come te ...”. ‘Tacòn pegiòr del bùso’, si era subito criticato. Nikolett, ancor più avvilita: “E domani ... quando?”. “Hai di che lamentartene?”. Nikolett non aveva risposto, sentiva già le lacrime sfuggirle dagli occhi, aveva abbracciato Juan, e lui aveva sentito il suo petto che iniziava a essere scosso da singhiozzi ancora a stento trattenuti. Aveva chinato il suo capo su quello di lei, e con voce dolce, suadente: “So che è sempre doloroso lasciare la propria casa, la propria terra … ma ... invece che a piangere ... io, fossi in te, penserei a fare i bagagli …”. Nikolett si era di scatto discostata da lui per poterlo guardare bene in viso, negli occhi: “Non stai scherzando vero!?”. Tirso, serio oltre il serio: “Mantengo sempre le mie promesse”. Nikolett, sempre un po’ mogia: “Ah, si tratta di mantenere una promessa … per te … solo questo …”. Juan, come si fa con i bambini che non arrivano a comprendere, non perché non siano in grado di farlo, ma perché facendolo hanno paura come se fosse una loro decisione, un loro forte desiderio, che, se avessero espresso direttamente, sarebbe svanito, labile come un miraggio: “No, lo sai bene che non si tratta solo di questo … Ma questo è quello su cui siamo entrambi assolutamente d’accordo ora … altro è ancora da vedere …”. Nikolett si era un poco rasserenata. Lui non aveva esplicitamente detto in cosa consistesse quel altro, ma non poteva trattarsi che di loro due. O no?. O non era questa solo un’interpretazione distorta dalla sua aspettativa, dal suo desiderio? Aveva sentito montare dentro di lei una grande rabbia, era rimasta stizzita per quel comportamento che le era sembrato ingiusto. Sapeva essere esasperante, un attimo prima dolce, attento, rassicurante; un attimo dopo irritante e indisponente in modo odioso. Ogni volta si era chiesta se lo facesse di proposito, o fosse così complicato per carattere. Certo che lo amava. Non era invece certa che quello di lui fosse vero amore, piuttosto che disperata solitudine … istinto di sopravvivenza.
L’EQUIVOCO. In quel mentre, Clara Morgane, che come si deduce facilmente dalle parole del coro, di cui già ho dato conto, era nella più grande confusione e smarrimento, aveva deciso di prendersi una pausa di riflessione. Una settimana di vacanza, possibilmente di temporanea assenza dalla vita in cui si sentiva ingabbiata, prigioniera. Una settimana al Grand’Hotel. Lasciato tutto nelle mani degli avvocati –lei e Mike, essendo pienamente consensuali, si erano valsi degli stessi avvocati; due perché uno, va’ da sé un civilista, l’altro, Gabriele Brunetti, dello Studio, e, per occuparsi della parte economica, l’esperto che lui aveva suggerito, Marlisa Moitzi- aveva preso il volo. Entrata nella hall del Grand’Hotel, dopo il primo momento di disorientamento dovuto alla strana disposizione della reception, mentre stava per avviarvisi, era rimasta impietrita, il sangue era defluito dal suo corpo lasciandola raggelata, le gambe tremanti, la testa un turbine di pensieri e emozioni. ‘Giovanbattista!. Quello alla reception, che sta conversando con la receptionist, è Giovanbattista!’. Senza che se ne rendesse conto aveva avuto un grido soffocato, che aveva attratto l’attenzione di tutti. Non ci fosse stato un cliente in arrivo come lei, che le stava alle spalle, abbastanza vicino, sarebbe caduta a terra. L’uomo l’aveva afferrata al volo, in tempo, facendola stendere su una poltrona, agitandole sul viso un fazzoletto spiegato. Tra gli accorsi anche il “Giovanbattista” e Nikolett, che si era precipitata al bar a prendere un bicchiere d’acqua, e un tovagliolo inumidito. Intanto il “Giovanbattista” l’aveva trasferita sul divano accanto alla poltrona, l’aveva fatta distendere, ponendole i piedi sul bracciolo, per tenerle sollevate le gambe, e allentato tutto quello che c’era da allentare nei suoi vestiti. Nikolett le aveva posto sulla fronte il panno, e, reggendole il capo, le aveva fatto trangugiare, più che bere, un piccolo sorso d’acqua. Clara era riemersa dal profondo, come risalendo da un pozzo buio, verso una luce, prima piccola e flebile, poi, via via più ampia e chiara. Risalire da un pozzo vertiginoso, portata in volo da una forza che la sorreggeva, questa era stata la sua impressione. Il gelo che aveva dentro si era dissolto, sentiva, anzi, un caldo rinfrancante, e la sua vista era tornata a mettere a fuoco le immagini, senza ostacoli. “Gibi! sei proprio tu! Allora sei vivo ... non sei morto. Ma perché sei scomparso, perché dare a tutti un dolore così atroce e immotivato?!”, un fiume in piena, inarrestabile, e da una che il fiato avrebbe dovuto averlo corto. Gli occhi di tutti i presenti si spostavano stupiti, e morbosamente curiosi, da Clara al “Giovanbattista” e ritorno. Nikolett aveva capito quanto la situazione fosse imbarazzante e bizzarra. Anche il “Giovanbattista” era in difficoltà a chiarire la situazione, rendendola così più equivoca. Pensando, Nikolett, che le parole di una persona neutrale potevano essere utili, almeno per iniziare un chiarimento, si era accosciata vicino al divano, prendendo le mani di Clara tra le sue. “Signora, guardi che c’è un equivoco ... lei ha scambiato una persona per un’altra. Non so chi sia Giovan ... insomma, quello che lei crede di aver riconosciuto, questo signore e Juan Rodriguez Tenorio Urtago de Villena y Salamanca”. Mormorii degli astanti, che, in quel nome, sostenevano di aver riconosciuto un principe, o perlomeno un nobile della Real Casa ... l’erede al trono, perfino! Altri erano d’opinione opposta. “Signora, mi spiace di quello che è successo, ma le assicuro che questa è l’identità del signore, senza alcun dubbio. Dal nome che lei ha detto, pare si tratti anche di nazionalità diverse”. Clara era andata riprendendo il controllo, riavendosi completamente. Solo nel suo sguardo, e nelle pieghe della bocca, si leggeva come fosse ancora shoccata, incredula, non del tutto convinta. Si era messa seduta, pregando Juan di sedere vicino a lei. Quando l’aveva avuto a portata, gli si era avvicinata, scrutandone il volto, indagandone gli occhi, chiedendogli pure il permesso di prendergli le mani tra le sue. Attorno erano iniziate a girare le scommesse. Oltre alle illazioni e ipotesi più fantasiose. Una donna isterica. Un amante o un marito scomparso e in fuga. Un antico amore ritrovato. Insomma, potete sbizzarrirvi nelle ipotesi e fare liberamente scommesse. Più procedeva nella sua ispezione, quasi stesse analizzando un reperto archeologico per stabilirne autenticità, epoca e civiltà di appartenenza, più s’incupiva, si rattristava, il suo viso e tutta la postura del suo corpo denunciavano un grande dolore. Non per delusione, o per il trovare certezze di una menzogna. Si trovava di fronte, piuttosto, a una verità esclusa, negata, nascosta. “Le chiedo infinitamente scusa ...”, sospirone di tutti, il tormentone stava per finire e ci sarebbero stati vincitori e perdenti, alcuni solo per gioco, altri per denaro. Delusione immediata. “Lei ha qualche segno particolare? Mi scusi ancora se oso, ma ...”. Juan, che era stato un po’ divertito dalla situazione, ora si sentiva imbarazzato, dispiaciuto. “Segni nel senso proprio no ... qualche cicatrice sì”. Clara aveva avuto un lampo negli occhi, pur non osando più chiedere oltre. Aveva solo mormorato, “Già ... proprio come Giovanbattista”. Per prevenire una richiesta imbarazzante di mostrargliele, aveva a sua volta domandato, “Come se le è fatte il suo Giovanbattista?”. La risposta aveva fatto rimanere di sasso, questa volta, Juan, “Quasi tutte nella Missione di Petersberg, in Africa Orientale ...”. Juan era sobbalzato, “Cazzo! come me!”. Si era subito ripreso, “Che reparto?”. Clara, “Come?!”. “In che reparto era? In quale contingente combatteva lì?”. “Ah, non so. Non era quello del nostro Paese, questo lo ricordo, ma il resto ...”. Juan si era dato una pacca sulla fronte, perché non aveva pensato subito alla domanda più ovvia? “E ... “, non sapeva come metterla, per non ferire e non urtare quella signora. Nikolett l’aveva tratto d’impiccio, “Dove è stato visto l’ultima volta?”, e aveva tolto le mani di Clara da quelle di Juan, prendendole tra le sue. “Sempre in Africa Orientale ... avevano rapito o sequestrato ... insomma, una cosa così, un nostro amico, un ... cooperante, e lui si è precipitato là per trattarne il rilascio ...”, i suoi occhi erano lucidi lucidi, “poi qualcosa è andato male, una ribellione ... anzi, una guerra tra Nord e Sud, in Sudan, sì ora ricordo bene. Quando sono scoppiati i combattimenti, i quattro prigionieri erano già stati liberati, Giovanbattista non era con loro. Nella zona in cui presumibilmente si trovavano ci sono stati scontri molto violenti, con bombardamenti anche aerei ... e nessuno ne ha saputo più nulla. I comandi militari di ambo le parti, e quelli ONU ci hanno consigliato, in modo sgarbato, brutale, di lasciare ogni speranza. Non poteva che essere morto. Ma lui ...”, aveva accennato con lo sguardo a Juan, ed era scoppiata a piangere, scossa da disperati singhiozzi. Juan aveva chiesto a Nikolett di aiutarlo a portarla in camera, via da quella pazza folla. Fatto, aveva pregato la ragazza di lasciarlo solo con Clara, “Va tutto bene, non intendo approfittare della situazione”, dandole un buffetto sulla guancia. Nikolett si era allontanata, felice di quel buffetto, per nulla convinta sulle intenzioni di Juan. Ma era solo gelosia. Clara era seduta sul letto, Juan si era posto accanto a lei, circondandole, con un braccio, le spalle. La sua voce era calda, suadente, rassicurante, “Signora, può giurarmi che ciò che ci diciamo qui e ora non uscirà mai dalle mura di questa camera? Anzi, dopo che l’avremo detto dovrà essere che non è stato mai detto?”. Clara aveva sollevato lo sguardo verso di lui, con un’espressione indecifrabile, tante erano le emozioni che vi si succedevano o cumulavano, “Lei sa qualcosa?”. Juan l’aveva stretta di più, “No, signora ... mi spiace molto, ne so meno di lei”, l’aveva sentita afflosciarsi. “Conosco però persone ... colleghi ... amici, che erano sul posto. Dovevano intervenire per liberare i prigionieri non fosse riuscita la mediazione di ... Giovanbattista. Il nome non l’ho mai saputo, l’ho sentito ora, da lei. La corrispondenza con i fatti, però, non lascia dubbi. Anzi, loro erano per l’intervento diretto ... è sato lui a strappare una dilazione. Dico bene?”. Un po’ più sollevata, poco però, “Sì, è lui”. “Ecco, ha insistito per fare un tentativo. Probabilmente aveva ragione, sarebbe andato tutto bene ... per sfortuna proprio in quel momento sono iniziate le ostilità. Io non posso prometterle nulla, ma se c’è qualcuno che può saperne qualcosa ...”. Clara si era raddrizzata, un’ombra di speranza negli occhi, “E lei farebbe tutto questo per me? Perché?”. Juan, serissimo, “Perché lei ha suscitato anche la mia curiosità. E su quello che è accaduto. E su questo gemello col quale lei mi confonde con tanta sicurezza, e, soprattutto, e per prima, quest’angoscia”. “Nient’altro?”. Juan aveva capito. “Sì”. “Ah, ecco ... mi pareva”. “Che lei, come le ho già detto, scordi tutto quello che ha sentito ora. Anzi, io non sono mai stato qui più del tempo necessario a farla sedere. Questa è una condicio sine qua non”. “Ha la mia parola, glielo giuro sulla mia stessa vita”. “OK”, prima di alzarsi Juan le aveva dato un’ultima stretta, e deposto un leggero e casto bacio sulla fronte”. Quando era stato sulla porta Clara l’aveva fermato, “Juan ... grazie, grazie con tutto il cuore, qualsiasi cosa accada. Ah, e come ci teniamo in contatto?”. “Non si preoccupi, alla reception hanno tutti i suoi dati ... a meno che lei abbia altri cellulari di cui non ha dato il numero”. “No, però intendo cambiare il mio numero ... mi sto separando, e voglio bruciarmi i ponti dietro le spalle”. “Non sono affari miei, ma, c’entra Giovanbattista?”. “In qualche modo, ma non direttamente ... una storia strana”. “L’ascolterò volentieri quando ne avremo occasione e tempo, e l’avremo di sicuro, se lei vorrà ... la troverò io, comunque”. Era uscito e, chiudendo la porta, aveva visto il volto di lei più sereno, gli occhi ancora con i lucciconi, con in più un lumino di speranza. ‘Tanto’, aveva pensato Juan, ‘quattro chiacchiere con Bojana già devo farle ...’.
SOTTO UN CIELO DI STELLE. Il cielo era un ammiccare di stelle, che poteva rivaleggiare con le luci della città, sulle quali il terrazzo del decimo piano del Grand’Hotel permetteva una vista totale, guardando dai quattro lati, solo per vicinanza e grandezza. Si restava affascinati da quello splendore, da quel fascino, dal sentirsi in cima ad una torre di Babele, dalla quale sarebbe bastato salire in piedi sul muro parapetto, per poterle afferrare. L’aria, tiepida e profumata, mossa da un vento sottile, una carezza gentile, ne faceva una notte da innamorati. Clara Morgane sedeva a un tavolo d’angolo, noncurante, distaccata, senza provare interesse, tanto meno partecipazione, coinvolgimento. Aveva scostato da davanti a sé piatti pressoché intatti, posate, bicchieri, appoggiandosi al tavolo con i gomiti e gli avambracci. Lo sguardo perso, quanto si sentiva persa lei. Com’era possibile che si fosse sbagliata? Gibi lo conosceva a pelle, dal profumo della pelle, e questi non li aveva riconosciuti. Ma quell’uomo, cose si chiamava? Ah, Juan, era un sosia, un clone, un gemello siamese. Ma, se era lui, Giovanbattista, come mai era lì? Perché non aveva avvertito nessuno. Cosa significava la promessa di ... ah, sì, Juan, di cercare informazioni, con la sicurezza di chi le avrebbe trovate? Le scoppiava la testa. Era sobbalzata, per l’emozione improvvisa, quando una mano si era posata sul suo braccio, mente qualcuno avvicinava il capo al suo. Profumo di donna. “Tutto bene?”. Non la conosceva, l’aveva fissata con imbarazzo. “No, non mi conosce, ma ero nella hall, e ho visto quello che è successo. Deve essere stato un grande shock ... tanto più, non me ne voglia, che mi è sembrato lei tenga moltissimo a quell’uomo. Cioè, a quello che lei chiama Giovanbattista. Che Juan Tenorio eccetera sia lui o un altro uguale a lui. L’altra mano della donna si era postata sulla sua spalla, non aveva potuto fare a meno di invitarla a sedersi. “So che non sono affari miei ... ma situazioni simili ne ho viste ... professionalmente, perciò ... so il tormento e l’angoscia che danno”. Accennando ad alzarsi, “Ora è meglio non la disturbi più a lungo”. “No!”, l’aveva trattenuta Clara, quasi pregandola, scusandosi lei per aver dato un’impressione sbagliata. “No, sieda, la prego”. La donna si era presentata, “Sono la dottoressa Sabrina Moncada, consuellor e mediatrice”. Clara aveva avuto un mezzo sorriso, triste, e ironico per quella quasi coincidenza, provocando nella donna uno sguardo interrogativo. “Dottoressa Clara Morgane, clinica, dei rapporti interumani e delle organizzazioni”. Un sorriso contenuto, e breve. “Quasi colleghe”. “No, non ancora, sto per iniziare, dopo aver buttato alle ortiche anni della mia vita”. Sabrina aveva una bella e folta chioma di capelli color del rame, che le scendevano su un occhio, e lei scostava con una mossa che ne faceva un’onda affascinante. Occhi nocciola chiaro. Doveva avere l’età di Clara, o giù di lì. Era di una bellezza che rispondeva ai canoni greco-romani. Forme piene, ma tutt’altro che pingui. Ben tornite, e meglio proporzionate. Indossava una camicetta con una scollatura ampia, su due seni prorompenti, tra i quali chiunque avrebbe voluto tuffarsi. La gonna era lunga, da zingara, con due spacchi, stretti, che salivano fino alle cosce, mostrando gambe pure da dea greca. Teneva una sua mano su quella di Clara, l’altra sul braccio di lei, e la guardava in silenzio, con un’espressione comprensiva, quasi materna. Un invito a sfogarsi cui Clara non aveva potuto né saputo resistere. Le aveva raccontato tutto, da Gibi a Mike, alla trappola in cui si era cacciata, fino al ritorno e fuga di Giovanbattista. E dell’idea folle della casa editrice. E di Peter e Willi, di Silvia e dell’aitante Tutsi. Cesare, il maitre, intuendo la situazione, non aveva osato avvicinarsi. Sabrina gli aveva fatto cenno di avvicinarsi, ordinando solo dei taglieri misti, e del vino locale, che superava i tredici gradi. Clara si era ancor più sciolta, “confessandole” che nulla di tutto quello le interessava più, e, probabilmente, non aveva mai creduto. La morte di Gibi. E, ora, il divorzio, con il totale disorientamento che le aveva provocato. E quell’uomo, che le aveva promesso di aiutarla. Non sapeva chi fosse, e perché gli avesse dato quell’assicurazione, e questo la faceva sentire persa ancora di più. L’atmosfera tra le due donne si era fatta più calda, più fiduciosa da parte di Clara, più premurosa da parte di Sabrina. “Se posso permettermi ... è solo un’intuizione e basta, sembra che tu”, erano passate al “tu”, “e Giovanbattista abbiate passato la vostra vita a fare di tutto per ferivi e sfuggirvi”. Clara l’aveva fissata, gli occhi lucidi, e, dall’emozione e per il vino, sconsolata, “E ormai è troppo tardi!”. “Non è detto”, quell’affermazione l’aveva resa ancora più triste, facendola sentire in colpa, molto in colpa. “Credi a quel Juan?”. “Anche, perché non aveva motivo di darti quella rassicurazione se non può mantenerla. Oppure, dovrebbe essere o un bastardo e un inetto. Cose che a me non sono sembrate”. “Neppure a me”. “Se vuoi posso cercare di aiutarti”, allo sguardo sgranato, colmo di speranza, aveva dovuto precisare”, ... non nel risolvere il mistero di Giovanbattista ... anzi, mi spiace moltissimo dovertelo dire, ma quando uno è dato per disperso in azioni militari tanto a lungo, la spiegazione è una sola”, Le lacrime erano iniziate a fluire dagli occhi di Clara, che si era rassegnata a non combatterle più, “Posso, forse, arrivare a sapere di più su questo misterioso Juan. Soprattutto posso aiutare te a riprenderti. Non sarà facile, e sarà doloroso ... ma devi uscirne. Se no, tanto vale che sali sul muretto e ti butti giù”. Clara si era riscossa a quelle parole durissime, taglienti come un rasoio, e aveva fissato Sabrina con rabbia, e risentimento. Gli occhi di lei erano non meno duri, taglienti. “Posso raccontarti tutte le favole del mondo, e continuerai a rovinarti sempre di più la vita ... e prima o poi te la toglieresti. Non posso e non voglio mentirti. Ti dico che, se vorrai il mio aiuto, sarà un po’ come morire ogni giorno, per tornare a rinascere più forte, e, soprattutto con la voglia di vivere. Non ti prometto nulla che non possa mantenere ... se ti fidi. E non ti lascerò mai la mani”, nel dirlo aveva stretto le mani di Clara ancora più forte tra le sue, “Non devi rispondermi subito, ma neppure starti a gingillare. Io devo ripartire tra due giorni, per allora devi darmi una risposta”. Clara sembrava ancora più sperduta e impaurita di prima. Il vino, avevano dato fondo alla seconda bottiglia, e Sabrina aveva bevuto pochissimo, col trucco del “goccino”: quando si portava il bicchiere alle labbra faceva poco più che intingerle. Non si potevano neppure dire sorsi. Propriamente: si bagnava le labbra. Così un bicchiere era tutto quello che aveva bevuto delle due bottiglie. Clara, dopo un “OK, farò così”, con voce alquanto impastata, aveva accennato ad alzarsi. E subito era barcollata, non ubriaca, alticcia, per così dire. Sabrina l’aveva sorretta, ponendole un braccio sotto quello opposto di lei, e cingendola con l’altro, finché le due mani si erano quasi congiunte, in una stretta ferma, e soccorrevole.
Quello che Nikolett aveva detto a Juan, avrebbe fugato ogni dubbio. In effetti, l’aveva commosso facendogli vibrare ogni fibra, estasiandolo, rapendolo con tanta dolcezza: “Senti, Juan … mi hai rispettato anche contro la mia volontà … in un certo senso … Ma ora facciamo l’amore, per favore”. Nikolett esultava nel chiuso dell’animo suo. Primavera d’intorno / le brillava nell’aria, e n’esultava in tripudi. Ben mill’anni or le parea / dovesser goder con lietezza. Per l’ombrose valli e lieti colli / della terra d’amor molle e lieta e dilettosa / là su fulgor s’acquista per letiziar lui / imperrocché et lei si letificherà in lui. Appena entrati in camera, si era letteralmente catapultata tra le sue braccia, facendo rovesciare tutt’e due sul letto. L’aveva sommerso di baci, di lacrime, e ancora di baci, ansimante, senza più fiato per pronunciare una sola parola. Juan aveva sentito il cuore di lei battere forte nel petto, e battere contro il suo petto. Aveva pensato, non avrebbe saputo dire il perché, né se fosse stato un pensiero irriguardoso, a un passerotto, che, tenuto tra le mani, trema e freme tutto. Il passero, per paura; lei, Niki, per amore. Quando era riuscita a trovare il fiato e un minor affanno, per pronunciare qualche parola, gli aveva detto, la bocca premuta sulla sua, con una voce storpiata ma comprensibile: “E adesso … facciamolo …”. Juan aveva sospirato, mentre lei si sdraiava supina, trascinandolo con sé, sulle lenzuola fresche. Aveva cercato di stringerla in vita, per baciarla … iniziare a spogliarla … Lei era rotolata via dalle sue braccia, si era sfilata tutto, ed era rotolata verso di lui, aiutandolo a finire di spogliarsi. “Fammi l’amore”, gli aveva sussurrato, rotolando supina accanto a lui. Juan si era sdraiato su di lei, ed era scivolato dentro di lei. Quando aveva sentito di nuovo l’ostacolo, si era nuovamente fermato. Era stata lei a voler andare oltre. L’aveva afferrato per i fianchi e spinto dentro di sé, inarcandosi leggermente. Juan aveva sentito rompersi qualcosa, Nikolett aveva lanciato un gemito di dolore. Poi aveva riaperto gli occhi per guardarlo in volto, facendogli capire che era passata, che non avrebbe incontrato più resistenze. Mentre si muoveva in lei, Nikolett aveva iniziato a seguire, eccitata, il suo ritmo. “Oh, Juan … Juan”, gli aveva sussurrato, e si era resa ancor più conto di quanto l’amasse. Quel sentimento commovente l’aveva fatta quasi piangere; due lucciconi gli erano comunque sfuggiti. Vedendoli Juan si era eccitato oltre ogni controllo. Il suo orgasmo era giunto inaspettato, con un lungo gemito di piacere e di deliziosa sorpresa. Gli aveva messo una mano sulla nuca, attirandolo a sé e baciandolo. Aveva chiuso gli occhi quando il suo corpo era riuscito a farsi sentire, a dirle che un nuovo momento di passione sarebbe giunto in lei. Quando lui le aveva sussurrato: “Non riesco a trattenermi ancora …”, lei, sospirando allegra: “Allora fammi venire di nuovo”. I suoi occhi scuri lo stavano fissando adoranti. Le sue guance erano avvampare, i capelli arruffati, e le labbra, rosse e umide, dischiuse. Aveva sentito Juan schizzare dentro di lei, gemendo e inarcandosi di scatto. Anche lei, sentendolo dentro di sé fluire, spasmodico, quasi volesse donarsi tutto a lei, aveva pensato che quella era tutta la sua essenza vitale, la sua anima, intuito che quello era limo del Nilo, che tracimava in lei, ed era stata travolta dal piacere. Alla fine entrambi si erano abbandonati, respirando a fatica, come avessero corso. Nikolett si era detta che nessuno le avrebbe mai fatto una cosa del genere, se non lui. Lui per sempre. L’aveva tenuto fermo, con forza, e si era messa a cavalcioni sopra di lui. Si erano creati come un bozzolo personale, dove c’era solo il calore dei loro corpi, e tutto il mondo fuori. Quando avevano iniziato a fremere, avevano avuto entrambi la stessa sensazione, anche se lo sarebbero detto molto più in là nel tempo. Stare in lei era così piacevole che avrebbe voluto metterci radici. Averlo dentro di sé era così piacevole che avrebbe voluto ci mettesse le radici. Poi era stato tutto cannoni tonanti, finché non era sopravvenuto il confortante sussurro del vento che si portava via il loro bozzolo. Quando, alla fine, si erano guardati negli occhi, Niki le aveva preso una mano, lui l’aveva abbracciata, poi le aveva cinto le spalle e preso a cullarla dolcemente, come una bambina. Erano trascorsi istanti di silenzio. Poi lei aveva deciso di dirgli tutto. O quasi … Per entrambi era stata la parte più strana di quell’esperienza. “Amore, non è stata la prima volta che ho fatto l’amore ... ma è stata la prima ... vera”. Juan la guardava, perplesso e incerto, e lei aveva proseguito. “Avevo 14 anni, ma da sempre i miei si erano comportati con me come con un’adulta, facendomi stare in mezzo ad adulti, ero matura per definizione. Per confermare la mia identità, alla fine mi era rimasta solo una casella da spuntare: l’esperienza sessuale. Non che il sesso mi incuriosisse ... era, era solo che avevo una posizione da difendere. Il vantaggio di essere una bambina precoce era quello di riuscire bene negli studi senza molto impegno, insegnanti e adulti mi consideravano brillante. Ragazze e ragazzi, invece, una secchiona. Così ho cercato tutti i modi e tutte le maniere per passare per strafiga con i miei compagni. Sentivo l’impulso ... e il bisogno di lasciare tutti senza fiato. Avevo trovato un fidanzatino ... anzi, proprio un fidanzato, più vecchio di me. Era splendido. Co’ suoi begli occhi m’innamorava quanto ciascuno era men bello di lei / tanto cresceva ‘l desio che m’innamorava. E mi molceva il core / la dolce vision or delle negre chiome, | or degli sguardi innamorati. Mi vestivo con gli abiti più sexy e osé di mia madre ... avevo già la sua taglia ... quelli che lei si metteva quando voleva far arrapare papà. Lui mi ha liberato dal mio isolamento, ma il sesso lo intimidiva. Quando eravamo soli, in camera o in salotto, ridiventava bambino, la sua spavalderia si dissolveva, più incerto di me su cosa si dovesse fare. Credo che nessuno dei due abbia mai provato un desiderio erotico vero. Così ho cominciato ad uscire con un gruppo di ragazze, quelle sgamate, che sapevano procurarsi documenti falsi o falsificati, per entrare nel bar a bere e a rimorchiare ragazzi. Finalmente ho incontrato un altro ragazzo, anche lui più vecchio di me. Di otto anni. Aveva già fatto sesso, mi avevano detto, e poiché gli uomini pensavano sempre a fare sesso, anche questo mi era stato detto, ho pensato non fosse difficile accalappiarlo. E invece ... sempre pronto al petting, ma ... con mia grande sorpresa e meraviglia, mai ad avere un rapporto completo. Credendo di interessarlo di più, di eccitarlo di più, di spronare il suo orgoglio di macho, gli avevo detto che per me era la prima volta. Invece doveva aver archiviato in qualche meandro del suo subconscio il concetto di “violenza sessuale su minore consenziente”. Oppure, che ne so, erano stati i suoi genitori ad ammonirlo e intimidirlo, dicendogli che le ragazze tendevano ad appiccicarsi al loro primo ... uomo, insomma, a chi le sverginava, e: chi rompeva pagava. La sua riluttanza aveva resistito al mio slancio romantico, anche quando gli avevo giurato che non aveva nulla da temere, non avrei preteso nulla, e se voleva glielo mettevo per iscritto. Nemmeno quando gli ho detto che se non era lui sarebbe stato un altro, quindi tanto valeva profittasse lui della situazione. Niente. Ma non ha potuto competere con la mia determinazione. L’ho minacciato di rompermi l’imene con le mie stesse mani, di stracciarmi i vestiti, e gridare allo stupro. Ha accettato di fare sesso con me. E’ stata un’esperienza così sconfortante, totalmente priva di quelle emozioni dolorose, intense estatiche, di cui tutte mi avevano parlato. Tanto che mi sono chiesta perché la gente parlasse continuamente di sesso, e fosse così ossessionata dal volerlo fare. Mah, forse solo parole parole parole. Poi, sostanza ... niente. Comunque avevo pensato di essermi tolta il pensiero, e mi era passata la voglia di rifarlo. Fino ad oggi. Ho capito che in realtà non ho fatto sesso quella volta. Non era stato ai patti. Come abbia fatto, e come io abbia potuto non accorgermene non lo so. Sapevo che avrebbe dovuto esserci una penetrazione, ma cos’era di preciso una penetrazione? Avevo solo quindici anni! Un anno di fatiche e attese per nulla! Con te è stata un’altra cosa. Piacevole ... ma, soprattutto, assolutamente diverso ... e non semplice. Una porta verso un’altra dimensione, un altro modo di essere, e di parlarci, estraneo alle parole. E’ più bello farlo che parlarne. Forse mi ci vorranno anni per capire completamente cosa voglio da questa dimensione, ma sono felice di sapere che c’é. E che ci sei tu. Ero in cerca d’amore, e neppure io sapevo di quanto ne avessi bisogno. E ero in cerca di me stessa. Credevo di aver fatto sesso secoli prima di oggi che abbiamo ... mi hai fatto l’amore. Fare l’amore con te, lo so, sono certa, è un modo per scoprire e comunicare chi sono. Su questo non mi sbaglio”. ‘Cazzo! possibile che in questa vacanzina mi tocchi ancora di finire quello che altri hanno malamente iniziato?!’, stava per dire qualcosa, ma non certo questo. “No, aspetta”, aveva subito respinto un suo tentativo, “questo non so come dirtelo … quindi te lo dico e basta. Quando abbiamo fatto l’amore … io non ho preso … né ti ho chiesto di … insomma, sì, non ho usato … precauzioni, e neppure tu. Credo … anzi, per me sono sicura … e … sì, lo sono anche di te … non essendo né irresponsabili, né improvvisamente ammattiti o infoiati … sapevamo, sappiamo cosa può accadere … o potrebbe accadere … E la mia .. di non usare precauzioni … è stata una scelta consapevole …”. ‘Cazzo al cubo! Ma è una dannazione! Speriamo che con Anabel non sia stato un bis di ... di questo’.
“Al meno ti accompagno in camera”, aveva affermato, o ordinato?, Sabrina, prendendo Clara sottobraccio, tenendosela vicino, e mangiandosela con gli occhi. “Con grande piacere”, Clara sentiva il suo respiro, e il cuore salirle in gola. Si erano avviate in silenzio, col senso dell’equilibrio che minacciava continuamente di abbandonare Clara. Arrivate in camera, Clara, con na giravolta sgraziata si era lasciata cadere sul letto, trascinando con sé Sabrina, che, come si dice nell’alte pedatoria, si era un po’ tuffata. Clara er ancora molto impacciata, ma il ghiaccio era rotto. Si erano strette una nelle braccia dell’altra, dimenticando il tempo, e, Clara, anche il dolore e l’angoscia. Aveva iniziato a piangere, e quelle lacrime avevano sciolto un altro muro. Teneva Sabrina abbracciata sempre più stretta, e in quel momento si era resa conto di quanto importante fosse Sabrina per lei. Ora, la realtà non le sembrava più fragile, in quel momento si sentiva anche libera. Sabrina, che conosceva da poche ore, che però le sembravano tutta una vita, era accanto a lei, il suo volto era sulla spalla di lei, sentiva il suo respiro uscire dalle labbra socchiuse e riscaldarle la pelle. Una ciocca di capelli di Clara era ricaduta sul viso di Sabrina, che si era voltata piano, per guardarla ancora negli occhi cerchiati. Un po’ di colore le era tornato sul viso. Aveva chiamato il suo nome in un soffio, riscuotendola, e l’aveva spogliata spogliandosi a sua volta. Clara l’aveva accarezzata. Nude sotto le coperte, Sabrina l’aveva abbracciata, stringendola a sé, e baciandola. Clara aveva risposto. Le sue labbra spesse si erano aperte, la sua lingua premeva sui denti di Clara. Le bocche si erano aperte sempre di più. Si erano ancor più avvinghiate. Una mano di Clara si era posata sul seno di Sabrina, che, con la sua, aveva iniziato a esplorare il corpo di Clara. Entrambe erano bagnate. Bagnatssime. Ma lì Sabrina aveva voluto che si fermassero, prima di prender sonno. Perché non voleva andare oltre, non così. Si era innamorata di quella donna a prima vista, le era subito piaciuta da impazzire, ma non voleva iniziare profittando di un momento di debolezza di lei. Doveva tessere una ragnatela bel più ampia, solida, e, soprattutto invitante e appiccicosa, che la catturasse e non la mollasse più.
VARIAZIONE DI PROGRAMMA. Nikolett e Juan avevano trovato la cena eccellente, come al solito. Una pasta allo scoglio, in cartoccio, che non aveva eguali. Era un piatto per due, ma sufficiente per una terza persona. Nikolett lanciava a Juan continue occhiate che erano chiaramente inequivocabili, quanto le risposte di lui. Risposte che le arrivavano da sotto il tavolo e la lasciavano estasiata, fuori dalla vista di commensali agli altri tavoli, e, ma non ne erano sicuri, da quella del personale. Era un dialogo tattile, le dita dei piedi di Juan, sollecite, vagabondavano sul polpacci di Niki, conquistavano il morbido terreno dei suoi interni coscia, ed erano assoltamente cortesi con quanto vi si trovava in mezzo. Niki lo guardava, e si guardava in giro preoccupata, come per accertarsi che in quel gioco, che sembrava troppo bello per essere vero, Juan non combinasse qualche guaio, eccedendo nelle sue profusioni. Alla fine aveva deciso che era tempo, e desiderio di entrambi, di coinvolgere nella loro conversazione privata anche altre estremità del loro corpo, e che a tal scopo era ora si ritirassero. Non appena entrati in camera, il volto di Juan era cambiato, e Niki aveva provato un insolito impeto di preoccupazione, temendo che lui stesse per sfuggirgli. L’aveva abbracciato, e entrambi si erano sciolti in un bacio. “C’è un cambiamento di programma”, le aveva sussurrato. Lei aveva ritratto il capo guardandolo, “In che senso?”. “C’è una cosa di cui devo occuparmi”. Niki aveva inspirato profondamente, e stava per parlare. Lui le aveva messo un dito sulle labbra. “Non ci vorrà più di due, tre giorni … nn c’è motivo che pensi che ti stia prendendo in giro”. “Lo penso già. Non sono una stupida. Allora, qual’è la scusa?”. Tra le sue sopracciglia si era formata una piccola ruga. Lo scetticismo le donava. “Credi veramente che non voglia più … No, non pensarlo nemmeno, non sono così mutevole … e così … sì, beh, carogna lo sono, ma non così carogna. Farò in fretta, te lo prometto”. Niki aveva il broncio, e le oscillazioni dei fianchi con cui era scomparsa chiudendosi in bagno, gli avevano dato un’autentica commozione. Non era stato molto a pensarci. In fondo, insieme a Nikolett, avrebbe potuto presentarsi con una copertura più credibile ... meno appariscente. Due fidanzati, o sposini, o amanti ... in vena di provare qualche emozione. Non avrebbero dovuto nemmeno sforzarsi di fingere nelle loro effusioni, semmai trattenersi, non finire per essere troppo ... indecenti, o esibizionisti, persino. Non avrebbero corso rischi, tra una ricognizione e un viaggio turistico, la differenza ci si sarebbe dovuti sforzare molto per farla emergere. Non aveva bisogno di foto, filmati o altro, gli bastavano occhi e memoria. Non che non avrebbe fatto foto o altro, ma nei limiti, con l’indiscrezione e la frenesia fuori luogo di quasi ogni turista, per il quale tutto era una scoperta, una meraviglia da immortalare. Tra quelle non rientravano i suoi obiettivi. Li avrebbe visti, e da vicino, ma passeggiando, lui e Niki strettamente abbracciati, più impegnati a baciarsi e guardarsi negli occhi, che a fare attenzione alle strade che percorrevano ... e a non perdersi. Che poi fosse tutta scena, tutta una finta, solo loro due l’avrebbero saputo. Niki non avrebbe dovuto neppure far ricorso alle sue doti recitative, non avrebbe saputo nulla, e le attenzioni ed effusioni che Juan le avrebbe dedicato l’avrebbero estasiata più di qualsiasi attrazione e meraviglia locale. Sì, poteva andare. Si era accostato alla porta, richiamando l’attenzione di Niki col un batter di nocche, e, pur senza risposta, le aveva parlato: “OK, scusami. Pensavo che tu avessi bisogno di tempo per preparati a partire … bagagli, saluti … insomma, ti trasferisci, mica vai in vacanza per due settimane dopotutto. E io, nel fratemmpo, sbrigavo questo … lavoretto. Ma se la prendi così. Puoi lasciare l’incarico ai tuoi di spedirti tutto … approfitterei anche per i miei bagagli, perché per dove dobbiamo andare meglio viaggiare leggeri ... ci portiamo solo bagaglio a mano. Ah … se hai il passaporto, va’ da sé”. Non aveva ancora terminato la frase che Niki aveva riaperto la porta fiondandosi tra le sue braccia, non curandosi di travolgero, andare a rimbalzare sulla costa del letto, e far scivolare eantrambi a terra. “Mi porti con te!? Giura!”. “Te l’ho detto, pensavo fosse meglio la prima soluzione, ma …”. “NO, NO, NO … mi porti con te in continente? Fino da Schiller?!”. “Mi pareva fosse già chiarito questo … o volevi un impegno firmato? Mi stimi ben poco …!”. Non aveva potuto aggiungere altro, le labbra di Niki si erano incollate alle sue, la sua lingua frugava freneticamente nella sua bocca, mentre le lacrime, di felicità, invadevano il volto di lui. Non gli aveva dato respiro. Senza neppure spogliarsi, se non il minimo indispensabile -sfilarsi le sue mutandine, calare ma non troppo i pantaloni a lui-, era rimasta a cavalcioni, facendo tutto lei per eccitarlo –ma c’era voluto molto, molto poco- farlo scivolare detro di sé e stringerlo, per poi muoversi impadronendosi dei tempi, dei ritmi, e … delle repliche. Molte repliche. Era sembrata volersi rifare in una notte, di tutte quelle che aveva perso.
“NON CI SONO PIÙ DESERTI. NON CI SONO PIÙ ISOLE. PERÒ SE NE SENTE IL BISOGNO”. Così scrive Albert Camus in L’ÉTÉ – LE MINOTAURE (Edition Gallimard 1959). “Per capire il mondo, bisogna a volte distrarsi; per servire meglio gli uomini, tenerli un momento a distanza. Ma dove trovare la solitudine necessaria alla forza, il respiro lungo in cui lo spirito si raccoglie e si misura il coraggio? Rimangono le grandi città. Però ci vogliono ancora certe condizioni. Le città che ci offre l’Europa sono troppo piene dei rumori del passato. Un orecchio esercitato vi può percepire un frusciare d’ali, un palpito di anime. Vi si sente la vertigine dei secoli, delle rivoluzioni, della gloria. Ci si ricorda che l’ Occidente si è forgiato nei clamori. Il che non fa abbastanza silenzio”. Certi deserti hanno assunto, essi stessi un senso sovraccaricato di poesia. “E’ un luogo sacro per tutti i dolori del mondo. Invece, in certi momenti, il cuore chiede proprio luoghi senza poesia. Per fuggire la poesia e ritrovare la pace delle pietre, ci vogliono altri deserti, altri luoghi senza anima e senza ricordi ... Qui almeno regna la naturalezza. In fin dei conti, esiste una grandezza che non si presta ad essere elevata. E’ infeconda per natura. E chi desidera trovarla lascia gli “ambienti” per scendere nella strada.
La situazione sul campo era ancora a dir poco esplosiva. L’aeroporto internazionale della capitale era controllato dagli Imazighen, la minoranza non araba tenuta fino allora ai margini della società. Dopo avere abbandonato i villaggi sui monti, gli Imazighen avevano dato un contributo decisivo alla caduta del regime, e non avevano alcuna intenzione di ritornarsene a casa senza avere prima ottenuto garanzie militari, posti nel governo -in particolare il Ministero dei Lavori Pubblici- e, soprattutto, risorse finanziarie adeguate. L’aeroporto più prossimo a Sidi Thubacr era invece spartito fra i rivoltosi della città, del capoluogo della regione, Ghazi, e della zona costiera, Surt. Sicuramente Sidi Thubacr era stata la città più determinata a combattere, tanto da aver richiesto il futuro Ministro e Ministero della Difesa. Città martire della guerra, a lungo unica énclave della resistenza, che per questo aveva pagato un prezzo esorbitante in termini di distruzione e di vite umane, agendo in maniera indipendente dal GFP, e dai suoi rappresentanti nella regione. Davanti al terribile spettacolo delle sue macerie fumanti, gli stessi reporter occidentali l’avevano definita una nuova Grozny, o una nuova Falluja. Ciò che il Governo rovesciato non era riuscito a fare, i ribelli e i bombardieri della NATO l’avevano fatto grazie all’intervento della coalizione occidentale. Sotto le macerie di quella città probabilmente giaceva anche il principio della “responsibility to protect”, il diritto-dovere di proteggere i civili tanto sbandierato dalla NATO, che se ne era fatta scudo per le proprie “incursioni umanitarie”. Era anche grazie a questo intervento per la “protezione dei civili”, che le 1.000-2.000 vittime cadute a causa della brutalità dei governativi dall’inizio della crisi, erano diventate 40.000, su una popolazione di appena 6 milioni di abitanti. Se alla voglia di rivincita e di riscatto di Ghazi rispetto alla stessa Capitale, si aggiungeva il desiderio di vendetta dopo l’assedio delle forze lealiste, che avevano ridotto in macerie la città, con un pesante bilancio di morti e feriti, allora era comprensibile perché i miliziani di Sidi Thubacr rappresentavano la vera minaccia alla Giunta Federale Provvisoria (GFP). Poco più in là dall’aeroporto, entrando nella città, altri quartieri residenziali erano stati occupati preventivamente dagli insorti, che controllavano anche la strada che portava dall’aeroporto al centro della città. Una città spettrale, nella quale si cominciavano appena a vedersi i primi segni di vita. Gente rimasta chiusa in casa per giorni, si riaffacciava per strada. Alcuni negozi riaprivano, anche se la maggior parte delle saracinesche rimanevano ancora abbassate. In definitiva Sidi Thubacr era ancora semi-vuota. Dietro l'euforia dei vincitori, c'era ancora una situazione molto critica: la città era funestata da continui black-out, non c'era acqua corrente. Per trovare benzina, bisognava andare a 30 km di distanza, dove una piccola raffineria aveva ricominciato a funzionare. “Stiamo lentamente tornando alla normalità. L'impianto idrico non funziona perché l'acqua viene da riserve nel sud, dove sono ancora attivi alcuni gruppi di mercenari governativi”, aveva assicurato il responsabile dello Stabilization Team, il gruppo incaricato di assicurare la stabilizzazione post-guerra. “Gli ingegneri sono già al lavoro. Tra qualche giorno, ci sarà acqua corrente”. Per ora, tutti si affidavano ai vecchi pozzi, con un asino che girava con pazienza intorno alla noria, sopportando le percosse, la ferocia ella natura, il sole, le mosche, sopportando e sopportando, e da questo lento procedere in tondo, apparentemente sterile, monotono, doloroso, sgorgavano instancabile le acque, come era stato per anni e anni, per secoli. Juan e Nikolett, dai documenti sua collega e consorte –con gran de giubilo di lei, comunque Juan avesse ottenuto quei documenti- erano arrivati sotto la copertura di tecnici di una società con esperienza in organizzazione logistica, consulente della Cho Kiang Banking Society, una delle cinque maggiori banche private internazionali, le cui sedi principali erano a Hong Kong, Shanghai e Singapore. Il Segretario di Stato degli USA, pur dopo il ritiro dell’appoggio all’intervento della NATO, era sbarcato nella Capitale per assicurare alla GFP quanto fosse nell’interesse americano “consolidare i risultati della rivoluzione, e dare aiuto alla ricostruzione del Paese, delle istituzioni necessarie alla transizione democratica, sviluppando la società civile, e più in generale espandendo i rapporti economici in modo da aiutare il popolo di questo Paese a prendere parte ad un più aperto ordine economico regionale”. La realtà era molo diversa, e quelle parole erano state parole al vento. I vecchi rancori non erano facili da dimenticare. Contractor inviatati sia dalla GFT, sia dai Capi che controllavano i diversi quadranti della scacchiera in cui si era trasformata il Paese, stavano già operando per aiutare a “mettere in sicurezza” le armi disseminate su tutto il territorio nazionale. La ricostruzione in sé, quella degli impianti per l’estrazione, il trasporto e lo stoccaggio delle materie prime in particolare, erano un boccone succulento. In un mondo, però, il cui asse economico e finanziario si stava spostando progressivamente verso oriente, americani ed europei non erano più gli unici a competere per spartirsi i profitti della ricostruzione di un paese. Dovevano fare i conti con potenze come la Cina, la Turchia … e il Qatar(!), che partivano da posizioni di vantaggio. Al di là delle ripercussioni del conflitto, bisognava rilevare che le società di molti Paesi africani stavano attraversando una fase di tensioni interne e di progressiva frammentazione. E ciò avveniva mentre l’Africa era oggetto dei crescenti appetiti delle potenze mondiali, per le sue risorse energetiche e naturali. Il continente africano era teatro del affermarsi sempre più ampio, su ogni altro competitore, della Cina, che assicurava un’espansione economica, concentrata principalmente sulla costruzione di infrastrutture, oltre che sull’estrazione di materie prime, e un afflusso di beni di consumo e strumentali. Nonché, va da sé, per la sicurezza. Le potenze occidentali che proiettavano la loro influenza in primo luogo con mezzi militari, sostegno militare o finanziario, erano viste con sospetto, se non apertamente osteggiate, così che, nonostante il loro gigantesco sforzo militare, e dopo aver distrutto un intero paese, gli USA e le grandi potenze coloniali europee, alla fine non avevano praticamente ottenuto contratti petroliferi o vantaggi economici di rilievo. La GFP aveva diviso gli Stati interessati in due categorie: quelli che offrivano cooperazione e sviluppo, e quelli che volevano aprire dei take-away delle risorse del Paese. Washington ed i paesi occidentali in generale, ancora non sembravano aver compreso che gli interventi militari non garantivano più una penetrazione economica duratura, come accadeva una volta, quando l’Occidente non aveva competitori economici sulla scena mondiale. Allo stato attuale, si stava rivelando molto più efficace e “redditizia” la penetrazione economica in “stile cinese” che non quella militare di marca americana. Tanto che, quasi in tacito accordo, gli USA avevano gradatamente limitato la loro area di influenza e di controllo ai soli Paesi che si affacciavano sul Golfo di Guinea. Fare un elenco, anche sommario, degli investimenti cinesi, richiederebbe troppo tempo e spazio. Questa era, anche, una delle ragioni che avevano spinto Juan a presentarsi con quelle credenziali, che non erano di sola copertura. Lui era un tecnico dell’organizzazione logistica, e aveva ricevuto un incarico dalla Cho Kiang Banking Society, nel modo e nei termini che non anticipiamo qui. Anche Nikolett faceva il suo lavoro: si era immedesimata nella parte, dando più ampio spazio al ruolo di neo-consorte, che non a quella di collega. Nel contempo, anche le società specializzate nel settore della sicurezza privata erano già al lavoro in risposta all’aumento vertiginoso della domanda nei settori del risk assessment e della sicurezza, in particolare quella necessaria per la gestione dei pozzi petroliferi. Tra queste c’era la SOE, e Juan si ritrovava con una gran brutta gatta da pelare. Anabel aveva firmato un contratto, al quale stava sicuramente lavorando da tempo, tenendo Juan all’oscuro di tutto; e poi, sempre per accordi presi da lei –era o no la CEO?!- aveva inviato Juan a prendere contatto con emissari dello stesso Paese. Così Juan si era ritrovato sul posto con un doppio incarico, senza che fosse chiaro se si trattasse di rappresentanti della stessa “parte”, o almeno di parti alleate, e non invece contendenti, in conflitto tra loro.
POUR PARLER. Quello che Juan aveva avuto, prima della partenza, era stato un incontro di lavoro, con un probabile cliente. Probabile, non ancora “possibile”. Per questo era rimasto al Grand’Hotel dopo la fine del time-out con Anabel, e prima della notte tempestosa con Nikolett. Va da sé, la fase precedente era stata quella dell’accertamento reciproco delle identità e delle credenziali, tramite chi aveva avuto l’idea di metterli in contatto. Prassi comune quando qualcuno aveva intenzione di valersi dell’esperienza e della pratica ad alto livello del SOE. Non ci si incontrava in un ufficio, sede, casa o altro di uno dei due. Si ricorreva a un territorio neutro. Era pratica di lungo corso, se non secolare, sub specie di corsari e di mercenari, che gli Stati affidassero sempre più ampie sfere di attività, a società o compagnie di contractor. Con il diffondersi dei conflitti locali, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, molti Governi avevano fatto ricorso, con profitto, a professionisti indipendenti. Alcune Compagnie militari private (CMP) fornivano piccoli eserciti per operazioni di polizia contro sommosse, o di controguerriglia se tormentati da agitazioni politiche e a rischio di colpo di Stato. Altre Compagnie, come la SOE, fornivano istruttori militari; esperti in organizzazione logistica –come Juan- e in tattiche; specialisti nel controspionaggio e nell’organizzazione di reti di contatti e comunicazioni, indipendenti da quelle ufficiali. Non forniva né intermediava, invece, a differenza di molti altri, l’ingaggio di combattenti, nella convinzione che in un Paese è opportuno che il popolo veda il “Capo” protetto, o destituito, da forze formate da connazionali. La filosofia aziendale era quella di aiutare i clienti a sbrigarsela da soli.
Il luogo dell’appuntamento era a quindici chilometri dal Grand’Hotel, nell’interno, in una sontuosa e molto ben sorvegliata villa, già appartenuta a qualche barone della locale nobiltà terriera, e circondata da terreni ondeggianti, ombrosi boschetti, e giardini ben curati, in mezzo ai quali si intravvedeva un’impressionante piscina. Campi e boschi più ambi si estendevano tutt’attorno. La costruzione era quadrata, protetta da mura molto alte, munite di apparecchiature elettroniche. Un certo numero di guardie del corpo, messe appositamente in bella vista, contribuiva a ostentare condizioni ideali di sicurezza. Nel vasto cortile interno, viali e vialetti ghiaiosi attorno a aiuole, pezzi di prato cintati o meno da basse siepi, in un armonioso disegno che si sarebbe potuto ammirare solo dall’alto dei balconi e delle finestre. Su un lato era aperta un ampia autorimessa, dove figuravano due SUV BMW, cinque o sei Range Rover non propriamente attrezzate per uso civile, e quattro berline Mercedes e Lancia.. L’ala opposta al portone d’accesso era senza decorazioni né fronzoli, che abbondavano sulle altre facciate, e con infissi più piccoli, un aspetto generale molto modesto. Chiaramente era destinata alla servitù. Juan aveva preso nota: ogni particolare, ogni dettaglio, era essenziale. Ai piedi di quattro gradini che salivano a una porta, l’aveva accolto e introdotto nella villa, un uomo piccolo e tarchiato, dai modi molto formali, vestito con capi firmati. Non prima di avergli chiesto di consegnare armi e cellulare, o altri dispositivi elettronici che si portasse indosso. ‘Sorveglianza discreta, a distanza, non visibile. Sanno fare il loro mestiere’, Juan aveva consegnato l’arma e il suo GIL, poggiandoli sull’imbottitura di un cestino di vimini, che l’ometto gi aveva porto. Il salone nel quale era entrato Juan era grande quanto un campo da tennis, tutto cremisi e oro. Tutto trasudava lusso, ostentava le nobili, e ricche, origini, esigeva che l’alto rango dei proprietari impressionasse gli ospiti. E rassicurasse i proprietari stessi. “Molto lussuoso”, aveva commentato Juan, senza ricevere cenno dall’ometto. Dalla poltrona in cui era sprofondato, si era alzato un altro uomo, di sicuro l’ospite, che aveva accolto Juan con un ampio sorriso, invitandolo, con un gesto, a sedersi. Nessuna stretta di mani. L’ospite era di statura media, a confronto con il bassotto sembrava più alto di quanto non era, e aveva un torace possente, saldo. I capelli erano tagliati così corti che pareva calvo. Barbetta da profeta. Anche i suoi abiti erano capi firmati, ma con firme di maggior prestigio, confezionati a mano su misura, perfetti. Il piccoletto aveva portato, su un vassoio d’argento finemente cesellato, bicchieri con una caraffa di tea freddo e una di limonata ghiacciata, che aveva servito a tutti, compreso se stesso, prima di prender posto a lato dell’ospite. Si era presentato come Mazhar Saleh. Non che il nome importasse, era sicuramente falso. Aveva guardato con interesse il contenuto del cestino. “Posso?”, aveva chiesto prima di prendere in mano il GIL. “iPhone?”. “No ... le presento Gil, Global Interface Link, telefono, computer, gps, modem, carta di credito, scanner, e navigatore ... e no, non fa anche il caffè”. Mazhar Saleh aveva avuto un sorriso stiracchiato, “Impressionante. Pretendo troppo se le chiedo di averne in omaggio uno?”. “Non dipende da me, ma riferirò certamente. E caldeggerò, non dubiti”. Era sembrato soddisfatto della sua risposta, o dalla sua diplomazia. Mazhar Saleh era passato alla Walther di Juan, che ne aveva illustrato le caratteristiche, “E’ la principale antagonista delle Glock tra le semiautomatiche. Mantiene alcune caratteristiche distintive della P99, come il fusto in polimero, e l’eccellente impugnatura, anche se sulla P22 è stato adottato un più tradizionale sistema con cane esterno. Singola azione, peso di trazione intorno ai 1.200 grammi. Per grandi performance nel tiro rapido”. “Sembra davvero una versione in scala ridotta della P99, stessa estetica, la stessa eccellente impugnatura, linea elegante e inconfondibile”. “E anche la sequenza dello smontaggio”, operazione che stava svolgendo a beneficio dell’ospite, “è ereditata dalla P99, ma soprattutto è ispirata al sistema adottato per le mitiche PP e PPK –ricordate Bond, James Bond?-, sulle quali si faceva basculare verso il basso il ponticello, prima di sfilare il carrello dalla parte posteriore delle slitte ricavate sul castello. In questa, il ponticello è fisso, e per sganciare il carrello bisogna agire contemporaneamente sulle due facce zigrinate del cursore, che sporgono sui due lati del castello. Dopo aver abbassato il cursore, impugnandolo con pollice e indice della mano sinistra, si fa arretrare con la mano destra il carrello, fino a farlo uscire posteriormente dalle guide ricavate sul fusto. La parte migliore per la quale afferrare il carrello sono le sei scanalature posteriori, dagli incavi piuttosto profondi, che si utilizzano anche nella fase di cameratura del colpo. Una seconda zigrinatura è presente nella parte anteriore del carrello. Il lubrificante migliore è il TW-25 B a base di fluorocarburi. Per le munizioni ...”. “ ... Stinger a punta cava”. “Certo”. Mazhar, dopo che Juan l’aveva rimontata, l’aveva rigirata tra le mani, da esperto, estraendone il caricatore, e poi espellendo il colpo in canna. Aveva provando il meccanismo di scatto. Sembrava soddisfatto, e aveva deposto la pistola senza reinserire i proiettili. Jaun si era chiesto se non fosse stato un espediente per scaricare la sua arma. Se sì, era stata una mossa maldestra, poteva semplicemente chiederglielo. Non era stato un pretesto, “Ottima arma ... ma, mi scuserà se mi permetto: una calibro .22? Mi aspettavo qualcosa di più ... potente”. Juan aveva riso divertito, “Non si preoccupi, ho anche altro, secondo le circostanze”. “Tutte calibro 0.45, scommetto, e se ne va in giro con ... questa!”. “Mi permetta, non dovevo andare alla guerra, e, comunque, nel caso, sono sotto ottima scorta”, il signor Mazhar Saleh aveva leggermente inchinato la testa con un sorriso di cortesia, per ringraziarlo dell’apprezzamento, e per l’apprezzamento della sua perspicacia. “Ora, se qualcuno volesse eliminarmi, e usasse un cecchino, sarei morto comunque. Mettiamo invece il caso di un killer, che necessariamente deve avvicinarsi ... e prendere la mira. La velocità di reazione e la precisione dipendono dal tiratore, ma anche dall’arma, e io, con questa, sono estremamente veloce. E ho il vantaggio della sorpresa: fondina alla cintura, quasi orizzontale ... e a sinistra. Mi basta poter appoggiare una mano sul fianco, un gesto abbastanza naturale, accompagnato da un movimento molto più ... sospetto con la destra, e ma la trovo in mano prima di accorgermene io stesso. L’ipotetico killer userebbe probabilmente qualcosa, come dice lei, di più potente, quindi più grosso, più difficile da estrarre, più tempo per farlo, da reggere poi con due mani, altro tempo, e per prendere la mira, altro tempo ancora. Il vantaggio è tutto mio. Con una .22 estrarre, puntare, sparare, e a una mano, è più fluido, veloce, con un po’ di allenamento addirittura un riflesso istintivo”. Mazhar aveva annuito, e contemporaneamente scrollato la testa dichiarandosi solo parzialmente soddisfatto, “E la potenza? La forza d’impatto? Una 0.45 mette fuori combattimento con un solo colpo, una .22 no”. Altro sorriso sornione di Juan, “Il mio obiettivo, in un simile frangente, non sarebbe mettere fuori combattimento il killer, ma eliminarlo”. Fronte aggrottata, “Con una .22?”. “Certo. Un killer potrebbe anche indossare un giubbotto antiproiettile”, Mazhar aveva annuito vedendo la sua obiezione a maggior ragione confermata, “Perciò c’è un solo punto nel quale sono sicuro di poterlo colpire a morte, e una .22 è più utile di un cannone a mano”. Saleh aveva ridacchiato all’ultima definizione di Juan, “E dove sarebbe questo ... tallone di Achille?”. “Gli occhi”. I due uomini l’avevano guardato perplessi, si erano guardati sconcertati, per tornare a rivolgersi a lui, attendendo una spiegazione meno succinta. “C’è un unico punto del corpo umano, beh, nel caso due, che non possono essere né nascosti né difesi: gli occhi. Anche se il killer si fosse spalmato la faccia di nero o altro, il bianco degli occhi resterebbe visibile. Se portasse occhiali, evidentemente dietro ci sono gli occhi. Occhiali di notte, riflettenti non certo scuri e comunque improbabili, e ancora non lo proteggerebbero, dovrebbe ... corazzarli ... Un solo colpo e il proiettile entra, nella scatola cranica attraverso l’occhio, e si mette a rimbalzare come una pallina da flipper. Persino riuscisse ad entrare nella mia stanza di notte, non potrebbe nascondere il bianco degli occhi ... et voilà, c’est tout”. Mazhar Saleh non era ancora del tutto convinto, “E il fattore sorpresa?”. Juan aveva scrollato le spalle, “Per quanto si possa stare attenti e in guardia, resta un fattore imponderabile, senza chi ti copre le spalle. Resta l’istinto, e alcune quasi certezze. Un killer non mi avvicinerebbe di fronte, sarebbe un duello non un’esecuzione. Resta un attacco laterale, e qui conta il colpo d’occhio, l’attenzione continua, essere sempre in allarme rosso. Arrivando da un fianco, l’ipotetico killer, sempre con gli handicap che ho detto, può solo mirare alla testa. Se mi sorprende, è come col cecchino: uomo morto. Se no, sempre col vantaggio di un unico gesto, posso sparare mentre mi accovaccio. Dovrei sparare più di due colpi, ma potrei anche trovare un riparo, quindi ...“ “Impressionante, davvero impressionante, devo confessare che mi ha fatto venire i brividi ... quindi lei è un killer perfetto, diciamo”, e impressionato lo era veramente, e molto. “No, il mio lavoro è prevenire, e, per prevenire, se mi consente l’espressione, devo saperne sempre una più del diavolo”. Mazhar Saleh aveva assentito gravemente, rimanendo un attimo assorto, forse meditando le parole di Juan. “Allora credo che lei sia proprio l’uomo giusto”. Il resto del colloquio era stato piacevole: oltre al buon gusto, Saleh aveva dimostrato intelligenza, perspicacia e determinazione. Non era mai stato arrogante, e non aveva mai dato cenni di contrarietà alle osservazioni che Juan, via via, faceva. Come si conveniva, l’aveva presa molto alla larga. “Come lei ben sa, dopo il rovesciamento della dittatura, nel mio Paese, così come negli altri che si sono liberati, la situazione è più incerta che mai. La sfida della riconciliazione, e della ricostruzione, sembrano troppo ardue per la GFP. Le diverse forze politiche e militari si sono frammentate. Istituzioni governative e strutture amministrative sono inesistenti. Il GFP è un fallimento anche nelle cose più banali. Ci sono città che si comportano come città-stato dotate di proprie milizie. E provincie che sono staterelli autonomi. Un mosaico di gruppi di miliziani che non vogliono né ritirarsi, né consegnare le armi, e obbediscono solo ai loro comandanti. C’è il serio rischio che si formino “stati ombra”. Anche i fedeli al vecchio regime stanno riarmandosi, anche con armi pesanti, e hanno occupato una città, resistendo a una brigata delle forze regolari, finché non hanno deciso loro stessi di ritirasi. Parlare di controllo del territorio da parte del GFP sarebbe quanto meno azzardato. Più che dell’unità nazionale e della ricostruzione ... guardi, tutto ciò che era in macerie continua ad esserlo, ciò che era confuso e incerto ad esserlo di più ... siamo una scacchiera di cui ogni riquadro è una potenziale polveriera. Invece c’è molta delusione e irritazione per la poca trasparenza nella gestione del fiume di denaro che sta affluendo nel Paese da ogni parte del mondo ... Come non bastasse, circolano voci, per ora non confermate ... almeno non ufficialmente, di vendite di gas a un prezzo ben al di sotto a quello di mercato, per saldare un debito con chi ha dato appoggio al GFP. Vere o non vere, alimentano l’ostilità verso nuove forme di corruzione e concussione che si speravano finite col vecchio regime”. Juan non era solito interrompere l’interlocutore, ma era sempre meglio mostrare di non essere degli sprovveduti. “E sulla destinazione della spropositata quantità di armamenti in mano a ex-soldati, miliziani, semplici cittadini? Mi risulta siano ancora in circolazione circa seicento ex-“afghani”, veterani anche del Ciad e dell’Afganistan. Per non dire di quelle vendute alle organizzazioni fondamentaliste. State ... o stanno lentamente armando formazioni che si ispirano ad Al Qaeda, e tutti ricavano bei soldi anche da questo commercio”. Mazhar aveva pensato a lungo prima di rispondere, ma aveva capito che la risposta a quella domanda era determinante, “Di questo non si preoccupi, abbiamo già chi se ne occupa. Le posso assicurare che verrà tutto “riciclato” verso altri scenari”. Juan non era soddisfatto, “Mi scusi se insisto, ma se devo anche solo incrociare la scia con un’altra ... società come la mia, desidererei proprio saperlo ... altrimenti temo di ... insomma, ci siamo capiti”. Saleh non aveva avuto bisogno di riflettere a lungo come prima, si aspettava quella richiesta, e non poteva non considerarla legittima, “Avrà sentito parlare di un “generale fantasma” israeliano che arruola mercenari e armi, anche di ... seconda mano, per, appunto, riciclarli, a regimi traballanti, o che ancora non sanno camminare sulle proprie gambe ,,,”. “Il GDS !?”, aveva subito concluso Juan. “L’ha detto lei”. Juan aveva preso buona nota, rimanendo esterrefatto da quella “rivelazione”, il SOE e il GDS erano legati da un patto di mutua assistenza ... come poteva essere ...? Non aveva avuto tempo di rifletterci più a lungo. Saleh aveva preso la parola annuendo gravemente, “La Giunta provvisoria si sta trasformando in una nuova oligarchia di notabili ed ex-notabili, e la situazione sta assumendo aspetti che ricordano l’Afghanistan, l’Iraq, la Somalia. Tutto rischia di degenerare in una guerra civile, non solo tra diverse formazioni, anche tra diverse aree del Paese. E lo spirito vendicativo, la volontà di ritorsione sono a livelli ancora molto alti, esplosivi. E’ più facile sparare che perdonare. Terreno fertile per l’Aqmi, Al Qaeda per il Maghreb Islamico. L’esercito non esiste, il vuoto lo sta riempiendo la Lega nazionale degli Shabab. E dietro a tutto stanno i Fratelli Musulmani, che tengono un profilo basso, per non inquietare i moderati e la comunità internazionale. E’ la loro tattica implacabile, se otterranno grandi consensi alle elezioni passeranno dal “benessere per tutti”, a “Allah è la vera soluzione”. E questo vogliamo proprio evitarlo. E’ il nostro obiettivo”. Juan era aveva un’altra domanda in punta di lingua, e non poteva trattenerla, “E le Tribù? Hanno avuto un ruolo decisivo nel rovesciamento del regime. Hanno saputo metter da parte le loro tradizionali rivalità, e anche ora sembrano fare fronte unito, mentre gli altri si scannano”. Il viso di Mazhar si era disteso in un sorriso compiaciuto, e di apprezzamento. “E’ un conoscitore della nostra storia, o si è ben aggiornato prima di venire qui”. Juan, serio, “Entrambe le cose, è il mio mestiere”. Saleh, fattosi a sua volta molto serio, “Bene, visto che ha centrato il problema ... Le tribù sono un pilastro antico. La loro presenza e il loro radicamento hanno origini antichissime, e sono radicate nelle piccole città, nelle campagne, fra i beduini del deserto. Sono musulmani, ma la loro cultura è un mix di tribalismo, usi consolidati e un senso innato del potere che mal si conciliano con l’integralismo. La GFP è presente, e divisa, nelle grandi città, dove non risiede la maggioranza della popolazione. Gli Sceicchi sono presenti in ogni organismo, vecchio e nuovo. Sono piazzati trasversalmente in tutti i partiti, e il loro progetto è simile a quelli degli gnomi del Golfo. Vogliono il controllo delle risorse pubbliche, soprattutto vogliono il petrolio. Sono i soli che si stanno muovendo per rimettere in moto i servizi essenziali: l’acqua, la luce, la sanità, aiuti alle famiglie”. Juan, “Virtualmente hanno già il potere”. Mazhar, con sconforto, aggrottando la fonte, “Non è così semplice. Per ora sono uniti, è un Consiglio di tutti gli Sceicchi che prende le decisioni. Ma manca un collante. Chi può mettercelo, è in prigione. E reparti con addestramento e armamenti moderni sono accampati oltre i confini. C’è già un accordo di massima tra le Tribù e con le Tribù”. Juan aveva completato, “Quindi, basta liberare i prigionieri”. Mazhar, aprendo le mani come un prestidigitatore che dice “voilà”, “Esatto. Questo è il piano. Ma nessuno dei contendenti può permetterselo, senza evitare l’accusa di tradimento e connivenza con qualche potenza ... take-away. Serve un colpo di mano, condotto da professionisti. Un’operazione chirurgica ... il resto verrà da sé. Ci sono anche ex comandanti delle truppe speciali governative ... ma, al tempo, chi poteva non far parte di qualcosa di governativo? Eppoi, il nostro asso nella manica è l’attuale capo dei servizi di informazione e sicurezza, un ex del regime”. Juan, “Quindi si tratta di non procedere a purghe ... di riconciliarsi con chi è disponibile ... ed è possibile farlo. Immagino, per evitare che prevalgano i Fratelli Musulmani e Aqmi”. “Esatto!”. Mazhar Saleh si era rivolto al piccoletto, che era stato fin’allora in assoluto silenzio, “Signor Kilo, Nazim Kilo”, aveva precisato a beneficio di Juan, “vuole esporre le linee generali ...”, non era una domanda. Nazim Kilo si era raddrizzato sulla poltrona, nella quale si era afflosciato, “E’ un piano semplice, che prevede l’assembramento delle ... truppe e delle armi a Skhira, nel confinante Qarṭāj, da trasportare poi in aereo fino nei pressi di Zoyara. Lì troveranno l’appoggio delle Tribù Taqbilt. Nazim Kilo aveva liberato il tavolino, per stendervi cartine e foto aeree, sulle quali tutti e tre si erano chinati, sedendo in punta di poltrona, le braccia appoggiate alle gambe. “Si radunerebbero fuori dalla città, lontani anche dalle periferie ... ci sono solo campi spogli”, sottolineava la sua esposizione spostando l’indice sui vari luoghi, “e li riforniremo di armi dal cielo. Avevamo anche pensato a un’operazione interamente paracadutata, ma abbiamo pensato che la squadra potrebbe disperdersi troppo. Con gli elicotteri bisognerebbe volare più basso, e più vicini. Sarebbe necessaria una base più prossima all’obiettivo, e poter disporre di rifornimenti di carburate, di pezzi di ricambio, di personale a terra ...”. Juan non aveva riconosciuto solo i luoghi, ma anche le cartine e le mappe. Erano foto e mappe millimetriche, chiaramente riprese da satelliti o ricognitori d’alta quota, e anche molte riprese a bassa quota. Ognuna portava in calce l’indicazione identificativa del reparto, del mezzo, delle basi, del giorno, ora, minuto, secondo ... Mancavano solo le sigle dei piloti. Sicuramente erano state fatte su indicazione precisa, da chi stava fornendo appoggio, e non si trattava di compagnie di mercenari. Aveva registrato l’osservazione, per riesaminarla meglio e con più cala. “Si introdurranno in Città e l’attacco sarà di sorpresa e riuscirà ... e due brigate che sostano appena oltre il confine del Sahara interverranno. E ... e poi ci sono tutti i prigionieri, i mercenari del regime, rinchiusi con le loro famiglie, che riceveranno armi e combatteranno con noi. Questa volta non per soldi ... per odio. Da quando sono rinchiusi nei campi sistematicamente le guardie si eclissano e lasciano via libera ai predoni, che rubano e violentano. Ogni notte, per tutta la notte! Vedrà se non si butteranno a scannare i loro aguzzini ...!”. “Nazim!!!”. Saleh l’aveva richiamato con durezza, poi, con voce ferma, ma più bassa, “Calmati ... non stai fomentando la rivolta ...”. La reprimenda non era solo formalmente un invito alla calma. La motivazione vera era che il signor Kilo stava rivelando troppo del loro piano, soprattutto qualcosa che non avrebbe dovuto. “Lo sganciamento?”, aveva chiesto Juan. “Come?”. “L’uscita di scena, e l’uscita dal Paese”. “Nessun problema, la situazione sarà sotto il nostro controllo ... ... i “visitatori” spariranno con la stessa velocità con cui saranno venuti ... il resto sarà nelle nostre mani. Tanto più che inizialmente ci sarà un gran disordine”. Juan si era mostrato scettico e perplesso, “Potrebbe non andare così, e, in ogni caso sarebbe meglio scomparissero prima che la situazione si normalizzi. Un piano B ci vuole sempre, e lo sfilarsi alla svelta risponde anche a un’esigenza vostra: i mercenari hanno la ferma convinzione che in un Paese è opportuno che il popolo veda il “Capo” protetto, o destituito da forze formate da connazionali. E’ una regola aurea”. Saleh aveva saputo diplomaticamente rivoltare il bambino nella culla, serafico, “Quello di come far uscire il ... commando è un problema logistico per il quale ci siamo rivolti a lei ...”, si era affrettato a dire. A Juan era piaciuto quel modo di uscire da una situazione imbarazzante, e aveva rilanciato, “Benissimo. Questo è un incarico in più, e ne sono onorato. Ovviamente dovremo rivedere il preventivo”. Mazhar Saleh era pacato e calmo, ma Juan era pronto a scommettere che avrebbe voluto prendere a martellate sui coglioni se stesso e Nazim, non nell’ordine: gli aveva rivelato proprio ciò per cui aveva richiamato all’ordine Kilo, prima che sproloquiasse. Ormai la frittata era fatta, ma Saleh voleva salvare l’onore, “Ah, sì ... sì, quanto al preventivo è logico. Per il resto credevo proprio le fosse sufficiente … l’avevo dato per contato …”. L’ultima parte della frase l’aveva pronunciata come avesse a che fare con un alunno che l’aveva deluso: si era aspettato che ovviamente sapesse una cosa, e quello, inopinabilmente e in modo veramente sconcertante per il maestro, aveva fatto scena muta. La forma, in questo caso, era più importante della sostanza, e Juan gli aveva lasciato il punto immaginario. Quasi. “Se prima deve consultarsi ...”, dentro di sé stava divertendosi, mostrandosi però serio, quasi riverente. Stoccata andata a segno, ma incassata bene, “No, signor Juan Tenorio, io non devo consultare né tanto meno rispondere a nessuno”, ancora una volta aveva dovuto affrettarsi ad aggiungere, “Sono un plenipotenziario ...”. E dopo la parata, Juan aveva toccato: “Io invece no, purtroppo. Devo sentire il mio Capo, prima di darle un assenso formale e definitivo. Io non sono plenipotenziario ... diciamo, un ambasciatore”. Il colpo a segno di Juan era consistito nell’aver posto il proprio rango e ruolo al di sotto di quello di Saleh. Quest’ultimo si era certamente aspettato di contrattare con un parigrado, un decisore finale. Invece aveva dovuto intrattenersi con un “ambasciatore”, un portavoce, uno che contava meno ancora di Nazim Kilo!
FACENDO DUE RIGHE DI CONTO. Al ritorno avevano usato un’auto diversa, una Mercedes, e un itinerario diverso, per poi lasciarlo non all’Hotel, ma all’inizio dell’isola pedonale che occupava il centro della città. Là dove Juan aveva avvertito i primi sintomi del male che l’avrebbero portato alla notte buia e tempestosa ... ma anche tra le braccia di Niki, e oltre. La scorta, invece, era la stessa. Juan, durante il tragitto, aveva voluto subito registrare alcuni punti che avevano attirato la sua attenzione. Uno l’aveva già fatto presente: il punto critico di simili piani consisteva nel modo di riportare a casa gli uomini a cose fatte ... anche nel caso fossero andate male. Qualsiasi fosse il piano, doveva necessariamente includere tutte le cautele possibili in vista dello sganciamento, e scegliere le meno fallibili. Di infallibile non c’era nulla, rischio del mestiere. Anche Saleh, e Kilo, avrebbero dovuto preoccuparsene, non sarebbe stato gradevole neppure per loro che venissero trovati sul campo dei mercenari dopo il colpo, riuscito o mancato. A meno che ... a meno che pensassero di eliminarli facendo ricadere su di loro ogni sospetto di complotto, e passando per salvatori della patria. Improbabile, ma non impossibile. Sarebbe stato un inganno one shot, che si poteva usare una sola volta, e facendosi non pochi nemici. La febbre del potere però ... Secondo punto. Un dato di fatto per tutte le formazioni paramilitari di mercenari, tutt’altro discorso per i contractor, era che non potevano operare, anzi non potevano neppure pensare di esistere, senza la consapevolezza e il tacito assenso del loro Governo. I Governi non potevano fare a meno di sorvegliare i mercenari e le loro organizzazioni, che, diversamente dai contractor, non erano ingaggiati dai Governi stessi, soprattutto se agivano in zone nevralgiche, poiché costituivano una fonte di potere e, come diretta conseguenza, di disordine. Quando diventavano troppo importuni, allora la tolleranza ufficiale veniva meno, e potevano anche essere eliminati. Non direttamente da quel Governo, ma in base ad informazioni date da quel Governo. C’erano, inevitabilmente, situazioni poco chiare, nelle quali i Governi, se non usavano forze da loro non palesemente dipendenti, facevano affidamento su di loro, e fornivano supporto: informazioni, contatti, armi, mezzi di trasporto, ricognizione aerea. Erano situazioni nelle quali un Governo voleva indirizzare le cose nella direzione giusta, e non poteva giustificare un intervento diretto. Era escluso l’impiego di forze regolari, che avrebbero dovuto essere distratte e impiegate in segretezza, fomite dopo aver eluso noie non poche noie burocratiche, e c’era sempre qualcuno che finiva col porre domande, o, peggio, interrogazioni, compromettenti, che avrebbero costretto a negare l’esistenza di un’operazione. Un esercito privato, all’occorrenza, era tranquillamente ripudiabile. E’ vero che erano eterocliti, travagliati, ma sapevano muoversi o meno a un cenno di assenso o a un aggrondar di ciglia. Mastini della guerra. Per qualsiasi impresa, quindi, occorreva valutare non solo i pro e i contro, ma anche tastare il polso a qualche Governo, scoprire quali appoggi potesse avere l’obiettivo da colpire, stabilire la possibile estensione di quell’iniziativa privata. Indagini nelle quali era essenziale evitare approcci troppo scoperti, che avrebbero violato le basilari norme di sicurezza, e creato disagio e noie al Governo. Una approvazione formale non ci sarebbe mai stata, e il punto di vista ufficiale andava vagliato con cura, senza porre domande dirette, e eccessive. Il ricorso all’intuito politico era l’unica risorsa per decidere la portata della libertà d’azione di cui si disponeva. Grazie alla sua esperienza, alle sue prestazioni, e alle sue relazioni, Juan Tenorio era in una buona posizione per saggiare il clima ufficiale. Era avvezzo ad avvertire le tendenze, dove tirava il vento, qual’era il giro del fumo, scegliete voi la definizione che meglio vi aggrada. E più di una volta aveva dimostrato di saperlo prevedere. Non poche volte aveva iniziato i negoziati in vista di un contratto promettente; insomma, era il suo mestiere. A chi doveva misurare la pressione? Un’indicazione l’aveva: le mappe e le foto. Non solo erano rivelatrici del Paese di appartenenza dei mezzi impiegati in base all’identificazione dei reparti, ancor più rivelatrici erano le indicazioni temporali. Foto e cartine, soprattutto quelle rilevate da bassa quota, risalivano al momento della rivolta che aveva portato al potere la GFP, e non potevano provenire che da chi aveva fornito supporto agli insorti. In quella circostanza quel Paese si era spinto nella sfera delle avventure, delle crociate, anzi, dei protagonismi personali del suo Presidente. Non erano stati impiegati solo ricognitori, anche cacciabombardieri, e missili Tomahawk. Il Presidente aveva agito da solo, e in modo diverso da quello che aveva concordato con gli alleati. Lo Stato Maggiore Generale si era dichiarato contrario a quella operazione, il Ministro degli Esteri e quello della Difesa si erano trovati davanti al fatto compiuto, e il Parlamento non era stato mai consultato. Con la sua credibilità e influenza messe in discussione da alcuni scivoloni politici e diplomatici, il Presidente era stato abile nell’approfittare della nuova strategia degli USA: un “riequilibrio” delle forze americane, con un alleggerimento in Europa e nel Mediterraneo, a favore dell’Asia e del Pacifico. Per controbilanciare l’investimento tecnologico e militare della Cina. Una misura che aveva interessato anche lo stesso “giardino di casa” degli States: l’America Latina, dove si stava sempre più affidando a contractor. Il Grande Volenteroso s’era preso una gran brutta gatta da pelare. La sua ambizione era quella di sostituire gli USA nell’amicizia particolare con l’Arabia Saudita, e restaurare sotto la sua egida un’egemonia europea sul continente africano, in funzione anticinese. Un obiettivo che, in fondo, non entrava in collisione con quelli statunitensi, il cui interesse era limitato al controllo del Golfo di Guinea. Juan non era certo che quello fosse il solo “colpevole”, ma i suoi precedenti erano inequivocabili. Alla domanda: cui prodest?, la risposta non poteva essere che quella. Nelle investigazioni di polizia si usa dire che la regola d’oro sia: seguire i soldi. Juan era convinto, per esperienza, che era un buon metodo anche nella politica degli Stati, solo un po’ più complesso, e i soldi non sempre erano soldi in senso propriamente monetario. Ultimo punto: non poteva non esserci un uomo sul campo. Saleh, si chiamasse o no così, era probabilmente il vero plenipotenziario, ma non il leader. Un Capo doveva esserci. Mazhar Saleh aveva fatto un nome, o, meglio, indicato un uomo, l’ex capo dei servizi segreti. Fosse poi una testa di turco, o uno che pensava di usare le risorse del plenipotenziario per poi liberarsi di lui, faceva poca differenza. Si sarebbero solo complicate le cose, perché un leader non avrebbe potuto mantenersi al potere dopo aver fottuto i poteri forti economici e finanziari. Se si trattava di un uomo intelligente, o anche solo furbo, si sarebbe goduto la posizione di primo piano, traendone il meglio possibile. In ogni caso, era importante sapere chi era. Altrettanto quando sapere quale fosse la potenza “protettrice”. Le cartine erano firmate: il nome dei reparti e tutto il resto. E i luoghi Juan aveva li conosceva bene. Certo non era stato sbagliato inserire quel Paese nella lista degli “stati canaglia”. Il suo Leader Maximo, rivoluzionario ai tempi, aveva cominciato assassinando qualche centinaio di dissidenti: un valoroso servizio a fianco del popolo contro la sovversione, l’avevano definito. Per commettere quelle atrocità, avevano iniziato a servirsi di mercenari. Inizialmente addestrati in zone dell’Afghanistan controllate dai talebani, con la complicità siriana, e che erano arrivati via Damasco. Altri erano giunti autonomamente, ed erano stati addestrati in loco. Israele, con i suoi missili intelligenti, che colpivano dove e come volevano, come dei cecchini, anche arrivando su per lo scarico del cesso fino a esplodere nel buco del culo dell’obiettivo, avevano fallito due volte nel tentativo di uccidere il leader di quei mercenari. Avevano scelto di usare delle autobomba, in modo da far ricadere la colpa su qualche fazione dissidente, ma non erano esperti come i palestinesi o i libanesi in quegli esercizi. Intanto nel Paese era stata creata una società repressiva e orribile, realmente colpevole di terrorismo. La CIA, figurarsi se non c’era il suo zampino, che aveva violato i cifrari di quel Governo, non aveva voluto correre il rischio di rivelarli, per non esporre le sue fonti e i suoi metodi. Il suo scopo era di arrivare a rovesciare il governo con una violenta campagna paramilitare di terrorismo e guerriglia, con campi di addestramento e appoggio in Sudan –attraverso mille chilometri di deserto!!-, perciò, mentre stava dando corpo al suo piano, l’ultima cosa che avrebbe voluto fare, sarebbe stato di compromettere la propria rete. Intanto anche i fratelli giordani si erano uniti ai mercenari, sempre arruolati tra veterani dell’Afghanistan e dell’Iraq, tramite la Siria. Tutta la UE aveva fatto pressione contro l’interventismo, invitando a non intraprendere alcuna escalation della tensione nella regione, con tutti i pericoli che ne derivavano. Poi era andata come era andata, nonostante le alte proteste degli altri Governi europei, che si erano sentiti presi in giro, che avevano appena dichiarato di non trovare motivo neppure per applicare sanzioni economiche, o altre pressioni. Quello Stato, meglio dire il suo Presidente, che si era definito, e possiamo quindi indicare, come il Volenteroso, si era invece mosso senza concordare nessuna azione, inviando anche propri emissari. “La rimozione con la forza di quel regime terroristico”, aveva dichiarato, “è pienamente giustificata dalle norme del diritto internazionale, e dalla urgenza assoluta di una difesa più attiva contro il processo di espansione terrorista, che rischia di contagiare tutta l’area. Abbiamo il diritto di usare tutti i mezzi ragionevolmente necessari, da soli o con altri volenterosi, per porre fine ai comportamenti illegali di quel Paese, che si trova nella posizione giuridica dei pirati berberi”. Così aveva mandato istruttori, e l’aviazione per le ricognizioni, e per colpire mirando a precisi obiettivi militari, lasciando ai piloti tutto il rischio di colpire quei bersagli e nient’altro. A livello internazionale era stato uno shock, soprattutto per gli Stati Uniti che, in fase di disimpegno, avevano sottovalutato quel rischio. Juan era ragionevolmente certo che quel Volenteroso, dopo aver rotto le uova e visto iniziare a fare una frittata molto diversa da quella che si era aspettato e prefisso, stava di nuovo per intromettersi. Bene, ora era sul campo, per vederci più chiaro. Era sicuro che sull’operazione incombesse anche il Mukhabarat al ‘amalyat a khassa al gasuseya, o SARATAN, il servizio informazioni egiziano, senza dubbio il più efficace tra quelli dei Paesi arabi, ed equivalente, per raffinatezza dei metodi, almeno riguardo agli affari del Medio Oriente, delle organizzazioni degli Stati più potenti. Quanto a questo … a suo tempo.
RICOGNIZIONE SUL CAMPO. Accanto alle più recenti ed esaltate opere realizzate dal regime distrutte dalle bombe o smantellate dai ribelli, erano sopravvissute antiche bellezze gelosamente protette e appassionanti. Se quella era stata una delle tane del leone, l’animale aveva perso denti e artigli. Tutto era stato sostituito da un variegato puzzle di bande armate. Il coinvolgimento delle forze armate occidentali aveva fatto sì che ai ribelli non fosse necessario costituire una forza unitaria. Le unità di combattimento erano state organizzate su base regionale, tribale, o di una comune appartenenza islamica. Nella Piazza, nel cuore della Città, centro simbolico della rivolta e del Pese Nuovo, gli anziani non erano tornati a star seduti sulle panchine, a rivedere, tra di loro, un tempo passato. I fidanzati non erano tornati a continuare a consumarsi di baci in un tempo sospeso verso il futuro. Le mamme non erano tornate a osservare i figli giocare al pallone, in una pausa del tempo che si ripeteva sempre uguale. Solo i ribelli, militanti armati, “riconoscibili” come militari dalle larghe fasce verdi con scritte in nero, al braccio, facevano giri di pattuglia parlottando tra di loro, o sostavano in gruppo a presidiare un posto di blocco. Sotto i portici del centro, negozio dopo negozio, tutti avevano chiuso i battenti, e avevano subito danni e devastazioni. Il bel porto, un tempo tanto prospero, pareva sul punto di scivolare in prevedibili e disperate condizioni da zona sottosviluppata. Sventrate, annerite dagli incendi, intere zone mostravano improvvise rughe e piaghe, antiche e nuove. La Città sembrava invecchiata di colpo. Tra pilastri spezzati, mura diroccate, sembrava di camminare seguendo qualcuno di cui si sentissero ancora i passi sulle pietre, ma che non si sarebbe raggiunto mai. Varchi nel filo spinato, in quella natura di rovine, da cui, fin dove si poteva giungere con lo sguardo, non si vedevano altro che muri butterati, alberi e colonne sradicati. Sembrava che il tempo fosse immobile, e il sole si fosse fermato per un istante incalcolabile. Juan ascoltava dentro di sé un rumore quasi dimenticato, come se il cuore, fermo da molto tempo, piano piano si rimettesse a battere. Ormai ridestato, riconosceva a uno a uno i rumori impercettibili di cui era fatto il silenzio del suo cuore, un basso continuo di sospiri brevi e leggeri, vibrazioni, un canto cieco, un fruscio furtivo. Sentiva tutto questo, e sentiva i fiotti felici che salivano in lui. Gli sembrava di essere finalmente arrivato in porto, dall’istante in cui Nikolett e lui si erano uniti, e quell’istante ormai non sarebbe finito più.
Si potevano già trovare caffè, mono o bilocale completamente aperti sul lato strada, con un vecchio bancone di legno scuro lungo e dritto, dietro il quale stava il padrone sempre indaffarato e sorridente, nonostante la sala sempre deserta. Poche botteghe esponevano “roba” strana, del tempo in cui il progresso tecnico, lì, non aveva ancora fatto che i primi passi, impossibili da trovare altrove. Tanto da poter supporre che si trattasse di nuove invenzioni. Tutto alla rinfusa, in un appuntamento di cattivo gusto affliggente, che un genio commerciale burlone non cessava di far spuntare su ripiani e mensole. Un impegno barocco che faceva perdonare tutto il resto. Stava tornando anche la simpatica esagerazione che si manifestava nella pubblicità commerciale spicciola. Esasperata fino a toccare, qua e là, motivi e proporzioni kolossal. Non era per il semplice gusto di decantar mirabilia, di novelli dottor Dulcamara, c’era un certo acume psicologico per riuscire a convincere l’indifferenza e l’apatia profonde che provava la gente quando doveva scegliere. Ci si decideva solo se costretti. Anche fra due donne. La pubblicità lo sapeva bene, e allora giù a caricare i toni, a esagerare i motivi, a declamare le meravigliose voluttà esibite, solo per il piacere dei veri intenditori. Al momento la Città era ancora votata alla polvere, alle improvvise ampie ferite e profonde lacerazioni lasciate dalla guerra. Soprattutto nelle periferie c’erano macerie accatastate, muri sbrecciati o butterati, vetri sbriciolati, finestre come cieche occhiaie vuote, strade dalla superficie lunare. Sotto il sole o sotto la pioggia, botteghe e esercizi venivano puntellati, rattoppati con lamiere, per essere riavviati con soluzioni di fortuna precarie e poco rassicuranti. Avevano un’aria stravagante e assurda. La Città affrontava la terribile prova dell’esser costretta a vivere di fronte a un paesaggio da ispirare persino al Poeta: d’amirazion vo’ che ti pigli. Chi si fosse aspettato, per questo, una città aperta sul mare, lavata, rinfrescata dalla brezza, si sarebbe trovato subito deluso. La Città voltava le spalle al mare, costruita intorno a se stessa, come una chiocciola color ocra. Era cresciuta dietro grandi mura circolari, sotto un cielo duro. Da secoli il mare era la sua via di comunicazione naturale … obbligata. Da lì predevano il largo i pirati a scorrere il mare, a predare navi e mettere a sacco le coste col ferro e col fuoco. Acciò, a difesa delle città e degli insediamenti rivieraschi, eran spuntate, come funghi dopo la pioggia, torri di guardia, sempre all’erta e coi fochi accesi per dar avviso del periglio e chiamare le genti all’arme. Oppure, molto più spesso, a lasciar case, terre e depositi al sacco pirata, salvando almen la vita, fuggendo su per i monti, o in paludose terre. “Mamma li turchi!”, era d’allarme il grido. La Città stessa, tra i maggiori e fiorenti porti de’ pirati, il cui sol nome fea tremar, non poteva ignorare che da quella distesa d’acque colme di fascino e di magia, potean spuntar vele crociate, assente la flotta amica, e deboli le difese verso terra. Così avean fatto della Città un labirinto, infilatisi nel quale, chi volesse uscirne a ritrovare il mare, avrebbe necessitato d’aver d’Arianna il filo. L’agressor incauto, si trovava a girar in tondo per vie strette e opprimenti, polverose, dove il ciottolo era il re, dove ogni cosa avea sembianza di pietra, così come, invece, fuori le mura traevan la propria poesia dall’acqua e dalla verzura. Carruggi dove pochi difensori, dall’alto delle mura, o da rifugi sicuri ben celati, tendean improvvise, veloci imboscate, che arrecavan subitanei lutti tra le fila nemiche, e svanivan nel nulla. Gli incauti aggressori, pur più forti in numero e arme, avean finito, anche, va da sé, a proprio discarico, per dar voce alla leggenda ch’un Minotauro evocato da sortilegi e magie d’oriente, si pascesse impunitamente dei violator del suo ricetto. I radi alberi e chiazze d’erba, spersi tra le mura, stavan pulverulenti, immobili e attoniti, e liberavano un umore acro, stantio e vecchio, che si facea dolciastro solo al burrone che strapiombava, stagliandosi contro il cielo azzurro, sul mare, e sui campi di terra cretosa e friabile, in cui il sole accendeva fuochi accecanti. Sparse con avarizia, macchie purpuree di fiori che davano la loro vita e il loro fresco sangue alla terra, fin dove si spingeva lo sguardo. Dal mare, l’intera città pareva coagulata in una ganga pietrosa, e lo spessore delle scogliere che la racchiudevano era tale che la vista diventava irreale quanto minerale. Tanta pesante bellezza sembrava venire da un altro mondo. Salendo per una delle strade cesellate nella roccia, ai lati della collina, le montagne, il mare piatto, il vento, il sole violento, apparivano i mattoncini Lego della Città, allineati e impilati in ogni combinazione possibile in altezza, larghezza, lunghezza e profondità, dai cubi colorati, alle alte torri di specchi riflettenti il sole, alle più ardite e improbabili creazioni. Discoste, preistorici animali che avevano vinto il tempo, le grandi gru del porto, erano state piegate dalla furia degli uomini. Ai piedi delle loro lunghe e scheletriche gambe, spezzate o distorte, lungi serpenti d’acciaio, immobili nelle loro scie metalliche. Un’enorme tela di ragno che si spingeva fino nel mare, su banchine di cemento non molto provate. E, ancora, rampe gigantesche che si inerpicavano sulla roccia fin dentro la Città, qua e là diroccate. Noia e solitudine si sarebbero comunque e sempre alternate a tumulti e giochi duri di squadra, come si sarebbero alternati giorno e notte. Salendo un po’ più su, si vedevano le scogliere rosse e frastagliate accasciarsi in mare. Dalla vetta, grandi turbinii di vento e di sole scendevano a ricoprire e aerare la confusione della Città, dispersa senza ordine tra i confini del suo duro guscio. Qui, incomparabile, tutta la magnifica anarchia umana, contrastava con la permanenza sempre uguale del mare, che andava oltre ogni umanità. Sarebbe bastato questo per invogliare a salire la strada sulla collina, in uno sconvolgente aroma di vita. Da lassù, tutto, attorno, aveva qualcosa di minerale sotto il sole implacabile. La Città, il labirinto delle sue stradine, gli alberi e i nastri delle strade e dei viali del lungomare fuori le mura, liquidi al riverbero del sole, incipriati di polvere, creavano un mondo denso e impassibile, in cui ragione e passione non si distraevano mai da se stesse, né dal loro solo oggetto, che era l’uomo quando si trovava davanti al mistero. O al Mistero. A ognuno il suo credo. Eremi difficili, che saziavano quella certa parte dell’anima il cui elemento era il ricordo, e non quella parte il cui elemento era l’avvenire. Nei quartieri fuori la Città vecchia, e fuori dal centro moderno, case e palazzine erano di cemento e legno scadenti. Le strade sporche e piene di buche. I fori dei proiettili nei muri, le occhiaie vuote e cieche delle finestre, mostravano quanto erano stati duri e serrati i combattimenti, in quell’ultima ridotta di un esercito ormai dissolto, che era rimasta a lungo un vespaio di cecchini anche dopo la fine. Correva voce che erano dovute intervenire le forze speciale del Battle-Group Europeo per “bonificare” il quartiere, scovando i franc tireurs uno ad uno. Avevano sostituito i ribelli e il contingente qatairota, che avrebbero voluto risolvere tutto alla maniera del gen. Massu nella battaglia di Algeri: far esplodere ogni “nido” possibili, probabile, sospetto, indiscriminatamente. Le voci, come tutte le voci, che col tempo cadono nel dimenticatoio o alimentano il mito, si erano tramutate in leggenda. L’opera di search and destroy era stata accreditata a una CSLE (compagnia sahariana della legione) completamente equipaggiata con materiale qatairota. La famosa frase, ripetuta come un mantra da tutte le Potenze: “non abbiamo sporcato di sabbia i nostri scarponi”, era divenuta un tormentone, neppure originale, con la giunta: “perché abbiamo usato quelli del Qatar”. In quel quartiere, come in altri della periferia, era visibile quanto fosse difficile riportare alla vita, e migliorare le condizioni, regredite a condizioni medievali, nelle quali tutto mancava salvo i proiettili che arrivavano da ovunque, cielo compreso. E, per quanto qualcuno continuasse a protestare il contrario, quella non era roba intelligente, ma molto molto democratica. Colpiva e falciava chiunque: “amici” e nemici, combattenti e civili, armati e inermi, baldi guerrieri e inermi vecchi, donne, bambini. Quelle periferie ora sembravano reggersi affiancate alla Città che faceva da muro portante. Baraccopoli incerte e traballanti, men che precarie, sorte dal mischiarsi di esigenze diverse: ricovero, riparo, rifugio, nascondiglio. Motivi che il tempo avrebbe potuto eliminare o consolidare, oppure ridisegnarne di nuovo, facendo dei confini della Città una zona a geometria variabile, prolungando il labirinto. O fagocitandone parti, a piacere del suo Minotauro. Senza dubbio qualcosa era migliorato, non c’era più la scenografia piena di rovine di un film sulla fine del mondo. Era il nuovo centro, circondato da mura rovinate e sporche, con le grandi scritte di propaganda, le facce delle case che cadevano a pezzi, popolato da venditori ambulanti, e, dappertutto, un odore nauseante. Solo alcune erano state rimesse in sesto e ridipinte. Già i negozietti all’aperto o in botteghini provvisori stavano scomparendo, per lasciare il posto a caffè dai colori appariscenti, a bottegucce e piccoli negozi, su strade riassestate alla bell’e meglio, che iniziavano a dare un segno di parvenza di inizio di una promessa di ritorno alla normalità. Ciò che restava da fare era ancora molto, e il tempo che mancava a poter cantare vittoria non si era ancora accorciato. Né allungato. Si era bloccato. Chi sosteneva che ci sarebbero voluti almeno vent’anni per tornare alla normalità, poteva essere benissimo un ottimista che aveva rifatto meglio i suoi conti; un pessimista che aveva dovuto ricredersi sui suoi; o, infine, un realista che senza pregiudizi né false aspettative, né cattive previsioni, aveva fatto i conti precisi, precisi precisi. In giro si respirava comunque un’aria di nuova aspettativa, come si fosse finalmente aperta una finestra in una camera rimasta a lungo chiusa, e l’aria fresca vi fluisse piano piano, non perché trovasse resistenza, ma per potersi spingere a tutto pervadere e rianimare a fondo. Come un tramonto che porta una nuova speranza.
TRA RICOGNIZIONE E PASSEGGIAR D’AMORE. Nikolett e Juan passeggiavano sotto i portici dei palazzi del centro, che il sole illuminava, tagliandoli in obliquo, creando contrasti limpidi tra luci e ombre. Gli edifici classici, più vecchi, lascito del Governo coloniale e i suoi monumenti, o, almeno, ciò che di tutto questo era sopravvissuto agli anni, alla guerra d’indipendenza, ed ora a quella civile, si trovavano in piazzette polverose, rassegnati alla pioggia come al sole, convertiti alla pietra e alla noia. Apporti ormai estranei, nel flusso della vitalità tipica delle strade arabe, accanto a costruzioni in pietre multicolori, di effetto assai veemente: arditezza nel gusto, amore della violenza e senso delle sintesi storiche. Il lungomare era riparato, e la spiaggia orlata da una fila di palme. Quegli angoli della Città avrebbero potuto essere angoli di un paradiso delle vacanze. Un paradiso per ora perduto. Erano entrati nel dedalo delle viuzze della Città vecchia. Il profeta Maometto aveva stabilito che la larghezza minima di una strada doveva essere di sette cubiti, cioè l’equivalente di tre muli affiancati. E si trattava di animali di piccole dimensioni. Si poteva tranquillamente scommettere che molte di quelle vie erano ben al di sotto della misura prescritta. Alcune erano larghe più o meno come un tappetino da bagno, altre poco più ampie. Carruggi genovesi, callesèlle o callétte veneziane, budelli liguri. Juan e Niki si erano imbattuti in uno di quegli asini, colore di un leggero grigio topo, il muso chiaro, e una peluria bruna che gli spuntava dalle orecchie. Sulle sue gambe dritte, dagli zoccoli abbastanza delicati, grandi più o meno come una tazza da tè, avanzava sicuro sotto un enorme peso vacillante. Aveva girato l’angolo senza difficoltà, e stava continuando lungo il vicolo, più stretto e così ripido che ogni tre metri, due quando la pendenza si faceva più brusca, c’erano piccoli scalini di pietra. Niki e Juan avevano dovuto appiattirsi contro il muro perché passasse. Ne avevano intravisto il muso, e lo sguardo disarmante, al tempo stesso sereno. Esausto e determinato. La sua era un’espressione stoica, come se il tempo potesse simultaneamente andare avanti e restare immobile. Una paziente rassegnazione, intervallata da improvvisi sbalzi d’umore. Mostrava anche un senso di fatica: era pur sempre un animale da lavoro, e per lavori faticosi e ingrati. Dove non potevano passare, o non c’erano, ingurgitati dalla guerra, auto, furgoni, carri trainati a mano, persino motorini, tutto ciò che con tali mezzi un essere umano non era in grado di trasportare, veniva portato da un asino. L’ultimo censimento risaliva a prima della seconda guerra mondiale, e dichiarava quarantamila muli e asini impiegati in città: un arcobaleno di grigio topo, di marroni dal tabacco alla cioccolata, alcuni lisci e lucenti, altri con le ultime chiazze dello spesso manto invernale. Un secondo censimento era fallito, e non se ne erano più tentati altri. Il fallimento era stato dovuto alla volontà del Governo di farne il mezzo per controllare le transazioni e imporre un’imposta sulle vendite. Da allora, la quasi totalità di quei commerci si era affidata al passaparola, verso mercatini improvvisati, lontani dai controlli del fisco. Tra le case color sabbia attaccate le une alle altre, nei vicoli tortuosi che scomparivano nell’ombra, le persone si affrettavano scansando gli altri passanti. L’atmosfera era chiassosa, animata. Un momento dopo, si alzava su tutto il grido: “balak! balak!”, e appariva una asino carico di grossi sacchi, mentre il padrone continuava a vociare per farsi strada in mezzo alla gente. Juan aveva spiegato a Niki che quella parola significava: permesso! Poi ne compariva un altro, carico di taniche. Poi un altro con scatoloni. Infine uno che sembrava essere da solo. “Guarda! Forse è scappato al padrone … e ora si è perso …”. Juan, con tenerezza, “Non si è perso, ha finito il lavoro e sta tornando a casa”. Lei si era voltata a fissarlo perplessa, non sapendosi decidere se si stava burlando di lei, o dicesse sul serio. “Pochi restano dentro le mura … i più stanno in fattorie, fuori, e vengono ogni giorno in Città, dal loro padrone, per lavorare”. Pareva essersi convinta, felice come una ragazzina, e, sull’onda dell’entusiasmo aveva insistito perché Juan chiedesse al padrone il nome del suo asino. L’uomo aveva esitato per un momento, poi aveva risposto: “H’mar”. “Significa Amar … Omar?”. Juan aveva risposto con un sorriso furbetto. “Dai, chiedi a quest’altro!”. Anche il secondo tizio aveva indugiato, e poi detto, “H’mar”. Niki si era divertita e un po’ eccitata per quella “combinazione”, doveva essere un nome molto comune per quegli animali, come Fido per un cane, e aveva preteso ulteriori interrogatori sul nome degli animali. Quando però il quinto interrogato, a uno Juan che a stento conteneva la sua ilarità, aveva risposto lui pure “H’mar”, e Juan non era riuscito più a trattenere le risa, aveva capito, “Oh!”, delusa, “ma allora H’mar vuol dire asino!”. E aveva rifilato un pugno sulla spalla di Juan, che sì, stavolta si era preso gioco di lei. “Ma … perché non gli danno un nome?”. “L’ho chiesto, e mi hanno risposto che sarebbe come dare un nome a un autocarro!”. Niki aveva trovato la risposta abbastanza deludente e sciocca. “Comunque io gli ho risposto che conoscevo un posto dove la gente al loro motocarro dà un nome: Ape”. “E …”. “E non riesci mai ad avere l’ultima parola, mi ha detto che trovava stupido dare a tutti i motocarri lo stesso nome, che era più serio chiamare asino un asino, e basta”. Nikolett, che al momento si era sentita contrariata per quella deviazione inaspettata nel viaggio che doveva portarla al grande maestro Schiller, era ora incantata, felice, piena di entusiasmo quasi fanciullesco. Quando, dandole i nuovi documenti, finalmente Juan le aveva detto che all’orecchio del cavalier Capone, aveva sussurrato, tra l’altro, che loro due si erano sposati, invece che esserne contrariata, era mancato poco che si mettesse a saltellare battendo le mani su e giù per l’aereo. Anche nel grande suq era stata una bambina in un negozio di giocattoli o di meraviglie. Continuava a chiedere a Juan che fosse questo o quello, a cosa servisse, e alla via così. Dai ceci, alla tintura per i capelli, alle reti da pesca, ai morsi di ferro venduti da un giovane dal volto scavato, alle montagne di legumi sorvegliata da una famiglia stesa su un lenzuolo, alle bancarelle di pesce fritto e kebab. Ai pochi asini e muli, che, non in vendita, in attesa di esser caricati delle mercanzie invendute, se ne stavano oziosi, appisolati al sole, ruminando ciuffi d’erba e scansando le mosche. C’era anche un gruppetto di bambini, che ridevano e saltellavano su e giù per l’eccitazione. Li guardavano abbassandosi sotto la testa di un animale, da dietro un carretto o una tenda, e poi correvano via. Gli asini sempre imperturbabili, consapevoli che la vita sarebbe andata avanti come sempre, come era da migliaia di anni, e per altrettanti sarebbe stato, e che il lavoro duro degli animali, l’aria misteriosa degli stranieri, e la natura curiosa e contraddittoria della loro terra, non sarebbero cambiate mai. Juan sapeva che stava facendo qualcosa di molto scorretto, e sbagliato, nel suo lavoro, ma tant’é. Si era così innamorato di Niki, e sentiva che lei lo era altrettanto di lui, che altro non poteva. Ogni ragione più non valeva. L’aveva portata con sé in quel tour molto poco turistico, dandosi come alibi che la copertura come due sposini sarebbe stata ancor più credibile, correndo invece un grande rischio, al quale stava esponendo soprattutto lei. A sua discolpa, era convinto che Niki per lui fosse più preziosa dell’aria da respirare. Stavano salendo per vie anguste, tra portici sorretti ai due lati da enormi pilastri, ove lo spazio era giusto quello per l’incrociarsi di due pedoni. O un asino con bagaglio leggero. Là dove erano diretti, si poteva accedere per una più comoda e ampia strada asfaltata, camionabile. Prosaica, senza ombra di romanticismo. Il sole, nel cielo blu, era un coperchio bollente, ma sotto i portici restavano l’ombra e il fresco. Là, sotto i portici, si susseguivano negozietti e bazar con facciate dipinte di colori chiari, che brillavano dolcemente nella penombra anche più scura. Da bottegucce e drogherie usciva l’odore di chiodi di garofano, di caffè, di dolci al miele. In piccoli locali, rischiarati da luci crude, erano in funzione le macchine del caffè, e i miliziani al banco avevano innanzi bicchieri di un liquido opalescente e piattini con lupini, acciughe, sedani affettati, olive, patatine e arachidi. Non erano antipasti, non c’era altro da mangiare, al momento. A metà, la strada si allargava e perdeva i suoi portici, per far posto a una vecchia moschea. Sull’altro lato, un botteghino di frittelle, dove potevano accalcarsi al massimo tre persone. All’interno, dominante, la bacinella di olio bollente, dalla quale un uomo, in pantaloni a sbuffo e uno striminzito gilet, per la gioia dei turisti, sorvegliava, con una schiumarola, la cottura delle frittelle rotonde, estraendole con rapida cautela, tre o quattro a mestolo, la pasta dorata e sottile, traslucida e croccante, facendole sgocciolare per poi posarle su un banco di ripiani forati, protetti da vetro, accanto agli sfilatini al miele già pronti. Rifattasi stradina, la via continuava a salire fino a sfociare nella grande piazza. Il quartiere più povero ospitava la più grande caserma del Paese. Il retro rivolto al mare, di fronte una strada umida e scoscesa cominciava ad arrampicarsi fino alla cima della collina. Era la collina est, ai cui piedi terminava la Città e iniziava la litoranea. Nel corso dei mesi d’estate il sole, sempre più fisso, aveva prosciugato, poi torrefatto i murie, frantumato gli intonaci, le pietre, le tegole, in una polvere sottile, che aveva incipriato, secondando i venti, le strade, i vetri, le foglie degli alberi, le macchie d’erba. Il quartiere intero si copriva di giallo e ocra, afoso sotto un sole feroce che spingeva a chiudere tutte le persiane di tutte le case, e che emanava una luce diffusa, biancastra e faticosa per gli occhi, che poi spariva dietro la stoppa pesante del cielo caldo e umido. Nei giorni di pioggia le strade si trasformavano in trincee umide e luccicanti. Poi, all’improvviso, il cielo si contraeva su se stesso, in una tensione estrema, e si apriva. La pioggia cadeva copiosa e violenta, inondando le strade, lavando brutalmente alberi, tetti e muri dalla polvere dell’estate. Melmosa, riempiva subito i rigagnoli, gorgogliava nelle bocche di scarico, e ne faceva saltare le griglie dalle pesanti sbarre di ghisa. Un largo fronte di un’onda gialla, e persino il mare diventava fango nel porto e sulle spiagge. In quel momento, però, dopo l’arido splendore del sole, a poco a poco, il vento, che nel primo pomeriggio si era sentito appena, sembrava essere cresciuto con le ore, e riempire tutto il pomeriggio. Soffiava da est, accorreva dal fondo dell’orizzonte e veniva balzando a cascate tra le pietre e il sole. Senza posa, sibilava forte attraverso muri e sassi, girava in un circo di pietre e terra, lambiva gli ammassi dei blocchi sgretolati, circondava ogni cosa col suo soffio, e veniva a diffondersi in strida incessanti sulla terra che guardava verso il cielo. Nikolett e Juan si sentivano come ciottoli patinati dalle maree, levigati dal vento, con gli occhi brucianti, le labbra screpolate e la pelle che si disseccava. Davanti a quel paesaggio franoso, davanti a quel grido di pietra lugubre e solenne, della Città, inumana nel tramonto, davanti alla morte della speranza e dei colori, Juan e Niki avevano trovato un colloquio a tu per tu, rinnegando le poche idee che erano loro appartenute, e recuperando l’innocenza e la verità che brilla nello sguardo di chi vede davanti a sé il proprio destino. Il miracolo era che le rovine di quella città, quella città scheletro vista così dall’alto al finire del giorno, nei voli bianchi dei colombi, non tracciava nel cielo i segni della conquista o dell’ambizione. Il mondo finisce sempre per vincere la storia. Quell’ampio grido di pietra che si gettava tra le colline e il cielo e il silenzio, aveva i veri segni della disperazione o della bellezza: lucidità e indifferenza. Davanti a quella grandezza che stavano per lasciare, a Niki e Juan si era stretto il cuore. “Però la natura è sempre lì. Alla follia degli uomini contrappone i cieli calmi e le proprie ragioni. Fino a che anche l’atomo prenda fuoco e la storia si compia … I cavalli di Patroclo piangono il loro padrone morto in battaglia. Tutto è perduto. Ma il combattimento riprende con Achille e alla fine c’è la vittoria, perché l’amicizia è stata assassinata: l’amicizia è una virtù … Sopra il mare scintillante ancora una volta si dissiperà la filosofia delle tenebre, la guerra di Troia viene combattuta lontano dai campi di battaglia.! Anche questa volta le terribili mura della città moderna cadranno, per darci, , la bellezza di Elena”. E’ sempre il nostro grande amico Albert Camus che ce lo ricorda.
Quella notte Niki, mentre Juan era dentro di lei, si era sentita stringerlo con radici confuse che lo collegavano a lei in modo splendido, in giorni infuocati e in notti che stringevano improvvisamente il cuore. Lui stava vivendo una seconda vita, la più vera, sotto le apparenze quotidiane della prima, con una storia fatta di un susseguirsi di desideri oscuri e di sensazioni potenti e indescrivibili. Il profumo di Niki, di gelsomino e caprifoglio, era sembrato a Juan, il tepore della sua pelle, il calore che lo attiravano dentro di lei senza sosta, non per possederla, ma per entrare nel suo raggio di vita. Per appoggiare la testa alla spalla di Niki con un grande senso di abbandono e di fiducia. E il sentirsi quasi venir meno quando, con le sue mani, lei lo tratteneva più a lungo dentro di sé. E quando si stendeva tra le sue gambe, respirava l’odore dei suoi peli, e gli umori ancora più forti, animaleschi, del suo caldo spandersi dentro di lei, dove la vita, malgrado tutto, veniva conservata per lui che non poteva farne a meno. Da qui nasceva il suo ardore famelico, quella follia con la quale amava Niki di un grande amore di tutto il cuore, e di tutto il corpo. Sì, con lei il desiderio era assoluto, e il modo in cui defluiva in lei con un grande grido muto nell’attimo del godimento, ritrovava la sua accoglienza ardente, la bellezza generosa di vivere che era, ora, anche la sua, e che faceva rifiutare il trascorrere del tempo. Allora, col cuore in fiamme, Juan, come una spada solitaria e vibrante, destinata a penetrare all’improvviso e per sempre dentro di Niki, si abbandonava a quella pura passione, sentiva la vita fluire da lui in lei, abbandonandosi alla speranza che quella forza lo elevasse per tanti anni al di sopra dei giorni, nutrendo lei della stessa generosità instancabile con cui lei gli aveva ridato ragioni per vivere.
ALLA RICERCA DELLA FAMIGLIA PERDUTA. Jimena Rosete si era assicurata l’intermediazione dell’avvocato Nakos Spanidis, dal quale era a servizio, per trovare notizie sulla propria famiglia che, dopo averla affidata alle cura delle suore di un Istituto religioso europeo, non l’avevano poi più raggiunta, come era nel loro piano originario. La fuga di Jimena dall’Istituto, aveva fatto sì che ogni contatto tra lei e i familiari era venuto meno. La decisione di rivolgersi all’aiuto di Nakos aveva anche un secondo fine: sedurlo, sia per sé, per emanciparsi dalla sua condizione; sia per lui, che voleva liberare dalla soffocante … e morbosa possessività della madre, o di chi, come Cristina Ricci, lo usava per ferire lui o la sua famiglia, come rivalsa su vecchi torti e umiliazioni subite. Nello Studio legale di Nakos, un socio, Maurizio Andrei, era consulente pro bono molto attivo di un’Ong internazionale, che le avrebbe garantito un impegno non comune. Jimena lo conosceva, almeno di vista, come ospite, raramente peraltro, di Nakos. Avrebbe potuto anche rivolgersi a lui direttamente, se la complessità dei suoi intenti non avesse previsto l’appoggio costante di Nakos. Non le era occorso molto tempo per far divenire i suoi pomeriggi liberi momenti di appuntamento con Nakos. Prima brevi, dopo un aggiornamento da parte di Maurizio, poi più lunghi, con Nakos latore delle novità. Quando lui rientrava, a tarda sera, dopo qualche riunione, o essere stato ospite da amici, lei lo aspettava. Le era stato facile accordarsi con gli altri per essere sempre di turno notturno, nella casa padronale, grazie anche alla regolarità di quegli impegni di Nakos, che si ripetevano nelle stesse sere della settimana. Si sedevano in cucina, e la loro conversazione si era spostata dalle disavventure di lei, a noi già note, a quelle di lui, a noi già note solo in parte. L’ascoltava con rispetto, comprensione e solidarietà. Lei non avrebbe saputo come esprimere questa relazione, era istintiva, se non innata; uno psicologo, soprattutto uno psicologo dell’organizzazione –ricordate il dottor Giovanbattista Cerano, psichiatra dell’organizzazione? r.i.p.- avrebbe parlato di ricomposizione di interessi a due livelli. I livelli erano: quello relativo all’economia sociale e monetaria, cioè ruoli e compensi; e quello relativo all’economia affettiva, cioè empatia e identificazione. Ora, le matrici affettive sono uno dei radicali del modello di servizio. Quindi contano assai i sentimenti e le emozioni che vengono vissuti da ambo le parti. Riprendendo in estrema sintesi l’analisi di tutto quello che è citato in calce per chi fosse interessato ad approfondire, è possibile affermare che in quella relazione è ritrovabile il forte carattere materno del modello di servizio. Allora, la matrice naturale delle relazioni di servizio è nel rapporto tra madre e bambino, e, più in generale, tra genitori e figli. La buona madre è, da subito, dal concepimento, un buon contenitore. In termini sia fisici che psichici, un buon servizio caratterizzato da positivo e fertile contenimento. Se vogliamo ricorrere ad altri esempi di persone concave per ricevere, accogliere i bisogni, ansietà, persino rabbie, vivendo tutto ciò che viene loro portato come degno di essere ascoltato: l’avvocato al quale il cliente racconta tutto quello che sono affari suoi; il medico –usando il termine nel senso più lato possibile- che ascolta il racconto dei sintomi del paziente; il consuellor che ascolta il racconto delle transazioni affettive tra persone; lo psichiatra o lo psicologo … va da sé … Tutti costoro, e quelli che vorrete aggiungere, hanno, nella loro componente materna, il ruolo di accogliere, accettare, contenere, elaborare problemi e ansietà del loro cliente bisognoso. Assolvere, da parte di chi presta servizio, la funzione materna, significa in primo luogo accogliere e contenere. Da qui la centralità dell’ascolto, strare ad ascoltare con interesse ed attenzione, inteso come funzione psichica, che è diversa dall’udire, che è solo funzione biologica. Il buon contenitore non è solo ansiolitico e antalgico, metabolizza e in parte neutralizza le angosce. In questo ruolo, Jimena andava sul velluto: una mamma cattiva presente, per non far nomi la signora Elena Zakythinis, viene percepita come mamma buona assente, di cui si attende la ricomparsa. Cristina Ricci, per Nakos, era stata come la fatina buona del cazzo, che all’improvviso si era svelata per quello che era, una giovane strega in competizione con una vecchia strega. Scrivo strega, intendo mamma cattiva. Così tutti i timori, le ansie, le angosce, le paure di Nakos non erano state contenute e metabolizzate, ma allontanate strappandole da dentro di sé e scagliandole il più lontano possibile, credendo di essersene liberato. Invece ritornano, ritornano sempre. Ricordate a parabola del Titanic, cui siamo già ricorsi? Tanto più che in questi giorni è argomento di moda. Jimena aveva subito capito che Nakos aveva bisogno di essere amato per quello che era, perché restasse quello che era … anzi lo diventasse pienamente, prima di tutto. Invece tutti, non solo mammina e Cristina, su di lui avevano rivendicato la loro parte, fino a non lasciar più nulla a lui per sé stesso. Ora, lei voleva scoprire quale veramente chi era Nakos, che lui si liberasse del suo bozzolo. Il tentativo di sanare l’angoscia e di colmare il senso di smarrimento e di paura, però, può portare l’essere umano a perdere i propri confini, che si rarefanno fino a svanire e a ricercare una pienezza eterna –la comprensione continua da parte dell’altra uguale– che è solo illusorio riempimento di un vuoto che, per essere bellezza, deve essere messo in conto come tale. L’amore, invece significa ricerca dell’altro diverso da noi, che non deve colmare alcunché, che non deve soddisfare alcun bisogno di rassicurazione, ma che consente a ciascuno di tirar fuori la propria identità di uomo, la propria identità di donna, facendo correre ogni volta il rischio di un nuovo smarrimento. Solo allora la paura scompare nel momento in cui l’essere umano realizza l’unicità come forza creativa che, consentendogli la relazione con l’altro, non è più solitudine. Jimena era una donna che, dopo aver preso coscienza delle angherie subite, perché nata in una società patriarcale, che l’aveva relegata in una posizione subalterna, aveva tentato di trovare la sua identità in quel suo cammino, sempre difficile, dove aveva dimostrato di avere tutte le caratteristiche per pretendere la pari dignità, e, anche se il cammino era ancora molto lungo, sicuramente aveva saputo farsi “prendere in considerazione”, nonostante donna Elena cercasse continuamente ogni occasione per svalutarla. Nakos non era molto a suo agio a baciare Biancaneve mezza addormentata, oppure a riportare a Cenerentola la scarpina necessariamente piccola, perché un piede grande non è abbastanza erotico! Qui scattava la sua avversione innata allo stereotipo, del bello e del brutto, come di qualsiasi altro. Non aveva mai perso la sua insicurezza, quando si era accorto che quelle che stava baciando erano esseri umani come lui. Perché più forte ancora era la percezione che aveva avuta sempre molto netta, quando aveva solo sentito che qualcosa non andava nel momento in cui le lei avevano cominciato ad avanzare richieste, pretese, esigenze che lui cambiasse, che si facesse così come loro desideravano fosse. Lui si sentiva il Pierino di “Pierino e il lupo”, che fischiettava allegro, scanzonato e sicuro, mentre la … femminuccia non era una debole donna inadeguata … na la strega cattiva che continuamente insisteva, lo invogliava, lo spingeva a dare un morso alla mela avvelenata. Nulla a che vedere con la mela di Eva. Quella della fatina-strega del cazzo era una mela drogata, che succhiava anima e volontà, e trasformava in un servo muto e sciocco. Era una vera picconata alla sua identità. Si sentiva impotente, muto, buono a nulla, in balia di quella “folle” che lo voleva costringere a fare cose strane, si trattasse di mammina, di Cristina, o di qualsiasi altra … ina. Riferendosi a loro, J.P. Sartre non avrebbe avuto difficoltà a riconoscere una conferma alle sue parole di studioso esistenzialista: “L’inferno sono gli altri”. Nel caso specifico: “le altre”. Del resto, ciò che è importante ai riguardo ai desperados sociali –come i mentalmente disturbati, i perversi e pervertiti, coloro che vivono con prospettive incongrue, irreali, di tempi andati o a venire che siano- non è solo ciò che fanno e perché lo fanno, quanto la luce che per contrasto la loro situazione getta su ciò che noi facciamo. Con stile studiatamente inappropriato, Goffman caratterizza, in modo molto sorprendente come solo lui sapeva fare, il pensiero di persone come Donna Elena e Cristina, e ... condensandolo in una sola frase, impertinente, in entrambi i sensi del termine: “Una persona con un carcinoma alla vescica può, se vuole, morire con maggior grazia e decoro sociale ... di quanto un’altra con un labbro leporino possa ordinare una fetta di torta”. Donna Elena Zakythinis, era un “generale di corpo d’armata”, reincarnazione del modello di suo padre, che si considerava vittima del suo contrario, cioè le inevitabilmente frustranti attitudini dell’essere donna che, da un lato, negava accanitamente e, dall’altro emergevano sempre più prepotenti, aumentandone la fragilità. E lei non aveva altra risposta che tiranneggiare chi poteva, e creare nel figlio un surrogato del di lui padre. Fino a che limite fosse pronta a spingersi … anzi, quali limiti fosse determinata a superare, era timore di tutti. Agli occhi di Nakos tutto questo vissuto appariva minaccioso, aggressivo, destabilizzante perché fortemente contraddittorio: dietro l’armatura del “generale” ci stava, infatti, un’ inesauribile richiesta di attenzione e di rassicurazione che risultava asfissiante per lei stessa e per gli altri, proprio nella misura in cui veniva negata così come lei la esigeva. Il risultato era stato il “cappio intorno al collo” che Nakos avvertiva sempre, seppure nascosto dietro comportamenti che oggi va di moda definire “free”. Chi aveva ragione? Jimena stava sforzandosi di uscire dalla logica del torto e della ragione, facile ma inutile, per entrare in una dimensione più complessa che riportava al concetto di diversità. La sessualità, cioè l’espressione di una forza di attrazione di due poli, quello maschile e quello femminile, che si manifestano in modi diversi. Ognuno si calasse nell’abisso che aveva davanti a sé e scoprisse, rivedesse, leccasse, curasse le proprie ferite, ne prendesse atto e le superasse tornando in superficie. Lei voleva aiutare Nakos, anche portandocelo per mano, attraverso questa cura amorevole, con l’ accettazione di ciò che era stato, e dopo aver recuperato un’identità sana, portata integra in superficie, pronto per una relazione d’amore adulta. I loro incontri erano la felice espressione di più livelli, emotivo, fisico, mentale e spirituale, c’era la sensazione di pienezza e completezza, come se fosse offerta la possibilità, a ciascuno de idue, non solo a Nakos, di estendere la propria esperienza in quella dell’altro. La strada non era facile ma la conquista di questa armonia era possibile; in che modo? Cosa chiedeva Jimena quando era inquieta? Chiedeva di potersi esprimere liberamente: uno spazio da creare insieme, in cui sentirsi accettata per com’era, e da Nakos già lo era, e per come sarebbe diventata dopo l’esperienza della condivisione, il che neppure lei sapeva. Cosa faceva lui quando lei è inquieta? Offriva soluzioni per risolvere il problema prima possibile, perché quell’inquietudine potenzialmente creativa era per lui un problema, ovvero ciò che perturbava la sua tranquillità. Cosa sentiva lui di fronte alle inquietudini di lei? Aveva paura di perdere l’equilibrio; era a disagio perché non conosceva quel linguaggio; non sapeva cosa fare perché credeva di dover fare qualcosa. Cosa voleva lei? Essere ascoltata da un uomo, non da un maschietto; un uomo che sapesse stare con lei nell’emozione, pacatamente, affettivamente, empaticamente. Era talmente facile da essere difficile. Perché? Perché un uomo che sapeva fare questo era un uomo che aveva una sua identità, che non aveva paura di intraprendere il viaggio con qualcun’altra, affidandosi ad essa perché capace di rifiutare, qualora gli fosse proposto qualcosa che non era intenzionato a fare. La paura di iniziare qualsiasi cosa, senza averne il controllo, era legata a quanta capacità ognuno aveva di rispettarsi, cioè di sottrarsi, nel caso in cui il viaggio prendesse una direzione che non sentiva in alcun modo appartenergli. Tale capacità rendeva liberi di poter accettare l’altro con tutte le sue diversità. Cosa voleva lui? Essere amato per quello che era; lo avevano già castrato abbondantemente mammina … e Cristina! Voleva essere considerato importante … Come fare, allora, a fargli capire che lei voleva mantenere integra la sua bellezza? Non la voleva toccare, come i fiori, né, tantomeno, la voleva correggere, eventualmente la poteva integrare. In molte, troppe occasioni, aveva mortificato la parola “sesso”. Eppure, l’amore sessuale era una meta meravigliosa e piena di speranza per l’affermazione della vita: era l’essenza e il fine reale dell’essere. Era arrivata al dunque: il mistero della relazioni d’amore. La relazione era una gabbia, una prigione, un gioco di potere, un legame o era acqua trasparente dove vedere coralli e città straordinarie? Il discorso poteva procedere soltanto se ci si spostava in una dimensione di desiderio e, pertanto, si stava insieme per il puro piacere di stare insieme, con valenza creativa, molto vicina ad un gioco per grandi, molto lontana dal bisogno e dai giochi di potere. Sì, stavano insieme anche se avrebbero potuto non farlo, perché era bello farlo. Il loro uno più uno non faceva due, ma faceva infinito, come infinite erano le possibilità di dar vita a forme di esistenza, da soli, non esplorabili. La sfida consisteva nel tentativo di proiettarsi in una dimensione diversa dalla proposta di una coppia funzionale la cui aspirazione massima era quella di andare d’accordo, e non c’era spazio per il sogno, per la curiosità di un inconscio diverso dal proprio ma non per questo inconoscibile; per un gioco di sguardi furtivo, intrigante, seducente, lontano dal mondo dei conti, dei bilanci, dei doveri, delle spiegazioni, rendiconti mortali di un modo d’essere che doveva sempre giustificarsi. Così, si parlava di legami invece che di rapporti, di ruoli a cui aderire invece che di volti da scoprire, di obblighi e di licenze premio. Così, tutto si riduceva a compromessi, remissività e sospiri. Imboccando quella strada, il loro sarebbe diventato il luogo della solitudine, dove tutto era ovvio, perché sembrava che tutto si sapesse già e che dell’altro tutto ci appartenesse, anche i suoi pensieri, i sogni e il futuro; mentre invece ci sfuggivano anche i nostri pensieri, i nostri sogni, il nostro futuro. Era così che la coppia diventava il luogo della violenza perché luogo di rassicurazioni che diventavano ricatti, di parole che diventavano pugnalate, di vergogna che diventava silenzio … e paura … e rabbia, per cui, poi, in gruppo, il compagno diventava il peggior nemico e … quanti tradimenti in quelle occasioni di rivalsa, quante vendette. La stupidità uccideva, allora, qualsiasi risorsa di vitalità autentica e ci si rivolgeva all’altro con un atteggiamento che banalizzava e ostentava una sessualità, trattata con poco rispetto e con una superficialità che negava qualsiasi condizione di profonda interiorità. No, tra loro non poteva … non doveva finire così. E allora perché in due? Perché in due potevano fare l’amore e, magari non potevano farlo sempre, ma potevano farlo per sempre e trovare, così, modi migliori di essere, per andare tra la gente, con dentro un’immagine di qualcuno che facesse dire cose che non avrebbe creduto di poter dire, e che facesse fare cose che non avrebbe creduto di poter fare. “L’uomo senza relazioni – scrive C. G. Jung – non possiede totalità, perché la totalità è sempre raggiungibile solo attraverso l’anima, la quale dal canto suo non può esistere senza la sua controparte, che si trova sempre nel Tu. La totalità consiste nella combinazione di Io e Tu, che appaiono come parti di un’unità trascendente la cui essenza non può essere afferrata che simbolicamente, per esempio mediante il simbolo del rotondum, della rosa, della ruota e della coniunctio Solis et Lunae”. Seppure possa non esservi certezza di conoscenza, tuttavia vi è, sempre, certezza dell’esistenza dell’amore, nella misura in cui vi è un essere che per amore si prende cura dell’altro, il quale di amore è più o meno privo, o il cui amore è più o meno bloccato nell’ignoto.
Né Jimena, tanto meno Nakos, capivano cosa stava accadendo, erano tuttavia certi, non avrebbero potuto non esserlo, dell’aspetto affettivo del legame col quale si erano stretti. E volevano viverlo, non analizzarlo. In Nakos era presente, più o meno esplicita, più o meno consapevole, sempre meno inespressa e comunque pressante, la richiesta d’amore, sia sulla propria incapacità d’amare, sia sull’ipotetica possibilità d’essere amato, e imparare ad amare. Jimena era dotata di un senso affettivo che, per tutto ciò che sappiamo ormai di lei, era particolarmente accentuato e sensibile. Ancor più con Nakos, deprivato di affetti e di capacità affettive. Allora, anche se tutto era cominciato tra il serio e il faceto, come prima, generica considerazione, non poteva non rendersi conto appunto del fatto che vi potesse essere un rapporto d’amore, e quanto era necessario che lei fosse capace, disponibile, in grado di amarlo. Altrimenti, non poteva esservi né relazione d’amore né altra relazione. Altrimenti, tra loro sarebbe finita come in tante altre relazioni, in situazioni, in cui alla indifferenza dell’uno sarebbe corrisposta, al più, l’apparenza del suo amore per lei. Cioè, in pratica, tutte quelle vissute fin allora da Nakos. Sino ad arrivare a quell’apparente paradosso che avrebbe fatto sì che l’amore di lui, malato, ma pur sempre amore si scontrasse con la normale indifferenza dell’altra metà del cielo. Jimena voleva riuscire a far chiudere gli occhi, fare buio e vuoto interiore: far sparire da una parte, vedere intuire e sapere dall’altra. Significa, oggi come allora, che la capacità affettiva di ciascuno è contemporaneamente recettiva e tendente ad investire l’altro, in un rapporto di conoscenza, di investimento sessuale, come massima espressione, oltrepassando qualunque forma di distorsione possibile. Diamo per scontato questo originario assetto sano di Jimena, diamo ugualmente per scontato un analogo originario assetto sano di Nakos, il quale aveva tuttavia perduto, anche se in gran parte, tale originaria dimensione affettiva, per le vicissitudini della propria esistenza, che l’avevano fatta, subito, da sana, malata. E’ importante sottolineare che tale perdita è sempre solo parziale: non esiste, perlomeno non si è mai vista, persona tanto disturbata da essere assolutamente indifferente. E’ che l’affetto residuo di ciascuno è come mascherato, distorto. Si potrebbe enumerare una quantità infinita di manifestazioni affettive in ognuna delle quali ciò che è più evidente è “quanto manca di affetto”, ma in ognuna delle quali è evidente che, comunque, di affetto c’è n’è ancora. La totale consapevolezza di poter ancora scoprire l’amore, la sua capacità di donarlo e di riceverne, era Jimena stessa, la persona con cui era entro in rapporto, percependola come altro da sé, e con cui non solo era possibile instaurare una relazione, ma la stavano già vivendo. Riconoscere l’altro nella sua alterità e totalità, questo è più facile a dirsi che a farsi, per la propria necessità di identificarsi con qualcuno o qualcosa, e per la scarsa capacità di vedere –non solo fisicamente, con gli occhi– l’esistenza di pulsioni parziali, ossia quelle pulsioni che sono in cerca ciascuna della propria soddisfazione, poiché non hanno ancora trovato un centro attorno a cui organizzarsi. Il centro di gravità permanente, l’aveva cantato qualcuno. L’inizio di una relazione è, va da sé, permeato di modalità affettive e relazioni parziali: vi è una condizione di bisogno che spinge verso il cercare di modificare. Se stessi, non gli altri. Quella relazione d’amore che parta da una condizione di bisogno e che sul soddisfacimento dei bisogni materiali, o comunque parziali, si esaurisca, ci si deve chiedere che tipo di relazione affettiva sia, e se non ci si debba aspettare di più, qualitativamente soprattutto, se non esclusivamente. In altre parole: l’altro non può esistere solo nella misura in cui riesce a soddisfare un bisogno. Ognuno dei due deve scoprire, trovare e disvelare, e giocarsi, mettere in gioco accettando il cambiamento, la propria identità. L’identità è il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre. Ha il suo fondamento nella relazione che la memoria instaura tra presente e passato. Non è un dato ma una costruzione costantemente mutevole. L’identificazione, invece, quella che Donna Elena pretendeva da Nakos -nel caso, identificazione col marito-genitore, dello sposo che genera, che la rendesse fertile- indicava invece un processo con cui Nakos avrebbe dovuto assimilare tutti i tratti del padre-sposo, modellandosi su di esso. Il fatto era, ed è, che molti dei problemi relativi all’identità si decidono a livello di identificazione, nel senso che tanto più ci si identifica con qualcuno, tanto meno si è in grado di definire in maniera efficace la propria identità. E’ un sottile equilibrio, è un confine sottile quello che passa tra il riuscire a cogliere l’arricchimento, il nutrimento nella relazione con l’altro –situazione che conduce ad una identità più forte, più definita, soprattutto se sollecitata dal padre, non dalla madre– ed il “somigliare a …”, che invece conduce ad una identità più fragile, meno strutturata, alienata, nel senso proprio di ceduta alla altrui volontà. La condizione di “vuoto” che Nakos portava in sé, veniva pian piano sostituita da una trasformazione, dall’acquisizione di nuove e diverse caratteristiche, ancora non si poteva parlare di relazione d’amore. Questa, infatti, avrebbe presupposto che vi fossero già due entità distinte, due identità che interagivano tra loro, tanto più quanto più le loro identità erano, si facevano distinte e separate. Nella quotidianità delle relazioni normali –che brutta espressione, tant’è- il rischio dell’identificazione si esprimeva nella possibilità di un annullamento dell’individualità di ciascuno, nella concreta possibilità di una stabile confusione tra ciò che era proprio e ciò che era altrui, in una alterazione più o meno pervasiva dei propri confini. Il che esponeva al rischio di una vera e propria frammentazione del proprio sentimento di identità o al vissuto di perdita di parti del proprio sé come conseguenza di una separazione. Se è vero che in una relazione d’amore si deve –in qualche misura obbligatoriamente– rinunciare al proprio sé, è anche vero che si deve essere in grado, dopo, di ricostruire i propri confini, e ciò può accadere tanto più facilmente quanto più, prima, tali confini erano ben definiti. In Nakos c’era ancora confusione, espressa ed evidenziata da quel meccanismo noto con il nome di identificazione proiettiva: strana bestia, che faceva sì che parti frammentate di sé, caratterizzate da connotazioni negative, venivano ancora o espulse all’esterno, o poste all’interno di un altro, attribuite all’altro. Cosicché l’altro non era più sentito, non era più sentibile, come individuo separato ma come parte “cattiva” di sé. Ma a questo abbiamo già accennato, è il problema dei confini dell’io. La definizione di tali confini era, è preliminare alla possibilità della costruzione di una relazione d’amore. Nella relazione con Jimena, Nakos stava ricostruendo tali confini; e la ricostruzione avveniva attraverso innumerevoli strumenti: il codice materno, l’ascolto con interesse e attenzione, l’empatia, e la presenza affettiva, e, infine, la conoscenza di sé, la restituzione di lui a se stesso, quando era il caso, anche attraverso il rifiuto, o il silenzio.
Una di quelle sere insieme, a mezzanotte passata, avevano sentito il desiderio di godersi l’aria estremamente dolce, dall’altana che stava sopra il tetto. Con fare esitante e cauto, avevano trovato, a tentoni, il passaggio per accedervi. Il cielo era pieno di stelle e di una falce di luna che attraevano i loro occhi, e in essi si specchiavano. Si erano appoggiati alla balaustra di legno, vulnerabili alla bellezza di quella notte. Sembrava si fossero dimenticati della loro materialità, e che stessero planando in quel cielo, svincolati da tutto, tenendosi per mano. Stavano veramente tenendosi per mano, le dita intrecciate, e ne erano rimasti colpiti, quando se ne erano resi conto. Non era stata una questione di sesso, ma di aver scoperto finalmente il legame, reciproco e profondamente commosso. Commossi perché stavano cercando di dirsi con gli occhi che erano quelli che si erano cercati per tutta la vita. Nakos si era accorto in retrospettiva di quanto fosse teneramente turbato dall’andatura flessuosa e determinata di Jimena, dal suo muoversi sciolta come una ballerina, dal suo profumo di limone, dalla sua crocetta d’oro pendente sul petto. Non avevano fatto altro che guardarsi negli occhi per periodi sempre più lunghi. Lei gli aveva sorriso, la testa inclinata, come stesse valutando se potersi dire soddisfatta. Un gesto tanto innocente, da colpire il cuore di lui. C’erano state altre sere. Mano nella mano. Occhi negli occhi. Con più stelle e lune nei loro sguardi che in tutto l’universo. Beh, quasi. Si erano scambiati il loro primo bacio, prolungato. Poi si erano fissati, in una confusa incredulità extracorporea, come due persone che condividevano una visione celestiale, che altri non avrebbero mai potuto vedere, perché privi di occhi. Non posso dire che da allora in poi si erano tenuti per mano, perché non era stato così, ma avevano sempre mantenuto il loro sguardo interiore fisso l’uno sull’altra. Quella notte si erano abbracciati, da bravi bambini timidi, ben educati. Poi avevano fatto l’amore fino al momento in cui lei, di malavoglia, aveva dovuto rivestirsi della sua uniforme, resistendo alle suppliche di Nakos per un altro bacio e abbraccio. Ma non senza avergli tenuto il viso tra le mani, scuotendo dolcemente la testa, incredula e felice. Non più di lui, va da sé.
APPARTAMENTO. Quella notte Niki, mentre Juan era dentro di lei, si era senita stringerlo con radici confuse che lo collegavano a lei in modo splendido, in giorni infuocaqti e in notti che stringevano improvvisamente il cuore. Lui stava vivendo una seconda vita, la più vera, sotto le apparenze quotidiane della prima, con una storia fatta di un susseguirsi di desideri oscuri e di sensazioni potenti e indescrivibili. Il profumo do Niki, di gelsomino e caprofoglio, gli sembrava, il tepore della sua pelle, il calore che lo attirava dentro di lei senza sosta, non per possederla, ma per entrare nel suo raggio di vita. Per appoggiare la testa alla spalla di Niki con un grande senso di abbandono e di fiducia. E il sentirsi quasi venir meno quando, con le sue mani, lei lo tratteneva più a lungo dentro di sé. E quando si stendeva tra le sue gambe, respirava l’odore dei suoi peli, e gli uomori ancora più forti, animaleschi, del suo caldo spandersi dentro di lei, dove la vita, malgrado tutto, veniva conservata per lui che non poteva farne a meno. Da qui nasceva il suo ardore famelico, quella follia con la quale amava Niki di un grande amore di tutto il cuore, e di tutto il corpo. Sì, con lei il desiderio era assoluto, e il modo in cui defluiva in lei con un grande grido muto nell’attimo del godimento, ritrovava la sua accoglienza ardente, la bellezza generosa di vivere che era, ora, anche la sua, e che dfaceva rifiutare il trascorrere del tempo. Allora, col cuore in fiamme, Juan, come una spada solitaria e vibrante, destinata a penetrare all’iprovviso e per sempre dentro di Niki, si abbandonava a quella pura passione, sentiva la vita fluire da lui in lei, abbandonandosi alla speranza che quella forza lo elevasse per tanti anni al di sopra dei giorni, nutrendo lei della stessa generosità instancabile con cui gli aveva ridato ragioni per vivere.
DISCLOSURE. Juan e Niki avevano preso alloggio all’Hilton, la cui hall, rivestita di marmo, era il luogo d’incontro di miliziani in mimetica, militanti islamici e aperatori internazionali indistinguibili nei loro completi grigi di uomini d’affari, giornalisti arruffati. E, cosa non secondaria per Juan, dove si serviva un ottimo cappuccino, italiano. La loro suite era arredata con gusto, con alle pareti. Al posto dei soliti quadri pacchiani, riproduzioni di opere d’arte della cultura araba e islamica. Un fattorino in uniforme, da fattorino, aveva consegnato a Juan tre messaggi telefonici, cosa che l’aveva sorpreso, almeno fino a quando si era ricordato di aver spento il suo GIL ... perché il loro … riposo non venisse interruptus. Altra grave e incauta imprudenza commessa per la presenza di Nikolett. Avrebbe dovuto quanto prima darsi una regolata. Dopo essersi mentalmente preso a calci, e ripromesso di non commettere altri errori, aveva letto i tre messaggi. Uno, se lo aspettava, va da sé, era di Anabel, e già quello gli aveva fatto andar di traverso la colazione: “Chiamata dall’A.D. –senza precisare di che- Si prega di avvisare di richiamare la Sede, appena il signor Tenorio e la sua consorte saranno disponibili”. Se non era una dichiarazione di guerra, di sicuro un ultimatum. Però … Però Jaun non aveva potuto far a meno di pensare a quanto la sua situazione avrebbe fatto gridare al pur furioso Orlando: «ah misero fratel, fratello insano / perch'hai perduto l'intelletto». Nello stesso luogo, città, albergo, stanza … letto, aveva confessato, a due donne diverse, e, a se stesso, di aver trovato, o quasi, l’amore che gli avrbbero ridato, ne era sicuro, quello di vivere. Aveva anche detto che neppure lei sarebbe stato certo di quale sarebbe stata la volga “giusta” se non sentendolo, senza capirne il come e il perché, solo sentendosi vivere, vedendosi vivere nello sguardo degli altri, di lei soprattutto, ma non solo, in modo diverso, nuovo. Già questo bastava ad escludere che, quando e se fosse avvenuto, avrebbe avuto connotazioni riconoscibili con la ragione. Però … Però, un così rapido mutar del vento che gonfiava le sue vele, una conversione di rotta così repentina, che avrebbe fatto rovesciare sul fianco anche un’imbarcazione da regata … insomma, aveva acceso una luce rossa nella sua mente. Rossa nel senso di allarme, non d’altro. Era come una domanda che avesse sempre conservato una carica d’indecifrabilità e un alone di mistero, e rimaneva ancora un enigma, per lui. Anabel aveva tutte le ragioni per essersi risentita, usando la più soft delle parole. Niki pareva fosse veramente convolata a nozze col sempre sognato e agognato principe azzurro, e lui non aveva fatto nella per non alimentare quel … sogno. Anzi, si era sentito protagonista di quel sogno lui stesso. Non poteva però essere. Pur nella sua convinzione che il suo innamorarsi non avrebbe avuto molto di razionale, era al di là del bene e del male che in lui non ci fosse un minimo di giudizio. Già … il giudizio, non nel senso corrente e più comune. Quello che intendeva, era il giudizio sulla corrispondenza tra le sue esigenze primarie, esistenziali, essenziali, ee la pienezza della loro realizzazione in quell’incontro. Avesse saputo quali erano le sue esiegnze primarie, più profonde. Il che, lui non sapeva. Qualcuno aveva parlato di inconscio, ma Juan, e non solo lui, era convinto che fossero ancora più nel profondo che non l’inconscio. Ne era rimasto turbato, smarrito. Perché le donne s’innamoravano di lui? La risposta si celava nell'ombra, lui agiva sotto la spinta irrefrenabile a compiere gesti ai quali era costretto … ’Come un ragno che attende la tenebra per tessere la sua trappola. Attira, lusinga e consuma la preda, insaziabile, da la rapace fiamma devorato. Regalo l'illusione di una fusione intima e profonda. Non però l'amore, non ne sono capace. Non so cos’è’. Guardare Juan Tenorio non era facile. Era un po’ come cercare di vedere un fantasma inafferrabile. La sua identità era per lui il luogo dell’oscurità che non poteva chiarire. Un buio sul quale non poteva fare alcuna luce. L’essenza profonda si sé, se pur esisteva, gli sfuggiva sempre. Cercando di veder meglio nella situazione nella quale si trovava, sia Anabel che Nikolett avevano pensato, anzi, erano sembrate certe di aver trovato l’uomo giusto per loro. Evidentemente doveva esserci qualcosa d’altro, di diverso. Entrambe non avevano conosciuto l’amore, se non nel suo aspetto romantico da adolescenti, o in quello pasticciato, subito o autoimposto, per ribellarsi ai costumi e alle convenzioni. Come anni e anni prima si occupava una piazza o una scuola o altro edificio, si andava in corteo a protestare, si voleva shoccare la maggioranza silenziosa, ora, non volendo cadere nell’aberrazione del brigate rosse o delle tute nere, erano regredite alla vecchia rivoluzione sessuale. Una rivoluzione che aveva senso quando c’erano autorità cui ribellarsi, ma ormai, col principio di autorità sputtanato in tutti i modi e a quasi tutti i livelli, chi non era retto da una fede forte, finiva per fare a capocchia, seguendo capricci, mode, gruppi. Forse con lui avevano fatto l’amore in modo molto più intenso ed emozionante di quanto non fosse mai accaduto. Si erano sentite liberate, dal “rigor mortis” della condanna alla frigidità. Lui le aveva liberate, no, loro si erano sentite liberate dalla paura a mostrasi come erano, di mettersi in luce, di sentirsi raggirate o dover raggirare. Valori difficili da assumere fino in fondo nella propria vita senza tradirli mai. Valori, in ogni caso, di cui lui non era portatore. Poiché una relazione produce sempre una sua legge, una sua norma, poteva essere che loro avessero stabilito come la norma che esprimeva il massimo della ribellione, fosse l’amare lui, unirsi a lui per sempre, farsi fecondare da lui. Juan aveva avuto un’illuminazione, un flash, non più che un lampo improvviso e subito scomparso, che, non seguito dal tuono, lascia in dubbio se si sia visto veramente un lampo o non, invece, un qualsiasi riflesso abbagliante. Aveva recuperato le immagini di altre donne, che avevano preceduto Anabel e Nikolett, procedendo a ritroso, e qualche tratto comune gli era sembrato di scorgere. Piuttosto solitarie, anticonformiste, difficilmente omologabili, piuttosto ardenti, almeno con lui, insomma, speciali. In donne così il conflitto contro l’ipocrisia, il convenzionalismo, l’amore troppo superficiale, doveva essere altissimo; ed elevatissima anche l’aspettativa verso di lui. Il loro amore per lui era, almeno nelle intenzioni, era per tutta la vita. Nessun altro uomo avrebbe potuto prendere il suo posto. Possibile? No, non che lui fosse così, ma che loro potessero vederlo così. Lui pensava che la costanza era buona solo per gli sciocchi. Lui non era così. Aveva ripensato alla notte buia e tempestosa: aveva aperto gli occhi, aveva visto una sconosciuta china su di lui, e si era “dichiarato” a bruciapelo –beh, non proprio, ma insomma …- semplicemente perché lei si trovava lì, perché era già tra le sue braccia. Si era sentito morire e rinascere, e si era scoperto innamorato, senza il tempo per riflettere, senza nemmeno sapere di chi si era innamorato. E lo aveva proclamato con parole di fuoco, istantaneamente, in una risposta immediata, automatica. Risposta a che? Risposta a chi? Eppure, da vero eroe della conquista, l’aveva portata con sé, infrangendo ogni regola e codice, ogni norma di sicurezza, tradendo senza curarsene Anabel. Era come non vivesse nel presente, ma nell’istante. Una successione di istanti, di momenti immediati. Quel suo desiderio di essere continuamente su di lei, dentro di lei, di lasciare in lei la sua traccia, il suo elemento vitale, lì c’era tutto. L’avevano lasciato entrare volontariamente, consapevolmente. Alcune abbandonandosi fisicamente molto bene, per ottenere quanto di più elevato era possibile. Lui stesso realizzava i loro desideri a un presso molto elevato, anche lasciandosi possedere in modo arcaico e primitivo. La sua memoria stava tessendo la trama della sua vita, del suo trascorrere, ma lui non ne coglieva ancora il senso. C’era solo una serie di momenti di immediatezza, ripetuti e slegati tra loro. Beh, alla fine si sarebbero collegati, forse erano vasi comunicanti, ma condensare tutto in uno … ne doveva passare d’acqua sotto i ponti. Ciònonostante, senza posa, evava inizato ad ossessionarlo una domanda: “Amo questa donna? Ho mai amato una donna?”. Cos’era l’amore? Adorare un corpo, venerare un sesso, inebriarsi di profumo e di odori, rimanere stordito da seni e aureole perfetti? Aveva sognato per tutta la vita questo amore nel quale lo spirito, l’anima, erano i grandi assenti? Con Anabel era rimasto legato più di due anni. Poteva ricordare ancora il suo profumo, del quale gli piaceva versarsi una goccia sul palmo delle mani, per ricordarsi in ogni istante dell’ultimo amplesso, dell’ultimo orgasmo. O di lei, vestita solo delle scarpe dai tacchi vertiginosi, seduta sul bordo interno della grande vetrata all’ultimo piano dell’Emirates, mentre lui la penetrava con la visione dei loro corpi riflessa nello specchio, dietro la quale si stendevano in splendida vista il mare e la magnifica moschea in un tramonto fantastico. E il porto ... e la città, con milioni di luci. Lei con la schiena poggiata al vetro, reggendosi con le mani sullo stretto davanzale interno, protesa verso di lui, che a sua volta affondava dentro di lei facendo leva, e prendendo spinta sulla punta dei piedi. Come dimenticare la donna che gli aveva dato uno dei più grandi orgasmi che mai gli fosse stato offerto? Tutto ciò non poteva restare per sempre il suo mistero. Ogni volta, ogni nuova volta, era travolto da un’ossessione che cancellava tutto ciò che prima era accaduto, che aveva contato qualcosa, persino molti dei suoi piaceri, la sua paura della solitudine e dell’abbandono, l’indolenza di un amplesso che gli era sembrato una passeggiata del suo sesso nella foresta di quello di lei, fino a scivolare dentro di lei, con una leggerezza disarmante, quasi sciando, fino alla gioia dell’immensità dello sciogliersi della neve di lei, e della sua in lei. Momenti d’amore che lui voleva prolungare, rinnovare, non solo per portare all’estremo il piacere, anche, senza dubbio, per non ritrovarsi solo, finito il piacere, in una realtà desolante, che spingeva sempre la sua temerarietà a ritrovare quell’accoglienza appena e con chi fosse possibile.
Prima ancora di essere un seduttore era un sedotto. Ed era un amante ineguagliabile, stupendo. Era spinto … in una coazione a ripetere … da una doppia onda: da una parte un'infantile stupore per quanto era meraviglioso il mondo; dall’altra un desiderio di libertà, una sete di emozioni. Restava, però, sempre inquieto, mai placato. Già a undici anni aveva conosciuto la passione intensa di una donna sul suo giovane corpo. La sorella di sua madre, alla quale i suoi lo affidavano quando non c’erano. E non c’erano mai. E quelle comparse che facevano, era meglio non ci fossero state. Da quella prima volta - quel ricordo che lui custodiva come l’unico sereno e commosso della sua infanzia, per il resto priva di tenerezza, di attenzione, di tranquillità, di sollecitudine- l’amore era diventato il faro della sua esistenza e l’aveva condotto da un talamo all’altro. La sua vita infelice era proseguita così, senza sosta, senza meta, se non quella di donare il suo amore sensuale in tutte le sue forme, senza mai stancarsi. Un uomo che solo l'idea di atto riproduttivo poteva placare, liberare dalla nostalgia che si risolveva, sempre, fra il piacere del ricordo e la malinconia del passato. La sua maschera di seduttore era un equivoco creato dalle donne. Ciò che lo rendeva irresistibile per le signore era la sua spiritualità, o la sua pretesa di una spiritualità virile. Con il rischio, certo, che gli episodi finissero per divorare tutta la sua vita. Ciò che veramente faceva, che continuamente ossessivamente ripeteva era un atto di reinfetazione, del tenersi dentro. Non si tratteneva dentro per smania, si tratteneva dentro per rassegnazione. Non sapeva più se rinascere in quel corpo di cui aveva conosciuto il possesso intimo; o rientrarvi per intero, regredendo fino non essere più, dissolversi. Lui penetrava nel loro grembo segreto, e loro mugolavano, dimenandosi, contorcendosi, celebrando, insomma, l’intimo cerimoniale dell’atto d’amore. Ma, tra i due, rimaneva sempre più forte la donna, che lo voleva bruciante del suo solo fuoco. A Juan era tornato in mente una scena di Ricorda con rabbia, di John Osborne, uno dei celebri angry young men. La scena in cui Jimmy descrive all’amico Cliff, i suoi rapporti sessuali con la moglie Alison, in presenza di quest’ultima. >. Nessun dentro era per lui sicuro e appropriato, così fuggiva sempre, e quasi subito. Fuggiva, ma era angosciato dal panico di non trovare un altro luogo, così mentre una relazione era ancora in corso già ne iniziava un’altra, cui passare senza soluzione di continuità. Dall’averne due, era passato a tre, in un labirinto di Creta, nel quale temeva di perdersi: e restava prigioniero tra la coazione a ripetere la reinfetazione, e il timore della solitudine … Aveva fatto esperienze forti, e ne portava le stigmate, il passato lo segnava, lo marchiava a fuoco, più, molto di più delle sue cicatrici. Le maschere che indossava per difendersi stavano divenendo troppo pesanti anche per lui. Avrebbe potuto togliersi l’ultima solo di fronte a se stesso, nell’incontro con una donna che gi avesse tolto anche l’ultima maschera. Un ventre che non avesse ancora conosciuto uomo, nel quale lui fosse il primo, avrebbe ridato lui a se stesso, nella nascita di un bambino, imparando l’amore dal dargli la vita. Juan non sapeva che fosse l’amore. Non l’aveva mai saputo. Aveva conosciuto solo il possesso e il controllo che fin dall’infanzia l’avevano esasperato, frustrato. Alle soglie della vita, prima di qualsiasi iniziativa, aveva sempre provato una grave sfinitezza e un profondo disgusto per tutte le miserie e le vanità da cui veniva insozzato, mentre lui voleva tenersene proprio lontano provandone un istintivo rifiuto. Dubitava. Delle idee generali, delle convenzioni sociali, di tutto ciò che riceveva come educazione. Cosa più grave, aveva finito per dubitare anche dei sentimenti più profondi. Eccolo solo, nudo e disorientato. Stanco di dubitare, cercare una consolazione nella spregiudicatezza e licenziosità di costumi, nell’indipendenza assoluta d’idee e opinioni. Cercava per non trovare. Sempre. Perché era troppo tormentato per abbandonare la ricerca. Prendeva coscienza della propria nullità. Comprendeva che l’uomo da solo non è nulla. Finalmente si vergognava, e si vergognava di aver vergogna. Se avesse acconsentito a darsi con un assoluto desiderio di unione, di assoluto, e avesse capito che quel segreto che aveva avidamente cercato di conoscere, sarebbe stato tremendamente legato a quella donna, e avrebbe capito di non dover più cercare. Si sarebbe sciolto in fondo a lui quel nodo di legami oscuri, si sarebbe liberato da impacci che lo opprimevano senza che sapesse nominarli. I cocciuti silenzi, le sofferenze vaghe e sovrane che lo soffocavano, segreti che si portava dentro da sempre, gli sarebbero parsi allora fatti solo del silenzio che li custodiva. Avrebbe aperto gli occhi sul mondo troppo bello, che aveva ignorato perché l’aveva guardato male, soprattutto amato male. Allora avrebbe potuto sprizzare in piena luce, con l’aiuto dell’amore. Avrebbe avuto la possibilità di vivere in un mondo più puro, esente da ogni meschinità, e di dimenticare i suoi grossolani desideri e i suoi ignobili appetiti. Si era sempre atteso una specie di morale o di religione tutta istintiva. Si era sempre atteso un a sorta di vangelo forgiato dall’intuizione e fatto per essere capito intuitivamente. Intuizione che non aveva mai avuto. Il suo ragionamento era ancora di solitario, ma si era innamorato di quella donna, del bambino che sarebbe nato, della vita, e questo suo amore era un cristallo attraverso cui vedere riflesso, e abbagliante in mille sfaccettature, l’assoluto. Già, ma quale donna? Anabel? Nikolett? ... e Dvòra, c’era anche Dvòra Gàl. Un’altra ancora? Perché? Perché continuava a rodersi con quelle domande cui non sapeva dare risposta, di più, che non capiva neppur bene del tutto? L’aveva preso una rabbia insostenibile. Di lui non gliene importava niente a nessuno, nessuno capiva. Aveva sentito d’un tratto questa passione, autonoma, esclusiva. Ne sentiva la tensione come un urto. Si sentiva umiliato, minacciato, rapinato. Si sentiva inconsapevolmente un fallito, e provava rabbia, detestava coloro che l’avevano ridotto così. L’elenco degli imputati era in bianco. Le donne! Erano protettive ma oppressive, materne ma grottescamente, lo tenevano in un’umiliante dominio. Il loro ignobile far ricorso anche a investigatori privati per controllarlo, per acquistare potere su di lui. Sì, la sua presenza era solo esornativa, esterna, non necessaria. Questa bizzarra ossessione stava acquistando un peso determinante. ‘Se è questo che vogliono … hanno trovato il giusto ribaldo … Sì, quella era la parola ad hoc, alla sua antica origine germanica hrìba, riban, significava: donna di malaffare. Una burla perfetta”. . Nessun senso di colpa aveva aperto strappi nella sua coscienza. La sua mente era stanca, esausta, alterata. ‘Perché dare la colpa a me? Non hanno il diritto di dare a me la colpa di quello che mi è accaduto’. Era furioso. Provava un dolore insopportabile, il dolore del rifiuto, dell’abbandono. All’improvviso dubitava del modo in cui veniva percepito. Sapeva che, a dispetto di tutti i tentativi di mostrarsi premurose e gentili, non sentivano il gelo che si era creato dentro di lui. Aveva perso fiducia anche in quella che gli era sembrata un’accoglienza rassicurante. Osservava con occhi sgranati senza vedere nulla. Pensieri senza forma gli ronzavano nella testa come mosconi intrappolati. Non sapeva come sfogare la sua rabbia. Non sapeva cosa fare con sé, di sé, ma non poteva cedere proprio adesso. No, avrebbe praticato l’arte della fuga senza mai andarsene veramente. Non doveva cedere mai, e affrontare l’alto grado di esplosività di quella situazione drammatica, cercando di raffreddare i suoi fumi di rabbia e vendetta, e di disperderli come il vapore. All’altrui vista. Sarebbe però stato giudice e vendicatore, anche sull’oggetto de suo amore ... o desiderio. Aveva accantonato bruscamente quel biglietto, come fosse il responsabile di quel malumore che si era impossessato di lui. Aveva lasciato spento il suo GIL, per il momento aveva preferito comporre il numero della stanza da cui era stato chiamato. Avevano risposto al primo squillo, una voce decisa, non forte e arrogante, affabile: “Le sarebbe di troppo disturbo essere nostro ospite per un paio d’ore?”. Inutile chiedere con chi stava parlando. La voce aveva continuato: “Le saremmo grati se venisse solo, non è un luogo adatto per una giovane moglie”, aveva calcato sull’ultima parola. Si era affrettato ad aggiungere, “Nulla di pericoloso, per carità, solo … roba da uomini”. Sapevano più di quanto avessero dovuto, e di quanto lui avesse voluto, ma che erano? Non era la prima volta che Juan si trovava in simili contingenze, e aveva considerato che se ci fosse stato pericolo non sarebbe aumentato accettando l’invito. “Con piacere”. “Al bar sulla terrazza”. La voce gli aveva dato il numero di un tavolo e aveva riappeso. Questa volta aveva pregato Niki di aspettarlo in camera, non sarebbe stato via molto. Nessuna obiezione o malumore, aveva solo dovuto risistemarsi l’abito stropicciatosi quando l’impetuoso bacio di arrivederci di lei li aveva fatti ricadere sul letto, allacciati in un abbraccio durante il quale lei gli era stata a fianco, sopra, sull’altro fianco, sotto ... e lì Juan aveva imposto la fine, perché lo trattenesse in un altro impegno, seppur di gran lunga preferibile e allettante. ‘Juan, qui devi ricollegare il culo col cervello alla svelta ... non sei mai stato così. Invece di stancarti ... la desideri di più: più spesso e più intensamente. Ti lasci distrarre dalle più elementari regole e precauzioni. Che ti sta succedendo? Non sembri più lo stesso. Cos’ha questa che altre non hanno?’. Inutili domande, inutili rovelli. Appena la toccava, anche solo con gli occhi, si sentiva come avesse preso uno sproposito di Cialis. Fosse stato solo quello ... Era che si sentiva sciogliere dentro, non desiderava che fosse sua, né di essere suo ... voleva essere ... insieme, che entrambi si sentissero insieme. Avrebbe voluto dirle: “Donami l’anima ... che la mia già l’hai presa”. Giunto sulla terrazza era finalmente riuscito a riprendere il controllo. Fingendo di ammirare il panorama, si era fermato in piedi sulla terrazza, giusto il tempo di individuale il tavolo di cui aveva avuto il numero. Si era avvicinato con aria annoiata. L’uomo robusto, con i baffi folti e i capelli pettinati all’indietro, che era al tavolo si era alzato, allontanandosi. Juan l’aveva seguito, dopo un’hesitation se sedersi o no a quel tavolo, a beneficio del pubblico. Se pubblico c’era. Altro viaggio sotto scorta, su Mercedes ultimo modello, non su un veicolo militare o paramilitare, come si sarebbe aspettato. Non c’era voluto molto perché Juan riuscisse a indovinare la loro meta: la grande caserma che aveva visto insieme con Niki, durante il loro girovagare. Arrivando in auto, dopo l’ultimo tornante, l’orizzonte si riempiva di quel muraglione, che incombeva grigio e inquietante. Nei cortili erano in corso esercitazioni d’addestramento di diverso grado. Juan era stato accompagnato in uno stanzone al primo piano, destinato originalmente a un corpo di guardia. Ora c’erano solo un lungo tavolo –quello che era stato per il rancio?-, casse ammassate in disordine, una brandina da campo. Scatoloni pieni di provviste. Armi e munizioni sparse. Abiti appesi a chiodi infissi a caso nei muri. Anche in vecchio catino con specchio, portasapone e un anello porta-asciugamani, su un tripode in ferro battuto. La scarsità di mobili era compensata dall’abbondanza di mensole, sulle quali c’era di tutto un po’. Su un muro era appesa una bandiera verde con la scritta, in bianco, “al servizio del popolo”. Da dietro il tavolo, al quale era seduto, si era fatto avanti un uomo di non più di quarant’anni, dal volto simpatico faccione con un sorriso a 32 denti sotto un paio di baffetti grigi. Un inglese fluente, frutto dei suoi studi all'estero. Era in abiti civili raffazzonati. I pantaloni di un gessato scuro, una camicia bianca aperta sul collo, le maniche arrotolate sugli avambracci, un golfino senza maniche verde oliva, militare. Ai piedi mocassini sformati. Aveva teso entrambe le mani a Juan, serrando la sua in una forte stretta, scuotendola a lungo. “Mohamed Tell”, si era presentato. Juan l’aveva già riconosciuto, era un personaggio abbastanza noto, per usare un eufemismo. Era un grande imprenditore edile, con attività nel Paese e all’estero, proprietario di vari alberghi nei Paesi su quella sponda del Mediterraneo, a Cipro e in Grecia. Si era schierato subito con i ribelli, ed era stato sempre in prima linea. Anche ci era stato sospettoso verso di lui, all’inizio, aveva dovuto alla fine arrendersi. Alle critiche che gli erano state rivolte, di essere stato in affari col vecchio regime, aveva risposto con un argomento difficilmente contestabile: quasi nessuno poteva dire di essere stato estraneo al vecchio regime. Inoltre, suo padre e suo fratello, che erano stati a capo degli affari di famiglia si erano ritirati lasciando tutto nelle sue mani. Lui che era direttore dell’Istituto islamico di studi teologici e politici, sempre in viaggio tra in suo Paese, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, Dubai.
“La ringrazio di aver accettato il nostro invito … non la terrò lontano a lungo dalla sua giovane sposa … non si preoccupi. E’ veramente un piacere averla qui”.
Anche lui aveva calcato su “giovane sposa”, qualcuno aveva la lunga troppo lunga, qualcuno dei suoi, aveva pensato Juan. L’aveva condotto, guidandolo con un braccio, a una sedia di fronte alla sua, dall’altra parte del tavolo. Mohamed Tell aveva liberato la parte di tavolo che stava tra loro, avvicinando una brocca d’acqua e due bicchieri, che aveva subito riempito. Juan aveva ringraziato con un cenno del capo.
“Un po’ marxista la scritta, non le sembra?”, indicando la bandiera appesa al muro.
Mohamed aveva sfoderato il suo largo sorriso: “Sempre meglio che chiamarci ribelli … Voi ci chiamate così, ma noi non siamo ribelli. Siamo rivoluzionari. Ribelli indica una sfida nei confronti di un’autorità legittima, ci fa apparire come criminali … assassini senza scrupoli”.
Juan si era accorto di essersi incamminato su un terreno scivoloso, e aveva subito cercato di rimediare. “Mi scusi, mi ero dimenticato che lei è anche un grande teologo … e politologo. Comprendo il suo disappunto … il linguaggio è frutto di una convenzione su significanti e significati”, Tell aveva annuito, compiaciuto. “Il passato regime si dichiarava rivoluzionario, è stato così detto per anni … ora, come chiamare chi combatte un regime rivoluzionario?”.
Mohamed Tell non sembrava contrariato, anzi trovar piacere in quella conversazione. “Quello era una dittatura sedicente rivoluzionaria … noi siamo i veri rivoluzionari”.
“Ne sono convinto. C’è della confusione. Per decenni regimi totalitari si sono mascherati sotto spoglie rivoluzionarie … quando sono caduti, quei Paesi si sono dati forme costituzionali democratiche in diverse versioni. La contrapposizione, a parer mio, è tra dittatura e democrazia, troppe rivoluzioni sono finite in dittature, di uno, pochi o del popolo non ha fatto differenza. Un Paese come la Cambogia è arrivata alle soglie dell’auto-genocidio, e tutti i contendenti si dicevano rivoluzionari”.
Tell, “Noi siamo i veri rivoluzionari”.
Juan, “Signor Tell, non voglio essere polemico, né fare una disquisizione solo accademica. Mi conceda un appunto: vero o falso sono giudizi molto soggettivi e opinabili. Le guerre di religione sono sempre state tra un vero e un falso … e oso dirle che avete in casa il pericolo di chi può domani dichiararsi di essere più vero rivoluzionario di voi. Forse mi sbaglio, ma il Governo che avete appena abbattuto è iniziato con una rivoluzione contro la monarchia assoluta ...”.
Tell si era fatto serio, sporgendosi più avanti sul tavolo, appoggiando gli avambracci. “Cosa ha visto da quando è qui?”.
“Un’uniforme non l’avete ancora, ma che siate un clan ben organizzato lo si capisce all’istante, appena scesi dal volo. L’aeroporto è in mano vostra, i poliziotti e i doganieri si limitano a controllare i passaporti, all’ufficio visti ci siete voi, al triplo controllo con i metal detector ancora voi, fuori del perimetro dell’aeroporto sempre voi: i Taghmer”.
“E controlliamo tutta la regione”.
Juan aveva continuato: “Ho visto una Città liberata ma non libera, ordinata e caotica insieme, dove sotto il manto di una quotidianità che appare, tutto sommato pacifica, si muovono interessi e rivalità, e la violenza è sempre pronta a riesplodere. Sbaglio o pochi giorni fa c’è stata un’intimidazione armata, a suon di raffiche di mitraglia, sulla facciata della sede della GFP?”.
“Oh, erano miliziani che protestavano per il mancato pagamento del soldo e degli indennizzi … un governo c’è, ma non si vede”.
“E i miliziani erano Taghmer, dico bene?”.
Tell aveva sorriso, amaro quella volta. “Già, è che la Giunta, invece, paga altre milizie, che noi non amiamo affatto. Per darle un’idea, è vero che il Paese è una scacchiera, ma le parti in gioco sono quattro. Chi, come la GFP, e i nostalgici del regime, vogliono, come dire? capitalizzare subito. Essere riconoscenti e privilegiare i Paesi che hanno appoggiato … l’insurrezione, cedendo loro lo sfruttamento delle nostre risorse: petrolio, gas … tutto take-away. Non parlo solo dei paesi occidentali, Qatar e Arabia Saudita sono inclusi. Soprattutto il Qatar, che non sta agendo da solo, ma con uno o più Stati europei alle spalle. Mi consenta di essere più preciso su questo punto, perché ritengo sia il clou della questione. La sfida di creare uno Stato indipendente dalle interferenze straniere –un compito arduo, in primo luogo alla luce del fatto che il rovesciamento del passato regime è avvenuto grazie all’intervento determinante di Potenze europee, che difficilmente agiscono per motivazioni puramente umanitarie. Sono certamente attratti dalle nostre risorse energetiche: dall’elevata qualità del greggio, e dai potenziali giacimenti di petrolio e di gas ancora da scoprire. Risorse che potrebbero rendere il popolo uno dei più ricchi del mondo, ma potrebbero anche costituire una dannazione in grado di portare il Paese alla rovina. Le fratture e rivalità presenti nel paese vengono esasperate, per le ingerenze straniere di motivare il loro desiderio di mettere le mani su queste risorse. Si stanno facendo troppo invasive. L’emirato del Qatar, che è un piccolo ma ricchissimo regno, si è rivelato uno fra i più entusiasti partner della coalizione di insorti contro le dittature. La sua emittente al-Jazeera ha avuto un ruolo determinante nel propagandare la nostra causa nel mondo, e il Qatar ha venduto il petrolio per conto della GFP durante il conflitto, fornendo carburante e tonnellate di aiuti. Ha anche inviato ben sei aerei Mirage a prendere parte alle missioni, e le sue forze speciali hanno contribuito ad addestrare le nostre milizie. E il suo ruolo del Qatar non si esaurisce certo qui. Quando era divenuto evidente che, senza una nostra adeguata offensiva, le incursioni avrebbero prodotto soltanto una fase di stallo militare, si era posto il problema di inviare grandi quantità di armi alle nostre milizie , un compito rischioso per gli USA e i governi europei, tanto più che all’epoca non vi era alcuna garanzia di riuscita della rivolta. Il Qatar si è assunto quel ruolo, e fin dal mese di aprile ha cominciato ad inviare tonnellate di armamenti di produzione europea, principalmente francese, con il tacito consenso di americani, francesi e britannici. La maggior parte di questo materiale bellico tuttavia non è transitato per la GFP, ma è stato consegnato direttamente alle milizie sul terreno. Gli aiuti del Qatar sono stati canalizzati soprattutto verso quelle islamiche. Mentre infuriava il conflitto, europei ed americani sono stati molto soddisfatti del ruolo svolto dal Qatar, ma verso la fine la GFP, e alcuni Paesi europei non impegnati militarmente, hanno cominciato ad “esprimere preoccupazioni” riguardo al fatto che gli aiuti qatarioti rischiavano di rafforzare le milizie islamiche a spese dell’embrionale Governo provvisorio. Questi aiuti sono continuati a giungere anche dopo la caduta del regime, e sempre scavalcando la GFP. I qatarioti negano di aver favorito alcuni gruppi a spese di altri, e affermano di appoggiare una democratica in cui tutte le fazioni siano rappresentate. Hanno affermato che le armi sono state consegnate non in base ad una solidarietà ideologica, ma semplicemente alle forze che si sono dimostrate più efficaci sul campo. L’interessamento del Qatar ha certamente ragioni economiche, in particolare nel settore energetico, ma anche una visione politica in cui sono presenti elementi islamici e panarabi. A partire dallo scoppio della Primavera Araba, il Qatar, che non é uno Stato democratico, che solo grazie alla sua enorme ricchezza può assicurarsi il consenso della sua esigua popolazione, si è atteggiato a difensore dell’opinione pubblica araba, soprattutto con il suo canale satellitare al-Jazeera. L’emirato promuove l’idea che, in una regione a maggioranza musulmana come quella mediorientale, l’Islam politico può contribuire a costruire delle nazioni moderne e dinamiche, attraverso il suo coinvolgimento nel processo democratico. Ma la scelta di dialogare anche con ex del regime e con i jihadisti è destinata a entrare in rotta di collisione con le scelte dei paesi europei. Uno in particolare. E le potenziali ripercussioni sul rapporto fra la GFP e la componente “islamica” dei ribelli rischiano di essere gravi, e di andare a scapito della stabilità del nuovo Stato. Si dicono federalisti, per uno Stato federale tra tre macroregioni, ma la realtà sarebbe una secessione, la spaccatura in due, invece che tra nord e sud, come quasi ovunque, tra est e ovest. Poi ci siamo noi, che vogliamo una repubblica islamica non integralista … laica come direste voi molto impropriamente. Con la ricostruzione e lo sviluppo del Paese fatta in partenariato con Paesi non rapaci, in cooperazione. Diciamo i BRICS, l’Italia può essere … vedremo. Poi ci sono le Tribù, che sono già infiltrate dappertutto, e non intendono affatto rinunciare a una grossa fetta del potere, soprattutto delle risorse economiche. Saranno determinanti, ma non mirano al controllo assoluto, anche perché sanno di non averne le capacità. Infine ci sono i Fratelli Musulmani … e anche i salafiti”. Juan, con la mimica aveva fatto capire che proprio a quello voleva alludere parlando di più veri rivoluzionari. “Il capo militare delle loro milizie è uno jahidista, veterano della guerra afgana, colluso con al-Qaeda, caduto nelle mani dell’ISI, che l’ha consegnato al vecchio regime, che, non si sa perché, lo ha lasciato libero. E’ riapparso dal nulla, con fama di imperituro capo militare, e qualcuno gli ha affidato quelle milizie. In altri Paesi che si sono liberati, come noi, delle dittature al potere, i Fratelli Musulmani hanno sempre tenuto un profilo basso, presentandosi come sostenitori della democrazia e della tolleranza, fino alla vittoria. Maestri in doppiezza. Al memento delle elezioni hanno fatto irruzione come un ciclone, dominando le votazioni, insieme con i salafiti. Campioni di ambiguità, si sono subito dichiarati a favore di uno Stato islamico con la sharia come legge. E pare abbiano l’appoggio del Dipartimento di Stato americano”.
“Impressionante. Veramente impressionante. E inquietante, anche”.”.
“Ora, aveva continuato Mohamed Tell, “noi sappiamo che è stata richiesta la sua consulenza”, ‘chi cazzo è la gola profonda?’ si era allarmato Juan, “da parte di qualcun o che intende interferire con i nostri affari interni”.
“La ascolto …”.
“Non sarebbe una buona idea … scarponi stranieri che si sporcano della nostra sabbia, per usare una loro espressione”.
“Beh, qualcuno se li è già sporcati …”.
“E la cosa deve finire qui. Qualunque sia la soluzione a questo stato di cose, il popolo deve vedere propri connazionali come attori protagonisti!”.
“Su questo sono pienamente d’accordo. E, aggiungo, anche si trattasse di esuli o arnesi del vecchio regime, insomma qualcuno che agisce dal di fuori del Paese, mi assicurerei che nessuna potenza regionale fosse contraria …”.
“E come farebbe a saperlo? A lei lo direbbero?! Mi scusi, ma ne dubito fortemente!”. Fuori i rumori delle esercitazioni erano terminati, dopo le ultime grida degli istruttori.
Juan aveva annuito, comprendeva l’incredulità di Tell, “Niente di ufficiale … contatti. E niente si o no. Un aggrondar di ciglia, l’imperturbabilità … sono questi i segnali”.
Tell non sembrava ancora convinto: “E lei ha già …”.
“Non ancora, sono in viaggio di nozze …”, aveva fatto capire di aver capito, “è la prima cosa che farò appena rientrato. Ora, mi dica il perché di questo colloquio”.
Mohamed aveva versato altra acqua per entrambi, e bevuto una lunga sorsata: “Non pretendo nulla che sia contrario ai suoi principi. Se lei dovesse, per uno dei motivi che ha appena detto, rinunciare all’incarico … si impegnerebbe con noi?”.
Juan aveva tirato un grande sospiro. Aveva anche lui bevuto un lungo sorso, prendendo ancora più tempo. “Lei sa che il SOE fornisce solo consulenze, valutazioni, supporto logistico, non interveniamo mai. In ogni caso nel contratto è sempre inclusa una clausola sulla riservatezza. Credo che facendo come lei mi chiede, violerei questa clausola, anche se indirettamente … Chi si fiderebbe più?”.
Mohamed aveva annuito solennemente, colpito da un’obiezione che non aveva preventivato. E indeciso se calare il carico da undici o no. Aveva deciso di tentare qualche altra via. “Ha già firmato il contratto?”.
“Assolutamente no. Non sono comunque io a prendere impegni per il SOE, è il suo A.D., io sono solo un presidente più o meno onorario. Un consulente di consulenti. Tra le tante cose che lei sa, saprà anche che ho avuto un primo contatto qualche giorno fa …”.
Mohamed aveva sollevato le mani, i gomiti ancora appoggiati sul tavolo, per fermarlo. “Sì, lo sappiamo, come sappiamo che la CEO, o A.D., come dir si voglia, era sua fidanzata fino a pochissimi giorni prima che lei si mettesse in viaggio di nozze con la signorina … pardon signora Nikolett”,
‘Porca di quella puttana, quando becco il canarino gli torco il collo’, restando impassibile.
“E a noi risulta che un contratto sia stato già siglato, se non proprio firmato …”.
Juan non perdeva mai la sua stone face, era stato però evidente come avesse incassato un gran brutto colpo. Inutile replicare, quello non stava certo parlando a vanvera, né cercando di seminar zizzania, qualcosa di vero doveva esserci. Il solo pensarci gli faceva venire i sudori freddi: una falla nel SOE … Non poteva essere! Una falla …? Non si trattava più di fuga di notizie, qualcuno era andato ultra vires … Sì, Anabel era la CEO, ma non aveva mai … non era mai stata neppure presa in considerazione l’ipotesi che potesse prendere impegni senza l’ok di Juan. Teoricamente era possibile … ma era impossibile, assurdo. O no?.
Mohamed Tell l’aveva lasciato per un po’ cuocere a quel fuoco lento, poi: “Veda, io ho qualcosa che può dimostrarle la mia buona fede, e credo, anzi sono sicuro, farla decidere in un senso a noi non sfavorevole …”.
Juan era confuso, “Cosa vorrebbe, che diventassi vostro consulente con la SOE che lo è dall’altra parte!?”.
Con cinico machiavellismo, “Non ci vedrei nulla di così riprovevole … lei viene scavalcato, e si prende la sua libertà d’azione”, l’aveva prevenuto, “gli altri saranno liberi di decidere con chi stare. I nuovi di certo staranno con la CEO …”.
“I … nuovi?!”. Juan era quasi sobbalzato sulla sedia, se era un bluff stavolta ci era cascato come un pollo. Non era un bluff.
“Gli infomediari, esperti di informatica indipendenti o dei servizi di intelligence, con la collaborazione della Dome, la …”.
“So cos’è”, brusco e risentito, con la persona sbagliata: ambasciator …
Ambasciatore che, dopo l’affondo, era tornato sul piano contrattuale: “Mi scusi, capisco di averla sorpresa, non avrei dovuto. Di sicuro la informeranno di tutto. In ogni caso, le stavo dicendo, io posso darle qualcosa che dimostra la nostra buona fede, qualcosa di molto molto delicato”.
“Miri al petto, per favore”.
Tell aveva apprezzato come Juan si era ripreso. “La vera identità del generale fantasma. Quel presunto generale israeliano che avrebbe ingaggiato mercenari, addestrati, armati, e condotti qui a combattere contro di noi”.
Juan era senza più parole, con la mente in apnea.
“Si starà chiedendo se non si tratti di un’operazione di disinformazione … le assicuro di no. “Nelle nostre prigioni ci sono migliaia di mercenari e di mutasalliqin … chi ha tentato di voltar gabbana, non solo carne da cannone, pezzi grossi militari e civili del regime. Sono rinchiusi in sessanta prigioni e campi, la GFP ha accesso solo a meno di dieci … Sono un tragico ma inevitabile buco nero, che fatalmente ogni rivoluzione porta con sé, e c’è sempre chi, per non scomparire in quel buco, è disposto a vendere l’anima al diavolo. Si tratta di informazioni autentiche, ben documentate e inoppugnabili. Oggi voglio essere generoso, non è un generale israeliano … ammetta che più di così …”.
Jaun, perplesso, “Non ce la vedo a far da avvocato difensore a Israele”.
Mohamed Tell aveva sorriso mestamente, “Per il popolo si può scendere a qualche compromesso. Oggi c’è un pericolo imminente alla nostra stessa indipendenza … forse alla nostra sopravvivenza, e non viene da Israele”.
Sempre sconcertato, “Perché non lo rendete pubblico?”.
Mohamed, guardandolo come si guarda un ingenuo, “Scateneremmo una crisi internazionale, e saremmo il vaso di coccio tra quelli di bronzo … Se ne renderà conto se e quando potrà vedere cosa abbiamo in mano”.
“Cioè se accetto la vostra proposta …”.
“No, no … mi scusi se mi sono spiegato male”, il significato era: non hai capito proprio nulla, “quel materiale glielo consegnerò comunque, ma non è per lei. Lei potrà consegnarlo alla signora Bojana Tralijc, una sua tenera amica. O a sua figlia Dvòra, anche lei sua fidanzata e pretendente ... prima che ... Insomma, deciderà lei, signora o signoria che sia, se e quanto dirle …”.
Juan non era più solo senza parole, non aveva più neppure un’idea, un punto di riferimento sul quale orientarsi. Sapeva anche di Bojana, quindi del GDS, del generale Steinman, e del capo del GDS Yits'aq Gàl, padre di Dvòra. Anche Dvòra! Queste erano informazioni che nemmeno l’ex KGB, né la CIA ... Come poteva averle quell’uomo, un teologo prestato alla politica ... e agli affari, e a capo di una delle fazioni decisive per il futuro del Paese? Sentiva il proprio mondo scricchiolare, scosso da tutte quelle rivelazioni. Se stava succedendo veramente tutto questo, doveva essere iniziato ben prima di quel maledetto week-and … sotto il suo naso, sotto i suoi occhi … possibile si fosse tanto arrugginito … no, proprio rincoglionito, da non essersi accorto di nulla, non aver nemmeno sospettato, subodorato qualcosa? Non bisognava stare a pensarci molto per capire che l’unica soluzione era stare al gioco.
Aveva alzato le mani in segno di resa, “OK! Ha vinto. Ora che si fa?!”.
Mohamed Tell glielo aveva detto. Alla fine, serio e pregnante, “Mi conceda un consiglio ... scelga la sua regina ...”. Di fronte alla confusa incomprensione di Juan, aveva specificato: “Lei è il re, e ha molte pretendenti regine ... ne scelga una. Una “ufficiale” almeno, perché finché il posto rimarrà vacante, tra le pretendenti sarà guerra senza esclusione di colpi ... e qualche colpo basso arriverò anche a lei ... se non è già arrivato”.
“Ma come?! Non mi starà dicendo che ...”. Annaspava sempre di più.
“Non le sto dicendo nulla di più di quello che ho detto. Sta a lei ... e lei solo capire”, e gli aveva affidato un sottile porta DVD, o CD in pelle chiara: non doveva contenerne più di mezza dozzina, e il peso ne suggeriva meno; nessun lucchetto o chiusura a tempo.
Notando lo sguardo sorpreso di Juan, Mohamed, “Le ho chiesto di fidarsi di me, perché io mi fido di lei”. Ineccepibile. “Ha tutti gli elementi per farsi un’idea, e soprattutto un giudizio basato sulla realtà delle cose … e dove non ha elementi diretti ha le tracce per scovarli. Di più non posso fare. Conto su una sua risposta, qualunque essa sia”. Quando era uscito non erano neppure passate due ore, a Juan erano sembrati due giorni. I cortili, battuti dal sole, erano vuoti. Rari individui, soli o in coppia, si muovevano velocemente per necessità di servizio indispensabili. Tell aveva voluto accompagnarlo fino all’auto, e, mentre Juan stava aprendo la portiera, l’aveva bloccato di colpo, il viso contratto.
“Quello che ci hanno fatto non lo può nemmeno immaginare … anche se ne avrà viste … “. Dal mare soffiava ancora un vento dolce. Il sole era appeso in cielo. L’uomo al servizio del popolo stava piangendo sommessamente. “La mie famiglie … tre, mia moglie e sua sorella … questo nessuno lo sa … ai miei ho fatto credere che sono al sicuro all’estero … ed è meglio farle tornare”, la sua voce si era rotta in un singhiozzo, “quando tutto sarà finito … sotto controllo … loro le stanno ancora aspettando. Sono scomparse durante la prima ondata di contrattacchi dei governativi. Non mi illudo … sono finite nelle mani dei mercenari …”, la voce si era fatta un sussurro, senza più forza e coraggio, “Non mi illudo sulla loro fine … i … i corpi che abbiamo ritrovato …”, le lacrime scorrevano senza ritegno, “… hanno detto tutto … tutto … … tutto …”. La sua voce si era spenta in una calando, come una candela nel vento. Ripreso il controllo della voce, ma non dell’emozione, aveva concluso. “In realtà ora tutto quello che faccio lo faccio per vendicarle. Solo per vendicarle. E sarà una vendetta terribile. Per qualcuno lo è già. Lasciateci alle nostre ferite, e a come guarirle. Anche se non vi piacciono. Fatelo per rispetto dei nostri morti, per favore. Per me le parole riconciliazione, compassione sono sconosciute”. Il suo cellulare si era messo a suonare, “Mi scusi, devo rispondere … qualcuno che vuole arrendersi o un mutasalliqin”. Dead man wolking, aveva dedotto Juan. Si erano lasciati.
Per tutto il tragitto di ritorno si era man mano fatta ancora più chiara la consapevolezza di quel colloquio e delle rivelazioni fattegli. Odiava Tell, per il dolore che gli aveva causato con le sue parole, anche se tutto stava diventando più nitido, e capiva che non l’ambasciatore meritava il suo livore. La pretesa che la realtà delle cose che aveva saputo assumesse un senso compiuto evidente era, al momento, un lusso irraggiungibile. Un significato terribile era però intuibile: era seduto su una bomba a orologeria. Quelle rivelazioni erano allarmanti e assolutamente sbalorditive. Avrebbe dovuto accoglierle con un certo scetticismo. Pareva una follia assurda, eppure non poteva fare a meno di trovarvi qualcosa di plausibile. Difficile da digerire, davvero inquietante. Gli occorrevano altri elementi, prove certe. Si era trovato sopraffatto da un’intensa sensazione di vertigine, e da uno strano senso di colpa. Se quello che gli aveva detto Mohamed Tell era vero, anche in parte, quanto era cambiata la sua vita? Cosa di quello che aveva vissuto, dopo aver fatto nascere il SOE, poteva essere considerato reale? Poteva ancora affermare di sapere chi era e quanto contava per l’Office? ‘E gli altri?’, si era chiesto, pietrificato, perché non voleva conoscere la risposta. Era inconcepibile, ma nessuno lo aveva messo sull’avviso: o chi stava combinando tutto quel pasticciaccio brutto era abilissimo, o poteva contare sull’appoggio se non di tutti ... quasi. Lo stupore è un’emozione che a lungo diviene insostenibile. Juan sentiva il suo sbigottimento trasformarsi gradualmente in acuto fastidio e, infine, in rabbia. Ancora rabbia. Non riusciva più a connettere, quasi sopraffatto dalla vertigine. Aveva l’impressione di sprofondare, non comprendendo più il senso dei sui pensieri.
Arrivato all’Hilton, era salito in camera, trattenendosi dalla falsa impressione che, correndo in fretta e furia a piedi su per le scale, avrebbe fatto prima. Nikolett stava leggendo il copione di Tutto per bene, di Luigi Pirandello. L’aveva guardato con un radioso sorriso, gli occhi brillanti di felicità, recitando: “Ma perché è vero, vedi! è vero ora il mio affetto per te! Non è mica inganno! Il mio affetto, la mia stima,sono una realtà in cui tu puoi vivere, e che s'imporrà a tutti e anche a te”. Aggiungendo, “Non sto provando la parte, lo sto dicendo a te, dal profondo del cuore, amore mio”. Juan si era accosciato di fianco a lei, baciata, e stretta in un abbraccio da disperato. Anche se lo conosceva da poco, lo conosceva bene: c’era qualcosa che non andava, e non cosa da poco. Doveva aspettare che fosse lui a parlare, o a fare la mossa successiva, così era rimasta tra le sue braccia. Posizione scomoda, il copione era finito a terra, Juan si era ancor più accasciato, costringendola, per non cadere malamente, a scivolare dalla sedia su di lui. Juan aveva incrociato le gambe, facendola accoccolare seduta tra di essere, stringendola a sé, tenendole il capo sul petto. Un lungo momento di abbandono. Con una mano Juan aveva raccattato il copione –già sappiamo che era un fan dell’autore siculo- sfogliandolo finché aveva trovato la battuta che cercava.
L’aveva letta con voce roca, bassa: “Ma io, ho potuto essere un imbecille, finché ho creduto a cose sante e pure: all'onestà! all'amicizia! Ora non più …”. Aggiungendo subito, “Non è per te, solo per dirti come mi sento …”.
Juan non vedeva perché nasconderle in suo stato d’animo, e, anche volendo, non ci sarebbe riuscito. “sono in uno stato che non so neppure descriverti. Come mi fosse tutto caduto addosso. Piangerei come un bambino tra le tue braccia … solo ne fossi capace”.
La fissava sperduto, stordito come chi abbia fissato troppo a lungo in un crepaccio senza fondo. Nell’anima si stavano consumando le sue rivolte, avviandosi timidamente verso le lacrime. I suoi occhi tentavano invano di cogliere qualcosa che non fossero le gocce di luce che tremavano sulle sue ciglia. Poteva vedere a stento la sagoma scura, tenera e grave, di Niki. Si stava muovendo con ritmo deciso, lo succhiava col mormorio dei suoi baci. Era l’amore che gli veniva incontro. All’infuori dei baci e del suo profumo di lei, tutto gli sembrava futile. Leggeva nei suoi lineamenti il luminoso sorriso che assumeva l’immagine dell’amore. Forse, finalmente, il suo passato lo stava per abbandonare, ed era sicuro che nulla avrebbe potuto sottrarlo a quella forza profonda che lo riportava al cuore delle cose. Accarezzandola, tentava di accordare il suo respiro con il sospirare tumultuoso del cuore.
‘Non è così facile diventare ciò che si è, ritrovare la propria misura profonda. Ma guardando lei il mio cuore si colma di una strana certezza ... una grande felicità ondeggia nello spazio ... allacciare alla mia pelle la sua, stretta, labbra sulle labbra. Capisco quel che chiamano gioia: il diritto di amare senza misura. Stringere il corpo di lei è stringere contro di me questa gioia. La amo con abbandono, mi dà l’orgoglio della mia condizione di uomo. Mi hanno detto che non c’è nulla di cui essere fieri. Qualcosa invece c’è: questo amore, il mio cuore che balza, l’immensità dell’amore nel quale lei e io ci incontriamo. Per conquistare e non perdere tutto questo devo adoperare la mia forza e le mie risorse. Qui ... con lei, mi sento integro, non devo abbandonare nulla di me stesso, non indosso nessuna maschera. Mi basta imparare con pazienza la difficile scienza della vita, il saper vivere. Ogni creatura bella ha l’orgoglio naturale della propria bellezza e oggi lei lascia stillare il suo orgoglio da ogni parte. Le mie mani la toccano, le mie labbra la accarezzano, la mia ebbrezza non ha più fine. Mi fa vivere con tutto il mio corpo e con tutto il mio cuore’.
Avevano fatto l’amore così, restando abbracciati, persi uno nell’altra, con le loro anime che si compenetravano, si carezzavano, si avvolgevano uno attorno all’altra, in spirali dolci e avvolgenti con tenerezza. Ciò che i loro corpi non avrebbero mai potuto fare.
Nel pomeriggio, Juan era riuscito a farsi noleggiare dall’hotel una Jeep Wrangler Traildozer Concept, prettamente fuoristrada, con un propulsore HEMI V8 da 6,4 litri e 470 CV abbinato ad un cambio manuale Getrag a sei rapporti. La trazione distribuita attraverso due assi Dana 44, e differenziali a bloccaggio elettronico. Cofano motore con feritoie per lo smaltimento del calore, verricello Mopar-Warn, pneumatici Mickey Thompson Baja Claw da 37", e nuove sospensioni AEV Dualsport RS che rialzavano la vettura di 90 mm. Insomma, proprio quello di cui aveva bisogno. Appena fuori della Città le colline si inquadravano tra gli alberi, e un nastro di mare riposava teneramente, come una vela di panna, sotto il cielo. Strade un tempo carrozzabili, si aggrappavano ai costoni che dominavano il mare. Avevano dovuto spingersi più lontano per scoprire il paesaggio che Juan cercava. Lunghe dune deserte, spiazzi coperti di asfodeli, in mezzo ai fiori solo una capanna rosa dai tarli, unica traccia del passaggio di uomini. Il mare rumoroso, il vento leggero, l’azzurro crudo del cielo, il candore degli asfodeli. Juan aveva lasciato la litoranea, per uno sterrato colore del sangue rappreso, diretto verso una spiaggia. Una bella spiaggia gialla dal dolce pendio. Si era fermato, sul ciglio dello sterrato, che rendeva invisibile la spiaggia. Mare, campagna, silenzio, profumi, riempivano l’aria viva, ancora dorata. Juan e Niki erano scesi. Lui portando quello che doveva essere un sacco da marinaio. Si erano subito messi a piedi nudi, arrotolati i pantaloni fino alle ginocchia, erano avanzati nell’acqua, mano nella mano. Lo schiudersi incessante delle onde sulla sabbia giungeva come una danza. Si erano fermati, per guardarsi e rivolgersi un sorriso, complici al sorriso splendente del cielo. Tutti i crepuscoli sembrano essere gli ultimi, agonie solenni annunciate al tramonto da un’ultima luce che incupisce tutte le tinte. Anche quello. L’acqua era di un blu oltremare, la luce era verde. Juan e Niki erano tornati alla spiaggia, per spogliarsi. Nel silenzio animato dai serici rumori del cielo, prima che la notte si spandesse come un latte sul mondo, avevano camminato sulla roccia. Il mare frusciava sommessamente. Lo vedevano pieno con già la promessa di riempirsi di stelle, di luna e di velluto, liscio e flessuoso come una bestia. Camminavano lievemente e il rumore dei suoi loro sembrava estraneo. O familiare, sì, ma come il fruscio delle bestie nei cespugli, il frangersi del mare o i battiti della notte nel profondo del cielo. E così sentivano i loro corpi nudi, li seguivano interiormente, con la stessa coscienza esterna con cui avvertivano salire il caldo respiro di quella notte d’estate, e l’odore salmastro e di marcio che saliva dal mare. Si erano seduti su una roccia, di cui sentivano sotto le dita la faccia butterata, e guardato il mare che silenziosamente si gonfiava sotto all’ultimo battito del giorno. Sulla superficie compatta dell’acqua, la luna, come un olio, metteva lunghi sorrisi errabondi. L’acqua era tiepida come una bocca, arrendevole e pronta ad infossarsi sotto di loro. Come Niki era sempre stata con lui. Juan sentiva come la felicità fosse vicina alle lacrime, tutta quanta in quella silenziosa esaltazione in cui si intrecciavano la speranza e la disperazione della sua vita. Cosciente eppure estraneo, divorato dalla passione e disinteressato, capiva che la sua vita ed il suo destino erano lì, e che tutto il suo sforzo era consistito fino ad allora nell’accontentarsi di una povera felicità e nell’affrontare la propria terribile verità. Ora doveva sprofondare nel mare caldo, perdersi per ritrovarsi, nuotare nella luna e nel tepore per far tacere ciò che ancora restava in lui del passato e far nascere il canto profondo della sua felicità. Anche Niki era scesa dallo scoglio, ed entrata nell’acqua.
“E’ caldo come il tuo corpo! Mi scivola sulle braccia, mi si avvinghia alle gambe con una stretta inafferrabile e ininterrotta. E’ come quando mi fai l’amore”.
Nuotavano regolarmente e sentivano i muscoli della schiena ritmare i movimenti. Ogni volta che sollevavano un braccio, lasciavano sul mare immenso un volo di gocce d’argento, immagine, davanti al cielo muto e vivo, della splendida semina di una messe di felicità.
O falce di luna calante, qual messe di sogni ondeggia al tuo mite chiarore quaggiù ?.
Poi il braccio si rituffava e, come un vomere vigoroso, arava, fendeva in due l’acqua per prendervi un nuovo appoggio ed una speranza. Dietro di loro, il battere dei piedi faceva nascere un ribollire di schiuma e insieme un rumore d’acqua sciabordante, stranamente chiaro nel silenzio e nella solitudine della notte. Avevano nuotato a lungo, affiancati, senza fermarsi, dritti verso il largo. Al sentire la cadenza e la sua energia di Niki, Juan a stato preso da un’esaltazione che lo faceva avanzare più in fretta, e presto si era trovato lontano da lei, solo nel cuore della notte e del mondo. Aveva pensato improvvisamente alla profondità che si estende sotto di loro, e si era fermato. Tutto quello che c’era sotto di lui lo attirava come il volto di un mondo sconosciuto, la prosecuzione di questa notte che lo restituiva a se stesso, il cuore d’acqua e di sale di una vita ancora inesplorata. Gli era venuta la tentazione di immergersi, nuotare sott’acqua, con una gran gioia in corpo, ma l’aveva respinta quasi subito. Aveva atteso Niki, e aveva capito che per lei era il momento di tornare. Meravigliosamente stanchi, esausti, erano tornati verso riva. In quel momento, improvvisamente, erano entrati in una corrente gelata che aveva fatto battere i denti a Nikolett. Quasi l’aveva costretta a fermarsi. Nuotava senza coordinare i movimenti, ma sapeva che deve non fermarsi. Avevano ritrovo l’acqua calda. Quella sorpresa del mare non lo lasciava stupito, la conosceva: come il gelo improvviso penetrava le membra e bruciava come l’amore, con un’esaltazione lucida e appassionata che lasciava senza forze. Ritornati con più fatica sulla spiaggia, di fronte al cielo e al mare, erano corsi ad asciugarsi battendo i denti e ridendo di felicità. Nel sacco Juan aveva messo accappatoi e asciugamani presi in prestito dall’Hilton. Bottigliette d’acqua, due thermos, tè e caffè, e frutta, tanta. Con lentezza e pigrizia si erano dissetati, sfamati e ... rifatto il trucco, ridendo come ragazzini. Il flauto aspro e tenero delle cicale ora taceva. Il profumo delle stelle, dei lentischi odorosi, tra le canne, erano altrettanti segni d’amore. Una bellezza indifferente cadeva dal cielo. La notte era improvvisamente caduta, mentre stavano nuotando, portando una brezza e un mormorio tra i cespugli, alle loro spalle. Il giorno era fuggito, lasciando loro la sua dolcezza. Le mani di Juan e Niki stavano toccando le loro forme spoglie, sentendo sulla pelle le carezze della notte. La pienezza della gioia, la pace intorno, li stavano colmando. Si erano stesi sui loro accappatoi, gettandosi uno nelle braccia dell’altra, con le teste risonanti dei cembali della loro nuotata, i corpi freschi, in una felice stanchezza. Juan aveva sentito Niki inarcarsi sotto di lui, quando l’aveva fatto entrare dentro di lei. Il profumo del corpo di lei si era completato con quello del suo schiudersi a lui. Avevano riempito la notte di sospiri, ascoltando le forti pulsazioni salire fino alla testa, ogni volta che lui affondava dentro di lei. Non contavano più né loro né il mondo, solo l’accordo dal quale nasceva il loro amore. Nikolett sospirava lentamente quando Juan entrava in lei, si schiudeva incessantemente a lui. D’improvviso, come lo spuntare della prima stella nella notte, il piacere aveva attraversato i loro corpi, si erano sentiti nascere dal cuore della terra. Juan, sorprendendosi, era rimasto turbato nel sentire il loro succo dolce e forte colare lungo le sue gambe. Uscendo dal tumulto, mentre si calmavano, i loro corpi distesi gustavano il silenzio interiore che nasceva dall’amore soddisfatto. Niki si era rannicchiata contro Juan, tenendo contro il suo petto i piccoli pugni chiusi che contenevano tutta la speranza del loro amore.
Solo la mattina seguente Juan si era ricordato del terzo promemoria, sul quale era scritto solo un nome: Melinda. Dvòra, Dvòra Gàl. Durante la loro luna di miele in Italia, Juan era stato conquistato dal gusto dolce, profumato, pieno e promettente delle mele golden delicious della Melinda, e da galantuomo, come grande complimento, aveva iniziato a chiamare Dvòra con quel nome, Melinda. Non l’aveva più dismesso. Aveva deciso di non riaccendere il suo Gil, voleva parlare con Anabel di persona, soprattutto dopo l’incontro con Mohamed Tell. Si era procurato un cellulare usa e getta, con scheda prepagata, e aveva composto il numero che conosceva a memoria.
“Alla buon’ora! Ora ti fai anche desiderare?”, la voce che aveva risposto.
“Bojana, era sicuro che avresti risposto tu. Dvòra non avrebbe mai lasciato questo nome. In ogni caso ti stavo per chiamare io. Tutto bene? Dvòra?”.
Non era possibile capire quando Bojana faceva l’offesa e usava un tono sostenuto, se la cosa fosse seria o solo una sua posa: “Ah, sono contenta che ti ricordi ancora di lei ...”.
Juan non aveva tempo per giochetti o schermaglie: “Ascolta Bojana, non ho tempo, e devo chiederti di fare una cosa di vitale importanza ...”.
Si era fatta subito seria e attenta: “Dimmi”.
Juan glielo aveva detto, “Non posso farlo io, e non puoi farlo tu. Fallo fare alla Private Equipment and Training”, altra società di contractor collegata al SOE e al GDS”.
Bojana, confusa, “E’ così grave?”.
Juan, secco: “Non ne sono sicuro, ma la prudenza non è mai troppa”.
“Senti, perché non molli tutto e non passi armi e bagagli con noi. Sai che la proposta è sempre valida”, e, per alleggerire la tensione, “così ti decidi anche a metter su casa con Dvòra”.
Juan non aveva tempo né voglia: “Finché non rinunci alle tue pretese su di me ... invecchio, farei fatica a soddisfare Dvòra e te. E tu saresti una suocera molto poco per bene”.
“Au contraire, mon chéri ... tu resteresti senza energie da spendere fuori casa ... No, dico sul serio, vieni con noi, e sistemati con mia figlia, lei non desidera altro ...”.
Juan, “Con tutti gli arditi figli di Davide che le fanno la corte?”.
Bojana, “Lo sai che sei uno stronzo! Ti ho già detto che la storia dei preservativi è vera ...”.
“Ok, Ok, non scaldarti. Fai subito quello che ti ho detto, anzi fallo ieri. Tra due ... tre giorni sono da te, con un bel regalo”.
“Time danaos, et dona ferentes!”.
“Non sto scherzando nemmeno io. Credo sia il ghostbuster che cercavi”.
Lunga pausa, Juan udiva solo un sospiro trattenuto, “Per il nostro padre Abramo! Se è vero ti diamo anche la cittadinanza ...”. Il tono era esitante, non osava credere ... “Vieni subito allora”.
“Non posso, prima devo fare un’altra cosa urgente e vitale ... per me”.
Bojana, con tremore, “Cos’altro c’è?”.
“Mi devo sposare”.
“Stronzo ...”, ma Juan aveva già interrotto la comunicazione.
Nikolett lo stava guardando sbalordita. Di tutto il discorso aveva capito poco, anche quell’accenno alla suocera ... alle pretese e al soddisfare ... ‘E’ un loro codice’, si era detta. Avesse saputo! Beh, forse anche avesse saputo non le sarebbe importato per nulla, non dopo che Juan, rivolgendole uno di quei suoi sguardi che la faceva sciogliere, le aveva confermato: “Sì ... prima di partire passiamo dal Comunbe o dove diavolo sta il sindaco di questa Città .. e ci sposiamo”.
“Come? Così?”. Non era delusa, incredula.
“Lasciamo fare due telefonate, poi andiamo”.
La prima telefonata era stata a Mohamed Tell, che era stato molto compiaciuto, oltre che tremendamente ilare, nell’accogliere la richiesta di Juan. “Si può fare. Io posso farlo fare. Non so che validità abbia nel vostro Paese, ma lo faccio molto volentieri ... Sono onorato, anzi. Anche perché vedo che sta facendo tesoro dei miei consigli”.
‘Si, ho capito ... un favore che devo renderti ... Non mancherò”.
Niki lo guardava stralunata, seduta sul letto, incerta se ridere o piangere. Sempre di gioia, va da sé.
C’era voluto un po’ di tempo prima che decidesse a chi fare la seconda telefonata. Di chi era assolutamente sicuro che stesse dalla sua parte al SOE. Nessuno. Non sapeva cosa aveva fatto e detto Anabel, e doveva dare per scontato che tutti fossero convinti che ci fosse il suo assenso. Rivolgersi a uno di loro avrebbe solo creato confusione e anche panico. Chi altri poteva raccogliere informazioni e diffondere notizia. ‘Ma un giornalista, Juan! Ne conosci no? Hai anche la copertura di giornalista! Stai arrugginendo, ammosciandoti ... forse è davvero ora che ti sistemi. Si, ma con chi? Ma non stai per convolare ...? Beh, sì ... cioè, no. Sto per mettere una regina sul trono ... che altro?! Ha ragione la tua aspirante suocera perversa, sei uno grandissimo stronzo! Può essere, sì può essere. Ma questo non cambia nulla ...!’.
dal vostro sempre devoto, brunodantecrespi
(V- CONTINUA)
Mentre riusciva ancora a connettere vagamente, se non proprio a collegare logicamente tra loro dueideedue, sul punto di essere sopraffatto dalla vertigine, aveva staccato la cornetta e composto il numero della reception. Nikolett Pòsàn era trasalita per la sorpresa e l’emozione quando aveva visto comparire sul display del centralino il numero della camera di Juan Tenorio Rodriguez de Urtago. Senza neppure essere sfiorata dall’idea che potesse presentarlesi l’occasione tanto agognata, piuttosto, invece, con la sensazione vaga e confusa di un’emergenza, aveva risposto turbata ed agitata: “Buonasera signore, in cosa posso servirla?”, sforzandosi di dare alla sua voce un tono sollecito e calmo. Juan aveva dovuto formulare, con fatica, nella sua mente, la frase che aveva poi articolato incespicando nelle parole. Poi una luce bianca, violenta, aveva ferito e suoi occhi, e aveva dovuto piegarsi in due, sulla sponda del letto, premendosi il palmo delle mani sul volto, i gomiti poggiati sulle ginocchia. Il cuore aveva accelerato il proprio battito acuendo il dolore, e spremendogli un’altra ondata di sudore. Juan aveva bizzarramente pensato che, ormai, doveva avere addosso più sudore che pigiama. Nikolett Pòsàn era riuscita a decifrare solo alcuni mozziconi: “molto male, … finito farmaci … farmacia … non … uscire … può … aiuto?”. Le era bastato: ”Stia calmo signore … non si muova … salgo subito”. Si era precipitata nel corridoio sul retro della reception. In uno dei locali riservati al personale, su un divano, stava riposando, con indosso la divisa, il portiere di riserva. C’era giusto per le emergenze, anche se nessuno aveva certo pensato a una di quel genere. L’aveva messo sommariamente al corrente della situazione. “Mi raccomando Nikolett, sai le regole … il tempo di vedere di che si tratta, e avvertire chi di dovere … poi diventa assenza ingiustificata!”. L’aveva ammonita il collega. Aveva risposto con insofferenza: “Non preoccuparti … non voglio farmi licenziare … è un’emergenza”, e si era subito precipitata agli ascensori. Si era voltata quasi subito: “Grazie, Antonio. Sei un tesoro!”. “Sì, come no …”, aveva pensato Antonio, ma senza lasciar trasformare quel pensiero in parole. Era stato uno dei tanti pretendenti respinti: cioè tutti quelli che portavano pantaloni tra il personale i gestori e gli amministratori dell’Hotel. E anche con la gonna,non pensate male. Pareva peraltro obbligatorio, con una bellezza splendida come quella di Nikolett, e chi non ci avesse provato sarebbe stato all’istante iscritto nella lista di quelli dell’altra sponda, Antonio non se l’era presa più di tanto per il rifiuto. Ormai, chi ci provava lo faceva, diciamo, per dovere di macho, o sapendo di ripetere una macchietta, un gioco delle parti obbligatorio, che non avrebbe offeso nessuno. Nemmeno fatto ridere, se è per quello. A meno che non si fosse trattato di un nuovo assunto che, per antipatia o per noia, non fosse stato edotto su come stavano le cose. Allora era una commedia dell’arte. Tutti sapevano, Nikolett per prima, e il poveretto aveva a subir modi bruschi, dure ripulse, gelida indifferenza. Fino alla gran canzonatura collettiva, che fungeva anche per sdrammatizzare i toni, e non lasciar strascichi nei rapporti. Detto tutto. Di rapporti positivi, in quell’Hotel, non se ne potevano contare poi molti. Invidia, competizione, gelosia, rancore, così che di quasi tutti si poteva dire, senta tema di essere smentiti, con Ariosto Ludovico: qualche rea femina, / con la qual aveva prima avuto pratica, / l’à così concio per invidia. Giunta al piano, Nikolett Pòsàn si era mossa cauta e prudente, con un leggero affanno, e il cuore turbato da sentimenti contrastanti. Con il duplicato del badge aveva aperto la porta. Se l’era chiusa alle spalle, appoggiandovisi, in attesa che i suoi occhi si adattassero alla penombra della camera. Da lì non poteva vedere null’altro che uno scorcio dell’interno, con il tavolo e le sedie, la poltrona accanto a un basso, e, tra i due, il tavolino con lampada. Il chiarore tenue e ammiccante della notte inondava la camera dalle vetrate non oscurate dai tendaggi, profilando in risalto la base in cemento delle finestre, che spuntava come una merlatura, interrotta da strette feritoie. Juan aveva appena percepito lo scatto leggero dell’aprirsi della porta. Non aveva potuto vederla schiudersi appena appena, ma una voce esitante gli aveva chiesto il permesso di procedere oltre. Non ricevendo risposta –Juan non aveva trovato abbastanza fiato- Nikolett si era sporta all’interno con tutta la testa, e, alla fine, si era risoluta a entrare. Quando si era sentita abbastanza sicura da orientarsi e muoversi nella penombra, s’era sfilata la scarpe con i tacchi a trampolo, che avrebbero ticchettato in modo molesto, ed era avanzata. Superato il disimpegno, aveva scorto in controluce la sagoma di lui, con-fusa con quella del letto su cui era accasciato. Sembrava del tutto assente. Sul letto sfatto e scompigliato, Juan era piegato a metà, il suo capo quasi scompariva tra le gambe, poggiato sulle braccia incrociate, sostenute dalle ginocchia. Un suo ulteriore, timido “Permesso …” non aveva parimenti avuto risposta. Silenzio. Rumori e voci della vita notturna non passavano le vetrate, che mostravano un mondo di luci muto. Incerta, le era parso di captare un singhiozzo, o un singulto. Aveva pregato che non stesse per vomitare. No, non era nausea, era un lamento. Strozzato, soffocato. Un suono gutturale e rabbioso. Straziante. Velocemente si era subito avvicinata, ed era andata ad accosciarsi accanto a lui, impicciata e intralciata dalla gonna della divisa, così stretta e corta, che si era ridotta a poco più d’una fastidiosa, comprimente fascia alla cintola. Juan era completamente abbandonato al suo dolore. Nikolett Pòsàn, per riscuoterlo, aveva voluto posargli una mano sul braccio. L’aveva ritirata d’impulso, quando aveva toccato il panno fradicio di sudore, tal quale fosse appena uscito da sotto una doccia fatta col pigiama indosso. Se ne era vergognata, e si era forzata di superare quello sgradevole fastidio dato dall’umore tiepido e appiccicaticcio, che continuava a fluire copioso ancor prima che potesse iniziare a evaporare quello già versato. Juan era rimasto così, piegato in due, volgendo solo il capo con uno strano contorcimento, e gli occhi lucidi, confusi ma spenti, avevano fissato le ginocchia di lei. Il viso di Juan era tirato, come se il dolore, la sofferenza avessero incollato la pelle alle ossa direttamente, non lasciando nulla a riempire quell’intercapedine. Il suo patimento traspariva lacerante dal contrarsi improvviso, violento, delle sue mascelle, che poi si rilassavano con estrema lentezza. Nikolett Pòsàn si era sentita confusa, impotente, sull’orlo del panico. A denti stretti, con uno sforzo che l’aveva sorpresa, Juan era riuscito a farle capire che sul comodino c’erano le ricette, infilate sotto la copertina del suo passaporto. Aveva percepito come il corpo di lui fosse teso come un arco che stesse per scoccare un dardo. Aveva biascicato qualcosa ... Lei non aveva potuto non coglierne il significato al balzo: era forte e chiaro. Aveva afferrato il tutto, si era sforzata di posare la sua mano sul fradiciume del braccio di Juan, rassicurandolo: ”Faccio in un attimo … signore … non si preoccupi … non si muova … Torno subito signore ... stia calmo ... faccio in un attimo”, aveva cercato di avere una voce decisa e convincente. “Intanto ... vuole che l’aiuti a sdraiarsi?”. Aveva ricevuto come risposta un grugnito che aveva preso per un NO. “Va bene signore ... stia calmo ...torno subito ...”. Repertorio limitato, ma era scattata in piedi, scossa dall’urgenza del dolore di Juan. Si era risistemata la gonna con qualche contorcimento, aveva trovato passaporto e ricette, afferrato tutto d’impulso, raccattato le scarpe, che si era rinfilate solo dopo essere uscita dalla camera, e si era fiondata verso la farmacia, senza nemmeno ripensare a quel suo goffo e maldestro tentativo di rassicurare Juan. “Attenta! Stai per sforare …!”. L’avvertimento di Antonio non era arrivato al suo cervello, forse nemmeno alle orecchie. Quella di turno, di farmacia, era vicina, grazie a Dio, almeno per lei che sapeva come muoversi in quel dedalo di vicoli, in cui Juan, invece, si sarebbe smarrito anche di giorno.
MINICORSO DI PRONTO SOCCORSO. Arrivata alla farmacia, in affanno, Nikolett Pòsàn aveva premuto con decisione il campanello, trattenendo il dito un attimo più a lungo del dovuto. Il farmacista, che forse aveva iniziato a pensare si trattasse del tossico di turno, aveva aperto la finestrella, evidentemente seccato. Il viso arrossato, gli occhi lucidi, i capelli in disordine, le mani e la voce tremanti di Nikolett avevano messo a tacere la sua insofferenza. Data un’occhiata alle prescrizioni che lei gli aveva porto, l’aveva invitata a entrare dall’ingresso sul retro. “Non sono farmaci … semplici”, le aveva detto. “Per un vostro ospite ... immagino?”. La sua più che una domanda era stata un’affermazione. Il farmacista, dato un’occhiata alle prescrizioni, l’aveva guardata con aria triste: “Sta molto male, vero?”, un’ altra affermazione. Nikolett Pòsàn aveva assentito decisamente col capo: ”… Sì… molto … anzi … di più”. Comprensivo e premuroso il farmacista si era già voltato, estraendo da una parete una scaffalatura a rientro, ripetendo poi l’operazione con una seconda. “E … sa come fare delle iniezioni?” La voce del farmacista era pacata, rassicurante. “No ... ecco ... non ...”. Si era inceppata. Il farmacista aveva avuto un cenno di comprensione. Lei un brivido. A questo non aveva proprio pensato, non le era passato nemmeno per l’anticamera del cervello. Aveva visto come preparare e praticare iniezioni. Non altro. All’Hotel aveva dovuto seguire un breve corso di primo soccorso, ma quell’intervento non era stato neppure accennato. Era scossa, trepidante. Si sentiva persa. Adattandosi a quella realtà dolorosa, il farmacista l’aveva incoraggiata: ”Guardi, non è difficile”. E con attenzione, pazienza, usando parole semplici e chiare, le aveva dato spiegazioni e istruzioni precise e risolute. Poco era mancato che non si praticasse lui stesso un’iniezione nella coscia, per essere più efficace nel suo disperato tentativo di addestramento istantaneo. Non che l’agitazione di lei si fosse del tutto calmata, ma, ripetendo la sequenza delle operazioni da compiere, concentrandosi solo sulla loro esecuzione, le aveva infuso un minimo di fiducia. La siringa da 5 cc.; le due fiale, di due diversi farmaci, da spuntare. L’ago cui togliere la protezione, dopo averlo inastato sulla siringa. Aspirare il liquido dalle due fiale. Picchiettare con un dito, come giocando alle biglie, sulla siringa, per far venire a galla le bollicine d’aria. Premere lo stantuffo per espellere l’aria fino alla comparsa della prima gocciolina di liquido. Rimettere la protezione all’ago e posare la siringa, insieme a una bustina di salviettine disinfettanti, sul comodino. Il paziente era sdraiato? A quella domanda, Nikolett aveva avuto un tremore, un attimo di sgomento, comprendendo in tutto lo spessore del significato e della realtà come a lei fosse rimesso tutto il peso di prendersi cura di Juan, di lenire il suo dolore. Lei e solo lei. Lei da sola. Sola. Lei. Non avendo avuto risposta: ”Beh, se è sdraiato è più facile, se no veda di scoprirgli la parte superiore del gluteo, e trovi un punto in cui i muscoli non siano del tutto irrigiditi ... se proprio non lo trova, passi direttamente alla faccia superiore della coscia ... anche attraverso il pigiama ... se proprio non ha alternativa”. Nikolett Pòsàn non si era più stupita di nulla. Si era concentrata tutta sulle istruzioni. La sua mente si era arresa, non pensava più alle difficoltà dell’esecuzione, ma alla semplice realtà che sarebbe stata lei l’esecutrice. “Appena fatto”, il farmacista aveva proseguito implacabile, “lo spogli ... metta sulle lenzuola sotto di lui degli asciugamano grandi, da bagno ... anche più di uno ... e ne tenga altri a portata. Lo stenda ... e, se è già steso, glieli infili sotto. Tengaa portata di mano altri asciugamani più piccoli, con cui asciugargli, o almeno tergergli il sudore continuamente ... non frizioni ... tamponi. Non si stupisca ... questi farmaci sono per dolori così forti e devastanti che spremono fuori ogni goccia di sudore ... ah, e lo tenga idratato. Acqua, molta acqua, non gelata ... fresca. E’ probabile che all’inizio faccia un po’ di resistenza ... lo forzi ... anche energicamente ... poi berrà con avidità. Niente aria condizionata ... né correnti d’aria ... con tutto quel sudare si prenderebbe una polmonite. Ecco trovata la spiegazione al perché il sistema di condizionamento era spento, e solo la portafinestra socchiusa. “Dopo l’iniezione rimarrà sedato ... dovrebbe assopirsi, ma non a lungo ... un bel sonno se lo farà solo domani, sul tardi. Quando si sveglia gli dia due di queste ...”, aveva indicato un flacone, che aveva posto sul banco, “... con un bicchiere d’acqua ... pieno, e deve berlo tutto ... Ogni due ore. Prima riesce a mettere qualcosa di solido nello stomaco meglio è ... qualsiasi cosa. Probabilmente chiederà zuccheri, va bene. Ma aggiunga anche un paio di queste”, aveva sollevato una confezione piuttosto XXL, “sono integratori ... Col sudore, il dolore, l’effetto dei farmaci, deve riidratarsi ... assumere di sali minerali ... Glieli dia fino a esaurimento”. Si era fermato, a raccogliere i pensieri, a scorrere a occhi chiusi la check-list che si era formata in mente. Aveva riaperto gli occhi guardandola con aria serena, rassicurante: “OK, è tutto ... faccia esattamente come le ho detto e andrà tutto bene ...”. Lei si stava chiedendo cosa l’avesse mai spinta a far la buona samaritana. “Cioè, dottore ... devo fare tutto io? ... forse è meglio chiamare qualcuno ... il pronto soccorso ...”. Il farmacista aveva esitato, non tanto per riflettere su quelle parole, ma sul come non essere troppo duro, forse anche sgarbato: ”Il servizio di assistenza medica continua? ... NO, è da scartare. Arrivassero anche con la velocità di un lampo, prima lo visiterebbero, lo interrogherebbero, poi al pronto soccorso … visite ed esami … No, già prima dell’eventuale trasporto, probabilmente prima dell’arrivo dei soccorsi, sarebbe svenuto, e, nonostante la presenza delle prescrizioni dei farmaci, nessuno oserebbe farvi ricorso sic et simpliciter. Troppo complicato, e, soprattutto, troppo tempo perso inutilmente, quando invece s’impone un intervento d’urgenza. No ... lei ormai è qui ... tocca a lei ... direi che abbiamo già perso anche troppo tempo”. HIC RHODUS, HIC SALTA! Vero, troppo logico, se c’era qualcosa di logico nell’essersi infilata in quel brutto guaio. “Già, dopotutto perderò solo la reputazione ... e il lavoro ...”. Il farmacista, di fronte a quella commovente rassegnazione, non aveva potuto fare a meno di cercare di rassicurarla con un sorriso di incoraggiamento, e stringendole un attimo le spalle con un braccio, scuoteldola un poco. A dire il vero, era preoccupato almeno quanto lei. Ci fosse stato qualcuno, lì con lui, anche solo il commesso, si sarebbe azzardato ad allontanarsi il tempo necessario almeno per praticare le iniezioni, e somministrare i primi farmaci ... ma era solo. “Non si preoccupi, sono sicuro che farà tutto come un’infermiera ... comunque, guardi, le scrivo il numero del mio cellulare, per qualsiasi evenienza non esiti ...”. Nikolett Pòsàn l’aveva fissato più incredula che speranzosa: “Veramente ...?”. Il farmacista aveva annuito, in modo grave e serio. Aveva aggiunto alcune confezioni di salviettine disinfettanti, un paio di flaconi dal contenuto sconosciuto, infilato tutto in un sacchetto, e aveva messo mano al registratore di cassa. Da pallido che era, il volto le si era imporporato. Nell’impeto dello slancio non si era curata di portarsi appresso la borsa, o, almeno, il borsellino. Aveva cercato di balbettare qualcosa, ma le sue labbra si erano appena mosse, aveva boccheggiato. Era rimasta immobile, sopraffatta da quell’incalzante susseguirsi di eventi di cui non aveva esperienza alcuna, e, pure, nessuna padronanza. Ancora una volta il farmacista l’aveva tolta d’impiccio: ”Su … non si preoccupi … mi pagherà domani … conosco quelli dell’albergo”. Non aveva precisato meglio quel vago “quelli”, ma lei si era rilassata con un sospiro di sollievo. Poi il farmacista aveva aggiunto: ”Trattengo il passaporto …”. Aveva trattenuto il fiato, stava avvampando di nuovo, poi il farmacista aveva concluso: ”… solo perché devo accertarmi dell’identità dell’intestatario delle ricette … sa … per legge … non per altro ... ci mancherebbe!”. E le aveva sorriso, quasi imbarazzato, quasi chiedendo scusa. “Ora corra ... “.
NIKOLETT NIGHTINGALE - I. Nikolett Pòsàn era volata via, verso l’Hotel, ancor più rapidamente di quanto non fosse andata alla farmacia. Non appena era rientrata Antonio aveva cercato di fermarla, tentando anche di rincorrerla, irrimediabilmente impedito dal bancone della reception: “Nikolett! … dal direttore … subito … o puoi considerarti licenziata …”. Lei aveva pensato a Juan, e aveva sentito battere forte il cuore. In un certo modo stava trovando eccitante darsi da fare per lui. Aveva pensato che forse stava agendo in modo avventato e impulsivo, ma, al momento non avrebbe saputo dire se Juan o quella strana circostanza, stava esercitando un fascino quasi inspiegabile su di lei. Al momento, però, non le si stavano delineando all’orizzonte prospettive particolarmente allettanti. D’improvviso era trasalita, piena di spavento, sentendosi afferrata per un braccio e trascinata da parte. Era –nomini il diavolo e spunta la coda- il signor Direttore. Quello nuovo. “Cos’è successo ... ?!”. Esigeva una risposta. “Cosa dovrebbe essere successo?”, aveva farfugliato lei, “Il signor Tenorio ... era quasi svenuto … ho faticato parecchio ...”. “Oh, santo cielo!”, avrebbe voluto essere un urlo ed era invece stato un gemito di scherno, “Ma che gli ha fatto?!”. Nikolett Pòsàn: “Niente! Non gli ho fatto proprio niente … ancora. Ho qui i medicinali che sono corsa a prendere in farmacia … volente o nolente non potevo non farlo”, aveva sollevato in bella vista il sacchetto ben gonfio. Il Direttore l’aveva fissata, dubbioso, con le palpebre socchiuse: “Non sembra che le stia costando troppa fatica … se posso metterla in questi termini …”. Non si era saputa trattenere di fronte a tanta idiozia: “La metta nei termini che vuole … non me ne importa un … fico secco delle … sue cavolate!”. Il Direttore aveva inarcato le sopracciglia, guardandola dal basso verso l’alto –avrebbe voluto fosse stato il contrario, ma lei era decisamente più alta di lui-: “Deve saperlo lei quello che fa … “. Determinata e salda: “Certo che lo so!”. Il Direttore: ”E ricordarsi per chi lavora. Non mi renda difficile le cose … e se proprio non può fare a meno di … ehm … sa cosa intendo dire … insomma … “. Nikolett Pòsàn si era chinata verso di lui: “Siii!!?”, aveva sibilato. Il Direttore: “ … fatelo non qui e non durante il suo orario di lavoro ...”. E aveva fatto un passo indietro. Era rimasta un attimo in silenzio, si era grattato il mento e, scrollando le spalle, si era diretta verso gli ascensori: “Lei non capisce un beato niente! Vada un po’ al diavolo!”. Il Direttore, a voce alta, ma anche acuta, per lo smacco subito: “Lei … lei … è licenziata … da … da … da adesso. Anzi da prima … da quando ha lasciato il suo posto!. Lei … lei non lavorerà più in nessun albergo … glielo prometto … Cazzo!”. Parole al vento. Le aveva sentite, e capite, ma, si era detta: non ti curar di lui ma guata e passa.
NIKOLETT NIGHTINGALE - II. Nonostante la sua inesperienza e i tanti imprevisti e molti timori, il come si erano messe e si stavano svolgendo, stava prendendo maggior fiducia e decisione. Prima di rientrare nella camera di Juan, era passata dal magazzeno, facendo scorta di asciugamani grandi e piccoli, un paio di accappatoi, cercando, però inutilmente, una grembiale da addetta alla pulizia delle camere, con il quale avrebbe voluto sostituire la sua divisa così scomoda, d’impiccio e d’impedimento. E già così stazzonata e zuppa di sudore. Dal deposito aveva preso un paio di confezioni da sei di acqua, e diversi bicchieri di plastica. Nella camera tutto era come l’aveva lasciato. Un fermo immagine. Edotta dal farmacista su quanto fosse dolorosa, per Juan, ogni luminosità, anche indiretta, anche solo attraverso le palpebre, aveva tirato le pesanti tende, e acceso solo la luce di cortesia. Aveva ritrovato anche lui così come l’aveva lasciato. Aveva allineato sul tavolo il contenuto del sacchetto, costringendosi a stare calma, convincendosi, o almeno tentando di farlo, di avere tutto sotto controllo. Beh, quasi. Doveva solo domare le esitazioni e le incertezze che si accavallavano troppo velocemente nei suoi pensieri: avrebbe saputo fare tutto quanto era necessario. Sarebbe stata la prima volta, ma non c’era forse sempre per tutto una prima volta? Si era sentita rinfrancata quando si era liberata delle scarpe dai tacchi che erano quasi trampoli. Eseguendole, aveva ripercorso in ordine e con calma le istruzioni e i consigli del farmacista, concentrandosi sul fare, sul ripetere, senza permettersi indecisioni o dubbi. Si era trovata subito a litigare con la giacchetta della divisa, e sapeva che lo stesso avrebbe dovuto fare con la gonna. La impacciavano non poco nei movimenti. L’aveva slacciata, senza volersela togliere: sotto indossava solo un reggiseno molto leggero, del quale non aveva nessun bisogno, ma che il decoro dell’Hotel esigeva. Incomprensibile, ma tant’era. L’articolazione delle braccia, specialmente ai gomiti, non era sufficiente. Se n’era sbarazzata. Aveva visto nell’armadio, le cui ante erano spalancate, alcune camicie. Ne aveva presa una e l’aveva indossata, arrotolando le maniche, e allacciandosi i capi in vita. Terminati i preparativi, aveva dovuto, stavolta necessariamente, accosciarsi accanto a Tirso. Al diavolo anche la gonna. Se l’era sfilata, aveva snodato la camicia e ne aveva allacciati i bottoni, facendone quasi un camice. Tornata al capezzale aveva sussurrato all’augusto infermo: ”Andrà tutto bene …”, pregando che non si accorgesse di quanto lei stessa era non del tutto convinta. Aveva allineato sul tavolo, nell’ordine d’uso, il contenuto del sacchetto avuto dal farmacista. Accanto, alcune bottiglie d’acqua e una piccola pila di bicchieri in plastica. Poi, sull’altro lato del letto asciugamani piccoli e grandi. Con cautela, stesi gli asciugamani necessari, accorgendosi subito di aver sbagliato nel calcolo: ne sarebbero servito almeno un doppio stato, e delicatezza l’aveva aiutato a stendersi sul letto, tenendogli le gambe con le mani sotto l’incavo delle ginocchia, lentamente, con attenzione e fatica. In tutta quell’operazione lui era rimasto inerte, senza un lamento né una contrazione, quasi fosse del tutto assente, o insensibile. Sarebbe potuto sembrare pazzesco, ma probabilmente era proprio così: il suo dolore era così violento, pervasivo, da averlo isolato da ogni altra sensazione. Non riusciva più a riceverne altre, in sovraccarico di quelle che già lo tormentavano. ‘Un dolore sordo, forse rende sordi al dolore. Niki! Disciùlati se no questo poi vedi che magari volta là’. Si era sintonizzata sulla check-list del farmacista: la siringa da 5 cc.; le due fiale, di diverso farmaco, da spuntare; l’ago cui togliere la protezione, dopo averlo inastato sulla siringa; aspirare il liquido dalle due fiale; picchiettare con un dito, come giocando alle biglie, sulla siringa, per far venire a galla le bollicine d’aria; premere lo stantuffo per espellere l’aria fino alla comparsa della prima gocciolina di liquido; rimettere la protezione all’ago e posare la siringa, insieme a una bustina di salviettine disinfettanti, sul comodino. Si era disinfettata le mani, già prima lavate accuratamente, con due salviettine, una per mano. Se è sdraiato, è più facile –Juan era sdraiato- trovi un punto ... trovato. Si aspettava una reazione al liquido oleoso, duro a penetrare, doloroso; ma era stata minima, molto molto meno di quanto si aspettasse. O era talmente abituato al dolore, o talmente abbrutito dal dolore. Appena fatto aveva applicato la salviettina con una pressione leggera, in un movimento circolare, per aiutare l’espandersi e l’essere assorbito del liquido. Aveva rimesso la protezione all’ago. Aveva gettato ago, siringa, fialette e salviettine nel cestino. Lo aveva spogliato ... Questa era stata dura... Lui era sussultato, aveva strizzato gli occhi già chiusi, aveva stretto i pugni, ma non si era lasciato sfuggire nessun lamento. Aveva presto sentito l’effetto dei farmaci iniettati diffondersi in lui, con la loro azione benefica. Il dolore si andava quietando, e una calma corrente di distensione lo stava pervadendo. Si era sentito sprofondare in un vuoto oscuro, su una zattera che non riusciva più a governare e che precipitava oltre il bordo di una cascata. Le palpebre gli si erano fatte pesanti, e mentre ancora in un barlume cercava di mantenersi aggrappato alla realtà, il buio l’aveva trascinato via. Il buio era un tutt’uno indistinto. Non gli suscitava angoscia, né gli incuteva timore, ma faceva girare lo sguardo della sua mente verso se stesso. Non avendo nulla su cui fissarsi fuori di sé, tornava verso se stesso incontrando immagini, riconoscendo sensazioni, riscoprendo umori che voleva invece rimanessero sepolte. C’era un’immagine che gli ritornava da quei bui fitti, densi, pesanti cui cercava sempre di sottrarsi. Quella di se stesso in uno spazio indefinito. Uno spazio che non aveva limiti visibili, anche se lui sapeva che era circoscritto da pareti insormontabili, invisibili, ma incombenti. Nere, le pareti. Nero tutto. Lui vedeva se stesso, come un osservatore nascosto che stesse spiando, nella notte, attraverso un visore notturno. Immagini evanescenti, lattiginose, aureolate. Meglio, una sola immagine, la sua. Il resto era il nulla. Non il vuoto, ma assenza di presente, il nulla come un’incombenza malvagia e inquietante. E in quel nulla lui correva. Correva senza muoversi. Le sue gambe affondavano nel nulla, che ne assorbiva e spegneva lo slancio, esaurendone la forza e rimandandogli stanchezza. Una fatica che lo sfiniva. E tanto maggiore era la foga con cui cercava di progredire, anche di un solo passo, tanto maggiore era la sua pena nel vedere ogni suo sforzo più che vanificato, svuotato, prosciugato di ogni energia, e restituito sotto forma di sfinimento. E, con lo sfinimento, aumentava l’angoscia, il senso d’incapacità, di frustrazione, d’inettitudine. E, al risveglio, si sentiva già esausto. Per questo evitava il buio, perché gli riportava quegli incubi anche nella veglia o nel dormiveglia. Il ventaglio di luce che gli lasciava indovinare forme note, amiche, rassicuranti, guidava anche il suo abbandonarsi, alle fantasticherie o al sonno, su strade più sicure, ove non avesse a temere agguati di briganti che volevano depredare la sua quiete, privarlo della sua pace. Le immagini che andavano emergendo e reimmergendosi nell’ombra gli tendevano invece la mano come vecchi amici. Andava riscoprendole con gli occhi della mente, della fantasia o del desiderio, così come si cerca di immaginarsi il volto e le sembianze di un antico amore o di un vecchio amico, che non vediamo da tempo, ma che è rimasto nel nostro cuore e nel nostro ricordo. Sappiamo che non può essere rimasto immutato, ma non sappiamo come e quanto sia mutato. Così, dai lineamenti noti, o, meglio, da quelli conservati nella nostra memoria, che già hanno perso molto del loro legame con la realtà nota ma vecchia, essendosi sbiaditi come il nostro ricordo, cerchiamo di ricostruire un identikit che modifichi l’aspetto noto con quello nuovo. Non possiamo farlo che con tentativi successivi ma tutti vani. Se è la vita che ci cambia, imprimendo sul nostro volto, nel nostro sguardo, nei nostri atteggiamenti i segni delle nostre esperienze vissute, non conoscendo noi del tutto, o solo lontanamente tali esperienze, come possiamo avere gli elementi necessari alla ricostruzione di quell’identikit? Siamo i testimoni distratti di rapine che ci hanno colto di sorpresa, di incidenti di cui crediamo di conoscere lo svolgimento, ma che, in realtà, ignoriamo, perché, in entrambi i casi ci siamo accorti solo dopo che si trattava di una rapina o di un incidente. A cose fatte. E non ricostruiamo, per chi svolge le indagini e raccoglie le nostre testimonianze, un’immagine che ci siamo ben impressi nella memoria per conservarla e poi ricostruirla e restituirla. Ricostruiamo ricordi, spezzoni, emozioni, sensazioni, ricomponendo nella mente un nostro identikit per poi fornirne i connotati. Tanti sono i presunti testimoni, tanti sono gli identikit. Quanti sono gli identikit di quelle persone che cerchiamo di figurarci nel loro cambiamento ormai avvenuto, senza mai riuscirci perché ci mancano le conoscenze necessarie anche solo a immaginarci quali segni si possano essere impressi su di loro. Lo stesso avveniva a Juan, in quella fiacca penombra, con gli oggetti. Si animavano, gli raccontavano spezzoni della sua vita. Tessere sparse e confuse dì un puzzle che non riusciva mai a completare, e che, ogni volta, non poteva o sapeva riprendere da dove si era interrotto la volta precedente, ma doveva ricominciare daccapo. Senza neppure la vaga memoria di come fosse la combinazione dei pezzi, neppure di quelli che già aveva riaccostato e ricomposto. Un abbandono che lo faceva scivolare nel sonno, nella reggia dei ricordi senza sogni, di una notte di quiete. O di una notte confusa e irrequieta nella quale i ricordi non si facevano sogni solo perché una fitta cortina di nebbia impediva loro di trovare la strada del suo sonno.
L’INFERMIERA DI NOTTE. Nikolett Pòsàn si era chinata su di lui, con una spugna inumidita, cercando di attenersi con precisione alle istruzioni del farmacista. Era stata attenta a non premere, con grande cautela perché non sentisse male. Il suo torso era segnato da una ragnatela di cicatrici. Non era riuscita a trattenersi dal farvi scorrere, sfiorandole appena, la punta delle dita, come cercando di trovare un orientamento in quell’intrico. Aveva capito che alcune erano vecchie, lisce, altre erano ancora pulsanti. Si era chiesta se ancora dolorose o già rese insensibili dall’effetto dell’iniezione, certa che il loro ricordo fosse ancora vivo e sconvolgente in lui. E altrettanto convinta che la sua vita fosse egualmente complicata e intricata da far smarrire l’orientamento e renderne impossibile la comprensione ad altri, anche solo immaginarla. Situazioni complesse e confuse cui non si sarebbe riusciti a dare senso. Inimmaginabile, poi, riuscire a individuare e analizzare il groviglio di percorsi tortuosi in cui trovare un orientamento. Era sicuramente stato difficile e doloroso anche per lui. Lacerante, forse. Non solo un intrico di concetti, ma soprattutto un complesso di stati d’animo, sentimenti. Intrico di vite, di percorsi in cui anche lei, si fosse trattato della sua vita, avrebbe rischiato di perdere l’orientamento prima di trovare l’unica che non presentasse ostacoli e conducesse alla riuscita. Finite le cure immediate, si era ritrovata con la camicia fradicia di sudore quasi quanto il pigiama di Juan, e ancor più gli indumenti intimi. Una sensazione sgradevolissima, impossibile a sopportarsi a lungo. Tutto era già divenuto umido e si era incollato alla pelle. Era come stare in una tinozza di miele caldo, si sentiva esausta. Era scarmigliata, aveva la pelle lucida di sudore e la camicia era tutta chiazzata da grandi aloni scuri, sotto le ascelle e sul petto. Si era spogliata, concedendosi poi una doccia sotto la quale aveva indugiato a lungo, trovandola tonificante, e non solo per il corpo. L’acqua più calda che le era riuscito di sopportare, insaponandosi ripetutamente, abbondando con la schiuma, sentendosi così più leggera. Era uscita dalla doccia e si era raccolta i capelli ... che avevano deciso di tramutarsi in una massa ispida. Aveva afferrato una spazzola e aveva iniziato a metterli in piega con un phon. A metà dell’opera si era fermata. Perché in quella circostanza avrebbe dovuto disturbarsi a truccarsi? Buttata la spazzola, si era riavviata i capelli con le dita. Aveva scosso la testa e i capelli le erano ricaduti nuovamente sul viso. Aveva sistemato qualche ciocca dietro le orecchie, ed era tornata in camera. Si era avvicinata al letto, tentando di mostrarsi pudica con un minuscolo asciugamano, non aveva voluto sprecarne di più. Senza trucco, i suoi tratti erano, se possibile, ancora più belli. Aveva un naso per nulla sfuggente ma delicato, labbra piene; il tutto dominato da due occhi che esprimevano calore e intelligenza, intensi e, insieme, pieni di vita. Rientrata in camera era stata subito colta da un senso di seppur incolpevole negligenza. Si era rimproverata per aver essersi trattenuta senza fretta, con tranquillità, quasi indolenza sotto i getti della doccia, come se da quell’assenza dipendesse la vita di Juan. Sentiva, però, ora, sollievo e conforto.
Juan era sveglio, malamente sollevatosi un poco sui cuscini, e la stava fissando con occhi interrogativi, un po’ sorpresi un po’ stupiti, un po’ di riconoscimento un po’ di elogio. Tutto sotto un velo d’incertitudine delle cose, d’inconsapevolezza. Non riusciva ancora a rendersi pienamente conto di quello che era accaduto, come fosse accaduto in un’altra dimensione, senza che ne avesse coscienza. Probabilmente era esattamente così, o circa. Nikolett Pòsàn aveva velocemente ripassato le istruzioni datele dal farmacista: l’interazione dei due farmaci avrebbe sedato il dolore, e avrebbe poi avuto un rebound di spossata euforia subdolo e infido. Avrebbe gradatamente ripreso le forze, ma con fatica, dovendo superare lo stordimento, sciogliersi dal rallentamento ,e ricaricare le pile. Se non sostituire le sue del tutto esaurite. Si era rimessa solo l’accappatoio, sedendosi poi sulla poltrona. Juan aveva un’aria assente, distante. Era sicura che stesse pensando a qualcosa che lo tormentava. Sdraiato a letto, aveva sollevato le palpebre, ancora pesanti, e si era sentito sopraffatto da un’intensa sensazione di vertigine, come immobilizzato. Eppure quando l’aveva vista, lì seduta sulla poltrona, i piedi poggiati sul pavimento, le gambe divaricate, mentre tutta sudata si stava asciugando il viso e il corpo con un asciugamano, aveva dovuto confessare a se stesso che se gli fosse stata lì vicina avrebbe cercato di prenderla ed abbracciarla. Un lungo silenzio, poi Juan l’aveva fissata e aveva annuito lentamente; era stato il suo apprezzamento, il suo grazie. Nikolett era turbata, molto impressionata, sconcertata di trovare come, nonostante la sua statura, le sue spalle larghe, il suo fisico ancora robusto, lui appariva cereo e rattrappito. Così vulnerabile. Era disteso su un letto sfatto, la gola arsa gli aveva strappato un gemito. “Deve avere una gran sete”. Si era alzata dalla poltrona, era andata al tavolo, e ne era tornata con un bicchiere colmo d’acqua fresca, ma non fredda. Si stava preoccupando di alternare le bottiglie d’acqua nel frigobar per averne sempre a disposizione alcune di un fresco che sarebbe potuto sembrare naturale. Aveva fatto in un attimo, era andata a sedersi sul bordo del letto, e gli aveva porto un bicchiere d’acqua con due capsule. Juan aveva percepito la silenziosa presenza di un’antica abitudine al sospetto e alla diffidenza. Poi aveva preso le compresse e le aveva inghiottite svuotando il bicchiere d’acqua. Aveva deglutito con difficoltà, e allungato il bicchiere a chiedere altra acqua. Poi, come aveva previsto il farmacista, aveva chiesto la bottiglia, dalla quale aveva bevuto direttamente, svuotandola senza staccarsi. Lei aveva prontamente tolto un’altra bottiglia dal frigobar. Poi si era seduta sulla sponda del letto, vicina a Juan. Lui, dopo averla vista con indosso solo un fazzoletto di asciugamano, poi nuda prima di rimettersi l’accappatoio, poi ancora con le gambe spalancate mentre tentava di detergersi il sudore, si era reso conto in di quanto fosse attraente, sensuale, così fine e dolce, con quei lineamenti vagamente esotici, in armonioso contrasto con i capelli neri e luminosi, come gli occhi, che le incorniciavano il viso, bello e malinconico insieme. Un tremito gli aveva attraversato il corpo. Non aveva pronunciato parola, e lei aveva iniziato a sentirsi in impaccio, restando lì, impalata, finché lui non le aveva posato una mano sulla sua. Più che posata, abbandonata, rilasciata con languido sfinimento. “Grazie ... è stata meravigliosa ...”, la voce era sommessa ma chiara. Aveva dovuto subito riprender fiato.
“Sono Nikolett Pòsàn ... ricorda? La receptionist ...”. Juan aveva fatto un piccolissimo cenno di sì col capo, e si era sentita rinfrancata e sollevata, orgogliosa anche, e aveva cercato, in modo schivo, di dare rilievo alla parte avuta dal farmacista. “In ogni caso ... la signora Blanco”, già, come chiamarla in simile frangente?, non aveva precisato, “avrebbe fatto molto meglio ...”, aveva concluso. Juan aveva debolmente sorriso, con le labbra e con gli occhi: ”Per Anabel è ormai una routine, ma per lei ... e spogliarmi, asciugarmi il sudore, e coprirmi con un lenzuolo asciutto, cambiandolo appena si infradiciava ... non credo le sia abituale ... davvero molto brava, mi creda...”, aveva ripreso fiato, “... comunque in genere me la cavo da solo, riconosco i sintomi subito ... e non aspetto, quando appena si accennano ... questa volta mi sono scordato di controllare i farmaci che mi porto appresso ... fortuna che ho sempre le prescrizioni ... per ogni emergenza … Ah … e … comunque … Anabel … è il mio capo”. “Desidera qualcos’altro, signore?” Aveva sentito la mano di lui stringere per un secondo la sua. Juan: ”Non siamo così formali ... credo possiamo passare al tu. Dopotutto stiamo passando la notte insieme ... mi hai spogliato e rivoltato come un bebè ...”. Nessuno dei due aveva sorriso. “Juan, credo già tu lo sappia ... Nikolett”, aveva lasciato a lei. ” Niki … Niki và bene”. “Ok Niki ... amici?”. Aveva di nuovo accennato a stringere la sua mano, e lei aveva risposto alla stretta, con un sorriso. “Sei stata straordinaria.”, l’aveva sorpresa e fatta sobbalzare con quelle parole, “Mi hai soccorso … beh, sarebbe meglio dire accudito … in modo perfetto … e ... stavolta … ho avuto paura. E’ stata una gran fortuna che sia venuta tu... la tua gentilezza e il tuo coraggio ... non posso che esserti grato ... anzi, di più … ma non mi viene la parola giusta … scusami”. Era la prima volta che Nikolett udiva rivolgerle un complimento senza riserve. Sebbene non ne avesse sentito finora la privazione, ne era contenta, perché Juan, le pareva, la riteneva persona capace, e di fiducia. Il volto di lui non aveva mai mutato espressione, e lei aveva iniziato a convincersi che avesse una stone face, una faccia da poker. Qualsiasi stato d’animo, emozione, sentimento traspariva solo se, quando e quanto lui l’avesse voluto. E non necessariamente corrispondeva al vero ... Si era alzata, richiudendo e riannodando l’accappatoio. Juan l’aveva trattenuta per una manica scuotendogliela: “Credo che i tuoi indumenti non siano ancora asciutti, e, comunque sono stati un bell’intralcio no? E’ meglio che ti metta un’altra delle mie camicie ... quella rosa a righe bianche ti stava bene … ora … potresti mettere quella azzurra …”, non si era aspettato una risposta, “comunque con quell’accappatoio addosso faresti una sauna”. Nikolett era avvampata, in forte disagio e impaccio. Come poteva sapere con tale precisione di particolari tutto quello che aveva fatto? Vabbé, che si fosse tolta divisa e indumenti intimi era intuitivo, indossava un accappatoio. Da questo era deducibile la doccia, con tutta probabilità dovuta al grande sudore. Quindi, indumenti ancora umidi. E la camicia? Come poteva sapere della camicia? E come lei avesse scelto quella e proprio quella? Ed anche cosa lei aveva fatto e gli aveva fatto? Non poteva aver finto incoscienza, e completo abbandonarsi. Non era ancora tutto. “Ah, ... non darti pena per il pagamento, e soprattutto per aver dovuto lasciare il mio passaporto al farmacista ... è normale, in casi come questo”. Nikolett era rimasta del tutto sconcertata, confusa, attonita. Come poteva sapere che lei s’era scordata il portafoglio, e non aveva dunque pagato i farmaci? Che il farmacista avesse dovuto trattenere il passaporto, OK, lo sapeva perché funzionava così; ma il pagamento? Poteva aver controllato il suo portafoglio, ma non quello di lei, che non era lì. Poteva quell’assenza essere stata sicuro indizio di conto non saldato? Di più, da dove la certezza che lei non avesse preso e poi riposto il proprio portafoglio nei locali del personale? Se non addirittura lì in camera, in un posto non visibile a lui?. Provava un certo fastidio a quella … invadenza, anche se non era il termine esatto, ma anche una non meglio definita benevolenza, gradevole, per il riguardo, l’attenzione e la cortesia che le mostrava, anche se in quel modo un po’ inquietante. Nei suoi occhi era passato una specie di lampo, che era scomparso prima che lui stesso se ne rendesse conto e potesse definirlo. Indecifrabile. L’aveva osservato per un poco, quasi diffidente, e aveva bisbigliato come tra sé e sé, ma pronunciando la frase proprio per lui: “… come farai a sapere tutto!”, una resa non una domanda. Juan aveva sorriso guardandola con occhi limpidi e trasparenti come acqua marina. Per un attimo lei aveva osservato con stupore quel sorriso. Aveva capito di non aver nessun motivo per lasciarlo lì solo, e ciò le aveva dato una ancor nuova speranza. Ciò che l’aveva colpita di più era stato quella miscela di afflizione e durezza. “Queste ferite”, aveva proseguito lui, quasi fosse obbligato a darle spiegazioni, “non sono state curate tutte con la dovuta tempestività, e qualcuna anche con professionalità approssimativa e mezzi inadeguati, e in ambienti … improvvisati … da disperati. Colpa di nessuno ... in quei frangenti ... Ogni tanto tendono a ricordarmelo ed a lamentarsi, risvegliandosi”. La voce era piatta, senza emozioni, un’esposizione neutra. Nikolett aveva abbassato gli occhi, chiedendosi ancore una volta come sapesse tutto quello che lei aveva fatto, e come fosse stata colpita dalle sue ferite, che stavano pulsando dolorosamente facendo contrarre i muscoli, fremere il corpo, e tremare anche lei. Aveva risollevato lo sguardo, il volto di Juan non era più terreo e tirato, il corpo molto meno rattrappito. Nikolett era rimasta allibita da quelle affermazioni, quasi più che dalla familiarità con il dolore, con la sofferenza, tali che l’avevano abituato a farvi fronte da solo al primo cenno di pericolo. Non trovava tutto ciò coraggioso ma triste, un’assenza di affetti intimi. Non sapeva se fosse per un suo carattere solingo, per conservar sua pace, o per il non trovar conforto e sostegno in altri. Già l’averlo, Anabel, moglie amante o capa che fosse, lasciato lì, solo, quando pur aveva avuto i primi sintomi di un malessere che a lei doveva pur esser ben noto ... NO, non voleva trarre conclusioni troppo affrettate, ma tutto le sembrava così strano. O forse lo era per lei, perché ne faceva la prima esperienza? Juan aveva proprio abbandonato, dimenticato la mano nella sua. “Puoi metterti qui, accanto a me ...”. Nell’accorgersi che la camicia di Juan che lui le aveva scelto aveva accentuato –invece di nascondere- l’esuberanza del suo seno, e di tutto il resto, era arrossita, tenendo gli occhi bassi: “Non sappiamo praticamente nulla uno dell’altra ...”. Aveva rialzato gli occhi rivolgendogli uno sguardo di grande orgoglio. “Ah, potrei aver bisogno di un’altra iniezione ... questi attacchi ... accessi di dolore, sono subdoli ... traditori ... ”. “Cioè?”. “Ti sto chiedendo di restare qui … con me, stanotte”. Lei era andata all’altro lato del letto. Juan si era sporto verso di lei, “Sicura? al di là di ogni ragionevole dubbio …?”. “Perché?”. “Perché puoi rischiare di compromettere la tua posizione … una ragazza bella come te rischierebbe di non apparire del tutto credibile nei panni di Florence Nightingale … tanto più che panni ... poco niente”. Nikolett era arrossita di nuovo, aveva chinato la testa, esitando. “Tanto il danno è già fatto. Mi hanno già licenziata.. … Se poi alludevi a … ad altro … nelle tue condizioni …”. Juan aveva sorriso e scosso la testa, guardandola sorpreso, a dire come l’obiezione era tanto banale da non meritare risposta. Una voce gli era però dal sen fuggita: “Beh! … una donna bella come te ... non è poi detto … Hai già fatto miracoli. Per il licenziamento mi spiace tanto, comunque no problem, rimedio … promessa”. Nikolett era arrossita, sbigottita, interdetta.
L’improvviso vibrare del cellulare e la sua suoneria, al minimo ma con il comodino che aveva fatto da cassa di risonanza, li aveva colti di sorpresa. Juan si era guardato intorno e i suoi occhi avevano incontrato quelli di Nikolett. “Meglio che risponda tu”, le aveva detto con calma, senza mostrare alcuna difficoltà. Automaticamente lei aveva allungato la mano tenendolo come fosse potuto scoppiarle in faccia da un momento all’altro. Sul display aveva letto: A.B. ... Anabel Blanco, presumo”. Aveva d’impulso fatto cessare quel ronzio molesto: “Sì …?”, con voce bassa e titubante. “Oh! … ommìoddìo! ... ha avuto la crisi!”. Nikolett le aveva risposto che sì, che era stata abbastanza violenta, aveva riferito concisamente quanto era successo, rassicurandola alla fine come ora fosse tutto sotto controllo. “Non so come sia potuto succedere”, era sinceramente sorpresa e preoccupata, ”non avrei dovuto lasciarlo, in genere se la cava da solo, non ha mai avuto una crisi così improvvisa, e, da quel che mi dice violenta”. Nikolett aveva rammentato le parole di Juan: in genere me la cavo da solo. “Chi avete chiamato?”. Nikolett le aveva rispiegato tutto dall’inizio, con calma, nel modo più semplice e chiaro possibile, chiedendosi alla fine se avesse dimenticato qualcosa. Lei le aveva chiesto con chi stava parlando. “Mi scusi … sono Nikolett, Nikolett Pòsàn, la receptionist“. “Sì, mi ricordo. Così ora lo sta assistendo lei …”. Un’affermazione: aveva capito finalmente! “Sì, e per questo perderò il mio lavoro … anzi l’ho già perso. ”Ma com’è possibile?!”, la voce di Anabel era indignata. “Ho abbandonato il mio posto di lavoro, senza il tempo per giustificarmi”, aveva sospirato, sgravata dal peso. “Non si preoccupi, la ripagherò … ma posso pregarla di rimanere con Juan fino a … a quando sarà necessario? Ho capito che ha fatto molto, le sono immensamente riconoscente … ora non posso fare di più … da qui non posso proprio muovermi … glielo confermerà Juan stesso …”. “L’avrei comunque fatto”, l’aveva interrotta Nikolett, piccata, con una punta astiosa. “Signorina … “. “Nikolett”. “Grazie, Nikolett … le ripeto che le sono enormemente grata, non volevo offenderla … solo rassicurarla che non la lascerò a piedi … Anzi …” –l’idea doveva esserle venuta all’improvviso, apparendole anche come la migliore e più appropriata … come aveva fatto a non pensarci subito … - se vuole accettare … mi farebbe molto piacere … potrebbe considerarsi da subito al nostro servizio … cioè … mi scusi –si era accorta della gaffe- nostra assistente … ecco, assistente …”. “La ringrazio … ma non se ne faccia un problema ora … ne parlerò con Juan, e vedremo. Comunque … la ringrazio molto”. Aveva chiuso la comunicazione con rabbia. Aveva sentito una sensazione dolorosa di rancore che l’adombrava. In lei si era insinuato il sospetto che dietro tutte quelle parole non ci fosse proprio nulla. Anabel aveva sicuramente sproloquiato, profondendosi in promesse che non aveva già la minima intenzione di rispettare. Le era importato solo mettere subito una pezza allo strappo. Poi, per prima cosa, si sarebbe affrettata a buttare il vestito strappato e comprarne uno nuovo. In ogni caso aveva preferito non affrontare in quel momento quel problema con Juan. Nikolett si era seduta sul letto, accanto a Juan, per rispondere alla chiamata. Era girata per metà nella direzione opposta, e era rimasta sorpresa quando Juan le si era rivolto, “Sono molto orgoglioso di te”. Si era voltata verso di lui, era così vicino, e sembrava mangiarla con gli occhi. Lei sentiva il suo respiro, aveva sentito il cuore salirle in gola. Nei suoi occhi aveva visto uno scintillio. Sembrava emanare ondate di calore ... o forse era soltanto effetto dei farmaci?”. Si era accovacciata di fianco a lui, senza perdere il suo sguardo. Juan le aveva fatto scivolare una mano tra i capelli, un sorriso gli sfiorava gli angoli della bocca. “In ogni caso, sono contento che tu sia così ragionevole e per bene”, aveva mormorato, “Almeno potremo restare amici”. La risposta era stata piatta, senza calore né entusiasmo, “Sì, è magnifico”. Per qualche istante erano rimasti in silenzio, limitandosi a guardarsi. Poi lei aveva riso sommessamente, e si era sdraiata sul letto.
RISVEGLI. Un tale, non riusciva più a ricordare chi fosse stato, le aveva detto che, risvegliandosi la mattina presto, era meraviglioso trovare, almeno nel complesso, tutte le cose allo stesso posto dove erano rimaste la sera prima. Dormendo e sognando si sarebbe stati, almeno in apparenza, in uno stato essenzialmente diverso dalla veglia e –come le aveva detto giustamente quel tale- ci sarebbe voluta una sconfinata presenza di spirito o meglio di prontezza, per afferrare, aprendo gli occhi, tutte le cose, per così dire, nel medesimo posto dove le si erano lasciate la sera. Perciò il momento del risveglio sarebbe il più rischioso della giornata; una volta superato senza essere stati trascinati via dal proprio posto, si sarebbe potuto restare tranquilli per tutto il giorno. Nikolett era stata molto contenta di poter lasciar vagare i suoi occhi, anche se arrivavano soltanto a scorgere una brevissima cerchia. Il buio la opprimeva, già più volte comprendendone l’inutilità aveva guardato verso l’alto e dal buio aveva visto volare, per così dire, le tenebre contro di lei da ogni parte. All’orizzonte s’era acceso un bagliore, che aveva illuminato soltanto il soffitto, scendendo poi lungo le perderti, fino al pavimento. Di colpo tutta la stanza era diventata chiara, e fuori la luce si stava intensificando ancora. Per lei era stato molto piacevole, così che era rimasta lì scoperta ed esposta, nel luogo poc’anzi così sgradevolmente oscuro. Era rimasta sdraiata a guardare il giorno nascere aprendo uno squarcio nel cielo. Le tende non erano chiuse, aveva potuto vedere l’alba tingere le cime delle colline. Chiudendo gli occhi aveva pensato a Juan. Si era girata su un fianco e tirata su il lenzuolo fino al mento, domandandosi in quali mondi sconosciuti stesse per entrare. Si era sentita sollevata, non aveva avuto nessun calo d’umore, come aveva pensato dovesse succedere. Anche se la notte le aveva lasciato una sensazione di vuoto. Era rimasta ancora qualche istante immobile a letto avvolta dal silenzio, che percepiva come rassicurante e rasserenante. D’altra parte con l’illuminazione ci sarebbe stato da aspettarsi il risveglio di Juan, che certo non sarebbe mai sceso dal letto brancolando nel buio. Si era lasciata cullare dalla calma che empiva la camera. Non aveva trovato altro che gli stessi pensieri, che stavano continuando a volare in circolo nella sua mente. L’ideale per girare in tondo imbattendosi continuamente in se stessa. Aveva tentato di concentrarsi su qualcos’altro, ma le era sembrato di buttarsi alla cieca in qualche buco giusto per nascondervisi. D’un tratto aveva avuto l’impressione che il vero problema fosse tutta la sua vita. Aveva corso come una pazza, ma era stato come correre su una pista circolare: aveva continuato a passare davanti alla stessa tribuna, e ogni volta le era sembrato di avere sempre meno vie d’uscita. Aveva trovato l’aiuto giusto per andarsene di lì, volando diritto, e non illudendosi di farlo sorvolando sempre la stessa maledetta situazione. Aveva bisogno di riordinare i pensieri, di calmarli. ‘Chiedi il suo aiuto. E accettalo, fa qualsiasi cosa, di qualsiasi cosa si tratti. Non hai niente da perdere. Conosci la tua età vero?!’. Sì, certo, la conosceva, non occorreva che se lo ripetesse. Ma cosa significa accettare qualsiasi cosa? Nella vita non aveva mai cercato di imporsi sfruttando unicamente le proprie doti fisiche, aveva talento. Significava andare a letto con Juan? ‘Beh, non mi spiacerebbe … cioè, nel letto ci sono già … Scopare con lui … sì, mi … non so, mi affascina, ma non è solo questo, non so come dirlo … non ancora. Dopo, forse. Se l’era detto sorridendo. Si sentiva fiduciosa, anche se il suo cuore stava battendo più veloce del solito. ‘Non so perché, con Juan me ne sta pungendo vaghezza … mi sentisse mamma! Non sono pensieri da ragazza perbene …. OK, con Juan … non so perché … penso sarà il modo più piacevole … E sono sicura che poi … lui … non permetterebbe che altri … Comunque voglio lottare fin dove è possibile’. Aveva avuto la consapevolezza che c’erano molte ragazze dotate di talento, ma per tutta la vita aveva fantasticato su un momento come quello: avere un’audizione, e lavorare alla scuola del grande maestro. Se non fosse riuscita ad arrivare oltre quell’incontro, se fosse dovuta tornare a casa a mani vuote, avrebbe potuto sempre dirsi che era arrivata fin là per un paio di peculiarità del suo carattere: integrità e perseveranza. ‘Integrità!? E come la mettiamo con Juan? … Beh, non rientrava nel programma, lui … con lui … è un’altra cosa. Quest’uomo deve avere conosciuto i dolori dell’inferno, e sento che il suo animo è … aspetta, come dice Dante? … Virgilio, d’Enea parlando, in sua maggiore lode pietoso lo chiama … o giù di lì … Scommetto che è un uomo che non ha paura di piangere … di piangere come una donna … e, aspetta, è in uno dei quattro libri ebraici: Dio ama le lacrime delle donne, perché hanno conosciuto tutto il dolore del mondo … sì! … Se fosse solo per le cose che ho mandato a memoria, meriterei il posto di primadonna. Mah! Un’accozzaglia … uno zibaldone medioevale … di tutto un po’ …’. All’improvviso aveva sviato lo sguardo da Juan, perché le era venuta una gran voglia di piangere. In quel momento aveva visto scorrere davanti agli occhi tutta la sua vita. Gli anni in cui aveva cercato invano un contatto, in cui aveva bussato a porte che non si erano aperte, in cui aveva chiesto senza mai udire una parola di risposta; solo indifferenza, come se lei per il mondo non fosse esistita. Nella testa le stavano ronzando tutti i NO ascoltati quando qualcuno si era reso conto che, invece, era viva e meritava almeno una risposta. ‘Non posso piangere!’. Sapeva di dipendere da Juan. Per un lungo periodo della sua vita aveva avuto problemi a rapportarsi con gli altri. Aveva faticato molto per imparare questa lezione, ma, alla fine, aveva capito l’importanza del prossimo nella sua vita. E lui era il suo ultimo prossimo. Non aveva più bisogno di fingersi forte, e questo le stava procurando una grande tranquillità. ‘Compiere una scelta è forse la cosa più difficile nell’esistenza di un essere umano. Oh, devo ammettere che sul lavoro di attrice sono cascata anch’io in molti luoghi comuni … il più delle volte pregiudizi infondati, ma anche tanti miti da sfatare. Ci si ritrova catapultate in una realtà aspra e dura … scivolosa. Immagino anche sia piena di trucchi, trappole e insidie, oltre che di percorsi ad ostacoli. Eh sì, diciamolo pure, non è un lavoro facile: sempre di corsa per presenziare a tutti gli eventi possibili … perché le vere opportunità sono poche, tantissime le ragazze, alta la concorrenza e quindi sempre più miseri i compensi. A ventitré anni, qualsiasi ragazza si sentirebbe, a buon diritto, nel fiore della propria giovinezza, mentre in quell’ambiente si vive l’amara consapevolezza di essere già vicine alla fine della carriera. Ai casting si ritrovano circondate da ragazzine sempre più giovani, dai corpi ancora acerbi e con i volti che spesso trasudano innocenza. Non ci sono mai orari né festività … a Teatro poi … Anche dopo dieci lunghe ore di prove, riprove, sarti,truccatrici, si deve dare il meglio, sorridere, esser disponibili e concentrate. E in diretta … buona la prima. Altro pregiudizio e tasto dolente: ma chi l’ha detto che le attrici non devono mangiare?! Nell’immaginario si è formato uno stereotipo: devono essere magre come chiodi, infelici e sole. E va bene se al massimo ti offrono un’insalata e una coca light. No, ti offrono di tutto e di più, ma il tuo corpo deve corrispondere al physique du ròle. A volte diventando a geometria variabile, come Renée Zellweeger quando deve interpretare Bridget Jones, e quando invece, che so … Ritorno a Cold Mountain. A dirla tutta ne ho conosciute che agli inizi erano troppo magre e senza forme, ma poi il corpo cambia, si sviluppa naturalmente e quando non è più quello di una teenager, te lo fanno pesare. E’ un’indecenza. Non solo per loro, soprattutto per una quantità di ragazzine che vogliono imitarle sperando di diventarlo anche loro. Un’attrice … ma anche una modella, dovrebbe essere il ritratto del benessere, della salute, il simbolo di una bellezza sana. Questo sarebbe il messaggio più corretto da lanciare. E invece no. Per essere belle, … ma il criterio vale poi per tutte e tutti, come un letto di Procuste, si deve essere magre … e più si è magre più si è belle. E così, dalla… anoressia alla bulimia … malattie che dovrebbero spaventare al solo pronunciarne la parola, ma esistono tante e tante colleghe, tanti miti o simboli da imitare, che ne sono succubi’.
‘Stare sdraiata fianco a fianco con lui può cambiare il mondo’. La testa dl Nikolett era appoggiata sul petto di Juan. Si era raggomitolata contro di lui, e le sembrava di essere tornata sedicenne. L’aspetto straordinario della situazione, era che le piaceva stare a letto con lui, e, nel contempo, si sentiva appagata, perché non era successo nulla. Intanto, Juan girava gli occhi per la stanza, fingendo di aver colto solo allora la presenza accanto a lui, nel letto. Era rimasto immobile. Stava zitto, l’aria di chi cercava di decifrare la scena che si era trovata di fronte. Muovendosi leggera come una piuma, Nikolett si era alzata, aveva attraversato la stanza, aveva aperto la porta a vetri e aveva salutato il mare, le dune, il rumore delle onde sulla sabbia. Sì, stare sdraiata fianco a fianco con Juan poteva cambiare il suo mondo. Era tornata a letto, e aveva appoggiato la testa sul petto di lui, le gambe raccolte a sé. Non era affatto semplice trovare pensieri razionali sulla sua presenza lì, riflettere sul perché era sdraiata sullo stesso letto con un uomo che conosceva da ... da quanto? Da meno di ventiquattr’ore, invero. Mentre rifletteva su come dare un ordine, un senso logico a tutta quella incoerenza e ... insensatezza, aveva visto nella sua mente uno stormo di pensieri che giravano in tondo, blaterando mentre descrivevano le loro evoluzioni, e le loro metafore. Si era sollevata un poco, in modo da poter guardare Juan in volto. Aveva gli occhi semichiusi, e aveva arricciato il naso, in un’espressione che le era piaciuta molto. Poi le aveva detto: “Ci sono pensieri che sono come le oche selvagge. Alcune vengono e altre volano via. E poi ce ne sono altre che girano in tondo”. ‘Porca miseria, ma ... ma sa leggere nel pensiero?! Nei miei ci riesce benissimo ... come accidenti farà?’. Ma aveva detto: “Che vuoi dire?”. “Che a un certo punto, dovresti imboccare una direzione”. “Io non giro in tondo!”, aveva protestato, senza troppa convinzione. Voleva arrivare a capire dove lui stava andando a parare. “Invece è così ... forse non ti sembra così perché compi giri abbastanza ampi che a te ... e agli altri, non so a chi tieni di più a dimostrarlo, sembrano una direzione”. “Trovo tutto molto astratto”. “Perché stai qui, in questo Hotel?”. “Per lavoro, intanto che ...”. Juan l’aveva fermata solo scuotendo la testa più volte, per significare un NO. “No, non è per questo ... non raccontarmi favole. Non ti piace fare questo, e non sei come fingi di essere. Né tosta come cerchi di presentarti. Né contenta ... e certamente non eri qui per farmi da infermiera”. Niki aveva sussultato. La sua mente si era concentrata sull’assurdo ... quella era un’affermazione cui doveva rispondere con serietà ... o forse no? “Ma è quello che faccio”, aveva risposto caparbiamente. “Non lo metto in dubbio. Dico soltanto che non sei qui per questo. E’ capitato, e tu mi stai vicino ... ma per altro. Giusto?”. “E’ una fesseria!”. Juan le aveva cinto le spalle e l’aveva attirata a sé. Nella leggerezza del bacio il sole si era alzato allo zenit e lì si era inchiodato. Niki aveva incrociato le braccia sul petto di Juan, vi aveva appoggiato il mento, e gli aveva rivolto uno sguardo di grande fierezza. “Mia madre mi ha consigliato di parlarne con te. Da quando le ho detto che eri qui non ha mai smesso. E del resto anch’io non posso darle torto … sul tuo giornale scrive Heinrich Shiller … e a volte anche tu ti occupi di spettacoli … sicuramente lo conosci … e sai …”. Aveva di nuovo abbassato lo sguardo, e si era persa, ancora una volta in pochissimo tempo quella mattina, nel pensiero che stare così, a fianco a fianco, avrebbe potuto cambiare il mondo. Avevano mantenuto entrambi il controllo. Il controllo, però, aveva subito pensato, è quello di cui si ha bisogno per perdere il controllo nel momento giusto. Non aveva ben chiaro cosa sarebbe successo dopo quella notte da Sherazade, ma sapeva che non era quello il momento in cui lasciarsi andare. Anche se non era mai possibile programmare o pianificare sui sentimenti. Era rimasta lì, rannicchiata vicino a Juan, che aveva iniziato a carezzarle la nuca. Juan: “Ci posso provare. Dovrò convincere Rich che ho una grande stima di te, perché ti conceda l’alto privilegio di un’audizione … ammesso che si possa chiamarla tale”. Nikolett aveva chinato modestamente il capo: “Conosco le mie capacità, e le mie doti”. Aveva accantonato la domanda sul: ammesso che si possa chiamarla tale. ‘Accidenti, devo iniziare a scrivere le cose che devo chiedere perché stanno diventando tantine!’. “Una bravissima attrice, e in più bellissima: una combinazione rara. Rich comunque non ha la tendenza a perdonare il più piccolo errore, intendiamoci. In ogni caso è in difetto con me … Oh non intendo certo far leva su questo per favorirti … non lo farei … e se anche lo facessi sarebbe un karakiri, ma me ne ha combinata una … beh, inutile dirla, non c’entra nulla …”. Lei si era sporta verso di lui, incredula: “Davvero lo faresti?”. Non aveva preso nota di quest’altra allusione a chiarire: ma me ne ha combinata una. L’intensità della gioia, la vivacità dell’euforia, avevano cancellato tutto. Juan, senza alcun sarcasmo: “Senza dubbio alcuno, prima dovrai convincere me. Che cosa ti fa pensare di riuscirci?”. Nikolett si era sentita sicura. Juan sapeva apprezzare e rispettare le donne. Glielo aveva fatto capire il suo modo di parlare, di comportarsi, di esprimere o cercare di nascondere le sue emozioni.
VERRÀ GIORNO IN CUI ... “Perché ... perché hai ragione. Finora non sono stata abbastanza adulta da andarmene”, aveva ridacchiato, d’imbarazzo, “Ho trovato una bella struttura circolare, per girare in tondo. Il problema è che qui m’imbatto continuamente in me stessa. A ogni angolo incontro qualcuno che conosco, ma alla fine è sempre me stessa che incontro. Può essere bello o brutto ... nel mio caso un disastro, sono un’oca che non è mai emigrata. Mi sono sempre cercata qualcos’altro, per allontanarmi da dov’ero, e ogni volta ho ritrovato tutto ... una vera catastrofe. Non mi riesce niente, ovunque sono in agguato delusioni e guai. Corro come una pazza, ma corro su una pista circolare: continuo a passare davanti alla stessa tribuna, ogni volta mi sembra di avere meno vie di uscita. In più, i consigli degli amici non sono più tanto originali. Così, un bel giorno dovrò ammettere la sconfitta. Finché mi sono ... mamma mi ha convinta che le cose potrebbero andare a meraviglia e che potrei comunque essere più felice altrove. Se facessi le valige ... e potessi andare da Schiller ... altrimenti prima o poi mi calmo, le aspirazioni svaniscono, non cerco più ... non tento più, perché vivo come ospite di me stessa, e delle mie insoddisfazioni, e sarò sempre amareggiata, e non ancora abbastanza ... non giovane per esserlo. Con l’età sono già al limite ... un paio d’anni e disillusione e frustrazione si faranno vive come vecchie conoscenze che vengono a prendere il tè. E sarò quasi contenta di aver ritrovato quei complessi così familiari. Perciò non vivrò nemmeno malaccio, dopo tutto, e, senza neppure accorgermene, al massimo cercherò una nuova pista per girare in tondo, solo ... più ampia. Juan le aveva sorriso ... compiaciuto, “Puoi andare fiera di te, invece. Se hai capito tutto questo ... significa che puoi dare prova di un impegno di cui sicuramente non ti sospetti capace”. Niki si era tirata su, e poi si era chinata su di lui per baciarlo. I capelli le erano ricaduti sul viso, e per entrambi era stato come ritrovarsi sotto la chioma di un salice. “Questo non era nel conto”, gli aveva bisbigliato. “Lo so”, aveva risposto Juan sottovoce, “non ero preparato al fatto che stanotte potessi abbassare tutte le mie difese ... beh, credo sia più vero dire … quelle del mio orgoglio, e cedere all’idea di adottare il nuovo principio di lasciarmi soccorrere ed aiutare ... Deve essere stato per quanto sei seducente”. “Stai bluffando ... non sapevi che sarei venuta io ... eppoi non sono seducente ...”. “Nient’affatto. Sei straordinariamente bella”. “Non è vero”. “Invece sì Niki ... una donna è tanto bella quanto i complimenti che ha ricevuto. Quelli veri intendo ... quelli sinceri. E tu devi averli ricevuti tutti in una volta”. Con gentilezza le aveva arruffato la criniera , e quella massa di capelli aveva preso vita. L’aveva guardata strizzando un occhio, “Siamo in tempo per farci portare la colazione in camera?”. Niki l’aveva osservato, “Non è ancora troppo tardi ... almeno credo”. Si era girata, interrompendo di malavoglia quel momento di quiete, ed era andata in bagno per regalarsi una doccia. Non ne aveva avuto il tempo. Aveva sentito Juan muoversi e brontolare qualcosa, ed era uscita subito per avvicinarsi al letto, neppure tentando di mostrarsi pudica. Nuda era uscita dal letto, nuda era rimasta. Juan aveva ruotato le spalle, e stirato le braccia sopra la testa, lasciandole poi ricadere. Aveva scostato il lenzuolo, con una mossa che era stata un primo tentativo di alzarsi. “Dici che riesco a fare una doccia?”. “Certo … vuoi che ti aiuti?”. Lui era riuscito a sedersi buttando le gambe … Si era fermato, e lei gli si era avvicinata per stringerlo e aiutarlo. “Sei bellissima … stupenda. Sei appena uscita dallo spumeggiare delle onde del mare?! Sì, più stupenda della Venere del Botticelli”, la sua voce era ancora roca. Improvvisamente Nikolett si era spinta verso di lui e lo aveva baciato sulle labbra. Un bacio leggero, ma fascinoso. Erano rimasti a lungo così, abbracciati, sorpresi e stupiti del loro gesto spontaneo quanto avventato, impulsivo quanto sconsiderato. Poi, Juan aveva cercato l’equilibrio e l’energia per muoversi, non da solo, sempre aiutato da lei. Era riuscito, e lo sforzo maggiore era stato quello di vincere la forte vertigine, alzarsi, e percorrere la stanza fino alla stanza da bagno. Sempre assistito da Nikolett, aveva tentato di mettersi da solo sotto il getto della doccia. Non ci era riuscito. Avevano dovuto fare la doccia insieme. Avevano trascorso venti minuti buoni sotto il getto d’acqua. Avevano dovuto. Dovuto … Se qualcosa di doveroso c’era stato, a parte l’igiene, era stato quietare i bollenti spiriti. Insomma, loro malgrado, indipendentemente dalla loro volontà, era stato loro d’obbligo. Suvvia, usiam loro indulgenza. Finito, si erano poi messi a sedere al tavolo.
Durante la colazione, Nikolett aveva dovuto sforzarsi di non sorridere di continuo. Di rado le capitava di essere così assonnata, e di rado si era goduta la cosa così tanto. Quell’uomo così bello la stava guardando come se preferisse mangiarsi lei piuttosto che il pane tostato, ben imburrato e ricoperto di marmellata: rigorosamente burro salato e marmellata di arance amare. Nikolett aveva preso nota, mentre gli angoli delle labbra di lui guizzavano, pronti a esplodere in una risata. Quella mattina avrebbe volentieri recuperato ciò che si era negata durante la notte, ma Juan si stava comportando da arrovellarcisi, non esponendosi in nessun modo, anche se qualsiasi osservatore non del tutto disattento, avrebbe saputo interpretare gli sguardi di si scambiavano di continuo. Nikolett si sentiva battere forte il cuore. Era eccitante stare con lui. Esercitava un fascino inspiegabile su di lei. Quasi inspiegabile. Al suo orizzonte non si delineavano prospettive particolarmente allettanti per quello che era convinta fosse la sua ultima chance. Mettersi con lui solo per quello la trovava una perfetta idiozia. D’altra parte, sarebbe stata un’idiozia ancora più grande, più peggiore, se era quello il prezzo del biglietto. La giornata stava scivolando via lenta e indolente. Juan mostrava ancora segni di prostrazione fisica, di grande stanchezza per i postumi degli antidolorifici oppioidi. Anche Nikolett si sentiva sfinita. Era passato il farmacista, non solo per riportare il passaporto e ricevere il dovuto. Aveva, anche, con scrupolosa sollecitudine, portato con sé sfigmomanometro, stetoscopio, martelletto, abbassalingua e pila a matita, in una borsa floscia da “doc” del vecchio west. Mancava solo la tradizionale fiaschetta di whisky. Forse. Pur non essendo un medico, si era premurato di esaminare lo stato generale di Juan, dando un responso fausto di soddisfacente recupero. Non aveva posto domande sulle cicatrici sulle quali il suo sguardo si era soffermato quell’attimo in più che tradisce lo stupore e l’interesse. Juan gliene era stato molto grato. Nikolett aveva chiamato al telefono la madre, e poi una collega che avrebbe preso servizio quella mattina, accordandosi perché mamma le preparasse, e la collega passasse a ritirare per poi consegnarglieli in albergo, alcuni capi d’abbigliamento con cui sostituire la divisa, nonché –non metterebbe conto dirlo, tanto era prevedibile e certo- tutto il necessaire. Al momento aveva preferito un paio di calzoncini e una canottiera in cotone, e, ai piedi, delle infradito. Il reggiseno era un capo estraneo al suo guardaroba, e poteva comodamente e serenamente permetterselo, salvo che per ordini di servizio. Un servizio, però, non l’aveva ormai più. Si erano fatti portare colazione e pranzo in camera, passando il resto del tempo a discorrere, liberi da pensieri e affanni, serenamente dediti a qualche svago. E gioco. Forse non c’è altra parola per descrivere questo particolare momento. Apparentemente disimpegnati, il che vale a dire impegnati in attività sottratte a ogni pressione, obbligo, norma, condizionamento ... Disimpegnati veramente? Disimpegnati oppure in attesa? Era una parte dello sviluppo della capacità relazionale tra i due, di aggiustamento dell’interazione, davvero cruciale. Non s’impegnavano, ma non si stavano inibendo. Trattenevano contemporaneamente una risposta conformista e una antagonista. La capacità di farlo era questo punto critico: si stavano invitando. Non incitando, ma reagendo ai segnali che si stavano mandando. Poteva sembrare, di solito si usava dire, che in questo gioco fosse necessaria ben poca capacità di concentrazione. Eppure si stavano dando continuamente un auto-feedback, un’autostimolazione, che era pure un messaggio. Sempre. Il disimpegno avrebbe creato una barriera, avrebbe escluso. Non avrebbe avuto senso discutere in termine di quale finalità spingeva l’uno e l’altra. Possiamo solo vedere che cosa stava succedendo fra i due. Qualunque cosa uno faccia, sempre, in ogni epaca, è una segnale per l’altra. Non c’è disimpegno, non c’è nulla di simile; sempre che non si dica che è disimpegnato il rapporto reciproco. E non so che cosa potrebbe significare. Credo che si debba fare molta attenzione a usare la parola finalità, che mi pare molto scivolosa e alquanto ambigua. Il concetto di finalità spesso nasconde l’ignoranza dei fatti. E’ uno dei motivi per cui si fa confusione, ci si perde nel labirinto dei riferimenti e nel moltiplicarsi delle piste. Ci si mette alle prese con contraddizioni insolubili, con dubbi e incertezze di cui non si verrebbe più a capo. Questo gioco, per essere possibile, ha bisogno di una serie di regole sue proprie, ma di regole paradossali, che, se rispettate fino in fondo, finirebbero per ottenere l’effetto opposto, per chiudere in una rigidità che non permette né gioia, né fantasia, né creatività. In altre parole, che non permette la vita stessa del gioco. Che ha bisogno invece di atmosfere, di sfondi, di un insieme di circostanze, condizioni e aspetti in cui si possa agire. C’è bisogno di pasticci, d’intersezioni, di agio. Di aggio. Strutture, inquadrature, cornici che ammettano piena libertà, su cui basare una logica più simile a quella dei sogni che a quella della scienza o della filosofia. Una logica che colga la natura ambigua delle cornici apparenti, delle pellicole dell’esteriorità. E’ come un anello di fumo, che si avvolge all’infinito su se stesso, girando sul suo asse. E questo suo avvolgersi intorno all’asse su cui si ripiega, è quello che conferisce un’esistenza propria dell’anello di fumo. E ha proprie caratteristiche, chiara definizione, esatta percezione e un certo grado di sublimazione, che solo per la virtù di chi sa starvi ripiegato all’interno assumono sostanza, opportunità, giudizio, evoluzione. Non mette conto riportare cosa avessero fatto in quel giorno, perché il significato era segreto, il senso in un codice cifrato noto solo a loro perché da loro creato. Con la semplicità e il candore dell’improvviso, inaspettato e vivo stupore che produce la scoperta che non rivelava ciò che era nascosto, ma palesava ciò che finalmente sapevano guardare con occhi diversi. Senza dover indossare maschere, attenersi a ruoli, rispettare convenzioni, senza preconcetti o pregiudizi, senza precauzioni, circospezioni, cautele. Sarebbe azzardato avere la pretesa di stabilire se a dominare fosse il godere di quel reciproco e pieno rivelarsi, o non, invece, della libertà che in cotal guisa già l’antiche genti, si crede essersi godute al secol d’oro. Se mai qualcuno fosse colto da pazza idea, e insana, di videoregistrare quei momenti per poi poterli rivedere, così come si usa racchiudere in un filmato ricordi ed emozioni, come invece un tempo si usava cogliere un fiore e riporlo tra le pagine di un libro per conservare un attimo d’intensa emozione provato, rimarrebbe perplesso, stupirebbero nel vedere quelli che credeva incanti essersi fatti sciocchi, quasi credesse questa passione piacevolissima d’amore solamente nelle sciocche anime de’ giovani capere et dimorare. Non meno importante era l’esigenza di iniziare la conoscenza percependo la consistenza dell’altro, scrutandone la cifra del modo d’agire, leggendolo col far scorrere le dita sulla sua superficie interiore, senza avere una chiara idea di cosa fare ma facendolo, scandagliando le profondità dell’animo, liberando il terreno col rimuoverne le mine, senz’altro rivelatore che la punta di una baionetta che solca leggera prudente e circospetta la terra. Affioravano così, con attenzione e riguardo, le particolarità dei caratteri, l’inclinazione delle preferenze, le propensioni degli stati d’animo, i criteri di valutazione. Ognuna, una alla volta, le maneggiavano con pazienza, ne cercavano l’incastro che permettesse di comporre il quadro, smussando gli spigoli, attenuando i toni, mitigando le dissonanze, schivando dissidi. Quanto alla diversità, non senza grandissimo rovellar guatata lungamente e riconosciuta fu mai qual più diversa e nova cosa in qualche stranio modo molto magnificamente onorevole. Insomma, costruendo fondamenta comuni di affinità, affettività e condivisione, finché nonfossero sufficientemente solide da reggere le diversità, soprattutto le meno o non mediabili. Fino a riconoscerle come un dono reciproco, che fa più ricchi di doti e migliori, e non temerle come limite se non danno personale o contaminazione dell’identità. Il giorno era finito per unirsi agli altri giorni. Il mondo non diceva mai altro che una cosa sola: interessa e poi stanca. Arriva sempre un momento in cui, a forza di ripetere, conquista, e ottiene il premio della sua perseveranza. Giorni tessuti nella stoffa lussuosa delle risa e dei gesti semplici, che si stendono e sdraiano sulla notte gonfia di stelle. Nel cielo ardente e segreto Nikolett e Juan avevano visto brillare il volto della notte scura, e le stelle farsi più grandi, poi più piccole, scomparire e rinascere, intrecciando tra loro instabili figure e congiungendole ad altre.
SILENT NIGHT. Nel silenzio la notte aveva ripreso il suo spessore e la sua carnalità, piena dello scorrere delle sue stelle. Avevano abbandonato gli occhi ai giochi delle sue luci che avevano dato loro lacrime. Ed entrambi, tuffandosi nella profondità del cielo, avevano ritrovato in quel punto estremo il pensiero tenero e segreto che costituiva tutta l’intimità della loro vita. Nikolett aveva allungato una mano e l’aveva accarezzato, sfiorandolo con tenerezza: “Sei dolce”. Gliela aveva posata sul braccio con un gesto rapido, che aveva voluto significare un’infinità di cose: grazie, conta su di me, d’accordo. Juan si era sentito spinto a darle un bacio, lieve, sulla guancia. Un semplice slancio, un’espressione di gratitudine. Aveva letto nei suoi begli occhi lo stupore, ma anche altro: il dolore. Ed era rimasto stupito dalla calorosità con cui lei l’aveva abbracciato e baciato, qualcosa di più di quello che lui le aveva appena dato. Poi lei aveva distolto lo sguardo, imbarazzata. “Mi vergogno a confessarlo”, gli occhi bassi, “ma temevo che la mia richiesta potesse apparirti priva di valore. Ho perso un po’ di fiducia, mi era sembrato inutile avvicinarti …. In fondo io già speravo di avere un’occasione … poi è andata così …”. Juan: “Non mi pare … cioè, non credo proprio sia utile che tu seguiti a condurre questa vita sospesa, come un adulto che si nutre di cibi da bambini; credo che questo sarebbe mal fatto e indegno di qualsiasi sacrificio”. Nikolett, sollevata e lieta, decisa: “Io sono nata per fare teatro, per recitare a teatro, ma quello vero. Mia madre ha sempre detto che le possibilità di sfondare nel mondo della celluloide le sembrano molto più concrete di quelle del teatro, che per lei resta una favola. Ma per me recitare è vitale, tangibile e immanente come l’aria che respiro, che mi colpisce col vento. Già a scuola ero un’aspirante drammaturga, i soli momenti in cui ero davvero felice erano quando studiavo un copione o leggevo qualcosa di teatro. Tutti mi hanno sempre detto che anche se avessi ottenuto qualche parte, non ci avrei guadagnato molto. Per me i teatri scolastici, e poi le piccole compagnie di provincia sono stati i migliori palcoscenici per imparare la drammaturgia, quella vera, creativa, non cervellotica … che ho provato a leggerne qualche copione, ma non ci ho capito niente. Così non ho trovato spesso delle parti, qualche ruolo ogni tanto. Non ci ho mai guadagnato più di 3-4.000 € l’anno, quando con cinema, tv, pubblicità, ne avrei potuto ottenere facilmente 12.000 il mese. Ho una memoria prodigiosa. Posso dire, senza falsa modestia, di essere camaleontica, so calarmi nei ruoli come possedessi lo spirito del personaggio. Ho anche un buon talento per accenti e dialetti … non che sia essenziale, ma …”. Juan: “E scommetto che non sei disposta ad accettare parti qualunque”. Nikolett: “Sì, sono testarda, vorrei fare l’attrice a tempo pieno, e so che lo so fare … E non ho alcuna intenzione di prostituirmi”. Juan: “Rich sostiene che ogni generazione ha talenti potenzialmente geniali, e a lui piace accettare solo allievi di talento per aiutarli ad affinarlo. Purché quando recitano siano assolutamente credibili. Sul palco non ci deve essere l’attore, ma il suo personaggio. Non so, dimmi tu: Tennessee Williams, Arthur Miller, i classici greci, Luigi Pirandello … ma anche altro …”, Nikolett l’aveva fissato, Look back in anger, di John Osborne … Milosz: Miguel Mañara, mistero in sei tabole, L’annuncio a Maria di Paul Claudel …”. Lui aveva fischiato di ammirazione, sgranando gli occhi, deliziati, colmi di gioia e piacere: “Credo che a Rich verrà l’acquolina in bocca … e i tuoi saranno molto orgogliosi di te”.
RICORDA, CON RABBIA. Lei aveva chinato il capo: “Mia madre, e mio padre ... certo. Anche mio fratello, fosse qui ... ma lui ... non c’è più”. Juan era rimasto in dubbio se superare quel confine, ma il suo istinto l’aveva spinto, infine: “Mi spiace, mi spiace tanto. Come?”. Ripensandoci, “Scusami … mi spiace ... non volevo”. “No, voglio che tu lo sappia … Devo cominciare dall’inizio. Imre, i miei l’avevano voluto battezzare Imre, in onore e memoria di Imre Nagy ...”, Juan l’aveva interrotta, “L’eroe e martire della rivoluzione del ’56, si sarebbe meritato un Nobel alla memoria”. Nikolett era rimasta sorpresa, molto piacevolmente sorpresa, “E’ fantastico quanto incredibile trovare uno che sappia di Nagy e del ’56!”, aveva premiato Juan con un grande bacio. “Comunque, Imre era più vecchio di me, avevo sedici anni e lui era già direttore di Banca. Papà aveva trovato lavoro in una fabbrica di Eternit”, Juan aveva sbarrato gli occhi e la sua fronte si era corrugata in modo tale da farlo sembrare vecchio; aveva già capito, ma non l’aveva interrotta. “L’hanno pensionato presto, per invalidità. Una pensione molto, molto modesta ... e il divieto di lavorare, pena vedersela togliere. Imre aveva studiato e lavorato, ed era riuscito, aveva avuto un ottimo lavoro. Io ho lavorato, studiato ... e poi mi sono messa a girare in tondo, finendo in questo cul de sac”. “Forse nel mio sacco ...”. “O tu nel mio?”. “O entrambi nello stesso? Per caso ... o per destino. Che importa? Purché ne usciamo ... ma scusami, continua”. “In Banca avevano subito una rapina da titoli a scatola sui giornali. Due milioni di Euro, mentre li stavano consegnando. Tutto era andato bene … cioè … nessuno si era fatto male. C’era ordine di non reagire a rapine a mano armata, ma, quella volta, c’era stato anche un errore da parte dei rapinatori … non si erano accorti che il capo cassiere aveva già avuto in consegna gli stampati con i numeri di serie delle banconote. Era come se avessero lasciato sassolini quasi invisibili … ma non a chi sapeva cosa cercare … dietro di loro. Un paio di settimane dopo erano state intercettate due banconote che risultavano nell’elenco. Ne era venuto fuori un mistero. Le due banconote non erano tra loro collegabili, né lo erano i possessori, che, oltretutto, erano insospettabili. Un vero rompicapo. Più o meno in quei giorni, subito dopo anzi, Imre è andato con la sua segretaria e un cliente di quelli che contano a bersi un caffè, una piccola pausa durante una … trattativa … credo si dica così. Si erano appena seduti a uno dei tavolini, quando sono arrivati tre malviventi … TRE ASSASSINI ….”, Nikolett aveva inghiottito con fatica e con pena le lacrime. “Portavano passamontagna, sono entrati, c’è stata una sparatoria … e hanno ammazzato tutti … tutti … cinque persone … barista, cassiera, i due con mio fratello … e … e lui, Imre. Così … per poche centinaia di dollari. La Polizia non è mai riuscita a spiegare perché i rapinatori avessero sparato. Hanno pensato che qualcuno avesse cercato di opporsi alla rapina, provocando la reazione dei bastardi. Il barista aveva un’arma sotto il bancone, ma l’hanno trovata al suo posto, e poi lui è stato ucciso lontano dall’arma. Imre sì, aveva una pistola … ma l’hanno trovato nella fondina … alla caviglia …, e ancora col cinturino allacciato. Hanno deciso che si era trattato di una rapina finita male. Eppoi Imre e i due con lui li hanno trovati accasciati sulle sedie o riversi sul tavolino … capisci … gli hanno sparato mentre erano ancora seduti … Alla fine hanno chiuso il caso come rapina finita male”. Nikolett si era presa una pausa di silenzio, per riprendersi, e come soffermandosi colma di tristezza su quel “finita male”, che aveva associato alla rapina, ma per lei era sempre e solo associata a suo fratello Imre. “Dopo alcuni mesi è iniziato a emergere qualcosa, di molto più grave e complesso. E’ stato intercettato un numero crescete di banconote che comparivano su quell’elenco, ma, come le prime due, non c’erano elementi … né indizi, non la minima ombra di sospetto, su chi li avesse usati. La Banca, con la Polizia che brancolava nel buio, si era rivolta a un’agenzia privata d’investigazione. Prima ancora che avessero potuto iniziare a indagare ci sono stati altri due morti, ammazzati. Due impiegate della Banca Centrale, quella che aveva inviato i due milioni, derubate, violentate e uccise. I due investigatori, un uomo e una donna, hanno subito sospettato di una rapina cui avevano fatto seguito ben sette vittime, delle quali quattro erano ricollegabili a quella. Anche sulle due impiegate della Banca Centrale nessun sospetto, e nessun movente. Uno degli investigatori … alla fine ... ha detto qualcosa che al momento non avevo neppure capito … mi era sembrata strana: “segui i soldi, cretino!”, e si era dato un pacca in fronte, perché stava dando del cretino a se stesso. Quella di seguire i soldi non l’avevo capita … ma anche gli altri mi sono sembrati scettici … fino ad allora proprio la pista dei soldi s’era rivelata un vicolo cieco …”. Juan aveva preferito non interromperla, anche se avrebbe voluto spiegarle che, molto probabilmente, l’investigatore aveva voluto dire che quei soldi si erano rivelati una pista sbagliata … quindi quasi sicuramente un depistaggio. E ci si sarebbe dovuti mettere sulle tracce di quelli veri. Anche se entrambi erano risultati essere non contraffatti. Quello era il momento di Nikolett, non il suo. “Si sono messi al lavoro e hanno trovato una … consonanza … sì ... sì, hanno usato questa parola”. Juan non aveva potuto sottrarsi, la spiegazione era d’obbligo: “E’ un’espressione gergale, nostra, significa che non è una coincidenza, delle quali comunque diffidiamo sempre, è una connessione. L’ipotesi … meglio … l’intuizione di un nesso”. “Ah, avevo pensato a una cosa simile, ma non precisamente a questa … grazie … comunque. Hanno notato che il capo cassiere e un’impiegata della Banca Centrale erano quelli che avevano avuto in custodia gli elenchi dei numeri di serie delle banconote. E hanno chiesto alla Polizia se i due elenchi coincidevano. Diciamo, per carità, che i poliziotti non avevano nemmeno pensato a quel controllo … e sì che appena i tuoi amici … o colleghi … ne hanno parlato, mi è subito sembrata una cosa che andava assolutamente fatta, e che chi fa indagini dovesse saperlo come l’ABC. In ogni modo i due elenchi coincidevano. Non solo quelli cartacei, anche quelli nella memoria dei computer e dei server. Era sembrato un altro vicolo cieco. Una cosa risultava però chiara: le banconote con il numero di serie in elenco … intanto ne erano saltate fuori altre … erano distribuite in modo disperso, sia quanto ai possessori che quanto alle località … non c’era nessun nesso tra i possessori, tutti risultati puliti, e erano più usate di quanto non avrebbero dovuto essere. Così … hanno suggerito di far analizzare le banconote dall’Unità Scientifica della Sicurezza del Tesoro. Anche qui una figuraccia da andarsi a nascondere. Vabbè che adesso, col senno di poi … ma ti assicuro che già al momento era stato anche questo l’uovo di colombo. Le banconote ricomparse … che poi non erano mai scomparse … quindi non dovrei dire ricomparse … mah, comunque … le banconote facevano parte di quattro consegne di 500.000 Euro negli ultimi due mesi. Tenute “da parte per l’occasione”, cioè per la rapina: erano stati il vero bottino. Quelle dell’ultima consegna erano regolarmente state distribuite dalla Banca alle filiali, e i due elechi scambiati ad arte. Così i rapinatori si erano assicurati il buon esito dell’operazione e la possibilità di usare in futuro i soldi senza rischi. Scomparsi senza lasciar traccia. Quelli scomparsi erano ricomparsi nei normali circuiti, alla spicciolata. Quelli rubati realmente erano ancora nel caveau della banca. Qualcosa però doveva essere andato storto tra loro, o … il depistaggio della Polizia non era riuscito del tutto. Più probabilmente, il trucco non avrebbe retto a lungo, e i complici interni erano diventati fonte di pericolo. Era ovvio che i rapinatori avevano dovuto contare su qualcuno di interno alle due Banche per progettare e portare a termine il colpo. E quei complici interni non potevano squagliarsela all’inglese a indagini ancora aperte. Era anche possibile che gli altri avessero già cominciato a servirsi dei soldi, mentre i due avrebbero dovuto rinunciarvi e non per poco”. Juan: “L’hanno capito, e tra essere incastrati e tentare di squagliarsela con la loro fetta … devono aver messo pressione agli altri. Così hanno eliminato le due talpe … secondo me era già nella pianificazione del colpo, era il punto debole del piano”. Nikolett: “Sì, alla fine questa è stata la conclusione … E non li hanno mai trovati. E’ stata una cosa orribile … terrificante … di un dolore crudele ... atroce. Per tentare ancora di depistare ancora la Polizia, e, a quel punto i tuoi colleghi, hanno fatto una mattanza. Altre cinque persone per eliminarne quante per loro pericolose? Forse uno implicato. Forse anche nessuno, tanto per gettare sabbia negli occhi. E le donne sempre una rapina con stupro. Una cosa barbara … da belve feroci … pazzesca! … E hanno ammazzato il mio Imre …! Come un cane …”. Non era più riuscita a contenere le lacrime, che erano state l’unico modo di difendersi, per quel poco che aveva potuto, dal dolore brutale, struggente e tormentoso dolore; questo che divorò, pestifero sangue, / il pregio e il fior de la latina gente.
PIÙ CHE IL PUDOR ... “Oh, cazzo. Mi spiace veramente. Non avrei dovuto”. Era seguita una pausa silenziosa, ma nessuno dei due era sembrato sentirsi a disagio, commosso sì. Nikolett si era alzata ed era andata a prendere da bere per entrambi. Juan le aveva assicurato che avrebbe potuto raccontargli tutto quello che le fosse passato per la mente, in qualunque momento, senza doversi preoccupare. Le aveva sorriso, aveva bevuto un lungo sorso d’acqua, e non aveva fatto altre domande. “Non meriti di essere così infelice”, le aveva detto sottovoce. Poi aveva scosso il capo: “Possiamo parlare di qualcos’altro? Credo che siamo entrambi stanchi di tutto questo. Possiamo rilassarci e dimenticare tutto per un po’. Se non ti spiace”. Le aveva posato le mani sulle spalle. Non era stata la prima volta che l’aveva toccata, ma questa le era sembrata una volta speciale. L’aveva attirata a sé, un po’ esitante. Non aveva opposto resistenza. Con lui si sentiva al sicuro, era un uomo gentile e buono, la apprezzava e la rispettava. Le labbra di Juan erano piene e asciutte, la sua pelle calda. Era stato un lungo delizioso momento. Nikolett, con un sorriso di dolcezza pieno: “Baciami”. Lui aveva iniziato a passarle la punta della lingua sulle labbra, per poi mordicchiarle. Con la mano le aveva accarezzato il collo e la nuca. Erano stati stretti nell’abbraccio sentendo di desiderarne ardentemente quel contatto. Non erano riusciti a resistere, e si erano lentamente adagiati sul letto. Juan si era chinato a baciarla di nuovo, e lei l’aveva attirato a sé, d’impulso, senza neppure ben capire costa stesse accadendo. Affondando le dita nei suoi capelli. Juan l’aveva trattenuta ancora in quel lungo, languido, appassionato bacio. Le aveva posato una mano sulla coscia, ma lei l’aveva scostata. Si stava trattenendo nel dubbio e nel timore che stessero per imboccare una via insidiosa, e aveva cercato conferme nell’atteggiamento di lui. Anche lui le era sembrato deciso a non farsi travolgere. Aveva ripreso a carezzarle il volto, il collo, la nuca, e lei non aveva trovato motivo per non permetterglielo. Aveva sentito Juan ripercorrere le sue gambe con la mano, l’una dal polpaccio fino al sedere; poi l’altra, quella sul lato dove si erano appoggiati, dal ginocchio fino all’inguine. L’aveva sentita, attraverso la stoffa, fermarsi lì, e muoversi, senza premere né strofinarsi. Un movimento circolare del polso, col palmo della mano semplicemente appoggiato lì, come lo si posa su un braccio o su una mano. O su un fiore che si vuole sfiorare senza nessuna intenzione di coglierlo. A Nikolett era accaduto di sentire il suo corpo sussultare –chiedendosi, ma solo per un istante se anche Juan l’avesse percepito- e il respiro farsi corto. Improvvisamente, senza curarsi d’altro, aveva iniziato a spogliare Juan, aspettandosi che lui facesse altrettanto. L’avevano fatto iniziando a frugarsi l’un l’altra in fretta, senza fiato, timorosamente, come se ciascuno cercasse nell’altra un nascondiglio, come se il piacere che stavano godendo fosse appartenuto ad un altro cui lo stavano rubando. Gli si era abbandonata scorgendo, nei lineamenti sfocati per la vicinanza, il corpo di Juan chinarsi su di lei. Sdraiata sul letto gli si era offerta, tutta quanta, senza riserva, nei suoi seni, nelle sue parti più intime, e lui aveva sentito che il mondo sarebbe continuato nel tepore delle sue labbra e delle sue pieghe. Nikolett gli aveva posto la mano sul cuore, sulla pelle nuda. Lui l’aveva ancor più attirata a sé, e, stringendola, l’aveva baciata sulla nuca. Alla fine, col fiato corto, si erano voltati di fianco uno di fronte all’altra. Il volto di lei si era fatto rosso, i capelli scarmigliati, la bocca umettata e socchiusa. Gli occhi, profondi e brillanti, lo avevano fissato incantati e a loro volta incantevoli. Nikolett si era sentita anche sopraffatta dall’imbarazzo mortificante di rimanere lì, immobile per la forte emozione, senza sapere come muoversi, come da troppo amor costretta condursi. Aveva sentito le mani di Juan tornare a muoversi con carezze di sensualità tenera, lungo le gambe, e così suasive nel fargliele scostare perché potesse divenire più intime. Aveva sentito aumentare l’eccitazione, e, insieme, lo smarrimento. A fatica aveva trattenuto l’impulso di scivolar via e sottrarsi. Poi aveva sentito le labbra di Juan posarsi sulle sue gambe, baciandole, ripetendo l’andamento lento che avevano percorso le sue mani, per poi tornare a farlo ancora, questa volta con la lingua. Un calore quale non aveva mai provato era andato montando dentro di lei, fino a sciogliere il suo blocco. Non, però, la trepidazione. Era molto piacevole, anzi … ma lui cosa stava facendo? Lei cosa avrebbe dovuto fare? Non aveva avuto grandi esperienze, anzi … giusto una. Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno. Nikolett si era sentita scossa da un’eccitazione che l’aveva turbata, e aveva pensato che avrebbe provato quel godimento assoluto di cui tanto aveva sentito parlare. Era arrivata al culmine in modo inaspettato, con un urlo soffocato di sorpresa e piacere intenso. Juan, invece, si era fermato di nuovo, l’aveva fatta ruotare a distendersi sul ventre, e aveva ripreso e continuato a farle tutto quanto le aveva già fatto, supina. Era rimasta allibita e confusa da quello che lui le stava facendo vivere, che aveva trovato incantevole, seducente. Stava dandole piacere e traendolo da tutto il suo corpo, da sensibilità che neppure aveva saputo esistessero, e che andavano oltre il sensuale, perché, aveva concluso, se era tutto, ma tutto il suo corpo a essere oggetto della sua attenzione e del suo desiderio, e stava facendo in modo che lei gli rispondesse con ogni centimetro quadrato di se stessa, era la sua intera persona ad essere amata, non solo quelle parti che aveva sempre visto essere come le uniche cui i maschi fossero interessati, e per piacer loro, poco nulla curandosi di quello dell’altra. Aveva avuto un sussulto di sorpresa, di apprensione e di smarrimento quando aveva sentito la lingua di Juan giungere a muoversi nel solco del suo fondoschiena. No, si era detta, non può volerlo fare lì. Non è possibile arrivi a tanto. Gli piacerà tutto di me, ma … insomma … in quel punto … come poteva trovarlo piacevole!?. Si era sbagliata, irrigidendosi quasi con ritrosia, quando aveva sentito la punta della lingua fermarsi proprio lì, e ripetere quello che già le aveva fatto tra le gambe. La coscienza di sé, che già si era attenuata, ora si era smarrita, intorpidita, di più, era naufragata. Sconvolta nel profondo dal fremito che la stava agitando tutta, trattenendosi e desiderando che si la faceva stendere supina, e si sdraiava su di lei, introducendosi a poco a poco, con attenzione e cautela.
OPS!!! Quando aveva avvertito un ostacolo, si era subito fermato: “No …”, aveva detto a se stesso sentendosi a disagio, turbato. Poi a lei: “ … non sono riuscito a trattenermi … Scusami!”. Juan si era ritratto e messo a sedere sul letto: “Non succederà nulla che tu non voglia … è una promessa ...”. L’aveva detto alzando entrambe le mani all’altezza delle spalle, in segno di resa, ma anche a significare che sarebbe stato tanto obbediente e tanto servente. Nikolett era più allibita e imbarazzata di lui. L’amore l’aveva già fatto. Sì, una sola volta, comunque non avrebbero più dovuto esserci ostacoli. Cos’era quella cosa in cui Juan si era imbattuto, e anche lei aveva sentito resistere alla sua penetrazione? Era arrossita, vergognandosi, non sapeva di cosa e per cosa, ma proprio in quello stava il suo senso di imbarazzo, il suo sentimento di profondo turbamento e di mortificazione. Per togliersi dall’impiccio, con un sorriso d’allegrezza pieno, gli aveva chiesto: “Baciami ancora”. Aveva risposto al suo bacio come volesse esserne consumata totalmente. “Sei sempre così perbene, scrupoloso, riguardoso?”. Juan aveva riso di buonumore: “Non è una domanda da rispettabile signora …!”. Si era finta risentita di quella risposta: “No … dico sul serio … cioè …?”. Juan si era di colpo rabbuiato, anzi, intristito, e non aveva risposto. Nikolett aveva visto delle lacrime riempirgli gli occhi, e scivolare sul suo volto, senza che lui ne provasse vergogna o tentasse di nascondergliele, era anche lei scoppiata in lacrime, e l’aveva stretto a sé carezzandolo dolcemente, come un bambino cui togliere paure e placare ansie. Avrebbe voluto che lui le dicesse di più, si confidasse con lei. Aveva pensato che probabilmente la sua era stata una pretesa egoista e indiscreta. Indelicata, anzi. Tutto, ora, anche in Nikolett esprimeva una grande tristezza, una sfinitezza. Non era assolutamente, nemmeno minimamente, il pensiero che potesse sfumare la sua audizione con il maestro. Si era veramente innamorata di quell’uomo entrato per caso nella sua vita?! E ora non voleva che ne uscisse? Era stupida, se aveva potuto anche solo pensare che se avessero fatto l’amore si sarebbero legati in modo definitivo … Era stata una pretesa infantile … se mi prendi non mi lasci più. No, se anche Juan fosse stato innamorato di lei questo suo modo di comportarsi avrebbe dovuto esserle molto caro … e non credeva proprio che lui cercasse solo la botta e via … era stato pur sul punto di averla … e non era stata lei a trarsi indietro … Era veramente un uomo molto complicato … Erano rimasti così, raggomitolati nel loro abbraccio e nella struggente melanconia. Quando erano usciti da quel torpore, quando erano tornati dal viaggio nel passato o nell’impossibile, erano rimasti lì, Nikolett aggrappata a Juan, finché lui, con delicata dolcezza, si era mosso per scivolare via da quell’abbraccio.
Niki avrebbe voluto veder se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato, sentendosi come avesse subito una violenza, ché violenza è quando quel che pate niente conferisce a quel che sforza. La sua stanchezza le era parsa svanita. Se ne era sentita sopraffatta, ma ora tutte quelle ore erano come scomparse nel mondo dell’irrealtà. In quel momento si era solo sentita essere accanto ad un uomo misterioso, e a suo modo affascinante, ad aspettare che si aprisse. Le era sembrato tutto così distante, che aveva pensato che nulla avrebbe più potuto meravigliarla. Quel giorno stava portando con sé un meraviglioso forse. Aveva sentito come fosse sempre in agguato la paura della delusione. Tantomeno le stava piacendo la pesante goffaggine che sembrava essersi impossessata di lei. Juan non era un cinico, lei l’aveva percepito chiaramente. E neppure uno scettico. Da quando lo scettico è l’uomo onesto che si rifiuta di credere al bugiardo? Cercava di farsi passare per tale, sforzandocisi in tutti i modi. Non le era chiaro quale fosse per lui lo scopo di tutto ciò. Si era anche chiesta, e con maggior empatia, cosa sarebbe successo se Juan avesse manifestato la sua umanità, il suo affetto, le sue debolezze come anche il suo stoicismo. All’improvviso aveva sentito un moto di tenerezza nei suoi confronti, e nello stesso tempo aveva avuto la certezza che quella storia non avrebbe avuto un lieto fine. Per un attimo si era sentita profondamente rattristata. D’altra parte, perché mai quella storia avrebbe dovuto avere una fine? Lieto fine non era semplicemente un altro modo per dire che il film si chiudeva perché non c’era più nulla da dire? Che tutto si fermava, che l’avventura era finita? Quando Juan sarebbe ripartito, da quel momento in poi, la sua sarebbe divenuta un’esistenza borghese e tranquilla, con un futuro già prestabilito fino all’ultimo respiro. Commovente e vergognosa aveva sussurrato a se stessa, o, chissà, forse a Dio: ‘Non si può fare che io scompaio?’. Con quel tarlo nella mente, e con quell’angoscia nel cuore, si era fatta un po’ ombrosa. Inaspettatamente Nikolett aveva provato uno strano distacco nei confronti di Juan. Non nasceva tanto dall’esperienza, quanto da qualcosa di non detto, e dalla paura che qualcosa potesse mettersi tra loro, e ricreare la situazione che Juan aveva appena evitato. Con la differenza che, a quel punto, le sarebbe mancato qualcosa di cui prima non aveva sentito il bisogno. Per quanto le premesse continuare da dove lui si era fermato, e far diventare vero ciò che aveva prima considerato un prezzo da pagare, e ora desiderava con tutta se stessa, ora le sembrava più inopportuno che mai. Era rimasta lì, indecisa su cosa fare. ‘Sii disinvolta. Non è niente. Non hai preso nessun impegno. Come ha detto lui, non c’è nulla che debba accadere per forza’. Da una parte Nikolett avrebbe seguito Juan molto volentieri. Nello stesso tempo le era sembrato impossibile. Era pazza? Che doveva fare? Se non fosse andata con lui, ci sarebbe stato il rischio molto concreto e imminente che tutto per lei fosse rimasto un sogno, che tutto si fosse allontanato di nuovo. Non era solo la delusione in agguato. D’un tratto si sentiva bloccata, la disponibilità e leggerezza che avevano dominato i suoi pensieri si erano dileguate, lasciando il posto ad una vuota percezione della realtà. La stessa che faceva sempre scivolare via i suoi sogni al momento del risveglio. Le ultime quarantott’ore sembravano scomparse nel mondo dell’irrealtà. In quel momento era semplicemente accanto a un uomo affascinante, ad aspettare che la congedasse da un momento all’altro. Sembrava tutto così distante. La notte, quello che si erano raccontati nel letto, il loro tergiversare, l’eccitante rinuncia. La notte aveva portato con sé un meraviglioso forse. Ora s’imponeva un sì o un no?. Qualsiasi esitazione, sua o di Juan, l’avrebbe annientata. Non avrebbe voluto nemmeno sapere perché esisteva.
PERPLESSITÀ. Juan, stava percependo con evidenza che qualcosa non andava come lei se l’era immaginato, previsto. “Sei arrabbiata?”, la stava guardando. Lei aveva scosso il capo: “No … nessun problema …”. “E pretendi che ci creda? Dài, sputa il rospo”. Niki aveva preso il coraggio a due mani, rammaricandosi di averne solo due. Metaforicamente, va’ da sé. “E’ una cosa che ho pensato ... su te e Schiller … non è che mi stai nascondendo qualcosa? … Com’è possibile per te essere un critico, e un giornalista, e … soprattutto … per quel mi riguarda, essere e restare in buoni rapporti con i colleghi … con Rich … e nel contempo fare il lavoro che fai? Sei il numero due di una società di contractor … sempre in giro, sempre in pericolo … E’ un dubbio così atroce, incontenibile, incontrollabile, che non ho potuto fare altro di arrovellarmicisi, e ora chiederti …”. Non c’era voluto nulla perché lui capisse tutto il significato di quella domanda, così che si era trattenuto dalla risata svagata che era stata il suo primo impulso, e le aveva spiegato, parlandole in modo tranquillo e rassicurante: “Innanzitutto, per fugare i tuoi timori più … fondati, e, credo, quelli che più temi, io non sono più un agente operativo sul campo, questo è impossibile ormai per me. Sono un analista investigativo, un aanalista di intelligence, un analista tattico … scegli il termine che preferisci. Qualcuno mi chiama agente accademico, e sono sicuro che per pochi è un complimento, i più lo usano per prendermi per il culo. Io replico sempre che se uno deve finire in galera, o magari per farsi sparare, pensa che tanto vale sia per mano di un agente con laurea e dottorato. Non so … potrei dire che sono un profiler di situazioni di crisi internazionali … di un certo tiopo. Sono anche consulente del Dipartimento della Difesa … non so che dirti di più …”. Niki sembrava a mezzo convinta e sollevata, a mezzo con riserva di ulteriare verifica, “Per ora mi hai abbastanza confusa, sentirò anche la tua capa … o qualsiasi cosa sia per te …”. Juan aveva subito sollevato una mano per interroperla: “Ti prego solo di non fare troppe domande … insomma, va’ beh, te lo dico, ma rimanga una segreto … sto pensando di dar vita a un piccolo servizio di … supervisione comune a più società come la SOE … ti prego di non mettere pulci nelle orecchie con le tue domande … te ne prego con calore, anche per te … cioè, per noi”. Questa confidenza, nel doppio senso della parola, di affidare un segreto e di fidarsi nel farlo, aveva convinto e commosso Niki, che a quel punto si era scordata degli altri dubbi. Juan no, voleva chiarire fino in fondo. “Quanto al giornale, oggi i giornalisti, soprattutto editorialisti e critici ... ma tutti in genere ... beh, con l’eccezione dei fotoreporter di guerra, quelli che stanno al fronte e rischiano la pelle, e ce la rimettono anche, possono lavorare anche restando dietro una scrivania. Lavorano sulle notizie d’agenzia … guarda … l’inviato speciale del più importante e diffuso quotidiano di questo Paese, ha un inviato speciale nel Golfo, che firma come inviato speciale nel Kuwait … ma non si è mai avvicinato a quella zona del mondo …. Riceve tutte le notizie dalle Agenzie stampa di colà, le ingurgita, digerisce e ... butta fuori un collage di pezzi di terza o quarta mano”. Nikolett era scoppiata a ridere divertita, fissandolo negli occhi. “Non ti sembra di essere un po’ eccessivo e ingiusto ?”. Juan aveva preso tempo per rispondere, cercando di non perdersi nei suoi occhi. “No, quell’ … inviato speciale … ha l’esclusiva di dette agenzie ... e ... ecco, forse capisci meglio così ... Ti sarà capitato di trovare lo stesso articolo, … su giornali diversi e sotto firme diverse ... ma simili, a volte con qualche variazione sul tema, a volte invece proprio identici, con le stesse frasi, gli stessi dati, gli stessi errori, le stesse espressioni. Lo stesso titolo?”. “Questo sì … usano le stesse agenzie... ? Ma mi hai appena detto che ne hanno l’esclusiva ...”. Juan: “Esatto! Però gli stessi pezzi di agenzia, vengono comprati o scambiati con altre Agenzie, di altre zone e Paesi, sui quali altri hanno un’esclusiva ... Non sono però gli incidenti di percorso più temuti. Che sono invece le buche … che si prendono quando gli altri pubblicano una notizia che o è proprio sfuggita … o è stata sottovalutata e passata sotto silenzio … Perciò, meglio passare per copioni che bucare ... quelle sono mazzate sui denti. Ciò che invece importava, e dovrebbe ancora veramente importare nel nostro mestieraccio sono le parole, incastonate, radunate per viaggiare contro la morte e resistere al gelo, alle bombe, alle epidemie. Neppure i peggiori dittatori sono mai riusciti a far arrestare Don Chisciotte per gettarlo definitivamente, zavorrato con dieci chili di cemento ai piedi, in fondo ad un lago. O al mare. Scripta manent, e resistono al tempo come le rive del mare. Nel Mediterraneo, gli scogli e le coste frastagliate sono cambiate poco da quelle di Omero, sono scomparse solo schegge di quarzo e di silice, come se scomparisse dall’ Odissea qualche lettera qua e là, slavata via dalle maree”. Nikolett aveva fatto l’atto di applaudire, senza però arrivare a battere le mani, con una strana aria irascibile: “Bravissimo … sei un poeta, ma ancora una volta non mi hai detto di te e Rich … non è che mi stai nascondendo qualcosa? … magari che non lo conosci, perché non metti mai piede in redazione? … o anche qui farai fare a quello che usa il tuo pseudonimo?”. Era stato un crescendo, e aveva terminato con il volto paonazzo. Juan era sinceramente divertito, ma aveva capito che se si fosse lasciato scappare anche un sorriso Nikolett l’avrebbe potuto interpretare come un atto di scherno, di derisione: “Oh! scusami … sì, hai ragione, non è il giornale la causa efficiente della nostra … non so come dire … Rich e mio padre erano cugini … ah, giusto … erano perché mio è morto …”, aveva visto gli occhi di Niki diventare umidi, non avrebbe saputo dire se per il ricordo di suo fratello, o per pena verso Juan, “… ma erano più che fratelli. Stessa fede politica … sono fuggiti insieme arruolandosi nel Tercio … poi avevano potuto ricominciare una nuova esistenza. Rich è … è … è Rich! …”. Nikolett gli aveva sorriso con la stessa gioia con la quale un bimbo si sorprende nello scoprire l’acqua calda … che per lui resta comunque un notevole progresso. “Ti avanza ancora qualcuno dei tuoi meravigliosi baci?”, con l’aria di un gatto che sta per mangiarsi l’usignolo. Il suo sguardo l’aveva catturata. Si sentiva attratta da lui, e nello stesso tempo capiva che lei stessa lo attirata. Niki sentiva la sua rigidità allentarsi e sciogliersi come neve al sole. Solo in quell’istante si stava rendendo conto che tutti i suoi muscoli erano contratti. Aveva sorriso, e si era abbandonata contro di lui, chiudendo gli occhi. Ecco che le tornava il freddo bollente. “Puoi avermi tutta per te in un unico bacio ... diciamo lungo almeno un’oretta”, gli aveva sussurrato. “Che mi dici, invece, di una piccola eternità?”, aveva replicato lui. All’improvviso tutto era ritornato: il batticuore, l’eccitazione ... il tempo era di nuovo dalla sua parte.
Il pomeriggio, quando già si era andata facendo rapidamente sera, Nancy e Tirso erano scesi al bar. Seduti su un divano molto confortevole, attendevano le loro ordinazioni, e a Juan, non sapeva lui nemmeno perché, era ritornato in mente un vecchio episodio dei suoi esordi da critico tearale, che aveva voluto raccontare a Niki. “E’ sempre a causa del successo dei romanzi che il cinema piomba loro addosso. Contrariamente ad un pregiudizio diffuso, i produttori sono persone che leggono quantità enormi di romanzi. Non ne parlano, perché sono colti e discreti, ma sognano di adattare allo schermo le più grandi opere letterarie. Cento anni di solitudine, L’educazione sentimentale, L’Uomo senza qualità, Alla ricerca del tempo perduto ... Si capisce che i film ad effetti speciali, cui pure sono affezionati per ragioni di cassetta, non sono i loro preferiti. Avendone conosciuto qualcuno, posso dire che parlano di letteratura correntemente e citano i migliori dieci romanzi delle classifiche più accreditate. In genere più che i migliori sono i più venduti, ma, alla fine, è sempre questione di cassa. Quelli di teatro hanno invece i testi già bell’e pronti, li conoscono già, ma devono trovare registi e interpreti perfettamente ad hoc per ogni lavoro. E non possono limitarsi a quelli in circolazione. Hanno pubblici esigenti, che pretendono sempre di più e di meglio, così devono continuamente setacciare le scuole, le accademie, soprattutto come quella di Rich. E ne dipendono anche. Dipendono dal giudizio del maestro, è lui che sceglie chi è pronto, e per far cosa. E i contratti che si firmano hanno clausole precise, quasi capestro su questo. Così, quello che veramente conta, non è avere un buon agente, ma chi abbia la chiave per aprire l’accesso a uno di questi maestri. Fossero già capaci e da Oscar, è sempre il maestro che apre le vere stade della carriera e del successo. Tu, del resto lo sai benissimo”. Niki era leggermente arriossita. “Una sera, ad una cena dopo una prova generale, riservata ai critici, di una piéce d’avanguardia,”, aveva pronunciato quella parola come si trattasse di una cosa indecente, “per me assolutamente demenziale, era seduta vicino a me Ina Rivachs, finlandese. Una ragazza molto molto bella. Ma, bastava guardarla, con un’ idea tutta sua della sensualità. Canottiera, salopette, uno spolverino di pelle nera indistinguibile da quello di un uomo, stivaletti pesanti. Aveva una naturalezza indifferente. che metteva in rilievo la fragilità del corpo, la tenerezza della pelle chiara. Un viso strafottente, dai lineamenti aggraziati, il corpo nervoso. La avevo subito definita una monella, alla quale qualcosa era andato storto fin dall’ infanzia e l’ aveva resa cattiva. Alla fine degli antipasti si era chinata verso di me, mi aveva chiesto con uno sguardo ammaliatore: “Trova bella?”. Avevo frainteso che parlasse dell’opera, se così si poteva chiamarla. Non mi ero trattenuto dal risponderle che l’avevo trovato bruttina, insulsa. Si era raddrizzata, irritata e offesa, rigida, e non mi aveva rivolto più la parola per tutta la cena. Solo alla fine aveva chiesto: “Dove scrivi?”. Quando avevo fatto il nome del giornale aveva avuto un sussulto “Ah !”, aveva esclamato. Le avevo chiesto se parlasse inglese, francese o spagnolo, le lingue che conoscevo bene. Si era illuminata. “Preferisco l’inglese”. E aveva voluto sapere se già avevo scritto qualcosa su quel tipo di … opere teatrali. Non avevo osato dirle che non ricordavo neppure che esistesse quel genere ... e che avevo intenzione di passare l’invito per la prima a un collega alle prime armi, che doveva farsi le ossa, e accettava di buonissimo grado ... di tutto. Per glissare le avevo fatto notare, abbastanza solennemente, che non tutto si adatta al teatro. C’erano scene di nudo che in un film potevano anche risultare efficaci, riprese da diverse angolazioni … con sfumature, dissolvenze ... ma sul palcoscenico … mi erano sembrate assolutamente gratuite, incongrue. Inutile dirti che le interpretava lei. Mi aveva risposto che ci sono generi differenti, ma quella è la sfida, tentare l’impossibile. Mi aspettavo che mi desse del vecchio parruccone retrogado. Deve aver avuto pietà”. Niki aveva sorriso. “Le avevo domandato dei suoi progetti. Mi aveva spiegato che tutto dipendeva dalle recensioni alla sua parte, e che, comunque, lei aveva il migliore degli agenti. Devo confessare che mi ero un po’ impuntato, così le avevo spiattellato nudo e crudo come si illudesse, come stavano le cose veramente. Come le ho dette a te, prima. Lei mi aveva sfidato, provocato, o forse preso in trappola: mi aveva chiesto di farle un esempio”. “E tu le hai detto di Schiller!”, Nikolett sembrava irritata e … gelosa. “No, non sono così stupido, nemmeno quando voglio essere stupido. Le ho fatto il nome del terzo grande maestro Jay Allen. Mi aveva guardato, in attesa del mio responso, cioè se intendevo presentarla a Jay o no, esibendo un sorriso che brillava di mille fuochi. Aveva voluto il mio numero di telefono, “Dobbiamo parlare ancora”, mi aveva detto. Le avevo dato il mio biglietto da visita. Lei aveva strappato un pezzo dal biglietto e vi aveva scritto il suo numero. Me lo aveva porto con un sorriso e mi aveva richiesto, se la trovavo davvero bruttina. Forse era perché ero abituato alla bellezza mediterranea, e lei era un scandinava, anzi finnica, anzi ancora, una sami. Solo allora mi ero accorto della mia gaffe. Avrei voluto sprofondare. Per rimediare le avevo detto che la trovavo non bella, ma stupenda. Il suo sorriso si era accentuato: “Sei un grande bugiardo, esattamente come Velazquez”. Ero rimasto senza parole. E senza capire esattamente il significato delle sue. Sicuramente si riferiva a una delle scene di nudo della piéce, in cui si riproduceva la Venere allo specchio di Velazquez. Ma di più ... non sapevo. Avrei capito solo più tardi. L’avevo incontrata di nuovo, per un invito a casa sua: un tè e un’intervista. Era tutta fatta di stranezze, un viso di storie mischiate, e lo sguardo inquisitore che solo una ragazza possiede. Mi aveva chiesto la mia età. Le avevo mentito, non so perché, ero molto giovane. Non quanto lei, ma … insomma. Non avrei dovuto farlo. Ma era andata così. Mi aveva chiesto quante donne avevo avuto. Non avevo voluto parlare di donne. Le conoscevo poco, le avevo confessato, e non avevo buona inventiva.
D’ altra parte, con loro, non avevo scelta, non potevo che inventare, perché non avevo diritto che alla loro superficie. Io ero lì solo per scrivere di lei, fotografarla, scoprirla. Attrice in carriera, non donna. Non era bello da dirsi, ma tu lo sai quanto me, prima che all’arte guardano al corpo, e la situazione può anche degenerare e finire tutta a pecoreccio. Beh, poi, le avevo detto, l’avrei guardata partire, un giorno, piena di un mistero con cui si prendeva gioco di me, ma che mi aveva preso tanto che avrei dovuto inventarmela perché la vita valesse la pena di sopravvivere. In effetti, era semplice: c’era chi sogna e chi era sognato. E a nessuno era mai spiaciuto di vedere in continuazione delle cosce sfilare nella sua testa. E le smorfie, la peluria delle nuche. Le gambe allungate che si schiudevano senza dover insistere, che si scostavano per connivenza. Fianchi e seni, profumi che restavano sulle dita e che si conservavano nella memoria come il marchio del segreto. All’ inizio c’erano solo le labbra, poi venivano le parole, poi ancora subentrava il silenzio degli sguardi. Si sapeva che era così, sempre, ma era un copione al quale si teneva. Quasi sempre. D’ altra parte, nel momento in cui me l’ aveva chiesto, stavo pensando a tutt’ altra cosa. “Sei un grande bugiardo, esattamente come Velazquez”. Era la stessa frase della sera in cui ci eravamo incontrati. Ed era proprio a Velazquez che stavo pensando quando mi aveva chiesto della mia età, e delle mie donne. Avevo avuto l’ occasione di rivedere il quadro di Velazquez, ma non avevo capito il giudizio dato da Ina. Glielo avevo detto. Ne era rimasta entusiasta, per la mia ignoranza. Mi aveva fissato: “Velazquez raffigura Venere allo specchio nuda, dipinta di schiena, adagiata su un letto, una gamba sulle coltri, l’ altra poggiata a terra. In primo piano i suoi fianchi, le sue natiche. Il viso è girato verso il pittore. Un paggio regge uno specchio perché lei possa vedersi in volto, ma…”. Quell’ immagine mi era esplosa nella mente. In quel momento mi era apparso con tutta evidenza che Velazquez aveva mentito. Un’ intuizione fino ad allora sepolta, e che si era liberata alle parole di Ina. Il paggio presentava lo specchio orientato in modo tale che era il sesso della dama che si sarebbe dovuto vedere riflesso, e non il suo viso. Al contrario di Hitchcock che non amava le donne che portavano il loro sesso in volto, Velazquez, senza dubbio, amava quelle il cui sesso era un volto. Ok, avevo ammesso che avevo ragione lei per il quadro. “Ed è proprio questo uno dei messaggi della nostra rappresentazione: la menzogna messa lì, sotto gli occhi di tutti, ben in vista … ma che nessuno vede, perché hanno detto loro che devono vedere altro. Nessuno usa la sua testa, nessuno osa opporsi al giudizio comune … Allora? Sempre bruttino?!”. Non gliela avevo data vinta, anche perché non aveva colto il pumto, “No, ancora peggio, perché, anche se ho visto la prova, dove nelle scene di nudo eravate vestiti, e fa differenza, il pubblico non vedrà altro che quello che tutti hanno sempre visto. Ripeto, non ho visto la scena reale, ma mi è facile sapere che, anche nelle migliori posizioni, nessuno vedrà il … il tuo sesso nello specchio. E anche se fosse, penserebbe a una prospettiva diversa a quella del quadro, sbagliata sul palcoscenico rispetto al dipinto”. “Ma”, l’aveva detto con tutta la malizia e la sensualità possibili insieme, io ho una bella pelliccia ... e per buona misura ci metterò un ... un toupet di scena.”, Niki si era portata una mano alla bocca per trattenere una risata che sarebbe suonata troppo sgangherata. “Eppoi, sullo sfondo sarà proiettato proprio il dipinto, enorme …”. “Peggio ancora! il dipinto è a due dimensioni, vedranno quello che hanno sempre visto … dalla platea, con prospettive già da sotto verso sopra, poi dirette, oblique, vicine, lontane, parziali … ma figurati … farete un buco più grosso di quello della Fossa delle Marianne”. Nikolett sembrava molto soddisfatta. “No, non è possibile!”, “Avete provato a fare foto del palcoscenico, durantela scena, dalle diverse angolazioni? Se no fatele … sono pronto a scommettere quello che vuoi. Anzi, ci scommetto il presentarti o meno a Jay Allen”. “Perché non una notte di sesso sfrenato con me?”. “Perché se ti evito una prima da flop con massacro della critica, e ti presento a Allen, notti di sesso sfrenato me le concederai comunuqe. Se invece manderai tutto a puttane, dovrai farlo perché ti aiuti a uscirne”. Niki l’aveva fissato, ironicamente scandalizzata, “Ma ... lo pensavi veramente? Non mi ero accorto fossi così ... così porco!”. Juan aveva respinto al mittente, “Figurati! Era il solo linguaggio che potesse scuoterla, farle capire che la mia critica era seria, anzi serissima ... il contorno era però d’obbligo, perché riuscissi efficace. In ogni caso mi aveva chiesto se, avendo la mia attrezzatura fotografica, era possibile fare lì una prova, se me la sentivo. In fondo non eravamo a teatro, ma posizionandomi io, anche sdraiato a terra, avrei potuto riprodurre abbastanza bene gli angoli e le prospettive di visuale del pubblico, comunque abbastanza da farle capire. Avevo potuto solo obiettare che mancavano il putto e lo specchio. Era scossa, spaventata. La sua voce era incerta, tremante, quando mi aveva replicato, “Nessun problema”, un tavolino e uno speccio tolto dalla parete dell’ingresso avevano fatto da sostituti. Avevamo sistemato tutto per bene, seguendo una copia del dipinto e i bozzetti di scena che lei aveva. Senza che glielo avessi chiesto si era spogliata completamente. Beh, spogliarsi doveva, per verificare, ma poteva tenersi reggiseno e mutandine … comunque, almeno, mi aveva risparmiato il toupet. Ah, se non ricordo male, mi ero chiesto a che servisse ... ce n’era già ad abundantiam”. “Più o meno della mia? A te come piacciono?”. ‘Oh cazzo! ma guarda se è questo il tipo di domande che mi devo sentir fare. Sto raccontando una storia seria, un aneddoto da “vita di giornalista”, e l’attenzioine va tutta al pelo pubico’. Non aveva potuto esimersi: “Come la tua, nessuna. E’ ... la densità perfetta, perfetta arricciatura, diametro, morbidezza ... non ci sono paragoni”. Lo stava inzigando con metodo e con un pizzico di malignità. “Bene, con le mie Nikon avevo fatto del mio meglio. Avevo usato quelle digitali, anche se preferisco le altre … così avevamo potuto subito avere un’idea, visionandole sullo schermo del suo PC. Come avevo annunciato, lei aveva ragione, guardando lo speccio stando alle sue spalle; ma gli spettatori avrebbero visto una quantità di scene diverse, e incomplete, e il loro punto di riferimento sarebbe rimasto il quadro sullo sfondo. Si era afflosciata, aveva perso tutte le forze, e, così mi era parso, tutte le speranze: una scena madre saltava. Ed era la sua scena madre”. “E tu?”, ‘Ancora! Inizio ad essere irritato. “Un po’ mi sentivo in colpa, ero stato io a disilluderla … e per ripicca. Mi sentivo in obbligo di fare qualcosa. “E cosa ti sei inventato?”. ‘Cazzo, perché una donna deve sempre considerati subito un suo possesso? Gelosia reatroattiva, niente di più illogico … isterico’. “Ho suggerito una soluzione, l’unica che mi era venuta al momento. Rifare le foto in teatro. Poi, sullo sfondo, proiettare, abbibate, il quadro e le foto. Prima quella che riproduceva esattamente il quadro, poi le altre, sempre in accoppiamento. Alla fine quella di spalle, vicinissima, per finire con solo quella che prendeva tutto lo schermo. Avrebbe dovuto convincere il regista e avrebbero dovuto lavorarci tutta la notte, usando come indicazione le mie foto. “Geniale”. “No, zappa sui piedi … per non dire sugli ... attributi … ha voluto assolutamente che facessi io le foto”. “E tu naturalmente, a una bella attrice giovane. A gnocca libera, con toupet o senza …”. ‘Sta cominciando a farmi incazzare, un’altra osservazione del genere e scatta il va’ da via ‘l cù’. Non aveva poturo dirlo, e neppure che, allora, qualcosa negli occhi di Ina si era dilatato fino a far loro invadere la superficie del suo viso. Non aveva potuto, lui, fare a meno di guardarla fisso. Ina lo guardava con aria divertita, piena di profonda impertinenza. Se aveva imparato a farlo, era da Oscar. Più si guardavano e più si rendeva conto che i suoi occhi erano una porta attraverso la quale accedere al centro dell’ universo, e che avrebbero potuto caderci dentro per andare alla deriva nello spazio stellato fra galassie, nebulose, spirali, ed universi isolati. Anche Ina teneva gli occhi fissi sui suoi, per trasmettergli il loro messaggio d’amore … o di quello che era … seduzione, profferta per ottenere quello che voleva … puro desiderio ... risucchiandolo fino a dargli le vertigini. E comunque volgesse lo sguardo i suoi occhi lo seguivano, amabilmente ma ostinatamente. Con la sua faccia strafottente dai lineamenti aggraziati, con il suo corpo sorprendente, gli scaldava la testa e gli scioglieva l’ anima. Ina era una ragazza già donna, giovanissima, bellissima, ma, come dire, acerba. Se ne infischiava delle passioni che provocava. Su di lei non si poteva mai giurare né contare. Aveva comportamenti sempre devianti, spiazzanti, imprevedibili. Mescolava desideri ardenti e gelide distrazioni, calore ed indifferenza, atteggiamenti di autocancellazione e scatti d’ indipendenza. Nessuno poteva tenerla sotto controllo e l’imprevedibilità era la sua forma, particolarissima, dell’ essere fatale. Fatale anche a se stessa. La bellezza che Ina andava cercando non aveva più come riferimento l’ uomo, rivelava una spietatezza verso di sé, che applicava fermamente nell’inseguire il proprio ideale personale di perfezione. Estrema anche con il proprio corpo. Era l’ antitesi dell’ideale corrente di aspirante attrice, ciarliera, con seni prorompenti, labbra pneumatiche, abiti a guaina per un esibizionismo da bordello, enfasi provocatoria ed irridente. Alla fin della fiera, i cambiamenti di scenario erano stati un successone, ed il merito era andato tutto a lei. Non avevo voluto neppure saperne di comparire o essere anche solo citato in un ringraziamento ... o altre cazzate del genere. E lei era completamente cambiata. Aveva improvvisamente deciso, con uno di quelli che, avrei imparato, erano i suoi normali cambiamenti, di non fare più l’attrice, voleva divenire scenografa e forografa di scena. E io, va’ da sé, avevo ad esserle da maestro. Il giorno che me l’aveva comunicato, non chiesto, i suoi capelli cercavano di esser pari ai riflessi arancio sulle cime delle montagne. Un giorno d’inizio inverno, limpido, secco, senza promesse. Un giorno nel quale le questioni di cuore vertevano più sulla capacità di pronunciare e restare ai patti, che su quella di fare fatti. L’ amore non era il luogo dei complimenti, ma il luogo segreto in cui l’invisibile attraeva perché vi si manifestava l’ignoto, lo strano, il violento, il tenero. Una forza che spingeva a voler legare qualche parola all’eternità per vivere istanti di felicità, rassicurare che un pensiero attento, anche assente, poteva morire per oblio, per negligenza. Stavamo attenti a chi eravamo, a chi amavamo. Non lo scorderò. Avevo fatto l’ amore con Ina, ero diventato il suo amante”.
‘SI DICE CHE L’ AMORE È LA SOLA COSA DA NON CERCARE MAI, perché non lo si trova certamente così. Cercandolo. Allora, bisogna appostarsi all’ angolo di una strada, in primavera ed in inverno, e non attendere nulla e nessuno. Essere lì con solo le proprie risorse e la propria miseria. Sapere che ciò può durare secoli, ma restare lì, poiché nulla è scritto da nessuna parte che possa dare certezze in merito. Tutto è approssimazione, esitazione, compromesso. I film ed i romanzi parlano senza sosta di amore, ma la vita tace. La vita è mormorio, sfioramenti e carezze. Tutti sono organizzati solo per sfiorare i muri, i passanti, le stazioni e non essere deformati dalla velocità di un corpo lanciato negli anni, fin dalla nascita, non importa dove, se non su un altro corpo. Le collisioni sono casi fortuiti. L’ amore è un caso fortuito. Tutto è organizzato perché non avvenga, e ciononostante ogni proiezione dell’ immaginazione non fa che parlarne. Oggi viviamo tutti separati. Separati da qualcun altro. Particelle di vita, briciole di mondo. Nelle città non c’ è più il cielo, e neppure i bambini. Le amanti dormono sole, o con mariti che guardano dormire mentre loro sono altrove e trattengono il ricordo della bocca fresca dell’ ultimo bacio dell’altro. A volte, nell’incavo dei pugni tengono stretta ancora una traccia del profumo che vi si è posato all’ inizio della notte, il suo profumo, di lui assente. E’ stata lei a chiedere questo campione di profumo, un giorno, in un grande magazzino. L’amante, lei, dice: “vorrei provare questo profumo da uomo”. Ma mente, perché conosce ormai talmente bene quel profumo, che talvolta piange portandosi al volto il minuscolo recipiente, sotto la bocca, come incenso’. Juan non era riuscito a capire a cosa volesse alludere, o dove volesse andare a parare Niki, perrò tutto il suo atteggiamento, la sua gelosia retrograda non gli piacevano. Così l’aveva voluta provocare. “No, non era una amante in quel senso, né io né lei avevamo legami. Ma non saprei trovare altro termine. Credo fossimo più felici e appagati quando creavamo insieme qualcosa, quando lei imparava, e non ci voleva molto perché superasse il maestro. Invero non era difficile, dopotutto, io in quello ero un dilettante, ma ... ma lei non solo mi superava, sapeva prendere dal poco che le davo e farlo maturare e crescere a livello di professionista. Può esssere che avesse un talento naturale, che doveva solo essere svelato, liberato. Sai, la via dell’attrice, quella che tutte tentano: credono che essere belle e giovani e matte sia sufficiente”, lo sguardo acido di Niki, che l’avrebbe disciolto se avesse potuto lo aveva avverttito della sua gaffe, e aveva cercato di rimediare di corsa, “Non tutte sono come te, belle e mature, che con la volontà, la disposizione, la disposizione, la tenacia ... insomma, tra Nikolett Pòsàn e le altre ... dal giorno alla notte”. Aveva sorriso, se per il salvataggio in angolo di Juan, o per la sincerità delle sue affermazioni, era difficile da capire. Forse ambo le cose. “E l’amore ... come era a scopare?”.
‘Minchia! Ci risiamo, provocatrice nata. Beh non speri che mi lasci impressionare. “Matta più di in cavallo. Capricciosa come una lepre di marzo. A volte era una nave scuola, prendeva lei l’iniziativa, non per dominarmi: facendo, e chiedendomi di fare. Un sopra e sotto non solo fisico, un up-down nel rapporto. Ad esempio, mi metteva supino, e lei mi montava a cavalcioni. Aveva un modo tutto suo di farmelo rizzare, con le unghie e con i denti ... letteralmente. Lo prendeva e, né troppo forte né troppo leggera, lo striava, soprattutto sulla parte inferirore ... era irresistibile. Quando le sembrava abbastanza pronto, lo teneva, e, strisciando con le ginocchia sul letto, si avvicinava fino a infilarselo. Si muoveva in tutte le direzioni, e quando era al massimo ... non lei, il mio ... pene, si lasciava cadere sopra. Non iniziava subito a fare su e giù, continuava a ondeggiare in tutte le durezioni, con tutto il busto, dal bacino alle spalle, anche la testa. Quando decideva, faceva leva sulle ginocchia, iniziava a sollevarsi a abbassarsi. Aumentava il ritmo, fino a quanto non si anzava ad accosciava, insomma, sarà poco romantico, ma era proprio come si fa quando si ha un bisogno all’aperto, o su un cesso alla turca ... e allora sì che il su e giù si faceva frenetico ... era abilissima a afferrarmelo quando si alzava tanto che avrebbe potuto sfilarsi. Lo lasciva uscire fino all’inizio della punta, ma non più, e quando poi calave di colpo, un po’ trattenevo il respiro, temevo me lo sbucciasse come una banana, poi era ... era poco meno di un orgasmo. Quando veniva ... allora il suo ritmo calava, poi riprendeva ... anche dopo che ero venuto io. Non so quanti orgarmi riusciva ad avere, perdevo il conto, anche perché resistere a quei tour de force era sfinente”, vedendo l’espressione perplessa a scettica di Nikolett, “Non è meglio se prendi appunti?”, dagli occhi di lei erano usciti metaforiche serie di pugnali per conficcarsi a ripetizione in lui. “Perché mi vuoi umilare così?”, i pugnalini si stavano per licquefare in lacrime. “Non ci sto prendendo gusto, tesoro, con Rich sarà molto peggio ... te lo assicuro, ti sto solo preparando”. Niki era rimasta perplessa, e intimidita: cosa doveva aspettarsi da Schiller? “Altre era una ragazzina che lo faceva per la prima volta. Aspettava che io facessi tutto, e che, facendolo, glielo spiegassi, con parole piuttosto volgari ... anzi, decisamente molto volgari. Dovevo sempre iniziare dalla posizione del missionario, con lei che non apriva neppure del tutto le gambe, mi costringeva a farlo. Quando riuscivo a penetrare completamente, per quel che si poteva in quella posizione, e a entrare, trattenermi, ritrarmi, iniziava chiedermi se altre posizioni non potevano essere migliori, facilitare, appagare di più. E se ti metto le gambe dietro la schiena ... e sulle splalle, e se ti alzi sulle ginocchia e me le tieni completamente sollevate ... Dovevo eseguire io, tanto lei era impacciata. Non sembrava simulare, sembrava una regressione, come soffrisse di attacchi di schizofrenia. Quando la tenevo per le caviglie, le gambe completamente sollevate e spalancate, tuffato su e dentro di lei alla più non posso, mi chiedeva perché non la penetrassi sempre più a fondo ... perché non facessi entrare anche i testicoli, e se le alzavo il bacino con un cuscino, con due ... mi voleva dentro di più, ancora di più. E: sbattimi da uomo, non fare il damerino. Aspetta che mi volto, il culo in su, petto e faccia in giù, spalacami le gambe, e sfondami adesso. Nel culo, nel culo ... Adesso vengo, rimettilo dentro ... inondami. Già così mi vergogno, ma era anche peggio. Insomma, un ciclone, da perderci la testa”. “E quanto hai resistito?”, più che riprovazione e biasimo, amara tristezza, pena. “Ricorda che sono uno dalla pelle dura ... ci vuol altro”, e con un pizzico di cattiveria, che solo le donne sanno insinuare anche nel più dolce dei sorrisi, “Mi chiedo se ti sei mai beccato una bella mazzata”, aveva borbottato lei, “da una donna, voglio dire. Se sei mai stato innamorato perso, da balbettare come uno scolaretto, poi lei ti ha mollato e tu ti sei preso una bella botta”. “Molte più volte di quante tu possa immaginare”. Le aveva fatto scivolare le mani tra i capelli, Io sono andato in missione, lei ha trovato un contratto in America ... e ci siamo persi di vista. Beh, sul finale non prendere appunti. Non voglio tra noi finisca così”. Nikolett non aveva avuto il tempo per replicare. Qualcuno si stava muovendo verso di loro con passo deciso e greve.
AL BAR CON CAPONE. Un uomo in un tre pezzi nero, camicia bianca più bianca del bianco, cravatta e pochette, appena le aveva visti aveva virato verso di loro con incedere deciso e solenne: petto in fuori –la pancia in dentro sarebbe stata un miracolo, al nono mese di gravidanza-, muso duro. Si era subito parato dinanzi a Nikolett, senza degnare Juan di uno sguardo, e senza neppure presentarsi, si era subito scagliato verso di lei con parole violente. “Lei …! Come diavolo si chiama … non pensavo proprio che la sua impudenza arrivasse fino a restare ancora qui … Avrebbe dovuto andare a fare la … la escort … in qualche albergaccio giù al porto … qui ha messo a repentaglio il nostro buon nome. Gli altri –che altri? Si era chiesto Juan- erano propensi a passare tutto sotto silenzio, a mettere a tacere … ma ora … continua a fare la puttana qui da noi … Ora si convinceranno tutti a farle causa … ah! se dovrà pentirsene! … e non potrà scoparsi tutti per venirne fuori … non tutti sono così coglioni da andare a puttane … non nel nostro albergo almeno”. E’ nella natura umana che di fronte a simili contingenze, la prima reazione che venga alla mente sia anche la più sciocca. Può essere per difesa, o per vincere l’incredulità e mettere bene a fuoco che ciò che sta accadendo è reale, oppure ancora per prender tempo e dare una risposta pertinente ad affermazioni che sono del tutto incoerenti. Così, la prima reazione di Juan era stata chiedersi dove fosse andato a prendere, qual gradasso, tutto il fiato per quello sproloquio vomitato di colpo, in una volta, senza pause. Un’idea che, però, era durata i pochi secondi che gli erano occorsi per chinarsi su Nikolett che era scoppiata in lacrime, sconvolta, il viso, prima raggelato, ora in fiamme. Juan le aveva carezzato dolcemente la fronte sollevandole il mento tra indice e pollice, tenendola per sussurrarle qualcosa all’orecchio, e lei si era calmata quel poco che le era riuscito, ma aveva mantenuto la testa alta e lo sguardo fisso sull’energumeno. Juan era alzato e il tizio aveva dovuto fare un passo indietro, perché non lo urtasse, guardandolo con occhi sempre espressivi di superiorità. Juan l’aveva fissato e aveva sorriso dolcemente. Dopo un lungo minuto il tizio aveva voltato gli occhi verso il bar. Juan, le mani sprofondate nelle tasche, le spalle incassate –era l’ atteggiamento che preferiva quando non voleva in alcun modo sembrare minaccioso, nonostante la sua corporatura massiccia ed il suo aspetto poco rassicurante, era rimasto a mezzo centimetro di distanza –ovviamente misurando dal pancione del tipo- e lo aveva fissato dritto negli occhi. Non aveva fatto altro, il suo portamento era sembrato rilassato, quasi amichevole, ma l’altro non era riuscito a staccare il suo sguardo, neppure per abbassarlo. Juan aveva continuato a tenere i suoi occhi puntati in quelli dell’altro, che lo stavano fissando sotto l’effetto di una suggestione irresistibile. Era stato un lungo momento di silenzio, molto lungo. Poi, senza quasi aprire le labbra, ma sorridendo, Juan aveva sussurrato: “Ma tu … chi sei …?”. L’altro, che finalmente aera riuscito ad abbassare gli occhi e a ridarsi un minimo di tono: ”Io … io sono il nuovo Direttore … cavalier Luca Capone”. Juan aveva sorriso, un sorriso accentuato: “Ah! … ma allora tutto cambia … perché non si è presentato subito? … vero Niki …?”. Nikolett, per il vero, non stava credendo a quello che i suoi occhi stavano vedendo e le sue orecchie sentendo; si stava chiedendo frastornata: ‘Ma che cazzo sta dicendo …?!’. Juan aveva continuato: “Facciamo le dovute presentazioni … poi avremo modo di intenderci … lei certo ha le sue buone ragioni … “. Nikolett e il cavalier Capone avevano avuto una reazione comune, basiti e a bocca aperta, letteralmente. Juan aveva teso la mano al cavaliere, che a sua volta aveva teso la sua. Era stato un attimo. Aveva afferrato Capone per un polso, glielo aveva rigirato, costringendolo a piegarsi in avanti, e gli aveva premuto la faccia sul piano del tavolino del bar, bloccandolo con l’avambraccio, sempre tenendogli la mano rigirata. Il cavalier Capone aveva dato un sordo e lungo grugnito di dolore e rabbia, cercando di divincolarsi e protestando, ma Juan lo aveva immobilizzato, abbassando la spalla in modo da far premere ancor più il braccio sulla schiena. “Juan! … che cosa stai facendo ?”. Aveva esclamato Nikolett. “Credo che il signor Capone si voglia scusare …”. Capone, con la voce alterata dal dolore e dal petto schiacciato: “Mi dispiace …”. Un sussurro, senza convinzione né anima. Fingendo una sorpresa che era stata una promessa di guai in arrivo, Juan: “Ti spiace?! E’ l’unica frase che riesci a dire adesso?! Quando hai insultato la signorina Pòsàn, mi parevi più in forma”. Francesco Barbieri, il barman, e Ashley Spalding, che stava servendo ai tavoli, si erano guardati in faccia un attimo, reprimendo un sorriso. Lui le aveva strizzato l’occhio. Aveva ricevuto per risposta il chiudersi della mano di Ashley, sul fianco, non in vista ad altri, col pollice alzato. Il cavalier Capone, col volto congestionato aveva biascicato: “Signorina Pòsàn … “, Juan l’aveva interrotto aumentando di un amen la pressione sul braccio, e si era avvicinato al suo orecchio per sussussare, in modo che restasse tra loro due: “Signora Tenorio Pòsàn … è mia moglie, da oggi … e, va’ da sé, tutte le spese di mia moglie vanno sul mio conto”. “Signora Tenorio … signor Pòsàn”, tutti coloro che avevano sentito si erano trattenuti dallo scoppiare in risate giusto per la criticità della situazione, tranne Niki, che non aveva capito, “le mie più umili e profonde scuse …”, la stretta di Juan gli aveva dato un imput per continuare, “ … si è trattato … ecco … sì … è stato un deplorevole equivoco. Siete nostri graditissimi ospiti … fino a quando volete … se vorrete prolungare la vostra luna di miele ... non ci sono problemi ... sempre nostri ospiti”. Juan aveva lasciato che si rialzasse, tenendogli però sempre il polso torto. “La cosa finisce qui … ora … se dovesse giungermi anche un debole fiato che non è stato così …”, aveva proseguito sussurrandogli all’orecchio, e ciò che aveva detto l’avevano potuto sentire solo Capone e Juan. Nikolett aveva solo potuto vedere come da paonazzo il volto di Capone si fosse fatto terreo, e il suo sguardo da furioso, atterrito. Quando l’aveva lasciato libero, Capone aveva avuto la stessa espressione di certi sospetti che vengono arrestati e sanno di essere colpevoli. “Sorridi!”, gli aveva detto Juan. Il Direttore aveva distolto lo sguardo e si era voltato prima che ancora che lui fosse potuto tornare a sedersi accanto a Nikolett, il sorriso accentuato. Un gruppo di ragazze e ragazzi, habitué del bar, non clienti dell’Hotel, avevano invece riso e commentato ad alta voce. Avevano voluto far sapere la loro opinione. Nikolett l’aveva baciato sulla guancia, tenendosi stretta al suo braccio: “Mi hai difeso”, gli aveva detto con voce tenera e commossa,: ”Mi difenderai sempre, vero?”. Juan era rimasto confuso: non aveva già sentito quelle parole? Non aveva risposto. Nikolett ne era rimasta turbata, e si era ripromessa di cercare ... a veder se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Poi gli aveva chiesto: “Cosa gli hai sussurrato all’orecchio?”. “Meglio tu non lo sappia!”, bacio al seguito. In Nikolett stava avvenendo una veloce e sconvolgente rotazione di sensazioni e sentimenti. Quell’evento improvviso aveva effetti sconvolgenti, una serie di rapidi e violenti slanci affettivi contrastanti. Un conflitto interiore di emozioni, un convulso scontro di pensieri. Nella sua mente, nel suo cuore, nella sua anima il frastuono, l’insieme di rumori assordanti e confusi insieme, stava provocando reazioni violente, in grande disordine e confusione, con un ritmo che si diffondeva ora sfrenato, ora con andamento lento, grave e solenne. Smarrisce il bel volto in un colore / che non è pallidezza, ma candore, dall’altero e raro faccia / d’un dio pandemio agitata, vedea i suoi sentimenti come larve guerriere cercar la pugna, e chi può imaginare i combattimenti di quell’animo. Piuttosto smarrita in un groppo ... di emozioni. Ma quel Dio ... che l’inique spade / frange una volta, e gli oppressor confonde, l’avea illuminata. Quello di Juan era amor di vero ben, pien di letizia, che non si sarebbe dissolto se l’universo pria non si dissolve. No, non era un calesse. Lui la stava osservando con uno sguardo e un sorriso increduli. Non gli riusciva di capacitarsi che Nikolett non comprendesse … non si rendesse conto … O, forse, voleva non capire … Eppure era stato sicuro che fosse quello che anche lei voleva. O, forse ancora, lo stava mettendo alla prova. “Domani si parte”. Era stata colta di sorpresa, più che non aver pensato a quella scadenza, l’aveva del tutto rimossa. Aveva sognato, si era illusa che quella non sarebbe stata una parentesi, un intervallo meraviglioso, ma temporaneo. Prima che il nodo alla gola le impedisse di farlo: “Intendi partire?”. Juan: “Certo … ormai mi sono ripreso”, bacino, “e devo recuperare il tempo perduto ...”. Si era subito accorto della gaffe. “Intendo il lavoro che non ho fatto ... scusami, ma è un modo di dire. Di tempo non ne ho certo perso ... anzi ... tutto guadagno. Se il giusto prezzo è stato il ritorno di quei dolori, bene, sono pronto a pagarlo di nuovo. Senza esitazioni ... con una Florence Nightingale come te ...”. ‘Tacòn pegiòr del bùso’, si era subito criticato. Nikolett, ancor più avvilita: “E domani ... quando?”. “Hai di che lamentartene?”. Nikolett non aveva risposto, sentiva già le lacrime sfuggirle dagli occhi, aveva abbracciato Juan, e lui aveva sentito il suo petto che iniziava a essere scosso da singhiozzi ancora a stento trattenuti. Aveva chinato il suo capo su quello di lei, e con voce dolce, suadente: “So che è sempre doloroso lasciare la propria casa, la propria terra … ma ... invece che a piangere ... io, fossi in te, penserei a fare i bagagli …”. Nikolett si era di scatto discostata da lui per poterlo guardare bene in viso, negli occhi: “Non stai scherzando vero!?”. Tirso, serio oltre il serio: “Mantengo sempre le mie promesse”. Nikolett, sempre un po’ mogia: “Ah, si tratta di mantenere una promessa … per te … solo questo …”. Juan, come si fa con i bambini che non arrivano a comprendere, non perché non siano in grado di farlo, ma perché facendolo hanno paura come se fosse una loro decisione, un loro forte desiderio, che, se avessero espresso direttamente, sarebbe svanito, labile come un miraggio: “No, lo sai bene che non si tratta solo di questo … Ma questo è quello su cui siamo entrambi assolutamente d’accordo ora … altro è ancora da vedere …”. Nikolett si era un poco rasserenata. Lui non aveva esplicitamente detto in cosa consistesse quel altro, ma non poteva trattarsi che di loro due. O no?. O non era questa solo un’interpretazione distorta dalla sua aspettativa, dal suo desiderio? Aveva sentito montare dentro di lei una grande rabbia, era rimasta stizzita per quel comportamento che le era sembrato ingiusto. Sapeva essere esasperante, un attimo prima dolce, attento, rassicurante; un attimo dopo irritante e indisponente in modo odioso. Ogni volta si era chiesta se lo facesse di proposito, o fosse così complicato per carattere. Certo che lo amava. Non era invece certa che quello di lui fosse vero amore, piuttosto che disperata solitudine … istinto di sopravvivenza.
L’EQUIVOCO. In quel mentre, Clara Morgane, che come si deduce facilmente dalle parole del coro, di cui già ho dato conto, era nella più grande confusione e smarrimento, aveva deciso di prendersi una pausa di riflessione. Una settimana di vacanza, possibilmente di temporanea assenza dalla vita in cui si sentiva ingabbiata, prigioniera. Una settimana al Grand’Hotel. Lasciato tutto nelle mani degli avvocati –lei e Mike, essendo pienamente consensuali, si erano valsi degli stessi avvocati; due perché uno, va’ da sé un civilista, l’altro, Gabriele Brunetti, dello Studio, e, per occuparsi della parte economica, l’esperto che lui aveva suggerito, Marlisa Moitzi- aveva preso il volo. Entrata nella hall del Grand’Hotel, dopo il primo momento di disorientamento dovuto alla strana disposizione della reception, mentre stava per avviarvisi, era rimasta impietrita, il sangue era defluito dal suo corpo lasciandola raggelata, le gambe tremanti, la testa un turbine di pensieri e emozioni. ‘Giovanbattista!. Quello alla reception, che sta conversando con la receptionist, è Giovanbattista!’. Senza che se ne rendesse conto aveva avuto un grido soffocato, che aveva attratto l’attenzione di tutti. Non ci fosse stato un cliente in arrivo come lei, che le stava alle spalle, abbastanza vicino, sarebbe caduta a terra. L’uomo l’aveva afferrata al volo, in tempo, facendola stendere su una poltrona, agitandole sul viso un fazzoletto spiegato. Tra gli accorsi anche il “Giovanbattista” e Nikolett, che si era precipitata al bar a prendere un bicchiere d’acqua, e un tovagliolo inumidito. Intanto il “Giovanbattista” l’aveva trasferita sul divano accanto alla poltrona, l’aveva fatta distendere, ponendole i piedi sul bracciolo, per tenerle sollevate le gambe, e allentato tutto quello che c’era da allentare nei suoi vestiti. Nikolett le aveva posto sulla fronte il panno, e, reggendole il capo, le aveva fatto trangugiare, più che bere, un piccolo sorso d’acqua. Clara era riemersa dal profondo, come risalendo da un pozzo buio, verso una luce, prima piccola e flebile, poi, via via più ampia e chiara. Risalire da un pozzo vertiginoso, portata in volo da una forza che la sorreggeva, questa era stata la sua impressione. Il gelo che aveva dentro si era dissolto, sentiva, anzi, un caldo rinfrancante, e la sua vista era tornata a mettere a fuoco le immagini, senza ostacoli. “Gibi! sei proprio tu! Allora sei vivo ... non sei morto. Ma perché sei scomparso, perché dare a tutti un dolore così atroce e immotivato?!”, un fiume in piena, inarrestabile, e da una che il fiato avrebbe dovuto averlo corto. Gli occhi di tutti i presenti si spostavano stupiti, e morbosamente curiosi, da Clara al “Giovanbattista” e ritorno. Nikolett aveva capito quanto la situazione fosse imbarazzante e bizzarra. Anche il “Giovanbattista” era in difficoltà a chiarire la situazione, rendendola così più equivoca. Pensando, Nikolett, che le parole di una persona neutrale potevano essere utili, almeno per iniziare un chiarimento, si era accosciata vicino al divano, prendendo le mani di Clara tra le sue. “Signora, guardi che c’è un equivoco ... lei ha scambiato una persona per un’altra. Non so chi sia Giovan ... insomma, quello che lei crede di aver riconosciuto, questo signore e Juan Rodriguez Tenorio Urtago de Villena y Salamanca”. Mormorii degli astanti, che, in quel nome, sostenevano di aver riconosciuto un principe, o perlomeno un nobile della Real Casa ... l’erede al trono, perfino! Altri erano d’opinione opposta. “Signora, mi spiace di quello che è successo, ma le assicuro che questa è l’identità del signore, senza alcun dubbio. Dal nome che lei ha detto, pare si tratti anche di nazionalità diverse”. Clara era andata riprendendo il controllo, riavendosi completamente. Solo nel suo sguardo, e nelle pieghe della bocca, si leggeva come fosse ancora shoccata, incredula, non del tutto convinta. Si era messa seduta, pregando Juan di sedere vicino a lei. Quando l’aveva avuto a portata, gli si era avvicinata, scrutandone il volto, indagandone gli occhi, chiedendogli pure il permesso di prendergli le mani tra le sue. Attorno erano iniziate a girare le scommesse. Oltre alle illazioni e ipotesi più fantasiose. Una donna isterica. Un amante o un marito scomparso e in fuga. Un antico amore ritrovato. Insomma, potete sbizzarrirvi nelle ipotesi e fare liberamente scommesse. Più procedeva nella sua ispezione, quasi stesse analizzando un reperto archeologico per stabilirne autenticità, epoca e civiltà di appartenenza, più s’incupiva, si rattristava, il suo viso e tutta la postura del suo corpo denunciavano un grande dolore. Non per delusione, o per il trovare certezze di una menzogna. Si trovava di fronte, piuttosto, a una verità esclusa, negata, nascosta. “Le chiedo infinitamente scusa ...”, sospirone di tutti, il tormentone stava per finire e ci sarebbero stati vincitori e perdenti, alcuni solo per gioco, altri per denaro. Delusione immediata. “Lei ha qualche segno particolare? Mi scusi ancora se oso, ma ...”. Juan, che era stato un po’ divertito dalla situazione, ora si sentiva imbarazzato, dispiaciuto. “Segni nel senso proprio no ... qualche cicatrice sì”. Clara aveva avuto un lampo negli occhi, pur non osando più chiedere oltre. Aveva solo mormorato, “Già ... proprio come Giovanbattista”. Per prevenire una richiesta imbarazzante di mostrargliele, aveva a sua volta domandato, “Come se le è fatte il suo Giovanbattista?”. La risposta aveva fatto rimanere di sasso, questa volta, Juan, “Quasi tutte nella Missione di Petersberg, in Africa Orientale ...”. Juan era sobbalzato, “Cazzo! come me!”. Si era subito ripreso, “Che reparto?”. Clara, “Come?!”. “In che reparto era? In quale contingente combatteva lì?”. “Ah, non so. Non era quello del nostro Paese, questo lo ricordo, ma il resto ...”. Juan si era dato una pacca sulla fronte, perché non aveva pensato subito alla domanda più ovvia? “E ... “, non sapeva come metterla, per non ferire e non urtare quella signora. Nikolett l’aveva tratto d’impiccio, “Dove è stato visto l’ultima volta?”, e aveva tolto le mani di Clara da quelle di Juan, prendendole tra le sue. “Sempre in Africa Orientale ... avevano rapito o sequestrato ... insomma, una cosa così, un nostro amico, un ... cooperante, e lui si è precipitato là per trattarne il rilascio ...”, i suoi occhi erano lucidi lucidi, “poi qualcosa è andato male, una ribellione ... anzi, una guerra tra Nord e Sud, in Sudan, sì ora ricordo bene. Quando sono scoppiati i combattimenti, i quattro prigionieri erano già stati liberati, Giovanbattista non era con loro. Nella zona in cui presumibilmente si trovavano ci sono stati scontri molto violenti, con bombardamenti anche aerei ... e nessuno ne ha saputo più nulla. I comandi militari di ambo le parti, e quelli ONU ci hanno consigliato, in modo sgarbato, brutale, di lasciare ogni speranza. Non poteva che essere morto. Ma lui ...”, aveva accennato con lo sguardo a Juan, ed era scoppiata a piangere, scossa da disperati singhiozzi. Juan aveva chiesto a Nikolett di aiutarlo a portarla in camera, via da quella pazza folla. Fatto, aveva pregato la ragazza di lasciarlo solo con Clara, “Va tutto bene, non intendo approfittare della situazione”, dandole un buffetto sulla guancia. Nikolett si era allontanata, felice di quel buffetto, per nulla convinta sulle intenzioni di Juan. Ma era solo gelosia. Clara era seduta sul letto, Juan si era posto accanto a lei, circondandole, con un braccio, le spalle. La sua voce era calda, suadente, rassicurante, “Signora, può giurarmi che ciò che ci diciamo qui e ora non uscirà mai dalle mura di questa camera? Anzi, dopo che l’avremo detto dovrà essere che non è stato mai detto?”. Clara aveva sollevato lo sguardo verso di lui, con un’espressione indecifrabile, tante erano le emozioni che vi si succedevano o cumulavano, “Lei sa qualcosa?”. Juan l’aveva stretta di più, “No, signora ... mi spiace molto, ne so meno di lei”, l’aveva sentita afflosciarsi. “Conosco però persone ... colleghi ... amici, che erano sul posto. Dovevano intervenire per liberare i prigionieri non fosse riuscita la mediazione di ... Giovanbattista. Il nome non l’ho mai saputo, l’ho sentito ora, da lei. La corrispondenza con i fatti, però, non lascia dubbi. Anzi, loro erano per l’intervento diretto ... è sato lui a strappare una dilazione. Dico bene?”. Un po’ più sollevata, poco però, “Sì, è lui”. “Ecco, ha insistito per fare un tentativo. Probabilmente aveva ragione, sarebbe andato tutto bene ... per sfortuna proprio in quel momento sono iniziate le ostilità. Io non posso prometterle nulla, ma se c’è qualcuno che può saperne qualcosa ...”. Clara si era raddrizzata, un’ombra di speranza negli occhi, “E lei farebbe tutto questo per me? Perché?”. Juan, serissimo, “Perché lei ha suscitato anche la mia curiosità. E su quello che è accaduto. E su questo gemello col quale lei mi confonde con tanta sicurezza, e, soprattutto, e per prima, quest’angoscia”. “Nient’altro?”. Juan aveva capito. “Sì”. “Ah, ecco ... mi pareva”. “Che lei, come le ho già detto, scordi tutto quello che ha sentito ora. Anzi, io non sono mai stato qui più del tempo necessario a farla sedere. Questa è una condicio sine qua non”. “Ha la mia parola, glielo giuro sulla mia stessa vita”. “OK”, prima di alzarsi Juan le aveva dato un’ultima stretta, e deposto un leggero e casto bacio sulla fronte”. Quando era stato sulla porta Clara l’aveva fermato, “Juan ... grazie, grazie con tutto il cuore, qualsiasi cosa accada. Ah, e come ci teniamo in contatto?”. “Non si preoccupi, alla reception hanno tutti i suoi dati ... a meno che lei abbia altri cellulari di cui non ha dato il numero”. “No, però intendo cambiare il mio numero ... mi sto separando, e voglio bruciarmi i ponti dietro le spalle”. “Non sono affari miei, ma, c’entra Giovanbattista?”. “In qualche modo, ma non direttamente ... una storia strana”. “L’ascolterò volentieri quando ne avremo occasione e tempo, e l’avremo di sicuro, se lei vorrà ... la troverò io, comunque”. Era uscito e, chiudendo la porta, aveva visto il volto di lei più sereno, gli occhi ancora con i lucciconi, con in più un lumino di speranza. ‘Tanto’, aveva pensato Juan, ‘quattro chiacchiere con Bojana già devo farle ...’.
SOTTO UN CIELO DI STELLE. Il cielo era un ammiccare di stelle, che poteva rivaleggiare con le luci della città, sulle quali il terrazzo del decimo piano del Grand’Hotel permetteva una vista totale, guardando dai quattro lati, solo per vicinanza e grandezza. Si restava affascinati da quello splendore, da quel fascino, dal sentirsi in cima ad una torre di Babele, dalla quale sarebbe bastato salire in piedi sul muro parapetto, per poterle afferrare. L’aria, tiepida e profumata, mossa da un vento sottile, una carezza gentile, ne faceva una notte da innamorati. Clara Morgane sedeva a un tavolo d’angolo, noncurante, distaccata, senza provare interesse, tanto meno partecipazione, coinvolgimento. Aveva scostato da davanti a sé piatti pressoché intatti, posate, bicchieri, appoggiandosi al tavolo con i gomiti e gli avambracci. Lo sguardo perso, quanto si sentiva persa lei. Com’era possibile che si fosse sbagliata? Gibi lo conosceva a pelle, dal profumo della pelle, e questi non li aveva riconosciuti. Ma quell’uomo, cose si chiamava? Ah, Juan, era un sosia, un clone, un gemello siamese. Ma, se era lui, Giovanbattista, come mai era lì? Perché non aveva avvertito nessuno. Cosa significava la promessa di ... ah, sì, Juan, di cercare informazioni, con la sicurezza di chi le avrebbe trovate? Le scoppiava la testa. Era sobbalzata, per l’emozione improvvisa, quando una mano si era posata sul suo braccio, mente qualcuno avvicinava il capo al suo. Profumo di donna. “Tutto bene?”. Non la conosceva, l’aveva fissata con imbarazzo. “No, non mi conosce, ma ero nella hall, e ho visto quello che è successo. Deve essere stato un grande shock ... tanto più, non me ne voglia, che mi è sembrato lei tenga moltissimo a quell’uomo. Cioè, a quello che lei chiama Giovanbattista. Che Juan Tenorio eccetera sia lui o un altro uguale a lui. L’altra mano della donna si era postata sulla sua spalla, non aveva potuto fare a meno di invitarla a sedersi. “So che non sono affari miei ... ma situazioni simili ne ho viste ... professionalmente, perciò ... so il tormento e l’angoscia che danno”. Accennando ad alzarsi, “Ora è meglio non la disturbi più a lungo”. “No!”, l’aveva trattenuta Clara, quasi pregandola, scusandosi lei per aver dato un’impressione sbagliata. “No, sieda, la prego”. La donna si era presentata, “Sono la dottoressa Sabrina Moncada, consuellor e mediatrice”. Clara aveva avuto un mezzo sorriso, triste, e ironico per quella quasi coincidenza, provocando nella donna uno sguardo interrogativo. “Dottoressa Clara Morgane, clinica, dei rapporti interumani e delle organizzazioni”. Un sorriso contenuto, e breve. “Quasi colleghe”. “No, non ancora, sto per iniziare, dopo aver buttato alle ortiche anni della mia vita”. Sabrina aveva una bella e folta chioma di capelli color del rame, che le scendevano su un occhio, e lei scostava con una mossa che ne faceva un’onda affascinante. Occhi nocciola chiaro. Doveva avere l’età di Clara, o giù di lì. Era di una bellezza che rispondeva ai canoni greco-romani. Forme piene, ma tutt’altro che pingui. Ben tornite, e meglio proporzionate. Indossava una camicetta con una scollatura ampia, su due seni prorompenti, tra i quali chiunque avrebbe voluto tuffarsi. La gonna era lunga, da zingara, con due spacchi, stretti, che salivano fino alle cosce, mostrando gambe pure da dea greca. Teneva una sua mano su quella di Clara, l’altra sul braccio di lei, e la guardava in silenzio, con un’espressione comprensiva, quasi materna. Un invito a sfogarsi cui Clara non aveva potuto né saputo resistere. Le aveva raccontato tutto, da Gibi a Mike, alla trappola in cui si era cacciata, fino al ritorno e fuga di Giovanbattista. E dell’idea folle della casa editrice. E di Peter e Willi, di Silvia e dell’aitante Tutsi. Cesare, il maitre, intuendo la situazione, non aveva osato avvicinarsi. Sabrina gli aveva fatto cenno di avvicinarsi, ordinando solo dei taglieri misti, e del vino locale, che superava i tredici gradi. Clara si era ancor più sciolta, “confessandole” che nulla di tutto quello le interessava più, e, probabilmente, non aveva mai creduto. La morte di Gibi. E, ora, il divorzio, con il totale disorientamento che le aveva provocato. E quell’uomo, che le aveva promesso di aiutarla. Non sapeva chi fosse, e perché gli avesse dato quell’assicurazione, e questo la faceva sentire persa ancora di più. L’atmosfera tra le due donne si era fatta più calda, più fiduciosa da parte di Clara, più premurosa da parte di Sabrina. “Se posso permettermi ... è solo un’intuizione e basta, sembra che tu”, erano passate al “tu”, “e Giovanbattista abbiate passato la vostra vita a fare di tutto per ferivi e sfuggirvi”. Clara l’aveva fissata, gli occhi lucidi, e, dall’emozione e per il vino, sconsolata, “E ormai è troppo tardi!”. “Non è detto”, quell’affermazione l’aveva resa ancora più triste, facendola sentire in colpa, molto in colpa. “Credi a quel Juan?”. “Anche, perché non aveva motivo di darti quella rassicurazione se non può mantenerla. Oppure, dovrebbe essere o un bastardo e un inetto. Cose che a me non sono sembrate”. “Neppure a me”. “Se vuoi posso cercare di aiutarti”, allo sguardo sgranato, colmo di speranza, aveva dovuto precisare”, ... non nel risolvere il mistero di Giovanbattista ... anzi, mi spiace moltissimo dovertelo dire, ma quando uno è dato per disperso in azioni militari tanto a lungo, la spiegazione è una sola”, Le lacrime erano iniziate a fluire dagli occhi di Clara, che si era rassegnata a non combatterle più, “Posso, forse, arrivare a sapere di più su questo misterioso Juan. Soprattutto posso aiutare te a riprenderti. Non sarà facile, e sarà doloroso ... ma devi uscirne. Se no, tanto vale che sali sul muretto e ti butti giù”. Clara si era riscossa a quelle parole durissime, taglienti come un rasoio, e aveva fissato Sabrina con rabbia, e risentimento. Gli occhi di lei erano non meno duri, taglienti. “Posso raccontarti tutte le favole del mondo, e continuerai a rovinarti sempre di più la vita ... e prima o poi te la toglieresti. Non posso e non voglio mentirti. Ti dico che, se vorrai il mio aiuto, sarà un po’ come morire ogni giorno, per tornare a rinascere più forte, e, soprattutto con la voglia di vivere. Non ti prometto nulla che non possa mantenere ... se ti fidi. E non ti lascerò mai la mani”, nel dirlo aveva stretto le mani di Clara ancora più forte tra le sue, “Non devi rispondermi subito, ma neppure starti a gingillare. Io devo ripartire tra due giorni, per allora devi darmi una risposta”. Clara sembrava ancora più sperduta e impaurita di prima. Il vino, avevano dato fondo alla seconda bottiglia, e Sabrina aveva bevuto pochissimo, col trucco del “goccino”: quando si portava il bicchiere alle labbra faceva poco più che intingerle. Non si potevano neppure dire sorsi. Propriamente: si bagnava le labbra. Così un bicchiere era tutto quello che aveva bevuto delle due bottiglie. Clara, dopo un “OK, farò così”, con voce alquanto impastata, aveva accennato ad alzarsi. E subito era barcollata, non ubriaca, alticcia, per così dire. Sabrina l’aveva sorretta, ponendole un braccio sotto quello opposto di lei, e cingendola con l’altro, finché le due mani si erano quasi congiunte, in una stretta ferma, e soccorrevole.
Quello che Nikolett aveva detto a Juan, avrebbe fugato ogni dubbio. In effetti, l’aveva commosso facendogli vibrare ogni fibra, estasiandolo, rapendolo con tanta dolcezza: “Senti, Juan … mi hai rispettato anche contro la mia volontà … in un certo senso … Ma ora facciamo l’amore, per favore”. Nikolett esultava nel chiuso dell’animo suo. Primavera d’intorno / le brillava nell’aria, e n’esultava in tripudi. Ben mill’anni or le parea / dovesser goder con lietezza. Per l’ombrose valli e lieti colli / della terra d’amor molle e lieta e dilettosa / là su fulgor s’acquista per letiziar lui / imperrocché et lei si letificherà in lui. Appena entrati in camera, si era letteralmente catapultata tra le sue braccia, facendo rovesciare tutt’e due sul letto. L’aveva sommerso di baci, di lacrime, e ancora di baci, ansimante, senza più fiato per pronunciare una sola parola. Juan aveva sentito il cuore di lei battere forte nel petto, e battere contro il suo petto. Aveva pensato, non avrebbe saputo dire il perché, né se fosse stato un pensiero irriguardoso, a un passerotto, che, tenuto tra le mani, trema e freme tutto. Il passero, per paura; lei, Niki, per amore. Quando era riuscita a trovare il fiato e un minor affanno, per pronunciare qualche parola, gli aveva detto, la bocca premuta sulla sua, con una voce storpiata ma comprensibile: “E adesso … facciamolo …”. Juan aveva sospirato, mentre lei si sdraiava supina, trascinandolo con sé, sulle lenzuola fresche. Aveva cercato di stringerla in vita, per baciarla … iniziare a spogliarla … Lei era rotolata via dalle sue braccia, si era sfilata tutto, ed era rotolata verso di lui, aiutandolo a finire di spogliarsi. “Fammi l’amore”, gli aveva sussurrato, rotolando supina accanto a lui. Juan si era sdraiato su di lei, ed era scivolato dentro di lei. Quando aveva sentito di nuovo l’ostacolo, si era nuovamente fermato. Era stata lei a voler andare oltre. L’aveva afferrato per i fianchi e spinto dentro di sé, inarcandosi leggermente. Juan aveva sentito rompersi qualcosa, Nikolett aveva lanciato un gemito di dolore. Poi aveva riaperto gli occhi per guardarlo in volto, facendogli capire che era passata, che non avrebbe incontrato più resistenze. Mentre si muoveva in lei, Nikolett aveva iniziato a seguire, eccitata, il suo ritmo. “Oh, Juan … Juan”, gli aveva sussurrato, e si era resa ancor più conto di quanto l’amasse. Quel sentimento commovente l’aveva fatta quasi piangere; due lucciconi gli erano comunque sfuggiti. Vedendoli Juan si era eccitato oltre ogni controllo. Il suo orgasmo era giunto inaspettato, con un lungo gemito di piacere e di deliziosa sorpresa. Gli aveva messo una mano sulla nuca, attirandolo a sé e baciandolo. Aveva chiuso gli occhi quando il suo corpo era riuscito a farsi sentire, a dirle che un nuovo momento di passione sarebbe giunto in lei. Quando lui le aveva sussurrato: “Non riesco a trattenermi ancora …”, lei, sospirando allegra: “Allora fammi venire di nuovo”. I suoi occhi scuri lo stavano fissando adoranti. Le sue guance erano avvampare, i capelli arruffati, e le labbra, rosse e umide, dischiuse. Aveva sentito Juan schizzare dentro di lei, gemendo e inarcandosi di scatto. Anche lei, sentendolo dentro di sé fluire, spasmodico, quasi volesse donarsi tutto a lei, aveva pensato che quella era tutta la sua essenza vitale, la sua anima, intuito che quello era limo del Nilo, che tracimava in lei, ed era stata travolta dal piacere. Alla fine entrambi si erano abbandonati, respirando a fatica, come avessero corso. Nikolett si era detta che nessuno le avrebbe mai fatto una cosa del genere, se non lui. Lui per sempre. L’aveva tenuto fermo, con forza, e si era messa a cavalcioni sopra di lui. Si erano creati come un bozzolo personale, dove c’era solo il calore dei loro corpi, e tutto il mondo fuori. Quando avevano iniziato a fremere, avevano avuto entrambi la stessa sensazione, anche se lo sarebbero detto molto più in là nel tempo. Stare in lei era così piacevole che avrebbe voluto metterci radici. Averlo dentro di sé era così piacevole che avrebbe voluto ci mettesse le radici. Poi era stato tutto cannoni tonanti, finché non era sopravvenuto il confortante sussurro del vento che si portava via il loro bozzolo. Quando, alla fine, si erano guardati negli occhi, Niki le aveva preso una mano, lui l’aveva abbracciata, poi le aveva cinto le spalle e preso a cullarla dolcemente, come una bambina. Erano trascorsi istanti di silenzio. Poi lei aveva deciso di dirgli tutto. O quasi … Per entrambi era stata la parte più strana di quell’esperienza. “Amore, non è stata la prima volta che ho fatto l’amore ... ma è stata la prima ... vera”. Juan la guardava, perplesso e incerto, e lei aveva proseguito. “Avevo 14 anni, ma da sempre i miei si erano comportati con me come con un’adulta, facendomi stare in mezzo ad adulti, ero matura per definizione. Per confermare la mia identità, alla fine mi era rimasta solo una casella da spuntare: l’esperienza sessuale. Non che il sesso mi incuriosisse ... era, era solo che avevo una posizione da difendere. Il vantaggio di essere una bambina precoce era quello di riuscire bene negli studi senza molto impegno, insegnanti e adulti mi consideravano brillante. Ragazze e ragazzi, invece, una secchiona. Così ho cercato tutti i modi e tutte le maniere per passare per strafiga con i miei compagni. Sentivo l’impulso ... e il bisogno di lasciare tutti senza fiato. Avevo trovato un fidanzatino ... anzi, proprio un fidanzato, più vecchio di me. Era splendido. Co’ suoi begli occhi m’innamorava quanto ciascuno era men bello di lei / tanto cresceva ‘l desio che m’innamorava. E mi molceva il core / la dolce vision or delle negre chiome, | or degli sguardi innamorati. Mi vestivo con gli abiti più sexy e osé di mia madre ... avevo già la sua taglia ... quelli che lei si metteva quando voleva far arrapare papà. Lui mi ha liberato dal mio isolamento, ma il sesso lo intimidiva. Quando eravamo soli, in camera o in salotto, ridiventava bambino, la sua spavalderia si dissolveva, più incerto di me su cosa si dovesse fare. Credo che nessuno dei due abbia mai provato un desiderio erotico vero. Così ho cominciato ad uscire con un gruppo di ragazze, quelle sgamate, che sapevano procurarsi documenti falsi o falsificati, per entrare nel bar a bere e a rimorchiare ragazzi. Finalmente ho incontrato un altro ragazzo, anche lui più vecchio di me. Di otto anni. Aveva già fatto sesso, mi avevano detto, e poiché gli uomini pensavano sempre a fare sesso, anche questo mi era stato detto, ho pensato non fosse difficile accalappiarlo. E invece ... sempre pronto al petting, ma ... con mia grande sorpresa e meraviglia, mai ad avere un rapporto completo. Credendo di interessarlo di più, di eccitarlo di più, di spronare il suo orgoglio di macho, gli avevo detto che per me era la prima volta. Invece doveva aver archiviato in qualche meandro del suo subconscio il concetto di “violenza sessuale su minore consenziente”. Oppure, che ne so, erano stati i suoi genitori ad ammonirlo e intimidirlo, dicendogli che le ragazze tendevano ad appiccicarsi al loro primo ... uomo, insomma, a chi le sverginava, e: chi rompeva pagava. La sua riluttanza aveva resistito al mio slancio romantico, anche quando gli avevo giurato che non aveva nulla da temere, non avrei preteso nulla, e se voleva glielo mettevo per iscritto. Nemmeno quando gli ho detto che se non era lui sarebbe stato un altro, quindi tanto valeva profittasse lui della situazione. Niente. Ma non ha potuto competere con la mia determinazione. L’ho minacciato di rompermi l’imene con le mie stesse mani, di stracciarmi i vestiti, e gridare allo stupro. Ha accettato di fare sesso con me. E’ stata un’esperienza così sconfortante, totalmente priva di quelle emozioni dolorose, intense estatiche, di cui tutte mi avevano parlato. Tanto che mi sono chiesta perché la gente parlasse continuamente di sesso, e fosse così ossessionata dal volerlo fare. Mah, forse solo parole parole parole. Poi, sostanza ... niente. Comunque avevo pensato di essermi tolta il pensiero, e mi era passata la voglia di rifarlo. Fino ad oggi. Ho capito che in realtà non ho fatto sesso quella volta. Non era stato ai patti. Come abbia fatto, e come io abbia potuto non accorgermene non lo so. Sapevo che avrebbe dovuto esserci una penetrazione, ma cos’era di preciso una penetrazione? Avevo solo quindici anni! Un anno di fatiche e attese per nulla! Con te è stata un’altra cosa. Piacevole ... ma, soprattutto, assolutamente diverso ... e non semplice. Una porta verso un’altra dimensione, un altro modo di essere, e di parlarci, estraneo alle parole. E’ più bello farlo che parlarne. Forse mi ci vorranno anni per capire completamente cosa voglio da questa dimensione, ma sono felice di sapere che c’é. E che ci sei tu. Ero in cerca d’amore, e neppure io sapevo di quanto ne avessi bisogno. E ero in cerca di me stessa. Credevo di aver fatto sesso secoli prima di oggi che abbiamo ... mi hai fatto l’amore. Fare l’amore con te, lo so, sono certa, è un modo per scoprire e comunicare chi sono. Su questo non mi sbaglio”. ‘Cazzo! possibile che in questa vacanzina mi tocchi ancora di finire quello che altri hanno malamente iniziato?!’, stava per dire qualcosa, ma non certo questo. “No, aspetta”, aveva subito respinto un suo tentativo, “questo non so come dirtelo … quindi te lo dico e basta. Quando abbiamo fatto l’amore … io non ho preso … né ti ho chiesto di … insomma, sì, non ho usato … precauzioni, e neppure tu. Credo … anzi, per me sono sicura … e … sì, lo sono anche di te … non essendo né irresponsabili, né improvvisamente ammattiti o infoiati … sapevamo, sappiamo cosa può accadere … o potrebbe accadere … E la mia .. di non usare precauzioni … è stata una scelta consapevole …”. ‘Cazzo al cubo! Ma è una dannazione! Speriamo che con Anabel non sia stato un bis di ... di questo’.
“Al meno ti accompagno in camera”, aveva affermato, o ordinato?, Sabrina, prendendo Clara sottobraccio, tenendosela vicino, e mangiandosela con gli occhi. “Con grande piacere”, Clara sentiva il suo respiro, e il cuore salirle in gola. Si erano avviate in silenzio, col senso dell’equilibrio che minacciava continuamente di abbandonare Clara. Arrivate in camera, Clara, con na giravolta sgraziata si era lasciata cadere sul letto, trascinando con sé Sabrina, che, come si dice nell’alte pedatoria, si era un po’ tuffata. Clara er ancora molto impacciata, ma il ghiaccio era rotto. Si erano strette una nelle braccia dell’altra, dimenticando il tempo, e, Clara, anche il dolore e l’angoscia. Aveva iniziato a piangere, e quelle lacrime avevano sciolto un altro muro. Teneva Sabrina abbracciata sempre più stretta, e in quel momento si era resa conto di quanto importante fosse Sabrina per lei. Ora, la realtà non le sembrava più fragile, in quel momento si sentiva anche libera. Sabrina, che conosceva da poche ore, che però le sembravano tutta una vita, era accanto a lei, il suo volto era sulla spalla di lei, sentiva il suo respiro uscire dalle labbra socchiuse e riscaldarle la pelle. Una ciocca di capelli di Clara era ricaduta sul viso di Sabrina, che si era voltata piano, per guardarla ancora negli occhi cerchiati. Un po’ di colore le era tornato sul viso. Aveva chiamato il suo nome in un soffio, riscuotendola, e l’aveva spogliata spogliandosi a sua volta. Clara l’aveva accarezzata. Nude sotto le coperte, Sabrina l’aveva abbracciata, stringendola a sé, e baciandola. Clara aveva risposto. Le sue labbra spesse si erano aperte, la sua lingua premeva sui denti di Clara. Le bocche si erano aperte sempre di più. Si erano ancor più avvinghiate. Una mano di Clara si era posata sul seno di Sabrina, che, con la sua, aveva iniziato a esplorare il corpo di Clara. Entrambe erano bagnate. Bagnatssime. Ma lì Sabrina aveva voluto che si fermassero, prima di prender sonno. Perché non voleva andare oltre, non così. Si era innamorata di quella donna a prima vista, le era subito piaciuta da impazzire, ma non voleva iniziare profittando di un momento di debolezza di lei. Doveva tessere una ragnatela bel più ampia, solida, e, soprattutto invitante e appiccicosa, che la catturasse e non la mollasse più.
VARIAZIONE DI PROGRAMMA. Nikolett e Juan avevano trovato la cena eccellente, come al solito. Una pasta allo scoglio, in cartoccio, che non aveva eguali. Era un piatto per due, ma sufficiente per una terza persona. Nikolett lanciava a Juan continue occhiate che erano chiaramente inequivocabili, quanto le risposte di lui. Risposte che le arrivavano da sotto il tavolo e la lasciavano estasiata, fuori dalla vista di commensali agli altri tavoli, e, ma non ne erano sicuri, da quella del personale. Era un dialogo tattile, le dita dei piedi di Juan, sollecite, vagabondavano sul polpacci di Niki, conquistavano il morbido terreno dei suoi interni coscia, ed erano assoltamente cortesi con quanto vi si trovava in mezzo. Niki lo guardava, e si guardava in giro preoccupata, come per accertarsi che in quel gioco, che sembrava troppo bello per essere vero, Juan non combinasse qualche guaio, eccedendo nelle sue profusioni. Alla fine aveva deciso che era tempo, e desiderio di entrambi, di coinvolgere nella loro conversazione privata anche altre estremità del loro corpo, e che a tal scopo era ora si ritirassero. Non appena entrati in camera, il volto di Juan era cambiato, e Niki aveva provato un insolito impeto di preoccupazione, temendo che lui stesse per sfuggirgli. L’aveva abbracciato, e entrambi si erano sciolti in un bacio. “C’è un cambiamento di programma”, le aveva sussurrato. Lei aveva ritratto il capo guardandolo, “In che senso?”. “C’è una cosa di cui devo occuparmi”. Niki aveva inspirato profondamente, e stava per parlare. Lui le aveva messo un dito sulle labbra. “Non ci vorrà più di due, tre giorni … nn c’è motivo che pensi che ti stia prendendo in giro”. “Lo penso già. Non sono una stupida. Allora, qual’è la scusa?”. Tra le sue sopracciglia si era formata una piccola ruga. Lo scetticismo le donava. “Credi veramente che non voglia più … No, non pensarlo nemmeno, non sono così mutevole … e così … sì, beh, carogna lo sono, ma non così carogna. Farò in fretta, te lo prometto”. Niki aveva il broncio, e le oscillazioni dei fianchi con cui era scomparsa chiudendosi in bagno, gli avevano dato un’autentica commozione. Non era stato molto a pensarci. In fondo, insieme a Nikolett, avrebbe potuto presentarsi con una copertura più credibile ... meno appariscente. Due fidanzati, o sposini, o amanti ... in vena di provare qualche emozione. Non avrebbero dovuto nemmeno sforzarsi di fingere nelle loro effusioni, semmai trattenersi, non finire per essere troppo ... indecenti, o esibizionisti, persino. Non avrebbero corso rischi, tra una ricognizione e un viaggio turistico, la differenza ci si sarebbe dovuti sforzare molto per farla emergere. Non aveva bisogno di foto, filmati o altro, gli bastavano occhi e memoria. Non che non avrebbe fatto foto o altro, ma nei limiti, con l’indiscrezione e la frenesia fuori luogo di quasi ogni turista, per il quale tutto era una scoperta, una meraviglia da immortalare. Tra quelle non rientravano i suoi obiettivi. Li avrebbe visti, e da vicino, ma passeggiando, lui e Niki strettamente abbracciati, più impegnati a baciarsi e guardarsi negli occhi, che a fare attenzione alle strade che percorrevano ... e a non perdersi. Che poi fosse tutta scena, tutta una finta, solo loro due l’avrebbero saputo. Niki non avrebbe dovuto neppure far ricorso alle sue doti recitative, non avrebbe saputo nulla, e le attenzioni ed effusioni che Juan le avrebbe dedicato l’avrebbero estasiata più di qualsiasi attrazione e meraviglia locale. Sì, poteva andare. Si era accostato alla porta, richiamando l’attenzione di Niki col un batter di nocche, e, pur senza risposta, le aveva parlato: “OK, scusami. Pensavo che tu avessi bisogno di tempo per preparati a partire … bagagli, saluti … insomma, ti trasferisci, mica vai in vacanza per due settimane dopotutto. E io, nel fratemmpo, sbrigavo questo … lavoretto. Ma se la prendi così. Puoi lasciare l’incarico ai tuoi di spedirti tutto … approfitterei anche per i miei bagagli, perché per dove dobbiamo andare meglio viaggiare leggeri ... ci portiamo solo bagaglio a mano. Ah … se hai il passaporto, va’ da sé”. Non aveva ancora terminato la frase che Niki aveva riaperto la porta fiondandosi tra le sue braccia, non curandosi di travolgero, andare a rimbalzare sulla costa del letto, e far scivolare eantrambi a terra. “Mi porti con te!? Giura!”. “Te l’ho detto, pensavo fosse meglio la prima soluzione, ma …”. “NO, NO, NO … mi porti con te in continente? Fino da Schiller?!”. “Mi pareva fosse già chiarito questo … o volevi un impegno firmato? Mi stimi ben poco …!”. Non aveva potuto aggiungere altro, le labbra di Niki si erano incollate alle sue, la sua lingua frugava freneticamente nella sua bocca, mentre le lacrime, di felicità, invadevano il volto di lui. Non gli aveva dato respiro. Senza neppure spogliarsi, se non il minimo indispensabile -sfilarsi le sue mutandine, calare ma non troppo i pantaloni a lui-, era rimasta a cavalcioni, facendo tutto lei per eccitarlo –ma c’era voluto molto, molto poco- farlo scivolare detro di sé e stringerlo, per poi muoversi impadronendosi dei tempi, dei ritmi, e … delle repliche. Molte repliche. Era sembrata volersi rifare in una notte, di tutte quelle che aveva perso.
“NON CI SONO PIÙ DESERTI. NON CI SONO PIÙ ISOLE. PERÒ SE NE SENTE IL BISOGNO”. Così scrive Albert Camus in L’ÉTÉ – LE MINOTAURE (Edition Gallimard 1959). “Per capire il mondo, bisogna a volte distrarsi; per servire meglio gli uomini, tenerli un momento a distanza. Ma dove trovare la solitudine necessaria alla forza, il respiro lungo in cui lo spirito si raccoglie e si misura il coraggio? Rimangono le grandi città. Però ci vogliono ancora certe condizioni. Le città che ci offre l’Europa sono troppo piene dei rumori del passato. Un orecchio esercitato vi può percepire un frusciare d’ali, un palpito di anime. Vi si sente la vertigine dei secoli, delle rivoluzioni, della gloria. Ci si ricorda che l’ Occidente si è forgiato nei clamori. Il che non fa abbastanza silenzio”. Certi deserti hanno assunto, essi stessi un senso sovraccaricato di poesia. “E’ un luogo sacro per tutti i dolori del mondo. Invece, in certi momenti, il cuore chiede proprio luoghi senza poesia. Per fuggire la poesia e ritrovare la pace delle pietre, ci vogliono altri deserti, altri luoghi senza anima e senza ricordi ... Qui almeno regna la naturalezza. In fin dei conti, esiste una grandezza che non si presta ad essere elevata. E’ infeconda per natura. E chi desidera trovarla lascia gli “ambienti” per scendere nella strada.
La situazione sul campo era ancora a dir poco esplosiva. L’aeroporto internazionale della capitale era controllato dagli Imazighen, la minoranza non araba tenuta fino allora ai margini della società. Dopo avere abbandonato i villaggi sui monti, gli Imazighen avevano dato un contributo decisivo alla caduta del regime, e non avevano alcuna intenzione di ritornarsene a casa senza avere prima ottenuto garanzie militari, posti nel governo -in particolare il Ministero dei Lavori Pubblici- e, soprattutto, risorse finanziarie adeguate. L’aeroporto più prossimo a Sidi Thubacr era invece spartito fra i rivoltosi della città, del capoluogo della regione, Ghazi, e della zona costiera, Surt. Sicuramente Sidi Thubacr era stata la città più determinata a combattere, tanto da aver richiesto il futuro Ministro e Ministero della Difesa. Città martire della guerra, a lungo unica énclave della resistenza, che per questo aveva pagato un prezzo esorbitante in termini di distruzione e di vite umane, agendo in maniera indipendente dal GFP, e dai suoi rappresentanti nella regione. Davanti al terribile spettacolo delle sue macerie fumanti, gli stessi reporter occidentali l’avevano definita una nuova Grozny, o una nuova Falluja. Ciò che il Governo rovesciato non era riuscito a fare, i ribelli e i bombardieri della NATO l’avevano fatto grazie all’intervento della coalizione occidentale. Sotto le macerie di quella città probabilmente giaceva anche il principio della “responsibility to protect”, il diritto-dovere di proteggere i civili tanto sbandierato dalla NATO, che se ne era fatta scudo per le proprie “incursioni umanitarie”. Era anche grazie a questo intervento per la “protezione dei civili”, che le 1.000-2.000 vittime cadute a causa della brutalità dei governativi dall’inizio della crisi, erano diventate 40.000, su una popolazione di appena 6 milioni di abitanti. Se alla voglia di rivincita e di riscatto di Ghazi rispetto alla stessa Capitale, si aggiungeva il desiderio di vendetta dopo l’assedio delle forze lealiste, che avevano ridotto in macerie la città, con un pesante bilancio di morti e feriti, allora era comprensibile perché i miliziani di Sidi Thubacr rappresentavano la vera minaccia alla Giunta Federale Provvisoria (GFP). Poco più in là dall’aeroporto, entrando nella città, altri quartieri residenziali erano stati occupati preventivamente dagli insorti, che controllavano anche la strada che portava dall’aeroporto al centro della città. Una città spettrale, nella quale si cominciavano appena a vedersi i primi segni di vita. Gente rimasta chiusa in casa per giorni, si riaffacciava per strada. Alcuni negozi riaprivano, anche se la maggior parte delle saracinesche rimanevano ancora abbassate. In definitiva Sidi Thubacr era ancora semi-vuota. Dietro l'euforia dei vincitori, c'era ancora una situazione molto critica: la città era funestata da continui black-out, non c'era acqua corrente. Per trovare benzina, bisognava andare a 30 km di distanza, dove una piccola raffineria aveva ricominciato a funzionare. “Stiamo lentamente tornando alla normalità. L'impianto idrico non funziona perché l'acqua viene da riserve nel sud, dove sono ancora attivi alcuni gruppi di mercenari governativi”, aveva assicurato il responsabile dello Stabilization Team, il gruppo incaricato di assicurare la stabilizzazione post-guerra. “Gli ingegneri sono già al lavoro. Tra qualche giorno, ci sarà acqua corrente”. Per ora, tutti si affidavano ai vecchi pozzi, con un asino che girava con pazienza intorno alla noria, sopportando le percosse, la ferocia ella natura, il sole, le mosche, sopportando e sopportando, e da questo lento procedere in tondo, apparentemente sterile, monotono, doloroso, sgorgavano instancabile le acque, come era stato per anni e anni, per secoli. Juan e Nikolett, dai documenti sua collega e consorte –con gran de giubilo di lei, comunque Juan avesse ottenuto quei documenti- erano arrivati sotto la copertura di tecnici di una società con esperienza in organizzazione logistica, consulente della Cho Kiang Banking Society, una delle cinque maggiori banche private internazionali, le cui sedi principali erano a Hong Kong, Shanghai e Singapore. Il Segretario di Stato degli USA, pur dopo il ritiro dell’appoggio all’intervento della NATO, era sbarcato nella Capitale per assicurare alla GFP quanto fosse nell’interesse americano “consolidare i risultati della rivoluzione, e dare aiuto alla ricostruzione del Paese, delle istituzioni necessarie alla transizione democratica, sviluppando la società civile, e più in generale espandendo i rapporti economici in modo da aiutare il popolo di questo Paese a prendere parte ad un più aperto ordine economico regionale”. La realtà era molo diversa, e quelle parole erano state parole al vento. I vecchi rancori non erano facili da dimenticare. Contractor inviatati sia dalla GFT, sia dai Capi che controllavano i diversi quadranti della scacchiera in cui si era trasformata il Paese, stavano già operando per aiutare a “mettere in sicurezza” le armi disseminate su tutto il territorio nazionale. La ricostruzione in sé, quella degli impianti per l’estrazione, il trasporto e lo stoccaggio delle materie prime in particolare, erano un boccone succulento. In un mondo, però, il cui asse economico e finanziario si stava spostando progressivamente verso oriente, americani ed europei non erano più gli unici a competere per spartirsi i profitti della ricostruzione di un paese. Dovevano fare i conti con potenze come la Cina, la Turchia … e il Qatar(!), che partivano da posizioni di vantaggio. Al di là delle ripercussioni del conflitto, bisognava rilevare che le società di molti Paesi africani stavano attraversando una fase di tensioni interne e di progressiva frammentazione. E ciò avveniva mentre l’Africa era oggetto dei crescenti appetiti delle potenze mondiali, per le sue risorse energetiche e naturali. Il continente africano era teatro del affermarsi sempre più ampio, su ogni altro competitore, della Cina, che assicurava un’espansione economica, concentrata principalmente sulla costruzione di infrastrutture, oltre che sull’estrazione di materie prime, e un afflusso di beni di consumo e strumentali. Nonché, va da sé, per la sicurezza. Le potenze occidentali che proiettavano la loro influenza in primo luogo con mezzi militari, sostegno militare o finanziario, erano viste con sospetto, se non apertamente osteggiate, così che, nonostante il loro gigantesco sforzo militare, e dopo aver distrutto un intero paese, gli USA e le grandi potenze coloniali europee, alla fine non avevano praticamente ottenuto contratti petroliferi o vantaggi economici di rilievo. La GFP aveva diviso gli Stati interessati in due categorie: quelli che offrivano cooperazione e sviluppo, e quelli che volevano aprire dei take-away delle risorse del Paese. Washington ed i paesi occidentali in generale, ancora non sembravano aver compreso che gli interventi militari non garantivano più una penetrazione economica duratura, come accadeva una volta, quando l’Occidente non aveva competitori economici sulla scena mondiale. Allo stato attuale, si stava rivelando molto più efficace e “redditizia” la penetrazione economica in “stile cinese” che non quella militare di marca americana. Tanto che, quasi in tacito accordo, gli USA avevano gradatamente limitato la loro area di influenza e di controllo ai soli Paesi che si affacciavano sul Golfo di Guinea. Fare un elenco, anche sommario, degli investimenti cinesi, richiederebbe troppo tempo e spazio. Questa era, anche, una delle ragioni che avevano spinto Juan a presentarsi con quelle credenziali, che non erano di sola copertura. Lui era un tecnico dell’organizzazione logistica, e aveva ricevuto un incarico dalla Cho Kiang Banking Society, nel modo e nei termini che non anticipiamo qui. Anche Nikolett faceva il suo lavoro: si era immedesimata nella parte, dando più ampio spazio al ruolo di neo-consorte, che non a quella di collega. Nel contempo, anche le società specializzate nel settore della sicurezza privata erano già al lavoro in risposta all’aumento vertiginoso della domanda nei settori del risk assessment e della sicurezza, in particolare quella necessaria per la gestione dei pozzi petroliferi. Tra queste c’era la SOE, e Juan si ritrovava con una gran brutta gatta da pelare. Anabel aveva firmato un contratto, al quale stava sicuramente lavorando da tempo, tenendo Juan all’oscuro di tutto; e poi, sempre per accordi presi da lei –era o no la CEO?!- aveva inviato Juan a prendere contatto con emissari dello stesso Paese. Così Juan si era ritrovato sul posto con un doppio incarico, senza che fosse chiaro se si trattasse di rappresentanti della stessa “parte”, o almeno di parti alleate, e non invece contendenti, in conflitto tra loro.
POUR PARLER. Quello che Juan aveva avuto, prima della partenza, era stato un incontro di lavoro, con un probabile cliente. Probabile, non ancora “possibile”. Per questo era rimasto al Grand’Hotel dopo la fine del time-out con Anabel, e prima della notte tempestosa con Nikolett. Va da sé, la fase precedente era stata quella dell’accertamento reciproco delle identità e delle credenziali, tramite chi aveva avuto l’idea di metterli in contatto. Prassi comune quando qualcuno aveva intenzione di valersi dell’esperienza e della pratica ad alto livello del SOE. Non ci si incontrava in un ufficio, sede, casa o altro di uno dei due. Si ricorreva a un territorio neutro. Era pratica di lungo corso, se non secolare, sub specie di corsari e di mercenari, che gli Stati affidassero sempre più ampie sfere di attività, a società o compagnie di contractor. Con il diffondersi dei conflitti locali, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, molti Governi avevano fatto ricorso, con profitto, a professionisti indipendenti. Alcune Compagnie militari private (CMP) fornivano piccoli eserciti per operazioni di polizia contro sommosse, o di controguerriglia se tormentati da agitazioni politiche e a rischio di colpo di Stato. Altre Compagnie, come la SOE, fornivano istruttori militari; esperti in organizzazione logistica –come Juan- e in tattiche; specialisti nel controspionaggio e nell’organizzazione di reti di contatti e comunicazioni, indipendenti da quelle ufficiali. Non forniva né intermediava, invece, a differenza di molti altri, l’ingaggio di combattenti, nella convinzione che in un Paese è opportuno che il popolo veda il “Capo” protetto, o destituito, da forze formate da connazionali. La filosofia aziendale era quella di aiutare i clienti a sbrigarsela da soli.
Il luogo dell’appuntamento era a quindici chilometri dal Grand’Hotel, nell’interno, in una sontuosa e molto ben sorvegliata villa, già appartenuta a qualche barone della locale nobiltà terriera, e circondata da terreni ondeggianti, ombrosi boschetti, e giardini ben curati, in mezzo ai quali si intravvedeva un’impressionante piscina. Campi e boschi più ambi si estendevano tutt’attorno. La costruzione era quadrata, protetta da mura molto alte, munite di apparecchiature elettroniche. Un certo numero di guardie del corpo, messe appositamente in bella vista, contribuiva a ostentare condizioni ideali di sicurezza. Nel vasto cortile interno, viali e vialetti ghiaiosi attorno a aiuole, pezzi di prato cintati o meno da basse siepi, in un armonioso disegno che si sarebbe potuto ammirare solo dall’alto dei balconi e delle finestre. Su un lato era aperta un ampia autorimessa, dove figuravano due SUV BMW, cinque o sei Range Rover non propriamente attrezzate per uso civile, e quattro berline Mercedes e Lancia.. L’ala opposta al portone d’accesso era senza decorazioni né fronzoli, che abbondavano sulle altre facciate, e con infissi più piccoli, un aspetto generale molto modesto. Chiaramente era destinata alla servitù. Juan aveva preso nota: ogni particolare, ogni dettaglio, era essenziale. Ai piedi di quattro gradini che salivano a una porta, l’aveva accolto e introdotto nella villa, un uomo piccolo e tarchiato, dai modi molto formali, vestito con capi firmati. Non prima di avergli chiesto di consegnare armi e cellulare, o altri dispositivi elettronici che si portasse indosso. ‘Sorveglianza discreta, a distanza, non visibile. Sanno fare il loro mestiere’, Juan aveva consegnato l’arma e il suo GIL, poggiandoli sull’imbottitura di un cestino di vimini, che l’ometto gi aveva porto. Il salone nel quale era entrato Juan era grande quanto un campo da tennis, tutto cremisi e oro. Tutto trasudava lusso, ostentava le nobili, e ricche, origini, esigeva che l’alto rango dei proprietari impressionasse gli ospiti. E rassicurasse i proprietari stessi. “Molto lussuoso”, aveva commentato Juan, senza ricevere cenno dall’ometto. Dalla poltrona in cui era sprofondato, si era alzato un altro uomo, di sicuro l’ospite, che aveva accolto Juan con un ampio sorriso, invitandolo, con un gesto, a sedersi. Nessuna stretta di mani. L’ospite era di statura media, a confronto con il bassotto sembrava più alto di quanto non era, e aveva un torace possente, saldo. I capelli erano tagliati così corti che pareva calvo. Barbetta da profeta. Anche i suoi abiti erano capi firmati, ma con firme di maggior prestigio, confezionati a mano su misura, perfetti. Il piccoletto aveva portato, su un vassoio d’argento finemente cesellato, bicchieri con una caraffa di tea freddo e una di limonata ghiacciata, che aveva servito a tutti, compreso se stesso, prima di prender posto a lato dell’ospite. Si era presentato come Mazhar Saleh. Non che il nome importasse, era sicuramente falso. Aveva guardato con interesse il contenuto del cestino. “Posso?”, aveva chiesto prima di prendere in mano il GIL. “iPhone?”. “No ... le presento Gil, Global Interface Link, telefono, computer, gps, modem, carta di credito, scanner, e navigatore ... e no, non fa anche il caffè”. Mazhar Saleh aveva avuto un sorriso stiracchiato, “Impressionante. Pretendo troppo se le chiedo di averne in omaggio uno?”. “Non dipende da me, ma riferirò certamente. E caldeggerò, non dubiti”. Era sembrato soddisfatto della sua risposta, o dalla sua diplomazia. Mazhar Saleh era passato alla Walther di Juan, che ne aveva illustrato le caratteristiche, “E’ la principale antagonista delle Glock tra le semiautomatiche. Mantiene alcune caratteristiche distintive della P99, come il fusto in polimero, e l’eccellente impugnatura, anche se sulla P22 è stato adottato un più tradizionale sistema con cane esterno. Singola azione, peso di trazione intorno ai 1.200 grammi. Per grandi performance nel tiro rapido”. “Sembra davvero una versione in scala ridotta della P99, stessa estetica, la stessa eccellente impugnatura, linea elegante e inconfondibile”. “E anche la sequenza dello smontaggio”, operazione che stava svolgendo a beneficio dell’ospite, “è ereditata dalla P99, ma soprattutto è ispirata al sistema adottato per le mitiche PP e PPK –ricordate Bond, James Bond?-, sulle quali si faceva basculare verso il basso il ponticello, prima di sfilare il carrello dalla parte posteriore delle slitte ricavate sul castello. In questa, il ponticello è fisso, e per sganciare il carrello bisogna agire contemporaneamente sulle due facce zigrinate del cursore, che sporgono sui due lati del castello. Dopo aver abbassato il cursore, impugnandolo con pollice e indice della mano sinistra, si fa arretrare con la mano destra il carrello, fino a farlo uscire posteriormente dalle guide ricavate sul fusto. La parte migliore per la quale afferrare il carrello sono le sei scanalature posteriori, dagli incavi piuttosto profondi, che si utilizzano anche nella fase di cameratura del colpo. Una seconda zigrinatura è presente nella parte anteriore del carrello. Il lubrificante migliore è il TW-25 B a base di fluorocarburi. Per le munizioni ...”. “ ... Stinger a punta cava”. “Certo”. Mazhar, dopo che Juan l’aveva rimontata, l’aveva rigirata tra le mani, da esperto, estraendone il caricatore, e poi espellendo il colpo in canna. Aveva provando il meccanismo di scatto. Sembrava soddisfatto, e aveva deposto la pistola senza reinserire i proiettili. Jaun si era chiesto se non fosse stato un espediente per scaricare la sua arma. Se sì, era stata una mossa maldestra, poteva semplicemente chiederglielo. Non era stato un pretesto, “Ottima arma ... ma, mi scuserà se mi permetto: una calibro .22? Mi aspettavo qualcosa di più ... potente”. Juan aveva riso divertito, “Non si preoccupi, ho anche altro, secondo le circostanze”. “Tutte calibro 0.45, scommetto, e se ne va in giro con ... questa!”. “Mi permetta, non dovevo andare alla guerra, e, comunque, nel caso, sono sotto ottima scorta”, il signor Mazhar Saleh aveva leggermente inchinato la testa con un sorriso di cortesia, per ringraziarlo dell’apprezzamento, e per l’apprezzamento della sua perspicacia. “Ora, se qualcuno volesse eliminarmi, e usasse un cecchino, sarei morto comunque. Mettiamo invece il caso di un killer, che necessariamente deve avvicinarsi ... e prendere la mira. La velocità di reazione e la precisione dipendono dal tiratore, ma anche dall’arma, e io, con questa, sono estremamente veloce. E ho il vantaggio della sorpresa: fondina alla cintura, quasi orizzontale ... e a sinistra. Mi basta poter appoggiare una mano sul fianco, un gesto abbastanza naturale, accompagnato da un movimento molto più ... sospetto con la destra, e ma la trovo in mano prima di accorgermene io stesso. L’ipotetico killer userebbe probabilmente qualcosa, come dice lei, di più potente, quindi più grosso, più difficile da estrarre, più tempo per farlo, da reggere poi con due mani, altro tempo, e per prendere la mira, altro tempo ancora. Il vantaggio è tutto mio. Con una .22 estrarre, puntare, sparare, e a una mano, è più fluido, veloce, con un po’ di allenamento addirittura un riflesso istintivo”. Mazhar aveva annuito, e contemporaneamente scrollato la testa dichiarandosi solo parzialmente soddisfatto, “E la potenza? La forza d’impatto? Una 0.45 mette fuori combattimento con un solo colpo, una .22 no”. Altro sorriso sornione di Juan, “Il mio obiettivo, in un simile frangente, non sarebbe mettere fuori combattimento il killer, ma eliminarlo”. Fronte aggrottata, “Con una .22?”. “Certo. Un killer potrebbe anche indossare un giubbotto antiproiettile”, Mazhar aveva annuito vedendo la sua obiezione a maggior ragione confermata, “Perciò c’è un solo punto nel quale sono sicuro di poterlo colpire a morte, e una .22 è più utile di un cannone a mano”. Saleh aveva ridacchiato all’ultima definizione di Juan, “E dove sarebbe questo ... tallone di Achille?”. “Gli occhi”. I due uomini l’avevano guardato perplessi, si erano guardati sconcertati, per tornare a rivolgersi a lui, attendendo una spiegazione meno succinta. “C’è un unico punto del corpo umano, beh, nel caso due, che non possono essere né nascosti né difesi: gli occhi. Anche se il killer si fosse spalmato la faccia di nero o altro, il bianco degli occhi resterebbe visibile. Se portasse occhiali, evidentemente dietro ci sono gli occhi. Occhiali di notte, riflettenti non certo scuri e comunque improbabili, e ancora non lo proteggerebbero, dovrebbe ... corazzarli ... Un solo colpo e il proiettile entra, nella scatola cranica attraverso l’occhio, e si mette a rimbalzare come una pallina da flipper. Persino riuscisse ad entrare nella mia stanza di notte, non potrebbe nascondere il bianco degli occhi ... et voilà, c’est tout”. Mazhar Saleh non era ancora del tutto convinto, “E il fattore sorpresa?”. Juan aveva scrollato le spalle, “Per quanto si possa stare attenti e in guardia, resta un fattore imponderabile, senza chi ti copre le spalle. Resta l’istinto, e alcune quasi certezze. Un killer non mi avvicinerebbe di fronte, sarebbe un duello non un’esecuzione. Resta un attacco laterale, e qui conta il colpo d’occhio, l’attenzione continua, essere sempre in allarme rosso. Arrivando da un fianco, l’ipotetico killer, sempre con gli handicap che ho detto, può solo mirare alla testa. Se mi sorprende, è come col cecchino: uomo morto. Se no, sempre col vantaggio di un unico gesto, posso sparare mentre mi accovaccio. Dovrei sparare più di due colpi, ma potrei anche trovare un riparo, quindi ...“ “Impressionante, davvero impressionante, devo confessare che mi ha fatto venire i brividi ... quindi lei è un killer perfetto, diciamo”, e impressionato lo era veramente, e molto. “No, il mio lavoro è prevenire, e, per prevenire, se mi consente l’espressione, devo saperne sempre una più del diavolo”. Mazhar Saleh aveva assentito gravemente, rimanendo un attimo assorto, forse meditando le parole di Juan. “Allora credo che lei sia proprio l’uomo giusto”. Il resto del colloquio era stato piacevole: oltre al buon gusto, Saleh aveva dimostrato intelligenza, perspicacia e determinazione. Non era mai stato arrogante, e non aveva mai dato cenni di contrarietà alle osservazioni che Juan, via via, faceva. Come si conveniva, l’aveva presa molto alla larga. “Come lei ben sa, dopo il rovesciamento della dittatura, nel mio Paese, così come negli altri che si sono liberati, la situazione è più incerta che mai. La sfida della riconciliazione, e della ricostruzione, sembrano troppo ardue per la GFP. Le diverse forze politiche e militari si sono frammentate. Istituzioni governative e strutture amministrative sono inesistenti. Il GFP è un fallimento anche nelle cose più banali. Ci sono città che si comportano come città-stato dotate di proprie milizie. E provincie che sono staterelli autonomi. Un mosaico di gruppi di miliziani che non vogliono né ritirarsi, né consegnare le armi, e obbediscono solo ai loro comandanti. C’è il serio rischio che si formino “stati ombra”. Anche i fedeli al vecchio regime stanno riarmandosi, anche con armi pesanti, e hanno occupato una città, resistendo a una brigata delle forze regolari, finché non hanno deciso loro stessi di ritirasi. Parlare di controllo del territorio da parte del GFP sarebbe quanto meno azzardato. Più che dell’unità nazionale e della ricostruzione ... guardi, tutto ciò che era in macerie continua ad esserlo, ciò che era confuso e incerto ad esserlo di più ... siamo una scacchiera di cui ogni riquadro è una potenziale polveriera. Invece c’è molta delusione e irritazione per la poca trasparenza nella gestione del fiume di denaro che sta affluendo nel Paese da ogni parte del mondo ... Come non bastasse, circolano voci, per ora non confermate ... almeno non ufficialmente, di vendite di gas a un prezzo ben al di sotto a quello di mercato, per saldare un debito con chi ha dato appoggio al GFP. Vere o non vere, alimentano l’ostilità verso nuove forme di corruzione e concussione che si speravano finite col vecchio regime”. Juan non era solito interrompere l’interlocutore, ma era sempre meglio mostrare di non essere degli sprovveduti. “E sulla destinazione della spropositata quantità di armamenti in mano a ex-soldati, miliziani, semplici cittadini? Mi risulta siano ancora in circolazione circa seicento ex-“afghani”, veterani anche del Ciad e dell’Afganistan. Per non dire di quelle vendute alle organizzazioni fondamentaliste. State ... o stanno lentamente armando formazioni che si ispirano ad Al Qaeda, e tutti ricavano bei soldi anche da questo commercio”. Mazhar aveva pensato a lungo prima di rispondere, ma aveva capito che la risposta a quella domanda era determinante, “Di questo non si preoccupi, abbiamo già chi se ne occupa. Le posso assicurare che verrà tutto “riciclato” verso altri scenari”. Juan non era soddisfatto, “Mi scusi se insisto, ma se devo anche solo incrociare la scia con un’altra ... società come la mia, desidererei proprio saperlo ... altrimenti temo di ... insomma, ci siamo capiti”. Saleh non aveva avuto bisogno di riflettere a lungo come prima, si aspettava quella richiesta, e non poteva non considerarla legittima, “Avrà sentito parlare di un “generale fantasma” israeliano che arruola mercenari e armi, anche di ... seconda mano, per, appunto, riciclarli, a regimi traballanti, o che ancora non sanno camminare sulle proprie gambe ,,,”. “Il GDS !?”, aveva subito concluso Juan. “L’ha detto lei”. Juan aveva preso buona nota, rimanendo esterrefatto da quella “rivelazione”, il SOE e il GDS erano legati da un patto di mutua assistenza ... come poteva essere ...? Non aveva avuto tempo di rifletterci più a lungo. Saleh aveva preso la parola annuendo gravemente, “La Giunta provvisoria si sta trasformando in una nuova oligarchia di notabili ed ex-notabili, e la situazione sta assumendo aspetti che ricordano l’Afghanistan, l’Iraq, la Somalia. Tutto rischia di degenerare in una guerra civile, non solo tra diverse formazioni, anche tra diverse aree del Paese. E lo spirito vendicativo, la volontà di ritorsione sono a livelli ancora molto alti, esplosivi. E’ più facile sparare che perdonare. Terreno fertile per l’Aqmi, Al Qaeda per il Maghreb Islamico. L’esercito non esiste, il vuoto lo sta riempiendo la Lega nazionale degli Shabab. E dietro a tutto stanno i Fratelli Musulmani, che tengono un profilo basso, per non inquietare i moderati e la comunità internazionale. E’ la loro tattica implacabile, se otterranno grandi consensi alle elezioni passeranno dal “benessere per tutti”, a “Allah è la vera soluzione”. E questo vogliamo proprio evitarlo. E’ il nostro obiettivo”. Juan era aveva un’altra domanda in punta di lingua, e non poteva trattenerla, “E le Tribù? Hanno avuto un ruolo decisivo nel rovesciamento del regime. Hanno saputo metter da parte le loro tradizionali rivalità, e anche ora sembrano fare fronte unito, mentre gli altri si scannano”. Il viso di Mazhar si era disteso in un sorriso compiaciuto, e di apprezzamento. “E’ un conoscitore della nostra storia, o si è ben aggiornato prima di venire qui”. Juan, serio, “Entrambe le cose, è il mio mestiere”. Saleh, fattosi a sua volta molto serio, “Bene, visto che ha centrato il problema ... Le tribù sono un pilastro antico. La loro presenza e il loro radicamento hanno origini antichissime, e sono radicate nelle piccole città, nelle campagne, fra i beduini del deserto. Sono musulmani, ma la loro cultura è un mix di tribalismo, usi consolidati e un senso innato del potere che mal si conciliano con l’integralismo. La GFP è presente, e divisa, nelle grandi città, dove non risiede la maggioranza della popolazione. Gli Sceicchi sono presenti in ogni organismo, vecchio e nuovo. Sono piazzati trasversalmente in tutti i partiti, e il loro progetto è simile a quelli degli gnomi del Golfo. Vogliono il controllo delle risorse pubbliche, soprattutto vogliono il petrolio. Sono i soli che si stanno muovendo per rimettere in moto i servizi essenziali: l’acqua, la luce, la sanità, aiuti alle famiglie”. Juan, “Virtualmente hanno già il potere”. Mazhar, con sconforto, aggrottando la fonte, “Non è così semplice. Per ora sono uniti, è un Consiglio di tutti gli Sceicchi che prende le decisioni. Ma manca un collante. Chi può mettercelo, è in prigione. E reparti con addestramento e armamenti moderni sono accampati oltre i confini. C’è già un accordo di massima tra le Tribù e con le Tribù”. Juan aveva completato, “Quindi, basta liberare i prigionieri”. Mazhar, aprendo le mani come un prestidigitatore che dice “voilà”, “Esatto. Questo è il piano. Ma nessuno dei contendenti può permetterselo, senza evitare l’accusa di tradimento e connivenza con qualche potenza ... take-away. Serve un colpo di mano, condotto da professionisti. Un’operazione chirurgica ... il resto verrà da sé. Ci sono anche ex comandanti delle truppe speciali governative ... ma, al tempo, chi poteva non far parte di qualcosa di governativo? Eppoi, il nostro asso nella manica è l’attuale capo dei servizi di informazione e sicurezza, un ex del regime”. Juan, “Quindi si tratta di non procedere a purghe ... di riconciliarsi con chi è disponibile ... ed è possibile farlo. Immagino, per evitare che prevalgano i Fratelli Musulmani e Aqmi”. “Esatto!”. Mazhar Saleh si era rivolto al piccoletto, che era stato fin’allora in assoluto silenzio, “Signor Kilo, Nazim Kilo”, aveva precisato a beneficio di Juan, “vuole esporre le linee generali ...”, non era una domanda. Nazim Kilo si era raddrizzato sulla poltrona, nella quale si era afflosciato, “E’ un piano semplice, che prevede l’assembramento delle ... truppe e delle armi a Skhira, nel confinante Qarṭāj, da trasportare poi in aereo fino nei pressi di Zoyara. Lì troveranno l’appoggio delle Tribù Taqbilt. Nazim Kilo aveva liberato il tavolino, per stendervi cartine e foto aeree, sulle quali tutti e tre si erano chinati, sedendo in punta di poltrona, le braccia appoggiate alle gambe. “Si radunerebbero fuori dalla città, lontani anche dalle periferie ... ci sono solo campi spogli”, sottolineava la sua esposizione spostando l’indice sui vari luoghi, “e li riforniremo di armi dal cielo. Avevamo anche pensato a un’operazione interamente paracadutata, ma abbiamo pensato che la squadra potrebbe disperdersi troppo. Con gli elicotteri bisognerebbe volare più basso, e più vicini. Sarebbe necessaria una base più prossima all’obiettivo, e poter disporre di rifornimenti di carburate, di pezzi di ricambio, di personale a terra ...”. Juan non aveva riconosciuto solo i luoghi, ma anche le cartine e le mappe. Erano foto e mappe millimetriche, chiaramente riprese da satelliti o ricognitori d’alta quota, e anche molte riprese a bassa quota. Ognuna portava in calce l’indicazione identificativa del reparto, del mezzo, delle basi, del giorno, ora, minuto, secondo ... Mancavano solo le sigle dei piloti. Sicuramente erano state fatte su indicazione precisa, da chi stava fornendo appoggio, e non si trattava di compagnie di mercenari. Aveva registrato l’osservazione, per riesaminarla meglio e con più cala. “Si introdurranno in Città e l’attacco sarà di sorpresa e riuscirà ... e due brigate che sostano appena oltre il confine del Sahara interverranno. E ... e poi ci sono tutti i prigionieri, i mercenari del regime, rinchiusi con le loro famiglie, che riceveranno armi e combatteranno con noi. Questa volta non per soldi ... per odio. Da quando sono rinchiusi nei campi sistematicamente le guardie si eclissano e lasciano via libera ai predoni, che rubano e violentano. Ogni notte, per tutta la notte! Vedrà se non si butteranno a scannare i loro aguzzini ...!”. “Nazim!!!”. Saleh l’aveva richiamato con durezza, poi, con voce ferma, ma più bassa, “Calmati ... non stai fomentando la rivolta ...”. La reprimenda non era solo formalmente un invito alla calma. La motivazione vera era che il signor Kilo stava rivelando troppo del loro piano, soprattutto qualcosa che non avrebbe dovuto. “Lo sganciamento?”, aveva chiesto Juan. “Come?”. “L’uscita di scena, e l’uscita dal Paese”. “Nessun problema, la situazione sarà sotto il nostro controllo ... ... i “visitatori” spariranno con la stessa velocità con cui saranno venuti ... il resto sarà nelle nostre mani. Tanto più che inizialmente ci sarà un gran disordine”. Juan si era mostrato scettico e perplesso, “Potrebbe non andare così, e, in ogni caso sarebbe meglio scomparissero prima che la situazione si normalizzi. Un piano B ci vuole sempre, e lo sfilarsi alla svelta risponde anche a un’esigenza vostra: i mercenari hanno la ferma convinzione che in un Paese è opportuno che il popolo veda il “Capo” protetto, o destituito da forze formate da connazionali. E’ una regola aurea”. Saleh aveva saputo diplomaticamente rivoltare il bambino nella culla, serafico, “Quello di come far uscire il ... commando è un problema logistico per il quale ci siamo rivolti a lei ...”, si era affrettato a dire. A Juan era piaciuto quel modo di uscire da una situazione imbarazzante, e aveva rilanciato, “Benissimo. Questo è un incarico in più, e ne sono onorato. Ovviamente dovremo rivedere il preventivo”. Mazhar Saleh era pacato e calmo, ma Juan era pronto a scommettere che avrebbe voluto prendere a martellate sui coglioni se stesso e Nazim, non nell’ordine: gli aveva rivelato proprio ciò per cui aveva richiamato all’ordine Kilo, prima che sproloquiasse. Ormai la frittata era fatta, ma Saleh voleva salvare l’onore, “Ah, sì ... sì, quanto al preventivo è logico. Per il resto credevo proprio le fosse sufficiente … l’avevo dato per contato …”. L’ultima parte della frase l’aveva pronunciata come avesse a che fare con un alunno che l’aveva deluso: si era aspettato che ovviamente sapesse una cosa, e quello, inopinabilmente e in modo veramente sconcertante per il maestro, aveva fatto scena muta. La forma, in questo caso, era più importante della sostanza, e Juan gli aveva lasciato il punto immaginario. Quasi. “Se prima deve consultarsi ...”, dentro di sé stava divertendosi, mostrandosi però serio, quasi riverente. Stoccata andata a segno, ma incassata bene, “No, signor Juan Tenorio, io non devo consultare né tanto meno rispondere a nessuno”, ancora una volta aveva dovuto affrettarsi ad aggiungere, “Sono un plenipotenziario ...”. E dopo la parata, Juan aveva toccato: “Io invece no, purtroppo. Devo sentire il mio Capo, prima di darle un assenso formale e definitivo. Io non sono plenipotenziario ... diciamo, un ambasciatore”. Il colpo a segno di Juan era consistito nell’aver posto il proprio rango e ruolo al di sotto di quello di Saleh. Quest’ultimo si era certamente aspettato di contrattare con un parigrado, un decisore finale. Invece aveva dovuto intrattenersi con un “ambasciatore”, un portavoce, uno che contava meno ancora di Nazim Kilo!
FACENDO DUE RIGHE DI CONTO. Al ritorno avevano usato un’auto diversa, una Mercedes, e un itinerario diverso, per poi lasciarlo non all’Hotel, ma all’inizio dell’isola pedonale che occupava il centro della città. Là dove Juan aveva avvertito i primi sintomi del male che l’avrebbero portato alla notte buia e tempestosa ... ma anche tra le braccia di Niki, e oltre. La scorta, invece, era la stessa. Juan, durante il tragitto, aveva voluto subito registrare alcuni punti che avevano attirato la sua attenzione. Uno l’aveva già fatto presente: il punto critico di simili piani consisteva nel modo di riportare a casa gli uomini a cose fatte ... anche nel caso fossero andate male. Qualsiasi fosse il piano, doveva necessariamente includere tutte le cautele possibili in vista dello sganciamento, e scegliere le meno fallibili. Di infallibile non c’era nulla, rischio del mestiere. Anche Saleh, e Kilo, avrebbero dovuto preoccuparsene, non sarebbe stato gradevole neppure per loro che venissero trovati sul campo dei mercenari dopo il colpo, riuscito o mancato. A meno che ... a meno che pensassero di eliminarli facendo ricadere su di loro ogni sospetto di complotto, e passando per salvatori della patria. Improbabile, ma non impossibile. Sarebbe stato un inganno one shot, che si poteva usare una sola volta, e facendosi non pochi nemici. La febbre del potere però ... Secondo punto. Un dato di fatto per tutte le formazioni paramilitari di mercenari, tutt’altro discorso per i contractor, era che non potevano operare, anzi non potevano neppure pensare di esistere, senza la consapevolezza e il tacito assenso del loro Governo. I Governi non potevano fare a meno di sorvegliare i mercenari e le loro organizzazioni, che, diversamente dai contractor, non erano ingaggiati dai Governi stessi, soprattutto se agivano in zone nevralgiche, poiché costituivano una fonte di potere e, come diretta conseguenza, di disordine. Quando diventavano troppo importuni, allora la tolleranza ufficiale veniva meno, e potevano anche essere eliminati. Non direttamente da quel Governo, ma in base ad informazioni date da quel Governo. C’erano, inevitabilmente, situazioni poco chiare, nelle quali i Governi, se non usavano forze da loro non palesemente dipendenti, facevano affidamento su di loro, e fornivano supporto: informazioni, contatti, armi, mezzi di trasporto, ricognizione aerea. Erano situazioni nelle quali un Governo voleva indirizzare le cose nella direzione giusta, e non poteva giustificare un intervento diretto. Era escluso l’impiego di forze regolari, che avrebbero dovuto essere distratte e impiegate in segretezza, fomite dopo aver eluso noie non poche noie burocratiche, e c’era sempre qualcuno che finiva col porre domande, o, peggio, interrogazioni, compromettenti, che avrebbero costretto a negare l’esistenza di un’operazione. Un esercito privato, all’occorrenza, era tranquillamente ripudiabile. E’ vero che erano eterocliti, travagliati, ma sapevano muoversi o meno a un cenno di assenso o a un aggrondar di ciglia. Mastini della guerra. Per qualsiasi impresa, quindi, occorreva valutare non solo i pro e i contro, ma anche tastare il polso a qualche Governo, scoprire quali appoggi potesse avere l’obiettivo da colpire, stabilire la possibile estensione di quell’iniziativa privata. Indagini nelle quali era essenziale evitare approcci troppo scoperti, che avrebbero violato le basilari norme di sicurezza, e creato disagio e noie al Governo. Una approvazione formale non ci sarebbe mai stata, e il punto di vista ufficiale andava vagliato con cura, senza porre domande dirette, e eccessive. Il ricorso all’intuito politico era l’unica risorsa per decidere la portata della libertà d’azione di cui si disponeva. Grazie alla sua esperienza, alle sue prestazioni, e alle sue relazioni, Juan Tenorio era in una buona posizione per saggiare il clima ufficiale. Era avvezzo ad avvertire le tendenze, dove tirava il vento, qual’era il giro del fumo, scegliete voi la definizione che meglio vi aggrada. E più di una volta aveva dimostrato di saperlo prevedere. Non poche volte aveva iniziato i negoziati in vista di un contratto promettente; insomma, era il suo mestiere. A chi doveva misurare la pressione? Un’indicazione l’aveva: le mappe e le foto. Non solo erano rivelatrici del Paese di appartenenza dei mezzi impiegati in base all’identificazione dei reparti, ancor più rivelatrici erano le indicazioni temporali. Foto e cartine, soprattutto quelle rilevate da bassa quota, risalivano al momento della rivolta che aveva portato al potere la GFP, e non potevano provenire che da chi aveva fornito supporto agli insorti. In quella circostanza quel Paese si era spinto nella sfera delle avventure, delle crociate, anzi, dei protagonismi personali del suo Presidente. Non erano stati impiegati solo ricognitori, anche cacciabombardieri, e missili Tomahawk. Il Presidente aveva agito da solo, e in modo diverso da quello che aveva concordato con gli alleati. Lo Stato Maggiore Generale si era dichiarato contrario a quella operazione, il Ministro degli Esteri e quello della Difesa si erano trovati davanti al fatto compiuto, e il Parlamento non era stato mai consultato. Con la sua credibilità e influenza messe in discussione da alcuni scivoloni politici e diplomatici, il Presidente era stato abile nell’approfittare della nuova strategia degli USA: un “riequilibrio” delle forze americane, con un alleggerimento in Europa e nel Mediterraneo, a favore dell’Asia e del Pacifico. Per controbilanciare l’investimento tecnologico e militare della Cina. Una misura che aveva interessato anche lo stesso “giardino di casa” degli States: l’America Latina, dove si stava sempre più affidando a contractor. Il Grande Volenteroso s’era preso una gran brutta gatta da pelare. La sua ambizione era quella di sostituire gli USA nell’amicizia particolare con l’Arabia Saudita, e restaurare sotto la sua egida un’egemonia europea sul continente africano, in funzione anticinese. Un obiettivo che, in fondo, non entrava in collisione con quelli statunitensi, il cui interesse era limitato al controllo del Golfo di Guinea. Juan non era certo che quello fosse il solo “colpevole”, ma i suoi precedenti erano inequivocabili. Alla domanda: cui prodest?, la risposta non poteva essere che quella. Nelle investigazioni di polizia si usa dire che la regola d’oro sia: seguire i soldi. Juan era convinto, per esperienza, che era un buon metodo anche nella politica degli Stati, solo un po’ più complesso, e i soldi non sempre erano soldi in senso propriamente monetario. Ultimo punto: non poteva non esserci un uomo sul campo. Saleh, si chiamasse o no così, era probabilmente il vero plenipotenziario, ma non il leader. Un Capo doveva esserci. Mazhar Saleh aveva fatto un nome, o, meglio, indicato un uomo, l’ex capo dei servizi segreti. Fosse poi una testa di turco, o uno che pensava di usare le risorse del plenipotenziario per poi liberarsi di lui, faceva poca differenza. Si sarebbero solo complicate le cose, perché un leader non avrebbe potuto mantenersi al potere dopo aver fottuto i poteri forti economici e finanziari. Se si trattava di un uomo intelligente, o anche solo furbo, si sarebbe goduto la posizione di primo piano, traendone il meglio possibile. In ogni caso, era importante sapere chi era. Altrettanto quando sapere quale fosse la potenza “protettrice”. Le cartine erano firmate: il nome dei reparti e tutto il resto. E i luoghi Juan aveva li conosceva bene. Certo non era stato sbagliato inserire quel Paese nella lista degli “stati canaglia”. Il suo Leader Maximo, rivoluzionario ai tempi, aveva cominciato assassinando qualche centinaio di dissidenti: un valoroso servizio a fianco del popolo contro la sovversione, l’avevano definito. Per commettere quelle atrocità, avevano iniziato a servirsi di mercenari. Inizialmente addestrati in zone dell’Afghanistan controllate dai talebani, con la complicità siriana, e che erano arrivati via Damasco. Altri erano giunti autonomamente, ed erano stati addestrati in loco. Israele, con i suoi missili intelligenti, che colpivano dove e come volevano, come dei cecchini, anche arrivando su per lo scarico del cesso fino a esplodere nel buco del culo dell’obiettivo, avevano fallito due volte nel tentativo di uccidere il leader di quei mercenari. Avevano scelto di usare delle autobomba, in modo da far ricadere la colpa su qualche fazione dissidente, ma non erano esperti come i palestinesi o i libanesi in quegli esercizi. Intanto nel Paese era stata creata una società repressiva e orribile, realmente colpevole di terrorismo. La CIA, figurarsi se non c’era il suo zampino, che aveva violato i cifrari di quel Governo, non aveva voluto correre il rischio di rivelarli, per non esporre le sue fonti e i suoi metodi. Il suo scopo era di arrivare a rovesciare il governo con una violenta campagna paramilitare di terrorismo e guerriglia, con campi di addestramento e appoggio in Sudan –attraverso mille chilometri di deserto!!-, perciò, mentre stava dando corpo al suo piano, l’ultima cosa che avrebbe voluto fare, sarebbe stato di compromettere la propria rete. Intanto anche i fratelli giordani si erano uniti ai mercenari, sempre arruolati tra veterani dell’Afghanistan e dell’Iraq, tramite la Siria. Tutta la UE aveva fatto pressione contro l’interventismo, invitando a non intraprendere alcuna escalation della tensione nella regione, con tutti i pericoli che ne derivavano. Poi era andata come era andata, nonostante le alte proteste degli altri Governi europei, che si erano sentiti presi in giro, che avevano appena dichiarato di non trovare motivo neppure per applicare sanzioni economiche, o altre pressioni. Quello Stato, meglio dire il suo Presidente, che si era definito, e possiamo quindi indicare, come il Volenteroso, si era invece mosso senza concordare nessuna azione, inviando anche propri emissari. “La rimozione con la forza di quel regime terroristico”, aveva dichiarato, “è pienamente giustificata dalle norme del diritto internazionale, e dalla urgenza assoluta di una difesa più attiva contro il processo di espansione terrorista, che rischia di contagiare tutta l’area. Abbiamo il diritto di usare tutti i mezzi ragionevolmente necessari, da soli o con altri volenterosi, per porre fine ai comportamenti illegali di quel Paese, che si trova nella posizione giuridica dei pirati berberi”. Così aveva mandato istruttori, e l’aviazione per le ricognizioni, e per colpire mirando a precisi obiettivi militari, lasciando ai piloti tutto il rischio di colpire quei bersagli e nient’altro. A livello internazionale era stato uno shock, soprattutto per gli Stati Uniti che, in fase di disimpegno, avevano sottovalutato quel rischio. Juan era ragionevolmente certo che quel Volenteroso, dopo aver rotto le uova e visto iniziare a fare una frittata molto diversa da quella che si era aspettato e prefisso, stava di nuovo per intromettersi. Bene, ora era sul campo, per vederci più chiaro. Era sicuro che sull’operazione incombesse anche il Mukhabarat al ‘amalyat a khassa al gasuseya, o SARATAN, il servizio informazioni egiziano, senza dubbio il più efficace tra quelli dei Paesi arabi, ed equivalente, per raffinatezza dei metodi, almeno riguardo agli affari del Medio Oriente, delle organizzazioni degli Stati più potenti. Quanto a questo … a suo tempo.
RICOGNIZIONE SUL CAMPO. Accanto alle più recenti ed esaltate opere realizzate dal regime distrutte dalle bombe o smantellate dai ribelli, erano sopravvissute antiche bellezze gelosamente protette e appassionanti. Se quella era stata una delle tane del leone, l’animale aveva perso denti e artigli. Tutto era stato sostituito da un variegato puzzle di bande armate. Il coinvolgimento delle forze armate occidentali aveva fatto sì che ai ribelli non fosse necessario costituire una forza unitaria. Le unità di combattimento erano state organizzate su base regionale, tribale, o di una comune appartenenza islamica. Nella Piazza, nel cuore della Città, centro simbolico della rivolta e del Pese Nuovo, gli anziani non erano tornati a star seduti sulle panchine, a rivedere, tra di loro, un tempo passato. I fidanzati non erano tornati a continuare a consumarsi di baci in un tempo sospeso verso il futuro. Le mamme non erano tornate a osservare i figli giocare al pallone, in una pausa del tempo che si ripeteva sempre uguale. Solo i ribelli, militanti armati, “riconoscibili” come militari dalle larghe fasce verdi con scritte in nero, al braccio, facevano giri di pattuglia parlottando tra di loro, o sostavano in gruppo a presidiare un posto di blocco. Sotto i portici del centro, negozio dopo negozio, tutti avevano chiuso i battenti, e avevano subito danni e devastazioni. Il bel porto, un tempo tanto prospero, pareva sul punto di scivolare in prevedibili e disperate condizioni da zona sottosviluppata. Sventrate, annerite dagli incendi, intere zone mostravano improvvise rughe e piaghe, antiche e nuove. La Città sembrava invecchiata di colpo. Tra pilastri spezzati, mura diroccate, sembrava di camminare seguendo qualcuno di cui si sentissero ancora i passi sulle pietre, ma che non si sarebbe raggiunto mai. Varchi nel filo spinato, in quella natura di rovine, da cui, fin dove si poteva giungere con lo sguardo, non si vedevano altro che muri butterati, alberi e colonne sradicati. Sembrava che il tempo fosse immobile, e il sole si fosse fermato per un istante incalcolabile. Juan ascoltava dentro di sé un rumore quasi dimenticato, come se il cuore, fermo da molto tempo, piano piano si rimettesse a battere. Ormai ridestato, riconosceva a uno a uno i rumori impercettibili di cui era fatto il silenzio del suo cuore, un basso continuo di sospiri brevi e leggeri, vibrazioni, un canto cieco, un fruscio furtivo. Sentiva tutto questo, e sentiva i fiotti felici che salivano in lui. Gli sembrava di essere finalmente arrivato in porto, dall’istante in cui Nikolett e lui si erano uniti, e quell’istante ormai non sarebbe finito più.
Si potevano già trovare caffè, mono o bilocale completamente aperti sul lato strada, con un vecchio bancone di legno scuro lungo e dritto, dietro il quale stava il padrone sempre indaffarato e sorridente, nonostante la sala sempre deserta. Poche botteghe esponevano “roba” strana, del tempo in cui il progresso tecnico, lì, non aveva ancora fatto che i primi passi, impossibili da trovare altrove. Tanto da poter supporre che si trattasse di nuove invenzioni. Tutto alla rinfusa, in un appuntamento di cattivo gusto affliggente, che un genio commerciale burlone non cessava di far spuntare su ripiani e mensole. Un impegno barocco che faceva perdonare tutto il resto. Stava tornando anche la simpatica esagerazione che si manifestava nella pubblicità commerciale spicciola. Esasperata fino a toccare, qua e là, motivi e proporzioni kolossal. Non era per il semplice gusto di decantar mirabilia, di novelli dottor Dulcamara, c’era un certo acume psicologico per riuscire a convincere l’indifferenza e l’apatia profonde che provava la gente quando doveva scegliere. Ci si decideva solo se costretti. Anche fra due donne. La pubblicità lo sapeva bene, e allora giù a caricare i toni, a esagerare i motivi, a declamare le meravigliose voluttà esibite, solo per il piacere dei veri intenditori. Al momento la Città era ancora votata alla polvere, alle improvvise ampie ferite e profonde lacerazioni lasciate dalla guerra. Soprattutto nelle periferie c’erano macerie accatastate, muri sbrecciati o butterati, vetri sbriciolati, finestre come cieche occhiaie vuote, strade dalla superficie lunare. Sotto il sole o sotto la pioggia, botteghe e esercizi venivano puntellati, rattoppati con lamiere, per essere riavviati con soluzioni di fortuna precarie e poco rassicuranti. Avevano un’aria stravagante e assurda. La Città affrontava la terribile prova dell’esser costretta a vivere di fronte a un paesaggio da ispirare persino al Poeta: d’amirazion vo’ che ti pigli. Chi si fosse aspettato, per questo, una città aperta sul mare, lavata, rinfrescata dalla brezza, si sarebbe trovato subito deluso. La Città voltava le spalle al mare, costruita intorno a se stessa, come una chiocciola color ocra. Era cresciuta dietro grandi mura circolari, sotto un cielo duro. Da secoli il mare era la sua via di comunicazione naturale … obbligata. Da lì predevano il largo i pirati a scorrere il mare, a predare navi e mettere a sacco le coste col ferro e col fuoco. Acciò, a difesa delle città e degli insediamenti rivieraschi, eran spuntate, come funghi dopo la pioggia, torri di guardia, sempre all’erta e coi fochi accesi per dar avviso del periglio e chiamare le genti all’arme. Oppure, molto più spesso, a lasciar case, terre e depositi al sacco pirata, salvando almen la vita, fuggendo su per i monti, o in paludose terre. “Mamma li turchi!”, era d’allarme il grido. La Città stessa, tra i maggiori e fiorenti porti de’ pirati, il cui sol nome fea tremar, non poteva ignorare che da quella distesa d’acque colme di fascino e di magia, potean spuntar vele crociate, assente la flotta amica, e deboli le difese verso terra. Così avean fatto della Città un labirinto, infilatisi nel quale, chi volesse uscirne a ritrovare il mare, avrebbe necessitato d’aver d’Arianna il filo. L’agressor incauto, si trovava a girar in tondo per vie strette e opprimenti, polverose, dove il ciottolo era il re, dove ogni cosa avea sembianza di pietra, così come, invece, fuori le mura traevan la propria poesia dall’acqua e dalla verzura. Carruggi dove pochi difensori, dall’alto delle mura, o da rifugi sicuri ben celati, tendean improvvise, veloci imboscate, che arrecavan subitanei lutti tra le fila nemiche, e svanivan nel nulla. Gli incauti aggressori, pur più forti in numero e arme, avean finito, anche, va da sé, a proprio discarico, per dar voce alla leggenda ch’un Minotauro evocato da sortilegi e magie d’oriente, si pascesse impunitamente dei violator del suo ricetto. I radi alberi e chiazze d’erba, spersi tra le mura, stavan pulverulenti, immobili e attoniti, e liberavano un umore acro, stantio e vecchio, che si facea dolciastro solo al burrone che strapiombava, stagliandosi contro il cielo azzurro, sul mare, e sui campi di terra cretosa e friabile, in cui il sole accendeva fuochi accecanti. Sparse con avarizia, macchie purpuree di fiori che davano la loro vita e il loro fresco sangue alla terra, fin dove si spingeva lo sguardo. Dal mare, l’intera città pareva coagulata in una ganga pietrosa, e lo spessore delle scogliere che la racchiudevano era tale che la vista diventava irreale quanto minerale. Tanta pesante bellezza sembrava venire da un altro mondo. Salendo per una delle strade cesellate nella roccia, ai lati della collina, le montagne, il mare piatto, il vento, il sole violento, apparivano i mattoncini Lego della Città, allineati e impilati in ogni combinazione possibile in altezza, larghezza, lunghezza e profondità, dai cubi colorati, alle alte torri di specchi riflettenti il sole, alle più ardite e improbabili creazioni. Discoste, preistorici animali che avevano vinto il tempo, le grandi gru del porto, erano state piegate dalla furia degli uomini. Ai piedi delle loro lunghe e scheletriche gambe, spezzate o distorte, lungi serpenti d’acciaio, immobili nelle loro scie metalliche. Un’enorme tela di ragno che si spingeva fino nel mare, su banchine di cemento non molto provate. E, ancora, rampe gigantesche che si inerpicavano sulla roccia fin dentro la Città, qua e là diroccate. Noia e solitudine si sarebbero comunque e sempre alternate a tumulti e giochi duri di squadra, come si sarebbero alternati giorno e notte. Salendo un po’ più su, si vedevano le scogliere rosse e frastagliate accasciarsi in mare. Dalla vetta, grandi turbinii di vento e di sole scendevano a ricoprire e aerare la confusione della Città, dispersa senza ordine tra i confini del suo duro guscio. Qui, incomparabile, tutta la magnifica anarchia umana, contrastava con la permanenza sempre uguale del mare, che andava oltre ogni umanità. Sarebbe bastato questo per invogliare a salire la strada sulla collina, in uno sconvolgente aroma di vita. Da lassù, tutto, attorno, aveva qualcosa di minerale sotto il sole implacabile. La Città, il labirinto delle sue stradine, gli alberi e i nastri delle strade e dei viali del lungomare fuori le mura, liquidi al riverbero del sole, incipriati di polvere, creavano un mondo denso e impassibile, in cui ragione e passione non si distraevano mai da se stesse, né dal loro solo oggetto, che era l’uomo quando si trovava davanti al mistero. O al Mistero. A ognuno il suo credo. Eremi difficili, che saziavano quella certa parte dell’anima il cui elemento era il ricordo, e non quella parte il cui elemento era l’avvenire. Nei quartieri fuori la Città vecchia, e fuori dal centro moderno, case e palazzine erano di cemento e legno scadenti. Le strade sporche e piene di buche. I fori dei proiettili nei muri, le occhiaie vuote e cieche delle finestre, mostravano quanto erano stati duri e serrati i combattimenti, in quell’ultima ridotta di un esercito ormai dissolto, che era rimasta a lungo un vespaio di cecchini anche dopo la fine. Correva voce che erano dovute intervenire le forze speciale del Battle-Group Europeo per “bonificare” il quartiere, scovando i franc tireurs uno ad uno. Avevano sostituito i ribelli e il contingente qatairota, che avrebbero voluto risolvere tutto alla maniera del gen. Massu nella battaglia di Algeri: far esplodere ogni “nido” possibili, probabile, sospetto, indiscriminatamente. Le voci, come tutte le voci, che col tempo cadono nel dimenticatoio o alimentano il mito, si erano tramutate in leggenda. L’opera di search and destroy era stata accreditata a una CSLE (compagnia sahariana della legione) completamente equipaggiata con materiale qatairota. La famosa frase, ripetuta come un mantra da tutte le Potenze: “non abbiamo sporcato di sabbia i nostri scarponi”, era divenuta un tormentone, neppure originale, con la giunta: “perché abbiamo usato quelli del Qatar”. In quel quartiere, come in altri della periferia, era visibile quanto fosse difficile riportare alla vita, e migliorare le condizioni, regredite a condizioni medievali, nelle quali tutto mancava salvo i proiettili che arrivavano da ovunque, cielo compreso. E, per quanto qualcuno continuasse a protestare il contrario, quella non era roba intelligente, ma molto molto democratica. Colpiva e falciava chiunque: “amici” e nemici, combattenti e civili, armati e inermi, baldi guerrieri e inermi vecchi, donne, bambini. Quelle periferie ora sembravano reggersi affiancate alla Città che faceva da muro portante. Baraccopoli incerte e traballanti, men che precarie, sorte dal mischiarsi di esigenze diverse: ricovero, riparo, rifugio, nascondiglio. Motivi che il tempo avrebbe potuto eliminare o consolidare, oppure ridisegnarne di nuovo, facendo dei confini della Città una zona a geometria variabile, prolungando il labirinto. O fagocitandone parti, a piacere del suo Minotauro. Senza dubbio qualcosa era migliorato, non c’era più la scenografia piena di rovine di un film sulla fine del mondo. Era il nuovo centro, circondato da mura rovinate e sporche, con le grandi scritte di propaganda, le facce delle case che cadevano a pezzi, popolato da venditori ambulanti, e, dappertutto, un odore nauseante. Solo alcune erano state rimesse in sesto e ridipinte. Già i negozietti all’aperto o in botteghini provvisori stavano scomparendo, per lasciare il posto a caffè dai colori appariscenti, a bottegucce e piccoli negozi, su strade riassestate alla bell’e meglio, che iniziavano a dare un segno di parvenza di inizio di una promessa di ritorno alla normalità. Ciò che restava da fare era ancora molto, e il tempo che mancava a poter cantare vittoria non si era ancora accorciato. Né allungato. Si era bloccato. Chi sosteneva che ci sarebbero voluti almeno vent’anni per tornare alla normalità, poteva essere benissimo un ottimista che aveva rifatto meglio i suoi conti; un pessimista che aveva dovuto ricredersi sui suoi; o, infine, un realista che senza pregiudizi né false aspettative, né cattive previsioni, aveva fatto i conti precisi, precisi precisi. In giro si respirava comunque un’aria di nuova aspettativa, come si fosse finalmente aperta una finestra in una camera rimasta a lungo chiusa, e l’aria fresca vi fluisse piano piano, non perché trovasse resistenza, ma per potersi spingere a tutto pervadere e rianimare a fondo. Come un tramonto che porta una nuova speranza.
TRA RICOGNIZIONE E PASSEGGIAR D’AMORE. Nikolett e Juan passeggiavano sotto i portici dei palazzi del centro, che il sole illuminava, tagliandoli in obliquo, creando contrasti limpidi tra luci e ombre. Gli edifici classici, più vecchi, lascito del Governo coloniale e i suoi monumenti, o, almeno, ciò che di tutto questo era sopravvissuto agli anni, alla guerra d’indipendenza, ed ora a quella civile, si trovavano in piazzette polverose, rassegnati alla pioggia come al sole, convertiti alla pietra e alla noia. Apporti ormai estranei, nel flusso della vitalità tipica delle strade arabe, accanto a costruzioni in pietre multicolori, di effetto assai veemente: arditezza nel gusto, amore della violenza e senso delle sintesi storiche. Il lungomare era riparato, e la spiaggia orlata da una fila di palme. Quegli angoli della Città avrebbero potuto essere angoli di un paradiso delle vacanze. Un paradiso per ora perduto. Erano entrati nel dedalo delle viuzze della Città vecchia. Il profeta Maometto aveva stabilito che la larghezza minima di una strada doveva essere di sette cubiti, cioè l’equivalente di tre muli affiancati. E si trattava di animali di piccole dimensioni. Si poteva tranquillamente scommettere che molte di quelle vie erano ben al di sotto della misura prescritta. Alcune erano larghe più o meno come un tappetino da bagno, altre poco più ampie. Carruggi genovesi, callesèlle o callétte veneziane, budelli liguri. Juan e Niki si erano imbattuti in uno di quegli asini, colore di un leggero grigio topo, il muso chiaro, e una peluria bruna che gli spuntava dalle orecchie. Sulle sue gambe dritte, dagli zoccoli abbastanza delicati, grandi più o meno come una tazza da tè, avanzava sicuro sotto un enorme peso vacillante. Aveva girato l’angolo senza difficoltà, e stava continuando lungo il vicolo, più stretto e così ripido che ogni tre metri, due quando la pendenza si faceva più brusca, c’erano piccoli scalini di pietra. Niki e Juan avevano dovuto appiattirsi contro il muro perché passasse. Ne avevano intravisto il muso, e lo sguardo disarmante, al tempo stesso sereno. Esausto e determinato. La sua era un’espressione stoica, come se il tempo potesse simultaneamente andare avanti e restare immobile. Una paziente rassegnazione, intervallata da improvvisi sbalzi d’umore. Mostrava anche un senso di fatica: era pur sempre un animale da lavoro, e per lavori faticosi e ingrati. Dove non potevano passare, o non c’erano, ingurgitati dalla guerra, auto, furgoni, carri trainati a mano, persino motorini, tutto ciò che con tali mezzi un essere umano non era in grado di trasportare, veniva portato da un asino. L’ultimo censimento risaliva a prima della seconda guerra mondiale, e dichiarava quarantamila muli e asini impiegati in città: un arcobaleno di grigio topo, di marroni dal tabacco alla cioccolata, alcuni lisci e lucenti, altri con le ultime chiazze dello spesso manto invernale. Un secondo censimento era fallito, e non se ne erano più tentati altri. Il fallimento era stato dovuto alla volontà del Governo di farne il mezzo per controllare le transazioni e imporre un’imposta sulle vendite. Da allora, la quasi totalità di quei commerci si era affidata al passaparola, verso mercatini improvvisati, lontani dai controlli del fisco. Tra le case color sabbia attaccate le une alle altre, nei vicoli tortuosi che scomparivano nell’ombra, le persone si affrettavano scansando gli altri passanti. L’atmosfera era chiassosa, animata. Un momento dopo, si alzava su tutto il grido: “balak! balak!”, e appariva una asino carico di grossi sacchi, mentre il padrone continuava a vociare per farsi strada in mezzo alla gente. Juan aveva spiegato a Niki che quella parola significava: permesso! Poi ne compariva un altro, carico di taniche. Poi un altro con scatoloni. Infine uno che sembrava essere da solo. “Guarda! Forse è scappato al padrone … e ora si è perso …”. Juan, con tenerezza, “Non si è perso, ha finito il lavoro e sta tornando a casa”. Lei si era voltata a fissarlo perplessa, non sapendosi decidere se si stava burlando di lei, o dicesse sul serio. “Pochi restano dentro le mura … i più stanno in fattorie, fuori, e vengono ogni giorno in Città, dal loro padrone, per lavorare”. Pareva essersi convinta, felice come una ragazzina, e, sull’onda dell’entusiasmo aveva insistito perché Juan chiedesse al padrone il nome del suo asino. L’uomo aveva esitato per un momento, poi aveva risposto: “H’mar”. “Significa Amar … Omar?”. Juan aveva risposto con un sorriso furbetto. “Dai, chiedi a quest’altro!”. Anche il secondo tizio aveva indugiato, e poi detto, “H’mar”. Niki si era divertita e un po’ eccitata per quella “combinazione”, doveva essere un nome molto comune per quegli animali, come Fido per un cane, e aveva preteso ulteriori interrogatori sul nome degli animali. Quando però il quinto interrogato, a uno Juan che a stento conteneva la sua ilarità, aveva risposto lui pure “H’mar”, e Juan non era riuscito più a trattenere le risa, aveva capito, “Oh!”, delusa, “ma allora H’mar vuol dire asino!”. E aveva rifilato un pugno sulla spalla di Juan, che sì, stavolta si era preso gioco di lei. “Ma … perché non gli danno un nome?”. “L’ho chiesto, e mi hanno risposto che sarebbe come dare un nome a un autocarro!”. Niki aveva trovato la risposta abbastanza deludente e sciocca. “Comunque io gli ho risposto che conoscevo un posto dove la gente al loro motocarro dà un nome: Ape”. “E …”. “E non riesci mai ad avere l’ultima parola, mi ha detto che trovava stupido dare a tutti i motocarri lo stesso nome, che era più serio chiamare asino un asino, e basta”. Nikolett, che al momento si era sentita contrariata per quella deviazione inaspettata nel viaggio che doveva portarla al grande maestro Schiller, era ora incantata, felice, piena di entusiasmo quasi fanciullesco. Quando, dandole i nuovi documenti, finalmente Juan le aveva detto che all’orecchio del cavalier Capone, aveva sussurrato, tra l’altro, che loro due si erano sposati, invece che esserne contrariata, era mancato poco che si mettesse a saltellare battendo le mani su e giù per l’aereo. Anche nel grande suq era stata una bambina in un negozio di giocattoli o di meraviglie. Continuava a chiedere a Juan che fosse questo o quello, a cosa servisse, e alla via così. Dai ceci, alla tintura per i capelli, alle reti da pesca, ai morsi di ferro venduti da un giovane dal volto scavato, alle montagne di legumi sorvegliata da una famiglia stesa su un lenzuolo, alle bancarelle di pesce fritto e kebab. Ai pochi asini e muli, che, non in vendita, in attesa di esser caricati delle mercanzie invendute, se ne stavano oziosi, appisolati al sole, ruminando ciuffi d’erba e scansando le mosche. C’era anche un gruppetto di bambini, che ridevano e saltellavano su e giù per l’eccitazione. Li guardavano abbassandosi sotto la testa di un animale, da dietro un carretto o una tenda, e poi correvano via. Gli asini sempre imperturbabili, consapevoli che la vita sarebbe andata avanti come sempre, come era da migliaia di anni, e per altrettanti sarebbe stato, e che il lavoro duro degli animali, l’aria misteriosa degli stranieri, e la natura curiosa e contraddittoria della loro terra, non sarebbero cambiate mai. Juan sapeva che stava facendo qualcosa di molto scorretto, e sbagliato, nel suo lavoro, ma tant’é. Si era così innamorato di Niki, e sentiva che lei lo era altrettanto di lui, che altro non poteva. Ogni ragione più non valeva. L’aveva portata con sé in quel tour molto poco turistico, dandosi come alibi che la copertura come due sposini sarebbe stata ancor più credibile, correndo invece un grande rischio, al quale stava esponendo soprattutto lei. A sua discolpa, era convinto che Niki per lui fosse più preziosa dell’aria da respirare. Stavano salendo per vie anguste, tra portici sorretti ai due lati da enormi pilastri, ove lo spazio era giusto quello per l’incrociarsi di due pedoni. O un asino con bagaglio leggero. Là dove erano diretti, si poteva accedere per una più comoda e ampia strada asfaltata, camionabile. Prosaica, senza ombra di romanticismo. Il sole, nel cielo blu, era un coperchio bollente, ma sotto i portici restavano l’ombra e il fresco. Là, sotto i portici, si susseguivano negozietti e bazar con facciate dipinte di colori chiari, che brillavano dolcemente nella penombra anche più scura. Da bottegucce e drogherie usciva l’odore di chiodi di garofano, di caffè, di dolci al miele. In piccoli locali, rischiarati da luci crude, erano in funzione le macchine del caffè, e i miliziani al banco avevano innanzi bicchieri di un liquido opalescente e piattini con lupini, acciughe, sedani affettati, olive, patatine e arachidi. Non erano antipasti, non c’era altro da mangiare, al momento. A metà, la strada si allargava e perdeva i suoi portici, per far posto a una vecchia moschea. Sull’altro lato, un botteghino di frittelle, dove potevano accalcarsi al massimo tre persone. All’interno, dominante, la bacinella di olio bollente, dalla quale un uomo, in pantaloni a sbuffo e uno striminzito gilet, per la gioia dei turisti, sorvegliava, con una schiumarola, la cottura delle frittelle rotonde, estraendole con rapida cautela, tre o quattro a mestolo, la pasta dorata e sottile, traslucida e croccante, facendole sgocciolare per poi posarle su un banco di ripiani forati, protetti da vetro, accanto agli sfilatini al miele già pronti. Rifattasi stradina, la via continuava a salire fino a sfociare nella grande piazza. Il quartiere più povero ospitava la più grande caserma del Paese. Il retro rivolto al mare, di fronte una strada umida e scoscesa cominciava ad arrampicarsi fino alla cima della collina. Era la collina est, ai cui piedi terminava la Città e iniziava la litoranea. Nel corso dei mesi d’estate il sole, sempre più fisso, aveva prosciugato, poi torrefatto i murie, frantumato gli intonaci, le pietre, le tegole, in una polvere sottile, che aveva incipriato, secondando i venti, le strade, i vetri, le foglie degli alberi, le macchie d’erba. Il quartiere intero si copriva di giallo e ocra, afoso sotto un sole feroce che spingeva a chiudere tutte le persiane di tutte le case, e che emanava una luce diffusa, biancastra e faticosa per gli occhi, che poi spariva dietro la stoppa pesante del cielo caldo e umido. Nei giorni di pioggia le strade si trasformavano in trincee umide e luccicanti. Poi, all’improvviso, il cielo si contraeva su se stesso, in una tensione estrema, e si apriva. La pioggia cadeva copiosa e violenta, inondando le strade, lavando brutalmente alberi, tetti e muri dalla polvere dell’estate. Melmosa, riempiva subito i rigagnoli, gorgogliava nelle bocche di scarico, e ne faceva saltare le griglie dalle pesanti sbarre di ghisa. Un largo fronte di un’onda gialla, e persino il mare diventava fango nel porto e sulle spiagge. In quel momento, però, dopo l’arido splendore del sole, a poco a poco, il vento, che nel primo pomeriggio si era sentito appena, sembrava essere cresciuto con le ore, e riempire tutto il pomeriggio. Soffiava da est, accorreva dal fondo dell’orizzonte e veniva balzando a cascate tra le pietre e il sole. Senza posa, sibilava forte attraverso muri e sassi, girava in un circo di pietre e terra, lambiva gli ammassi dei blocchi sgretolati, circondava ogni cosa col suo soffio, e veniva a diffondersi in strida incessanti sulla terra che guardava verso il cielo. Nikolett e Juan si sentivano come ciottoli patinati dalle maree, levigati dal vento, con gli occhi brucianti, le labbra screpolate e la pelle che si disseccava. Davanti a quel paesaggio franoso, davanti a quel grido di pietra lugubre e solenne, della Città, inumana nel tramonto, davanti alla morte della speranza e dei colori, Juan e Niki avevano trovato un colloquio a tu per tu, rinnegando le poche idee che erano loro appartenute, e recuperando l’innocenza e la verità che brilla nello sguardo di chi vede davanti a sé il proprio destino. Il miracolo era che le rovine di quella città, quella città scheletro vista così dall’alto al finire del giorno, nei voli bianchi dei colombi, non tracciava nel cielo i segni della conquista o dell’ambizione. Il mondo finisce sempre per vincere la storia. Quell’ampio grido di pietra che si gettava tra le colline e il cielo e il silenzio, aveva i veri segni della disperazione o della bellezza: lucidità e indifferenza. Davanti a quella grandezza che stavano per lasciare, a Niki e Juan si era stretto il cuore. “Però la natura è sempre lì. Alla follia degli uomini contrappone i cieli calmi e le proprie ragioni. Fino a che anche l’atomo prenda fuoco e la storia si compia … I cavalli di Patroclo piangono il loro padrone morto in battaglia. Tutto è perduto. Ma il combattimento riprende con Achille e alla fine c’è la vittoria, perché l’amicizia è stata assassinata: l’amicizia è una virtù … Sopra il mare scintillante ancora una volta si dissiperà la filosofia delle tenebre, la guerra di Troia viene combattuta lontano dai campi di battaglia.! Anche questa volta le terribili mura della città moderna cadranno, per darci, , la bellezza di Elena”. E’ sempre il nostro grande amico Albert Camus che ce lo ricorda.
Quella notte Niki, mentre Juan era dentro di lei, si era sentita stringerlo con radici confuse che lo collegavano a lei in modo splendido, in giorni infuocati e in notti che stringevano improvvisamente il cuore. Lui stava vivendo una seconda vita, la più vera, sotto le apparenze quotidiane della prima, con una storia fatta di un susseguirsi di desideri oscuri e di sensazioni potenti e indescrivibili. Il profumo di Niki, di gelsomino e caprifoglio, era sembrato a Juan, il tepore della sua pelle, il calore che lo attiravano dentro di lei senza sosta, non per possederla, ma per entrare nel suo raggio di vita. Per appoggiare la testa alla spalla di Niki con un grande senso di abbandono e di fiducia. E il sentirsi quasi venir meno quando, con le sue mani, lei lo tratteneva più a lungo dentro di sé. E quando si stendeva tra le sue gambe, respirava l’odore dei suoi peli, e gli umori ancora più forti, animaleschi, del suo caldo spandersi dentro di lei, dove la vita, malgrado tutto, veniva conservata per lui che non poteva farne a meno. Da qui nasceva il suo ardore famelico, quella follia con la quale amava Niki di un grande amore di tutto il cuore, e di tutto il corpo. Sì, con lei il desiderio era assoluto, e il modo in cui defluiva in lei con un grande grido muto nell’attimo del godimento, ritrovava la sua accoglienza ardente, la bellezza generosa di vivere che era, ora, anche la sua, e che faceva rifiutare il trascorrere del tempo. Allora, col cuore in fiamme, Juan, come una spada solitaria e vibrante, destinata a penetrare all’improvviso e per sempre dentro di Niki, si abbandonava a quella pura passione, sentiva la vita fluire da lui in lei, abbandonandosi alla speranza che quella forza lo elevasse per tanti anni al di sopra dei giorni, nutrendo lei della stessa generosità instancabile con cui lei gli aveva ridato ragioni per vivere.
ALLA RICERCA DELLA FAMIGLIA PERDUTA. Jimena Rosete si era assicurata l’intermediazione dell’avvocato Nakos Spanidis, dal quale era a servizio, per trovare notizie sulla propria famiglia che, dopo averla affidata alle cura delle suore di un Istituto religioso europeo, non l’avevano poi più raggiunta, come era nel loro piano originario. La fuga di Jimena dall’Istituto, aveva fatto sì che ogni contatto tra lei e i familiari era venuto meno. La decisione di rivolgersi all’aiuto di Nakos aveva anche un secondo fine: sedurlo, sia per sé, per emanciparsi dalla sua condizione; sia per lui, che voleva liberare dalla soffocante … e morbosa possessività della madre, o di chi, come Cristina Ricci, lo usava per ferire lui o la sua famiglia, come rivalsa su vecchi torti e umiliazioni subite. Nello Studio legale di Nakos, un socio, Maurizio Andrei, era consulente pro bono molto attivo di un’Ong internazionale, che le avrebbe garantito un impegno non comune. Jimena lo conosceva, almeno di vista, come ospite, raramente peraltro, di Nakos. Avrebbe potuto anche rivolgersi a lui direttamente, se la complessità dei suoi intenti non avesse previsto l’appoggio costante di Nakos. Non le era occorso molto tempo per far divenire i suoi pomeriggi liberi momenti di appuntamento con Nakos. Prima brevi, dopo un aggiornamento da parte di Maurizio, poi più lunghi, con Nakos latore delle novità. Quando lui rientrava, a tarda sera, dopo qualche riunione, o essere stato ospite da amici, lei lo aspettava. Le era stato facile accordarsi con gli altri per essere sempre di turno notturno, nella casa padronale, grazie anche alla regolarità di quegli impegni di Nakos, che si ripetevano nelle stesse sere della settimana. Si sedevano in cucina, e la loro conversazione si era spostata dalle disavventure di lei, a noi già note, a quelle di lui, a noi già note solo in parte. L’ascoltava con rispetto, comprensione e solidarietà. Lei non avrebbe saputo come esprimere questa relazione, era istintiva, se non innata; uno psicologo, soprattutto uno psicologo dell’organizzazione –ricordate il dottor Giovanbattista Cerano, psichiatra dell’organizzazione? r.i.p.- avrebbe parlato di ricomposizione di interessi a due livelli. I livelli erano: quello relativo all’economia sociale e monetaria, cioè ruoli e compensi; e quello relativo all’economia affettiva, cioè empatia e identificazione. Ora, le matrici affettive sono uno dei radicali del modello di servizio. Quindi contano assai i sentimenti e le emozioni che vengono vissuti da ambo le parti. Riprendendo in estrema sintesi l’analisi di tutto quello che è citato in calce per chi fosse interessato ad approfondire, è possibile affermare che in quella relazione è ritrovabile il forte carattere materno del modello di servizio. Allora, la matrice naturale delle relazioni di servizio è nel rapporto tra madre e bambino, e, più in generale, tra genitori e figli. La buona madre è, da subito, dal concepimento, un buon contenitore. In termini sia fisici che psichici, un buon servizio caratterizzato da positivo e fertile contenimento. Se vogliamo ricorrere ad altri esempi di persone concave per ricevere, accogliere i bisogni, ansietà, persino rabbie, vivendo tutto ciò che viene loro portato come degno di essere ascoltato: l’avvocato al quale il cliente racconta tutto quello che sono affari suoi; il medico –usando il termine nel senso più lato possibile- che ascolta il racconto dei sintomi del paziente; il consuellor che ascolta il racconto delle transazioni affettive tra persone; lo psichiatra o lo psicologo … va da sé … Tutti costoro, e quelli che vorrete aggiungere, hanno, nella loro componente materna, il ruolo di accogliere, accettare, contenere, elaborare problemi e ansietà del loro cliente bisognoso. Assolvere, da parte di chi presta servizio, la funzione materna, significa in primo luogo accogliere e contenere. Da qui la centralità dell’ascolto, strare ad ascoltare con interesse ed attenzione, inteso come funzione psichica, che è diversa dall’udire, che è solo funzione biologica. Il buon contenitore non è solo ansiolitico e antalgico, metabolizza e in parte neutralizza le angosce. In questo ruolo, Jimena andava sul velluto: una mamma cattiva presente, per non far nomi la signora Elena Zakythinis, viene percepita come mamma buona assente, di cui si attende la ricomparsa. Cristina Ricci, per Nakos, era stata come la fatina buona del cazzo, che all’improvviso si era svelata per quello che era, una giovane strega in competizione con una vecchia strega. Scrivo strega, intendo mamma cattiva. Così tutti i timori, le ansie, le angosce, le paure di Nakos non erano state contenute e metabolizzate, ma allontanate strappandole da dentro di sé e scagliandole il più lontano possibile, credendo di essersene liberato. Invece ritornano, ritornano sempre. Ricordate a parabola del Titanic, cui siamo già ricorsi? Tanto più che in questi giorni è argomento di moda. Jimena aveva subito capito che Nakos aveva bisogno di essere amato per quello che era, perché restasse quello che era … anzi lo diventasse pienamente, prima di tutto. Invece tutti, non solo mammina e Cristina, su di lui avevano rivendicato la loro parte, fino a non lasciar più nulla a lui per sé stesso. Ora, lei voleva scoprire quale veramente chi era Nakos, che lui si liberasse del suo bozzolo. Il tentativo di sanare l’angoscia e di colmare il senso di smarrimento e di paura, però, può portare l’essere umano a perdere i propri confini, che si rarefanno fino a svanire e a ricercare una pienezza eterna –la comprensione continua da parte dell’altra uguale– che è solo illusorio riempimento di un vuoto che, per essere bellezza, deve essere messo in conto come tale. L’amore, invece significa ricerca dell’altro diverso da noi, che non deve colmare alcunché, che non deve soddisfare alcun bisogno di rassicurazione, ma che consente a ciascuno di tirar fuori la propria identità di uomo, la propria identità di donna, facendo correre ogni volta il rischio di un nuovo smarrimento. Solo allora la paura scompare nel momento in cui l’essere umano realizza l’unicità come forza creativa che, consentendogli la relazione con l’altro, non è più solitudine. Jimena era una donna che, dopo aver preso coscienza delle angherie subite, perché nata in una società patriarcale, che l’aveva relegata in una posizione subalterna, aveva tentato di trovare la sua identità in quel suo cammino, sempre difficile, dove aveva dimostrato di avere tutte le caratteristiche per pretendere la pari dignità, e, anche se il cammino era ancora molto lungo, sicuramente aveva saputo farsi “prendere in considerazione”, nonostante donna Elena cercasse continuamente ogni occasione per svalutarla. Nakos non era molto a suo agio a baciare Biancaneve mezza addormentata, oppure a riportare a Cenerentola la scarpina necessariamente piccola, perché un piede grande non è abbastanza erotico! Qui scattava la sua avversione innata allo stereotipo, del bello e del brutto, come di qualsiasi altro. Non aveva mai perso la sua insicurezza, quando si era accorto che quelle che stava baciando erano esseri umani come lui. Perché più forte ancora era la percezione che aveva avuta sempre molto netta, quando aveva solo sentito che qualcosa non andava nel momento in cui le lei avevano cominciato ad avanzare richieste, pretese, esigenze che lui cambiasse, che si facesse così come loro desideravano fosse. Lui si sentiva il Pierino di “Pierino e il lupo”, che fischiettava allegro, scanzonato e sicuro, mentre la … femminuccia non era una debole donna inadeguata … na la strega cattiva che continuamente insisteva, lo invogliava, lo spingeva a dare un morso alla mela avvelenata. Nulla a che vedere con la mela di Eva. Quella della fatina-strega del cazzo era una mela drogata, che succhiava anima e volontà, e trasformava in un servo muto e sciocco. Era una vera picconata alla sua identità. Si sentiva impotente, muto, buono a nulla, in balia di quella “folle” che lo voleva costringere a fare cose strane, si trattasse di mammina, di Cristina, o di qualsiasi altra … ina. Riferendosi a loro, J.P. Sartre non avrebbe avuto difficoltà a riconoscere una conferma alle sue parole di studioso esistenzialista: “L’inferno sono gli altri”. Nel caso specifico: “le altre”. Del resto, ciò che è importante ai riguardo ai desperados sociali –come i mentalmente disturbati, i perversi e pervertiti, coloro che vivono con prospettive incongrue, irreali, di tempi andati o a venire che siano- non è solo ciò che fanno e perché lo fanno, quanto la luce che per contrasto la loro situazione getta su ciò che noi facciamo. Con stile studiatamente inappropriato, Goffman caratterizza, in modo molto sorprendente come solo lui sapeva fare, il pensiero di persone come Donna Elena e Cristina, e ... condensandolo in una sola frase, impertinente, in entrambi i sensi del termine: “Una persona con un carcinoma alla vescica può, se vuole, morire con maggior grazia e decoro sociale ... di quanto un’altra con un labbro leporino possa ordinare una fetta di torta”. Donna Elena Zakythinis, era un “generale di corpo d’armata”, reincarnazione del modello di suo padre, che si considerava vittima del suo contrario, cioè le inevitabilmente frustranti attitudini dell’essere donna che, da un lato, negava accanitamente e, dall’altro emergevano sempre più prepotenti, aumentandone la fragilità. E lei non aveva altra risposta che tiranneggiare chi poteva, e creare nel figlio un surrogato del di lui padre. Fino a che limite fosse pronta a spingersi … anzi, quali limiti fosse determinata a superare, era timore di tutti. Agli occhi di Nakos tutto questo vissuto appariva minaccioso, aggressivo, destabilizzante perché fortemente contraddittorio: dietro l’armatura del “generale” ci stava, infatti, un’ inesauribile richiesta di attenzione e di rassicurazione che risultava asfissiante per lei stessa e per gli altri, proprio nella misura in cui veniva negata così come lei la esigeva. Il risultato era stato il “cappio intorno al collo” che Nakos avvertiva sempre, seppure nascosto dietro comportamenti che oggi va di moda definire “free”. Chi aveva ragione? Jimena stava sforzandosi di uscire dalla logica del torto e della ragione, facile ma inutile, per entrare in una dimensione più complessa che riportava al concetto di diversità. La sessualità, cioè l’espressione di una forza di attrazione di due poli, quello maschile e quello femminile, che si manifestano in modi diversi. Ognuno si calasse nell’abisso che aveva davanti a sé e scoprisse, rivedesse, leccasse, curasse le proprie ferite, ne prendesse atto e le superasse tornando in superficie. Lei voleva aiutare Nakos, anche portandocelo per mano, attraverso questa cura amorevole, con l’ accettazione di ciò che era stato, e dopo aver recuperato un’identità sana, portata integra in superficie, pronto per una relazione d’amore adulta. I loro incontri erano la felice espressione di più livelli, emotivo, fisico, mentale e spirituale, c’era la sensazione di pienezza e completezza, come se fosse offerta la possibilità, a ciascuno de idue, non solo a Nakos, di estendere la propria esperienza in quella dell’altro. La strada non era facile ma la conquista di questa armonia era possibile; in che modo? Cosa chiedeva Jimena quando era inquieta? Chiedeva di potersi esprimere liberamente: uno spazio da creare insieme, in cui sentirsi accettata per com’era, e da Nakos già lo era, e per come sarebbe diventata dopo l’esperienza della condivisione, il che neppure lei sapeva. Cosa faceva lui quando lei è inquieta? Offriva soluzioni per risolvere il problema prima possibile, perché quell’inquietudine potenzialmente creativa era per lui un problema, ovvero ciò che perturbava la sua tranquillità. Cosa sentiva lui di fronte alle inquietudini di lei? Aveva paura di perdere l’equilibrio; era a disagio perché non conosceva quel linguaggio; non sapeva cosa fare perché credeva di dover fare qualcosa. Cosa voleva lei? Essere ascoltata da un uomo, non da un maschietto; un uomo che sapesse stare con lei nell’emozione, pacatamente, affettivamente, empaticamente. Era talmente facile da essere difficile. Perché? Perché un uomo che sapeva fare questo era un uomo che aveva una sua identità, che non aveva paura di intraprendere il viaggio con qualcun’altra, affidandosi ad essa perché capace di rifiutare, qualora gli fosse proposto qualcosa che non era intenzionato a fare. La paura di iniziare qualsiasi cosa, senza averne il controllo, era legata a quanta capacità ognuno aveva di rispettarsi, cioè di sottrarsi, nel caso in cui il viaggio prendesse una direzione che non sentiva in alcun modo appartenergli. Tale capacità rendeva liberi di poter accettare l’altro con tutte le sue diversità. Cosa voleva lui? Essere amato per quello che era; lo avevano già castrato abbondantemente mammina … e Cristina! Voleva essere considerato importante … Come fare, allora, a fargli capire che lei voleva mantenere integra la sua bellezza? Non la voleva toccare, come i fiori, né, tantomeno, la voleva correggere, eventualmente la poteva integrare. In molte, troppe occasioni, aveva mortificato la parola “sesso”. Eppure, l’amore sessuale era una meta meravigliosa e piena di speranza per l’affermazione della vita: era l’essenza e il fine reale dell’essere. Era arrivata al dunque: il mistero della relazioni d’amore. La relazione era una gabbia, una prigione, un gioco di potere, un legame o era acqua trasparente dove vedere coralli e città straordinarie? Il discorso poteva procedere soltanto se ci si spostava in una dimensione di desiderio e, pertanto, si stava insieme per il puro piacere di stare insieme, con valenza creativa, molto vicina ad un gioco per grandi, molto lontana dal bisogno e dai giochi di potere. Sì, stavano insieme anche se avrebbero potuto non farlo, perché era bello farlo. Il loro uno più uno non faceva due, ma faceva infinito, come infinite erano le possibilità di dar vita a forme di esistenza, da soli, non esplorabili. La sfida consisteva nel tentativo di proiettarsi in una dimensione diversa dalla proposta di una coppia funzionale la cui aspirazione massima era quella di andare d’accordo, e non c’era spazio per il sogno, per la curiosità di un inconscio diverso dal proprio ma non per questo inconoscibile; per un gioco di sguardi furtivo, intrigante, seducente, lontano dal mondo dei conti, dei bilanci, dei doveri, delle spiegazioni, rendiconti mortali di un modo d’essere che doveva sempre giustificarsi. Così, si parlava di legami invece che di rapporti, di ruoli a cui aderire invece che di volti da scoprire, di obblighi e di licenze premio. Così, tutto si riduceva a compromessi, remissività e sospiri. Imboccando quella strada, il loro sarebbe diventato il luogo della solitudine, dove tutto era ovvio, perché sembrava che tutto si sapesse già e che dell’altro tutto ci appartenesse, anche i suoi pensieri, i sogni e il futuro; mentre invece ci sfuggivano anche i nostri pensieri, i nostri sogni, il nostro futuro. Era così che la coppia diventava il luogo della violenza perché luogo di rassicurazioni che diventavano ricatti, di parole che diventavano pugnalate, di vergogna che diventava silenzio … e paura … e rabbia, per cui, poi, in gruppo, il compagno diventava il peggior nemico e … quanti tradimenti in quelle occasioni di rivalsa, quante vendette. La stupidità uccideva, allora, qualsiasi risorsa di vitalità autentica e ci si rivolgeva all’altro con un atteggiamento che banalizzava e ostentava una sessualità, trattata con poco rispetto e con una superficialità che negava qualsiasi condizione di profonda interiorità. No, tra loro non poteva … non doveva finire così. E allora perché in due? Perché in due potevano fare l’amore e, magari non potevano farlo sempre, ma potevano farlo per sempre e trovare, così, modi migliori di essere, per andare tra la gente, con dentro un’immagine di qualcuno che facesse dire cose che non avrebbe creduto di poter dire, e che facesse fare cose che non avrebbe creduto di poter fare. “L’uomo senza relazioni – scrive C. G. Jung – non possiede totalità, perché la totalità è sempre raggiungibile solo attraverso l’anima, la quale dal canto suo non può esistere senza la sua controparte, che si trova sempre nel Tu. La totalità consiste nella combinazione di Io e Tu, che appaiono come parti di un’unità trascendente la cui essenza non può essere afferrata che simbolicamente, per esempio mediante il simbolo del rotondum, della rosa, della ruota e della coniunctio Solis et Lunae”. Seppure possa non esservi certezza di conoscenza, tuttavia vi è, sempre, certezza dell’esistenza dell’amore, nella misura in cui vi è un essere che per amore si prende cura dell’altro, il quale di amore è più o meno privo, o il cui amore è più o meno bloccato nell’ignoto.
Né Jimena, tanto meno Nakos, capivano cosa stava accadendo, erano tuttavia certi, non avrebbero potuto non esserlo, dell’aspetto affettivo del legame col quale si erano stretti. E volevano viverlo, non analizzarlo. In Nakos era presente, più o meno esplicita, più o meno consapevole, sempre meno inespressa e comunque pressante, la richiesta d’amore, sia sulla propria incapacità d’amare, sia sull’ipotetica possibilità d’essere amato, e imparare ad amare. Jimena era dotata di un senso affettivo che, per tutto ciò che sappiamo ormai di lei, era particolarmente accentuato e sensibile. Ancor più con Nakos, deprivato di affetti e di capacità affettive. Allora, anche se tutto era cominciato tra il serio e il faceto, come prima, generica considerazione, non poteva non rendersi conto appunto del fatto che vi potesse essere un rapporto d’amore, e quanto era necessario che lei fosse capace, disponibile, in grado di amarlo. Altrimenti, non poteva esservi né relazione d’amore né altra relazione. Altrimenti, tra loro sarebbe finita come in tante altre relazioni, in situazioni, in cui alla indifferenza dell’uno sarebbe corrisposta, al più, l’apparenza del suo amore per lei. Cioè, in pratica, tutte quelle vissute fin allora da Nakos. Sino ad arrivare a quell’apparente paradosso che avrebbe fatto sì che l’amore di lui, malato, ma pur sempre amore si scontrasse con la normale indifferenza dell’altra metà del cielo. Jimena voleva riuscire a far chiudere gli occhi, fare buio e vuoto interiore: far sparire da una parte, vedere intuire e sapere dall’altra. Significa, oggi come allora, che la capacità affettiva di ciascuno è contemporaneamente recettiva e tendente ad investire l’altro, in un rapporto di conoscenza, di investimento sessuale, come massima espressione, oltrepassando qualunque forma di distorsione possibile. Diamo per scontato questo originario assetto sano di Jimena, diamo ugualmente per scontato un analogo originario assetto sano di Nakos, il quale aveva tuttavia perduto, anche se in gran parte, tale originaria dimensione affettiva, per le vicissitudini della propria esistenza, che l’avevano fatta, subito, da sana, malata. E’ importante sottolineare che tale perdita è sempre solo parziale: non esiste, perlomeno non si è mai vista, persona tanto disturbata da essere assolutamente indifferente. E’ che l’affetto residuo di ciascuno è come mascherato, distorto. Si potrebbe enumerare una quantità infinita di manifestazioni affettive in ognuna delle quali ciò che è più evidente è “quanto manca di affetto”, ma in ognuna delle quali è evidente che, comunque, di affetto c’è n’è ancora. La totale consapevolezza di poter ancora scoprire l’amore, la sua capacità di donarlo e di riceverne, era Jimena stessa, la persona con cui era entro in rapporto, percependola come altro da sé, e con cui non solo era possibile instaurare una relazione, ma la stavano già vivendo. Riconoscere l’altro nella sua alterità e totalità, questo è più facile a dirsi che a farsi, per la propria necessità di identificarsi con qualcuno o qualcosa, e per la scarsa capacità di vedere –non solo fisicamente, con gli occhi– l’esistenza di pulsioni parziali, ossia quelle pulsioni che sono in cerca ciascuna della propria soddisfazione, poiché non hanno ancora trovato un centro attorno a cui organizzarsi. Il centro di gravità permanente, l’aveva cantato qualcuno. L’inizio di una relazione è, va da sé, permeato di modalità affettive e relazioni parziali: vi è una condizione di bisogno che spinge verso il cercare di modificare. Se stessi, non gli altri. Quella relazione d’amore che parta da una condizione di bisogno e che sul soddisfacimento dei bisogni materiali, o comunque parziali, si esaurisca, ci si deve chiedere che tipo di relazione affettiva sia, e se non ci si debba aspettare di più, qualitativamente soprattutto, se non esclusivamente. In altre parole: l’altro non può esistere solo nella misura in cui riesce a soddisfare un bisogno. Ognuno dei due deve scoprire, trovare e disvelare, e giocarsi, mettere in gioco accettando il cambiamento, la propria identità. L’identità è il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre. Ha il suo fondamento nella relazione che la memoria instaura tra presente e passato. Non è un dato ma una costruzione costantemente mutevole. L’identificazione, invece, quella che Donna Elena pretendeva da Nakos -nel caso, identificazione col marito-genitore, dello sposo che genera, che la rendesse fertile- indicava invece un processo con cui Nakos avrebbe dovuto assimilare tutti i tratti del padre-sposo, modellandosi su di esso. Il fatto era, ed è, che molti dei problemi relativi all’identità si decidono a livello di identificazione, nel senso che tanto più ci si identifica con qualcuno, tanto meno si è in grado di definire in maniera efficace la propria identità. E’ un sottile equilibrio, è un confine sottile quello che passa tra il riuscire a cogliere l’arricchimento, il nutrimento nella relazione con l’altro –situazione che conduce ad una identità più forte, più definita, soprattutto se sollecitata dal padre, non dalla madre– ed il “somigliare a …”, che invece conduce ad una identità più fragile, meno strutturata, alienata, nel senso proprio di ceduta alla altrui volontà. La condizione di “vuoto” che Nakos portava in sé, veniva pian piano sostituita da una trasformazione, dall’acquisizione di nuove e diverse caratteristiche, ancora non si poteva parlare di relazione d’amore. Questa, infatti, avrebbe presupposto che vi fossero già due entità distinte, due identità che interagivano tra loro, tanto più quanto più le loro identità erano, si facevano distinte e separate. Nella quotidianità delle relazioni normali –che brutta espressione, tant’è- il rischio dell’identificazione si esprimeva nella possibilità di un annullamento dell’individualità di ciascuno, nella concreta possibilità di una stabile confusione tra ciò che era proprio e ciò che era altrui, in una alterazione più o meno pervasiva dei propri confini. Il che esponeva al rischio di una vera e propria frammentazione del proprio sentimento di identità o al vissuto di perdita di parti del proprio sé come conseguenza di una separazione. Se è vero che in una relazione d’amore si deve –in qualche misura obbligatoriamente– rinunciare al proprio sé, è anche vero che si deve essere in grado, dopo, di ricostruire i propri confini, e ciò può accadere tanto più facilmente quanto più, prima, tali confini erano ben definiti. In Nakos c’era ancora confusione, espressa ed evidenziata da quel meccanismo noto con il nome di identificazione proiettiva: strana bestia, che faceva sì che parti frammentate di sé, caratterizzate da connotazioni negative, venivano ancora o espulse all’esterno, o poste all’interno di un altro, attribuite all’altro. Cosicché l’altro non era più sentito, non era più sentibile, come individuo separato ma come parte “cattiva” di sé. Ma a questo abbiamo già accennato, è il problema dei confini dell’io. La definizione di tali confini era, è preliminare alla possibilità della costruzione di una relazione d’amore. Nella relazione con Jimena, Nakos stava ricostruendo tali confini; e la ricostruzione avveniva attraverso innumerevoli strumenti: il codice materno, l’ascolto con interesse e attenzione, l’empatia, e la presenza affettiva, e, infine, la conoscenza di sé, la restituzione di lui a se stesso, quando era il caso, anche attraverso il rifiuto, o il silenzio.
Una di quelle sere insieme, a mezzanotte passata, avevano sentito il desiderio di godersi l’aria estremamente dolce, dall’altana che stava sopra il tetto. Con fare esitante e cauto, avevano trovato, a tentoni, il passaggio per accedervi. Il cielo era pieno di stelle e di una falce di luna che attraevano i loro occhi, e in essi si specchiavano. Si erano appoggiati alla balaustra di legno, vulnerabili alla bellezza di quella notte. Sembrava si fossero dimenticati della loro materialità, e che stessero planando in quel cielo, svincolati da tutto, tenendosi per mano. Stavano veramente tenendosi per mano, le dita intrecciate, e ne erano rimasti colpiti, quando se ne erano resi conto. Non era stata una questione di sesso, ma di aver scoperto finalmente il legame, reciproco e profondamente commosso. Commossi perché stavano cercando di dirsi con gli occhi che erano quelli che si erano cercati per tutta la vita. Nakos si era accorto in retrospettiva di quanto fosse teneramente turbato dall’andatura flessuosa e determinata di Jimena, dal suo muoversi sciolta come una ballerina, dal suo profumo di limone, dalla sua crocetta d’oro pendente sul petto. Non avevano fatto altro che guardarsi negli occhi per periodi sempre più lunghi. Lei gli aveva sorriso, la testa inclinata, come stesse valutando se potersi dire soddisfatta. Un gesto tanto innocente, da colpire il cuore di lui. C’erano state altre sere. Mano nella mano. Occhi negli occhi. Con più stelle e lune nei loro sguardi che in tutto l’universo. Beh, quasi. Si erano scambiati il loro primo bacio, prolungato. Poi si erano fissati, in una confusa incredulità extracorporea, come due persone che condividevano una visione celestiale, che altri non avrebbero mai potuto vedere, perché privi di occhi. Non posso dire che da allora in poi si erano tenuti per mano, perché non era stato così, ma avevano sempre mantenuto il loro sguardo interiore fisso l’uno sull’altra. Quella notte si erano abbracciati, da bravi bambini timidi, ben educati. Poi avevano fatto l’amore fino al momento in cui lei, di malavoglia, aveva dovuto rivestirsi della sua uniforme, resistendo alle suppliche di Nakos per un altro bacio e abbraccio. Ma non senza avergli tenuto il viso tra le mani, scuotendo dolcemente la testa, incredula e felice. Non più di lui, va da sé.
APPARTAMENTO. Quella notte Niki, mentre Juan era dentro di lei, si era senita stringerlo con radici confuse che lo collegavano a lei in modo splendido, in giorni infuocaqti e in notti che stringevano improvvisamente il cuore. Lui stava vivendo una seconda vita, la più vera, sotto le apparenze quotidiane della prima, con una storia fatta di un susseguirsi di desideri oscuri e di sensazioni potenti e indescrivibili. Il profumo do Niki, di gelsomino e caprofoglio, gli sembrava, il tepore della sua pelle, il calore che lo attirava dentro di lei senza sosta, non per possederla, ma per entrare nel suo raggio di vita. Per appoggiare la testa alla spalla di Niki con un grande senso di abbandono e di fiducia. E il sentirsi quasi venir meno quando, con le sue mani, lei lo tratteneva più a lungo dentro di sé. E quando si stendeva tra le sue gambe, respirava l’odore dei suoi peli, e gli uomori ancora più forti, animaleschi, del suo caldo spandersi dentro di lei, dove la vita, malgrado tutto, veniva conservata per lui che non poteva farne a meno. Da qui nasceva il suo ardore famelico, quella follia con la quale amava Niki di un grande amore di tutto il cuore, e di tutto il corpo. Sì, con lei il desiderio era assoluto, e il modo in cui defluiva in lei con un grande grido muto nell’attimo del godimento, ritrovava la sua accoglienza ardente, la bellezza generosa di vivere che era, ora, anche la sua, e che dfaceva rifiutare il trascorrere del tempo. Allora, col cuore in fiamme, Juan, come una spada solitaria e vibrante, destinata a penetrare all’iprovviso e per sempre dentro di Niki, si abbandonava a quella pura passione, sentiva la vita fluire da lui in lei, abbandonandosi alla speranza che quella forza lo elevasse per tanti anni al di sopra dei giorni, nutrendo lei della stessa generosità instancabile con cui gli aveva ridato ragioni per vivere.
DISCLOSURE. Juan e Niki avevano preso alloggio all’Hilton, la cui hall, rivestita di marmo, era il luogo d’incontro di miliziani in mimetica, militanti islamici e aperatori internazionali indistinguibili nei loro completi grigi di uomini d’affari, giornalisti arruffati. E, cosa non secondaria per Juan, dove si serviva un ottimo cappuccino, italiano. La loro suite era arredata con gusto, con alle pareti. Al posto dei soliti quadri pacchiani, riproduzioni di opere d’arte della cultura araba e islamica. Un fattorino in uniforme, da fattorino, aveva consegnato a Juan tre messaggi telefonici, cosa che l’aveva sorpreso, almeno fino a quando si era ricordato di aver spento il suo GIL ... perché il loro … riposo non venisse interruptus. Altra grave e incauta imprudenza commessa per la presenza di Nikolett. Avrebbe dovuto quanto prima darsi una regolata. Dopo essersi mentalmente preso a calci, e ripromesso di non commettere altri errori, aveva letto i tre messaggi. Uno, se lo aspettava, va da sé, era di Anabel, e già quello gli aveva fatto andar di traverso la colazione: “Chiamata dall’A.D. –senza precisare di che- Si prega di avvisare di richiamare la Sede, appena il signor Tenorio e la sua consorte saranno disponibili”. Se non era una dichiarazione di guerra, di sicuro un ultimatum. Però … Però Jaun non aveva potuto far a meno di pensare a quanto la sua situazione avrebbe fatto gridare al pur furioso Orlando: «ah misero fratel, fratello insano / perch'hai perduto l'intelletto». Nello stesso luogo, città, albergo, stanza … letto, aveva confessato, a due donne diverse, e, a se stesso, di aver trovato, o quasi, l’amore che gli avrbbero ridato, ne era sicuro, quello di vivere. Aveva anche detto che neppure lei sarebbe stato certo di quale sarebbe stata la volga “giusta” se non sentendolo, senza capirne il come e il perché, solo sentendosi vivere, vedendosi vivere nello sguardo degli altri, di lei soprattutto, ma non solo, in modo diverso, nuovo. Già questo bastava ad escludere che, quando e se fosse avvenuto, avrebbe avuto connotazioni riconoscibili con la ragione. Però … Però, un così rapido mutar del vento che gonfiava le sue vele, una conversione di rotta così repentina, che avrebbe fatto rovesciare sul fianco anche un’imbarcazione da regata … insomma, aveva acceso una luce rossa nella sua mente. Rossa nel senso di allarme, non d’altro. Era come una domanda che avesse sempre conservato una carica d’indecifrabilità e un alone di mistero, e rimaneva ancora un enigma, per lui. Anabel aveva tutte le ragioni per essersi risentita, usando la più soft delle parole. Niki pareva fosse veramente convolata a nozze col sempre sognato e agognato principe azzurro, e lui non aveva fatto nella per non alimentare quel … sogno. Anzi, si era sentito protagonista di quel sogno lui stesso. Non poteva però essere. Pur nella sua convinzione che il suo innamorarsi non avrebbe avuto molto di razionale, era al di là del bene e del male che in lui non ci fosse un minimo di giudizio. Già … il giudizio, non nel senso corrente e più comune. Quello che intendeva, era il giudizio sulla corrispondenza tra le sue esigenze primarie, esistenziali, essenziali, ee la pienezza della loro realizzazione in quell’incontro. Avesse saputo quali erano le sue esiegnze primarie, più profonde. Il che, lui non sapeva. Qualcuno aveva parlato di inconscio, ma Juan, e non solo lui, era convinto che fossero ancora più nel profondo che non l’inconscio. Ne era rimasto turbato, smarrito. Perché le donne s’innamoravano di lui? La risposta si celava nell'ombra, lui agiva sotto la spinta irrefrenabile a compiere gesti ai quali era costretto … ’Come un ragno che attende la tenebra per tessere la sua trappola. Attira, lusinga e consuma la preda, insaziabile, da la rapace fiamma devorato. Regalo l'illusione di una fusione intima e profonda. Non però l'amore, non ne sono capace. Non so cos’è’. Guardare Juan Tenorio non era facile. Era un po’ come cercare di vedere un fantasma inafferrabile. La sua identità era per lui il luogo dell’oscurità che non poteva chiarire. Un buio sul quale non poteva fare alcuna luce. L’essenza profonda si sé, se pur esisteva, gli sfuggiva sempre. Cercando di veder meglio nella situazione nella quale si trovava, sia Anabel che Nikolett avevano pensato, anzi, erano sembrate certe di aver trovato l’uomo giusto per loro. Evidentemente doveva esserci qualcosa d’altro, di diverso. Entrambe non avevano conosciuto l’amore, se non nel suo aspetto romantico da adolescenti, o in quello pasticciato, subito o autoimposto, per ribellarsi ai costumi e alle convenzioni. Come anni e anni prima si occupava una piazza o una scuola o altro edificio, si andava in corteo a protestare, si voleva shoccare la maggioranza silenziosa, ora, non volendo cadere nell’aberrazione del brigate rosse o delle tute nere, erano regredite alla vecchia rivoluzione sessuale. Una rivoluzione che aveva senso quando c’erano autorità cui ribellarsi, ma ormai, col principio di autorità sputtanato in tutti i modi e a quasi tutti i livelli, chi non era retto da una fede forte, finiva per fare a capocchia, seguendo capricci, mode, gruppi. Forse con lui avevano fatto l’amore in modo molto più intenso ed emozionante di quanto non fosse mai accaduto. Si erano sentite liberate, dal “rigor mortis” della condanna alla frigidità. Lui le aveva liberate, no, loro si erano sentite liberate dalla paura a mostrasi come erano, di mettersi in luce, di sentirsi raggirate o dover raggirare. Valori difficili da assumere fino in fondo nella propria vita senza tradirli mai. Valori, in ogni caso, di cui lui non era portatore. Poiché una relazione produce sempre una sua legge, una sua norma, poteva essere che loro avessero stabilito come la norma che esprimeva il massimo della ribellione, fosse l’amare lui, unirsi a lui per sempre, farsi fecondare da lui. Juan aveva avuto un’illuminazione, un flash, non più che un lampo improvviso e subito scomparso, che, non seguito dal tuono, lascia in dubbio se si sia visto veramente un lampo o non, invece, un qualsiasi riflesso abbagliante. Aveva recuperato le immagini di altre donne, che avevano preceduto Anabel e Nikolett, procedendo a ritroso, e qualche tratto comune gli era sembrato di scorgere. Piuttosto solitarie, anticonformiste, difficilmente omologabili, piuttosto ardenti, almeno con lui, insomma, speciali. In donne così il conflitto contro l’ipocrisia, il convenzionalismo, l’amore troppo superficiale, doveva essere altissimo; ed elevatissima anche l’aspettativa verso di lui. Il loro amore per lui era, almeno nelle intenzioni, era per tutta la vita. Nessun altro uomo avrebbe potuto prendere il suo posto. Possibile? No, non che lui fosse così, ma che loro potessero vederlo così. Lui pensava che la costanza era buona solo per gli sciocchi. Lui non era così. Aveva ripensato alla notte buia e tempestosa: aveva aperto gli occhi, aveva visto una sconosciuta china su di lui, e si era “dichiarato” a bruciapelo –beh, non proprio, ma insomma …- semplicemente perché lei si trovava lì, perché era già tra le sue braccia. Si era sentito morire e rinascere, e si era scoperto innamorato, senza il tempo per riflettere, senza nemmeno sapere di chi si era innamorato. E lo aveva proclamato con parole di fuoco, istantaneamente, in una risposta immediata, automatica. Risposta a che? Risposta a chi? Eppure, da vero eroe della conquista, l’aveva portata con sé, infrangendo ogni regola e codice, ogni norma di sicurezza, tradendo senza curarsene Anabel. Era come non vivesse nel presente, ma nell’istante. Una successione di istanti, di momenti immediati. Quel suo desiderio di essere continuamente su di lei, dentro di lei, di lasciare in lei la sua traccia, il suo elemento vitale, lì c’era tutto. L’avevano lasciato entrare volontariamente, consapevolmente. Alcune abbandonandosi fisicamente molto bene, per ottenere quanto di più elevato era possibile. Lui stesso realizzava i loro desideri a un presso molto elevato, anche lasciandosi possedere in modo arcaico e primitivo. La sua memoria stava tessendo la trama della sua vita, del suo trascorrere, ma lui non ne coglieva ancora il senso. C’era solo una serie di momenti di immediatezza, ripetuti e slegati tra loro. Beh, alla fine si sarebbero collegati, forse erano vasi comunicanti, ma condensare tutto in uno … ne doveva passare d’acqua sotto i ponti. Ciònonostante, senza posa, evava inizato ad ossessionarlo una domanda: “Amo questa donna? Ho mai amato una donna?”. Cos’era l’amore? Adorare un corpo, venerare un sesso, inebriarsi di profumo e di odori, rimanere stordito da seni e aureole perfetti? Aveva sognato per tutta la vita questo amore nel quale lo spirito, l’anima, erano i grandi assenti? Con Anabel era rimasto legato più di due anni. Poteva ricordare ancora il suo profumo, del quale gli piaceva versarsi una goccia sul palmo delle mani, per ricordarsi in ogni istante dell’ultimo amplesso, dell’ultimo orgasmo. O di lei, vestita solo delle scarpe dai tacchi vertiginosi, seduta sul bordo interno della grande vetrata all’ultimo piano dell’Emirates, mentre lui la penetrava con la visione dei loro corpi riflessa nello specchio, dietro la quale si stendevano in splendida vista il mare e la magnifica moschea in un tramonto fantastico. E il porto ... e la città, con milioni di luci. Lei con la schiena poggiata al vetro, reggendosi con le mani sullo stretto davanzale interno, protesa verso di lui, che a sua volta affondava dentro di lei facendo leva, e prendendo spinta sulla punta dei piedi. Come dimenticare la donna che gli aveva dato uno dei più grandi orgasmi che mai gli fosse stato offerto? Tutto ciò non poteva restare per sempre il suo mistero. Ogni volta, ogni nuova volta, era travolto da un’ossessione che cancellava tutto ciò che prima era accaduto, che aveva contato qualcosa, persino molti dei suoi piaceri, la sua paura della solitudine e dell’abbandono, l’indolenza di un amplesso che gli era sembrato una passeggiata del suo sesso nella foresta di quello di lei, fino a scivolare dentro di lei, con una leggerezza disarmante, quasi sciando, fino alla gioia dell’immensità dello sciogliersi della neve di lei, e della sua in lei. Momenti d’amore che lui voleva prolungare, rinnovare, non solo per portare all’estremo il piacere, anche, senza dubbio, per non ritrovarsi solo, finito il piacere, in una realtà desolante, che spingeva sempre la sua temerarietà a ritrovare quell’accoglienza appena e con chi fosse possibile.
Prima ancora di essere un seduttore era un sedotto. Ed era un amante ineguagliabile, stupendo. Era spinto … in una coazione a ripetere … da una doppia onda: da una parte un'infantile stupore per quanto era meraviglioso il mondo; dall’altra un desiderio di libertà, una sete di emozioni. Restava, però, sempre inquieto, mai placato. Già a undici anni aveva conosciuto la passione intensa di una donna sul suo giovane corpo. La sorella di sua madre, alla quale i suoi lo affidavano quando non c’erano. E non c’erano mai. E quelle comparse che facevano, era meglio non ci fossero state. Da quella prima volta - quel ricordo che lui custodiva come l’unico sereno e commosso della sua infanzia, per il resto priva di tenerezza, di attenzione, di tranquillità, di sollecitudine- l’amore era diventato il faro della sua esistenza e l’aveva condotto da un talamo all’altro. La sua vita infelice era proseguita così, senza sosta, senza meta, se non quella di donare il suo amore sensuale in tutte le sue forme, senza mai stancarsi. Un uomo che solo l'idea di atto riproduttivo poteva placare, liberare dalla nostalgia che si risolveva, sempre, fra il piacere del ricordo e la malinconia del passato. La sua maschera di seduttore era un equivoco creato dalle donne. Ciò che lo rendeva irresistibile per le signore era la sua spiritualità, o la sua pretesa di una spiritualità virile. Con il rischio, certo, che gli episodi finissero per divorare tutta la sua vita. Ciò che veramente faceva, che continuamente ossessivamente ripeteva era un atto di reinfetazione, del tenersi dentro. Non si tratteneva dentro per smania, si tratteneva dentro per rassegnazione. Non sapeva più se rinascere in quel corpo di cui aveva conosciuto il possesso intimo; o rientrarvi per intero, regredendo fino non essere più, dissolversi. Lui penetrava nel loro grembo segreto, e loro mugolavano, dimenandosi, contorcendosi, celebrando, insomma, l’intimo cerimoniale dell’atto d’amore. Ma, tra i due, rimaneva sempre più forte la donna, che lo voleva bruciante del suo solo fuoco. A Juan era tornato in mente una scena di Ricorda con rabbia, di John Osborne, uno dei celebri angry young men. La scena in cui Jimmy descrive all’amico Cliff, i suoi rapporti sessuali con la moglie Alison, in presenza di quest’ultima. >. Nessun dentro era per lui sicuro e appropriato, così fuggiva sempre, e quasi subito. Fuggiva, ma era angosciato dal panico di non trovare un altro luogo, così mentre una relazione era ancora in corso già ne iniziava un’altra, cui passare senza soluzione di continuità. Dall’averne due, era passato a tre, in un labirinto di Creta, nel quale temeva di perdersi: e restava prigioniero tra la coazione a ripetere la reinfetazione, e il timore della solitudine … Aveva fatto esperienze forti, e ne portava le stigmate, il passato lo segnava, lo marchiava a fuoco, più, molto di più delle sue cicatrici. Le maschere che indossava per difendersi stavano divenendo troppo pesanti anche per lui. Avrebbe potuto togliersi l’ultima solo di fronte a se stesso, nell’incontro con una donna che gi avesse tolto anche l’ultima maschera. Un ventre che non avesse ancora conosciuto uomo, nel quale lui fosse il primo, avrebbe ridato lui a se stesso, nella nascita di un bambino, imparando l’amore dal dargli la vita. Juan non sapeva che fosse l’amore. Non l’aveva mai saputo. Aveva conosciuto solo il possesso e il controllo che fin dall’infanzia l’avevano esasperato, frustrato. Alle soglie della vita, prima di qualsiasi iniziativa, aveva sempre provato una grave sfinitezza e un profondo disgusto per tutte le miserie e le vanità da cui veniva insozzato, mentre lui voleva tenersene proprio lontano provandone un istintivo rifiuto. Dubitava. Delle idee generali, delle convenzioni sociali, di tutto ciò che riceveva come educazione. Cosa più grave, aveva finito per dubitare anche dei sentimenti più profondi. Eccolo solo, nudo e disorientato. Stanco di dubitare, cercare una consolazione nella spregiudicatezza e licenziosità di costumi, nell’indipendenza assoluta d’idee e opinioni. Cercava per non trovare. Sempre. Perché era troppo tormentato per abbandonare la ricerca. Prendeva coscienza della propria nullità. Comprendeva che l’uomo da solo non è nulla. Finalmente si vergognava, e si vergognava di aver vergogna. Se avesse acconsentito a darsi con un assoluto desiderio di unione, di assoluto, e avesse capito che quel segreto che aveva avidamente cercato di conoscere, sarebbe stato tremendamente legato a quella donna, e avrebbe capito di non dover più cercare. Si sarebbe sciolto in fondo a lui quel nodo di legami oscuri, si sarebbe liberato da impacci che lo opprimevano senza che sapesse nominarli. I cocciuti silenzi, le sofferenze vaghe e sovrane che lo soffocavano, segreti che si portava dentro da sempre, gli sarebbero parsi allora fatti solo del silenzio che li custodiva. Avrebbe aperto gli occhi sul mondo troppo bello, che aveva ignorato perché l’aveva guardato male, soprattutto amato male. Allora avrebbe potuto sprizzare in piena luce, con l’aiuto dell’amore. Avrebbe avuto la possibilità di vivere in un mondo più puro, esente da ogni meschinità, e di dimenticare i suoi grossolani desideri e i suoi ignobili appetiti. Si era sempre atteso una specie di morale o di religione tutta istintiva. Si era sempre atteso un a sorta di vangelo forgiato dall’intuizione e fatto per essere capito intuitivamente. Intuizione che non aveva mai avuto. Il suo ragionamento era ancora di solitario, ma si era innamorato di quella donna, del bambino che sarebbe nato, della vita, e questo suo amore era un cristallo attraverso cui vedere riflesso, e abbagliante in mille sfaccettature, l’assoluto. Già, ma quale donna? Anabel? Nikolett? ... e Dvòra, c’era anche Dvòra Gàl. Un’altra ancora? Perché? Perché continuava a rodersi con quelle domande cui non sapeva dare risposta, di più, che non capiva neppur bene del tutto? L’aveva preso una rabbia insostenibile. Di lui non gliene importava niente a nessuno, nessuno capiva. Aveva sentito d’un tratto questa passione, autonoma, esclusiva. Ne sentiva la tensione come un urto. Si sentiva umiliato, minacciato, rapinato. Si sentiva inconsapevolmente un fallito, e provava rabbia, detestava coloro che l’avevano ridotto così. L’elenco degli imputati era in bianco. Le donne! Erano protettive ma oppressive, materne ma grottescamente, lo tenevano in un’umiliante dominio. Il loro ignobile far ricorso anche a investigatori privati per controllarlo, per acquistare potere su di lui. Sì, la sua presenza era solo esornativa, esterna, non necessaria. Questa bizzarra ossessione stava acquistando un peso determinante. ‘Se è questo che vogliono … hanno trovato il giusto ribaldo … Sì, quella era la parola ad hoc, alla sua antica origine germanica hrìba, riban, significava: donna di malaffare. Una burla perfetta”. . Nessun senso di colpa aveva aperto strappi nella sua coscienza. La sua mente era stanca, esausta, alterata. ‘Perché dare la colpa a me? Non hanno il diritto di dare a me la colpa di quello che mi è accaduto’. Era furioso. Provava un dolore insopportabile, il dolore del rifiuto, dell’abbandono. All’improvviso dubitava del modo in cui veniva percepito. Sapeva che, a dispetto di tutti i tentativi di mostrarsi premurose e gentili, non sentivano il gelo che si era creato dentro di lui. Aveva perso fiducia anche in quella che gli era sembrata un’accoglienza rassicurante. Osservava con occhi sgranati senza vedere nulla. Pensieri senza forma gli ronzavano nella testa come mosconi intrappolati. Non sapeva come sfogare la sua rabbia. Non sapeva cosa fare con sé, di sé, ma non poteva cedere proprio adesso. No, avrebbe praticato l’arte della fuga senza mai andarsene veramente. Non doveva cedere mai, e affrontare l’alto grado di esplosività di quella situazione drammatica, cercando di raffreddare i suoi fumi di rabbia e vendetta, e di disperderli come il vapore. All’altrui vista. Sarebbe però stato giudice e vendicatore, anche sull’oggetto de suo amore ... o desiderio. Aveva accantonato bruscamente quel biglietto, come fosse il responsabile di quel malumore che si era impossessato di lui. Aveva lasciato spento il suo GIL, per il momento aveva preferito comporre il numero della stanza da cui era stato chiamato. Avevano risposto al primo squillo, una voce decisa, non forte e arrogante, affabile: “Le sarebbe di troppo disturbo essere nostro ospite per un paio d’ore?”. Inutile chiedere con chi stava parlando. La voce aveva continuato: “Le saremmo grati se venisse solo, non è un luogo adatto per una giovane moglie”, aveva calcato sull’ultima parola. Si era affrettato ad aggiungere, “Nulla di pericoloso, per carità, solo … roba da uomini”. Sapevano più di quanto avessero dovuto, e di quanto lui avesse voluto, ma che erano? Non era la prima volta che Juan si trovava in simili contingenze, e aveva considerato che se ci fosse stato pericolo non sarebbe aumentato accettando l’invito. “Con piacere”. “Al bar sulla terrazza”. La voce gli aveva dato il numero di un tavolo e aveva riappeso. Questa volta aveva pregato Niki di aspettarlo in camera, non sarebbe stato via molto. Nessuna obiezione o malumore, aveva solo dovuto risistemarsi l’abito stropicciatosi quando l’impetuoso bacio di arrivederci di lei li aveva fatti ricadere sul letto, allacciati in un abbraccio durante il quale lei gli era stata a fianco, sopra, sull’altro fianco, sotto ... e lì Juan aveva imposto la fine, perché lo trattenesse in un altro impegno, seppur di gran lunga preferibile e allettante. ‘Juan, qui devi ricollegare il culo col cervello alla svelta ... non sei mai stato così. Invece di stancarti ... la desideri di più: più spesso e più intensamente. Ti lasci distrarre dalle più elementari regole e precauzioni. Che ti sta succedendo? Non sembri più lo stesso. Cos’ha questa che altre non hanno?’. Inutili domande, inutili rovelli. Appena la toccava, anche solo con gli occhi, si sentiva come avesse preso uno sproposito di Cialis. Fosse stato solo quello ... Era che si sentiva sciogliere dentro, non desiderava che fosse sua, né di essere suo ... voleva essere ... insieme, che entrambi si sentissero insieme. Avrebbe voluto dirle: “Donami l’anima ... che la mia già l’hai presa”. Giunto sulla terrazza era finalmente riuscito a riprendere il controllo. Fingendo di ammirare il panorama, si era fermato in piedi sulla terrazza, giusto il tempo di individuale il tavolo di cui aveva avuto il numero. Si era avvicinato con aria annoiata. L’uomo robusto, con i baffi folti e i capelli pettinati all’indietro, che era al tavolo si era alzato, allontanandosi. Juan l’aveva seguito, dopo un’hesitation se sedersi o no a quel tavolo, a beneficio del pubblico. Se pubblico c’era. Altro viaggio sotto scorta, su Mercedes ultimo modello, non su un veicolo militare o paramilitare, come si sarebbe aspettato. Non c’era voluto molto perché Juan riuscisse a indovinare la loro meta: la grande caserma che aveva visto insieme con Niki, durante il loro girovagare. Arrivando in auto, dopo l’ultimo tornante, l’orizzonte si riempiva di quel muraglione, che incombeva grigio e inquietante. Nei cortili erano in corso esercitazioni d’addestramento di diverso grado. Juan era stato accompagnato in uno stanzone al primo piano, destinato originalmente a un corpo di guardia. Ora c’erano solo un lungo tavolo –quello che era stato per il rancio?-, casse ammassate in disordine, una brandina da campo. Scatoloni pieni di provviste. Armi e munizioni sparse. Abiti appesi a chiodi infissi a caso nei muri. Anche in vecchio catino con specchio, portasapone e un anello porta-asciugamani, su un tripode in ferro battuto. La scarsità di mobili era compensata dall’abbondanza di mensole, sulle quali c’era di tutto un po’. Su un muro era appesa una bandiera verde con la scritta, in bianco, “al servizio del popolo”. Da dietro il tavolo, al quale era seduto, si era fatto avanti un uomo di non più di quarant’anni, dal volto simpatico faccione con un sorriso a 32 denti sotto un paio di baffetti grigi. Un inglese fluente, frutto dei suoi studi all'estero. Era in abiti civili raffazzonati. I pantaloni di un gessato scuro, una camicia bianca aperta sul collo, le maniche arrotolate sugli avambracci, un golfino senza maniche verde oliva, militare. Ai piedi mocassini sformati. Aveva teso entrambe le mani a Juan, serrando la sua in una forte stretta, scuotendola a lungo. “Mohamed Tell”, si era presentato. Juan l’aveva già riconosciuto, era un personaggio abbastanza noto, per usare un eufemismo. Era un grande imprenditore edile, con attività nel Paese e all’estero, proprietario di vari alberghi nei Paesi su quella sponda del Mediterraneo, a Cipro e in Grecia. Si era schierato subito con i ribelli, ed era stato sempre in prima linea. Anche ci era stato sospettoso verso di lui, all’inizio, aveva dovuto alla fine arrendersi. Alle critiche che gli erano state rivolte, di essere stato in affari col vecchio regime, aveva risposto con un argomento difficilmente contestabile: quasi nessuno poteva dire di essere stato estraneo al vecchio regime. Inoltre, suo padre e suo fratello, che erano stati a capo degli affari di famiglia si erano ritirati lasciando tutto nelle sue mani. Lui che era direttore dell’Istituto islamico di studi teologici e politici, sempre in viaggio tra in suo Paese, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, Dubai.
“La ringrazio di aver accettato il nostro invito … non la terrò lontano a lungo dalla sua giovane sposa … non si preoccupi. E’ veramente un piacere averla qui”.
Anche lui aveva calcato su “giovane sposa”, qualcuno aveva la lunga troppo lunga, qualcuno dei suoi, aveva pensato Juan. L’aveva condotto, guidandolo con un braccio, a una sedia di fronte alla sua, dall’altra parte del tavolo. Mohamed Tell aveva liberato la parte di tavolo che stava tra loro, avvicinando una brocca d’acqua e due bicchieri, che aveva subito riempito. Juan aveva ringraziato con un cenno del capo.
“Un po’ marxista la scritta, non le sembra?”, indicando la bandiera appesa al muro.
Mohamed aveva sfoderato il suo largo sorriso: “Sempre meglio che chiamarci ribelli … Voi ci chiamate così, ma noi non siamo ribelli. Siamo rivoluzionari. Ribelli indica una sfida nei confronti di un’autorità legittima, ci fa apparire come criminali … assassini senza scrupoli”.
Juan si era accorto di essersi incamminato su un terreno scivoloso, e aveva subito cercato di rimediare. “Mi scusi, mi ero dimenticato che lei è anche un grande teologo … e politologo. Comprendo il suo disappunto … il linguaggio è frutto di una convenzione su significanti e significati”, Tell aveva annuito, compiaciuto. “Il passato regime si dichiarava rivoluzionario, è stato così detto per anni … ora, come chiamare chi combatte un regime rivoluzionario?”.
Mohamed Tell non sembrava contrariato, anzi trovar piacere in quella conversazione. “Quello era una dittatura sedicente rivoluzionaria … noi siamo i veri rivoluzionari”.
“Ne sono convinto. C’è della confusione. Per decenni regimi totalitari si sono mascherati sotto spoglie rivoluzionarie … quando sono caduti, quei Paesi si sono dati forme costituzionali democratiche in diverse versioni. La contrapposizione, a parer mio, è tra dittatura e democrazia, troppe rivoluzioni sono finite in dittature, di uno, pochi o del popolo non ha fatto differenza. Un Paese come la Cambogia è arrivata alle soglie dell’auto-genocidio, e tutti i contendenti si dicevano rivoluzionari”.
Tell, “Noi siamo i veri rivoluzionari”.
Juan, “Signor Tell, non voglio essere polemico, né fare una disquisizione solo accademica. Mi conceda un appunto: vero o falso sono giudizi molto soggettivi e opinabili. Le guerre di religione sono sempre state tra un vero e un falso … e oso dirle che avete in casa il pericolo di chi può domani dichiararsi di essere più vero rivoluzionario di voi. Forse mi sbaglio, ma il Governo che avete appena abbattuto è iniziato con una rivoluzione contro la monarchia assoluta ...”.
Tell si era fatto serio, sporgendosi più avanti sul tavolo, appoggiando gli avambracci. “Cosa ha visto da quando è qui?”.
“Un’uniforme non l’avete ancora, ma che siate un clan ben organizzato lo si capisce all’istante, appena scesi dal volo. L’aeroporto è in mano vostra, i poliziotti e i doganieri si limitano a controllare i passaporti, all’ufficio visti ci siete voi, al triplo controllo con i metal detector ancora voi, fuori del perimetro dell’aeroporto sempre voi: i Taghmer”.
“E controlliamo tutta la regione”.
Juan aveva continuato: “Ho visto una Città liberata ma non libera, ordinata e caotica insieme, dove sotto il manto di una quotidianità che appare, tutto sommato pacifica, si muovono interessi e rivalità, e la violenza è sempre pronta a riesplodere. Sbaglio o pochi giorni fa c’è stata un’intimidazione armata, a suon di raffiche di mitraglia, sulla facciata della sede della GFP?”.
“Oh, erano miliziani che protestavano per il mancato pagamento del soldo e degli indennizzi … un governo c’è, ma non si vede”.
“E i miliziani erano Taghmer, dico bene?”.
Tell aveva sorriso, amaro quella volta. “Già, è che la Giunta, invece, paga altre milizie, che noi non amiamo affatto. Per darle un’idea, è vero che il Paese è una scacchiera, ma le parti in gioco sono quattro. Chi, come la GFP, e i nostalgici del regime, vogliono, come dire? capitalizzare subito. Essere riconoscenti e privilegiare i Paesi che hanno appoggiato … l’insurrezione, cedendo loro lo sfruttamento delle nostre risorse: petrolio, gas … tutto take-away. Non parlo solo dei paesi occidentali, Qatar e Arabia Saudita sono inclusi. Soprattutto il Qatar, che non sta agendo da solo, ma con uno o più Stati europei alle spalle. Mi consenta di essere più preciso su questo punto, perché ritengo sia il clou della questione. La sfida di creare uno Stato indipendente dalle interferenze straniere –un compito arduo, in primo luogo alla luce del fatto che il rovesciamento del passato regime è avvenuto grazie all’intervento determinante di Potenze europee, che difficilmente agiscono per motivazioni puramente umanitarie. Sono certamente attratti dalle nostre risorse energetiche: dall’elevata qualità del greggio, e dai potenziali giacimenti di petrolio e di gas ancora da scoprire. Risorse che potrebbero rendere il popolo uno dei più ricchi del mondo, ma potrebbero anche costituire una dannazione in grado di portare il Paese alla rovina. Le fratture e rivalità presenti nel paese vengono esasperate, per le ingerenze straniere di motivare il loro desiderio di mettere le mani su queste risorse. Si stanno facendo troppo invasive. L’emirato del Qatar, che è un piccolo ma ricchissimo regno, si è rivelato uno fra i più entusiasti partner della coalizione di insorti contro le dittature. La sua emittente al-Jazeera ha avuto un ruolo determinante nel propagandare la nostra causa nel mondo, e il Qatar ha venduto il petrolio per conto della GFP durante il conflitto, fornendo carburante e tonnellate di aiuti. Ha anche inviato ben sei aerei Mirage a prendere parte alle missioni, e le sue forze speciali hanno contribuito ad addestrare le nostre milizie. E il suo ruolo del Qatar non si esaurisce certo qui. Quando era divenuto evidente che, senza una nostra adeguata offensiva, le incursioni avrebbero prodotto soltanto una fase di stallo militare, si era posto il problema di inviare grandi quantità di armi alle nostre milizie , un compito rischioso per gli USA e i governi europei, tanto più che all’epoca non vi era alcuna garanzia di riuscita della rivolta. Il Qatar si è assunto quel ruolo, e fin dal mese di aprile ha cominciato ad inviare tonnellate di armamenti di produzione europea, principalmente francese, con il tacito consenso di americani, francesi e britannici. La maggior parte di questo materiale bellico tuttavia non è transitato per la GFP, ma è stato consegnato direttamente alle milizie sul terreno. Gli aiuti del Qatar sono stati canalizzati soprattutto verso quelle islamiche. Mentre infuriava il conflitto, europei ed americani sono stati molto soddisfatti del ruolo svolto dal Qatar, ma verso la fine la GFP, e alcuni Paesi europei non impegnati militarmente, hanno cominciato ad “esprimere preoccupazioni” riguardo al fatto che gli aiuti qatarioti rischiavano di rafforzare le milizie islamiche a spese dell’embrionale Governo provvisorio. Questi aiuti sono continuati a giungere anche dopo la caduta del regime, e sempre scavalcando la GFP. I qatarioti negano di aver favorito alcuni gruppi a spese di altri, e affermano di appoggiare una democratica in cui tutte le fazioni siano rappresentate. Hanno affermato che le armi sono state consegnate non in base ad una solidarietà ideologica, ma semplicemente alle forze che si sono dimostrate più efficaci sul campo. L’interessamento del Qatar ha certamente ragioni economiche, in particolare nel settore energetico, ma anche una visione politica in cui sono presenti elementi islamici e panarabi. A partire dallo scoppio della Primavera Araba, il Qatar, che non é uno Stato democratico, che solo grazie alla sua enorme ricchezza può assicurarsi il consenso della sua esigua popolazione, si è atteggiato a difensore dell’opinione pubblica araba, soprattutto con il suo canale satellitare al-Jazeera. L’emirato promuove l’idea che, in una regione a maggioranza musulmana come quella mediorientale, l’Islam politico può contribuire a costruire delle nazioni moderne e dinamiche, attraverso il suo coinvolgimento nel processo democratico. Ma la scelta di dialogare anche con ex del regime e con i jihadisti è destinata a entrare in rotta di collisione con le scelte dei paesi europei. Uno in particolare. E le potenziali ripercussioni sul rapporto fra la GFP e la componente “islamica” dei ribelli rischiano di essere gravi, e di andare a scapito della stabilità del nuovo Stato. Si dicono federalisti, per uno Stato federale tra tre macroregioni, ma la realtà sarebbe una secessione, la spaccatura in due, invece che tra nord e sud, come quasi ovunque, tra est e ovest. Poi ci siamo noi, che vogliamo una repubblica islamica non integralista … laica come direste voi molto impropriamente. Con la ricostruzione e lo sviluppo del Paese fatta in partenariato con Paesi non rapaci, in cooperazione. Diciamo i BRICS, l’Italia può essere … vedremo. Poi ci sono le Tribù, che sono già infiltrate dappertutto, e non intendono affatto rinunciare a una grossa fetta del potere, soprattutto delle risorse economiche. Saranno determinanti, ma non mirano al controllo assoluto, anche perché sanno di non averne le capacità. Infine ci sono i Fratelli Musulmani … e anche i salafiti”. Juan, con la mimica aveva fatto capire che proprio a quello voleva alludere parlando di più veri rivoluzionari. “Il capo militare delle loro milizie è uno jahidista, veterano della guerra afgana, colluso con al-Qaeda, caduto nelle mani dell’ISI, che l’ha consegnato al vecchio regime, che, non si sa perché, lo ha lasciato libero. E’ riapparso dal nulla, con fama di imperituro capo militare, e qualcuno gli ha affidato quelle milizie. In altri Paesi che si sono liberati, come noi, delle dittature al potere, i Fratelli Musulmani hanno sempre tenuto un profilo basso, presentandosi come sostenitori della democrazia e della tolleranza, fino alla vittoria. Maestri in doppiezza. Al memento delle elezioni hanno fatto irruzione come un ciclone, dominando le votazioni, insieme con i salafiti. Campioni di ambiguità, si sono subito dichiarati a favore di uno Stato islamico con la sharia come legge. E pare abbiano l’appoggio del Dipartimento di Stato americano”.
“Impressionante. Veramente impressionante. E inquietante, anche”.”.
“Ora, aveva continuato Mohamed Tell, “noi sappiamo che è stata richiesta la sua consulenza”, ‘chi cazzo è la gola profonda?’ si era allarmato Juan, “da parte di qualcun o che intende interferire con i nostri affari interni”.
“La ascolto …”.
“Non sarebbe una buona idea … scarponi stranieri che si sporcano della nostra sabbia, per usare una loro espressione”.
“Beh, qualcuno se li è già sporcati …”.
“E la cosa deve finire qui. Qualunque sia la soluzione a questo stato di cose, il popolo deve vedere propri connazionali come attori protagonisti!”.
“Su questo sono pienamente d’accordo. E, aggiungo, anche si trattasse di esuli o arnesi del vecchio regime, insomma qualcuno che agisce dal di fuori del Paese, mi assicurerei che nessuna potenza regionale fosse contraria …”.
“E come farebbe a saperlo? A lei lo direbbero?! Mi scusi, ma ne dubito fortemente!”. Fuori i rumori delle esercitazioni erano terminati, dopo le ultime grida degli istruttori.
Juan aveva annuito, comprendeva l’incredulità di Tell, “Niente di ufficiale … contatti. E niente si o no. Un aggrondar di ciglia, l’imperturbabilità … sono questi i segnali”.
Tell non sembrava ancora convinto: “E lei ha già …”.
“Non ancora, sono in viaggio di nozze …”, aveva fatto capire di aver capito, “è la prima cosa che farò appena rientrato. Ora, mi dica il perché di questo colloquio”.
Mohamed aveva versato altra acqua per entrambi, e bevuto una lunga sorsata: “Non pretendo nulla che sia contrario ai suoi principi. Se lei dovesse, per uno dei motivi che ha appena detto, rinunciare all’incarico … si impegnerebbe con noi?”.
Juan aveva tirato un grande sospiro. Aveva anche lui bevuto un lungo sorso, prendendo ancora più tempo. “Lei sa che il SOE fornisce solo consulenze, valutazioni, supporto logistico, non interveniamo mai. In ogni caso nel contratto è sempre inclusa una clausola sulla riservatezza. Credo che facendo come lei mi chiede, violerei questa clausola, anche se indirettamente … Chi si fiderebbe più?”.
Mohamed aveva annuito solennemente, colpito da un’obiezione che non aveva preventivato. E indeciso se calare il carico da undici o no. Aveva deciso di tentare qualche altra via. “Ha già firmato il contratto?”.
“Assolutamente no. Non sono comunque io a prendere impegni per il SOE, è il suo A.D., io sono solo un presidente più o meno onorario. Un consulente di consulenti. Tra le tante cose che lei sa, saprà anche che ho avuto un primo contatto qualche giorno fa …”.
Mohamed aveva sollevato le mani, i gomiti ancora appoggiati sul tavolo, per fermarlo. “Sì, lo sappiamo, come sappiamo che la CEO, o A.D., come dir si voglia, era sua fidanzata fino a pochissimi giorni prima che lei si mettesse in viaggio di nozze con la signorina … pardon signora Nikolett”,
‘Porca di quella puttana, quando becco il canarino gli torco il collo’, restando impassibile.
“E a noi risulta che un contratto sia stato già siglato, se non proprio firmato …”.
Juan non perdeva mai la sua stone face, era stato però evidente come avesse incassato un gran brutto colpo. Inutile replicare, quello non stava certo parlando a vanvera, né cercando di seminar zizzania, qualcosa di vero doveva esserci. Il solo pensarci gli faceva venire i sudori freddi: una falla nel SOE … Non poteva essere! Una falla …? Non si trattava più di fuga di notizie, qualcuno era andato ultra vires … Sì, Anabel era la CEO, ma non aveva mai … non era mai stata neppure presa in considerazione l’ipotesi che potesse prendere impegni senza l’ok di Juan. Teoricamente era possibile … ma era impossibile, assurdo. O no?.
Mohamed Tell l’aveva lasciato per un po’ cuocere a quel fuoco lento, poi: “Veda, io ho qualcosa che può dimostrarle la mia buona fede, e credo, anzi sono sicuro, farla decidere in un senso a noi non sfavorevole …”.
Juan era confuso, “Cosa vorrebbe, che diventassi vostro consulente con la SOE che lo è dall’altra parte!?”.
Con cinico machiavellismo, “Non ci vedrei nulla di così riprovevole … lei viene scavalcato, e si prende la sua libertà d’azione”, l’aveva prevenuto, “gli altri saranno liberi di decidere con chi stare. I nuovi di certo staranno con la CEO …”.
“I … nuovi?!”. Juan era quasi sobbalzato sulla sedia, se era un bluff stavolta ci era cascato come un pollo. Non era un bluff.
“Gli infomediari, esperti di informatica indipendenti o dei servizi di intelligence, con la collaborazione della Dome, la …”.
“So cos’è”, brusco e risentito, con la persona sbagliata: ambasciator …
Ambasciatore che, dopo l’affondo, era tornato sul piano contrattuale: “Mi scusi, capisco di averla sorpresa, non avrei dovuto. Di sicuro la informeranno di tutto. In ogni caso, le stavo dicendo, io posso darle qualcosa che dimostra la nostra buona fede, qualcosa di molto molto delicato”.
“Miri al petto, per favore”.
Tell aveva apprezzato come Juan si era ripreso. “La vera identità del generale fantasma. Quel presunto generale israeliano che avrebbe ingaggiato mercenari, addestrati, armati, e condotti qui a combattere contro di noi”.
Juan era senza più parole, con la mente in apnea.
“Si starà chiedendo se non si tratti di un’operazione di disinformazione … le assicuro di no. “Nelle nostre prigioni ci sono migliaia di mercenari e di mutasalliqin … chi ha tentato di voltar gabbana, non solo carne da cannone, pezzi grossi militari e civili del regime. Sono rinchiusi in sessanta prigioni e campi, la GFP ha accesso solo a meno di dieci … Sono un tragico ma inevitabile buco nero, che fatalmente ogni rivoluzione porta con sé, e c’è sempre chi, per non scomparire in quel buco, è disposto a vendere l’anima al diavolo. Si tratta di informazioni autentiche, ben documentate e inoppugnabili. Oggi voglio essere generoso, non è un generale israeliano … ammetta che più di così …”.
Jaun, perplesso, “Non ce la vedo a far da avvocato difensore a Israele”.
Mohamed Tell aveva sorriso mestamente, “Per il popolo si può scendere a qualche compromesso. Oggi c’è un pericolo imminente alla nostra stessa indipendenza … forse alla nostra sopravvivenza, e non viene da Israele”.
Sempre sconcertato, “Perché non lo rendete pubblico?”.
Mohamed, guardandolo come si guarda un ingenuo, “Scateneremmo una crisi internazionale, e saremmo il vaso di coccio tra quelli di bronzo … Se ne renderà conto se e quando potrà vedere cosa abbiamo in mano”.
“Cioè se accetto la vostra proposta …”.
“No, no … mi scusi se mi sono spiegato male”, il significato era: non hai capito proprio nulla, “quel materiale glielo consegnerò comunque, ma non è per lei. Lei potrà consegnarlo alla signora Bojana Tralijc, una sua tenera amica. O a sua figlia Dvòra, anche lei sua fidanzata e pretendente ... prima che ... Insomma, deciderà lei, signora o signoria che sia, se e quanto dirle …”.
Juan non era più solo senza parole, non aveva più neppure un’idea, un punto di riferimento sul quale orientarsi. Sapeva anche di Bojana, quindi del GDS, del generale Steinman, e del capo del GDS Yits'aq Gàl, padre di Dvòra. Anche Dvòra! Queste erano informazioni che nemmeno l’ex KGB, né la CIA ... Come poteva averle quell’uomo, un teologo prestato alla politica ... e agli affari, e a capo di una delle fazioni decisive per il futuro del Paese? Sentiva il proprio mondo scricchiolare, scosso da tutte quelle rivelazioni. Se stava succedendo veramente tutto questo, doveva essere iniziato ben prima di quel maledetto week-and … sotto il suo naso, sotto i suoi occhi … possibile si fosse tanto arrugginito … no, proprio rincoglionito, da non essersi accorto di nulla, non aver nemmeno sospettato, subodorato qualcosa? Non bisognava stare a pensarci molto per capire che l’unica soluzione era stare al gioco.
Aveva alzato le mani in segno di resa, “OK! Ha vinto. Ora che si fa?!”.
Mohamed Tell glielo aveva detto. Alla fine, serio e pregnante, “Mi conceda un consiglio ... scelga la sua regina ...”. Di fronte alla confusa incomprensione di Juan, aveva specificato: “Lei è il re, e ha molte pretendenti regine ... ne scelga una. Una “ufficiale” almeno, perché finché il posto rimarrà vacante, tra le pretendenti sarà guerra senza esclusione di colpi ... e qualche colpo basso arriverò anche a lei ... se non è già arrivato”.
“Ma come?! Non mi starà dicendo che ...”. Annaspava sempre di più.
“Non le sto dicendo nulla di più di quello che ho detto. Sta a lei ... e lei solo capire”, e gli aveva affidato un sottile porta DVD, o CD in pelle chiara: non doveva contenerne più di mezza dozzina, e il peso ne suggeriva meno; nessun lucchetto o chiusura a tempo.
Notando lo sguardo sorpreso di Juan, Mohamed, “Le ho chiesto di fidarsi di me, perché io mi fido di lei”. Ineccepibile. “Ha tutti gli elementi per farsi un’idea, e soprattutto un giudizio basato sulla realtà delle cose … e dove non ha elementi diretti ha le tracce per scovarli. Di più non posso fare. Conto su una sua risposta, qualunque essa sia”. Quando era uscito non erano neppure passate due ore, a Juan erano sembrati due giorni. I cortili, battuti dal sole, erano vuoti. Rari individui, soli o in coppia, si muovevano velocemente per necessità di servizio indispensabili. Tell aveva voluto accompagnarlo fino all’auto, e, mentre Juan stava aprendo la portiera, l’aveva bloccato di colpo, il viso contratto.
“Quello che ci hanno fatto non lo può nemmeno immaginare … anche se ne avrà viste … “. Dal mare soffiava ancora un vento dolce. Il sole era appeso in cielo. L’uomo al servizio del popolo stava piangendo sommessamente. “La mie famiglie … tre, mia moglie e sua sorella … questo nessuno lo sa … ai miei ho fatto credere che sono al sicuro all’estero … ed è meglio farle tornare”, la sua voce si era rotta in un singhiozzo, “quando tutto sarà finito … sotto controllo … loro le stanno ancora aspettando. Sono scomparse durante la prima ondata di contrattacchi dei governativi. Non mi illudo … sono finite nelle mani dei mercenari …”, la voce si era fatta un sussurro, senza più forza e coraggio, “Non mi illudo sulla loro fine … i … i corpi che abbiamo ritrovato …”, le lacrime scorrevano senza ritegno, “… hanno detto tutto … tutto … … tutto …”. La sua voce si era spenta in una calando, come una candela nel vento. Ripreso il controllo della voce, ma non dell’emozione, aveva concluso. “In realtà ora tutto quello che faccio lo faccio per vendicarle. Solo per vendicarle. E sarà una vendetta terribile. Per qualcuno lo è già. Lasciateci alle nostre ferite, e a come guarirle. Anche se non vi piacciono. Fatelo per rispetto dei nostri morti, per favore. Per me le parole riconciliazione, compassione sono sconosciute”. Il suo cellulare si era messo a suonare, “Mi scusi, devo rispondere … qualcuno che vuole arrendersi o un mutasalliqin”. Dead man wolking, aveva dedotto Juan. Si erano lasciati.
Per tutto il tragitto di ritorno si era man mano fatta ancora più chiara la consapevolezza di quel colloquio e delle rivelazioni fattegli. Odiava Tell, per il dolore che gli aveva causato con le sue parole, anche se tutto stava diventando più nitido, e capiva che non l’ambasciatore meritava il suo livore. La pretesa che la realtà delle cose che aveva saputo assumesse un senso compiuto evidente era, al momento, un lusso irraggiungibile. Un significato terribile era però intuibile: era seduto su una bomba a orologeria. Quelle rivelazioni erano allarmanti e assolutamente sbalorditive. Avrebbe dovuto accoglierle con un certo scetticismo. Pareva una follia assurda, eppure non poteva fare a meno di trovarvi qualcosa di plausibile. Difficile da digerire, davvero inquietante. Gli occorrevano altri elementi, prove certe. Si era trovato sopraffatto da un’intensa sensazione di vertigine, e da uno strano senso di colpa. Se quello che gli aveva detto Mohamed Tell era vero, anche in parte, quanto era cambiata la sua vita? Cosa di quello che aveva vissuto, dopo aver fatto nascere il SOE, poteva essere considerato reale? Poteva ancora affermare di sapere chi era e quanto contava per l’Office? ‘E gli altri?’, si era chiesto, pietrificato, perché non voleva conoscere la risposta. Era inconcepibile, ma nessuno lo aveva messo sull’avviso: o chi stava combinando tutto quel pasticciaccio brutto era abilissimo, o poteva contare sull’appoggio se non di tutti ... quasi. Lo stupore è un’emozione che a lungo diviene insostenibile. Juan sentiva il suo sbigottimento trasformarsi gradualmente in acuto fastidio e, infine, in rabbia. Ancora rabbia. Non riusciva più a connettere, quasi sopraffatto dalla vertigine. Aveva l’impressione di sprofondare, non comprendendo più il senso dei sui pensieri.
Arrivato all’Hilton, era salito in camera, trattenendosi dalla falsa impressione che, correndo in fretta e furia a piedi su per le scale, avrebbe fatto prima. Nikolett stava leggendo il copione di Tutto per bene, di Luigi Pirandello. L’aveva guardato con un radioso sorriso, gli occhi brillanti di felicità, recitando: “Ma perché è vero, vedi! è vero ora il mio affetto per te! Non è mica inganno! Il mio affetto, la mia stima,sono una realtà in cui tu puoi vivere, e che s'imporrà a tutti e anche a te”. Aggiungendo, “Non sto provando la parte, lo sto dicendo a te, dal profondo del cuore, amore mio”. Juan si era accosciato di fianco a lei, baciata, e stretta in un abbraccio da disperato. Anche se lo conosceva da poco, lo conosceva bene: c’era qualcosa che non andava, e non cosa da poco. Doveva aspettare che fosse lui a parlare, o a fare la mossa successiva, così era rimasta tra le sue braccia. Posizione scomoda, il copione era finito a terra, Juan si era ancor più accasciato, costringendola, per non cadere malamente, a scivolare dalla sedia su di lui. Juan aveva incrociato le gambe, facendola accoccolare seduta tra di essere, stringendola a sé, tenendole il capo sul petto. Un lungo momento di abbandono. Con una mano Juan aveva raccattato il copione –già sappiamo che era un fan dell’autore siculo- sfogliandolo finché aveva trovato la battuta che cercava.
L’aveva letta con voce roca, bassa: “Ma io, ho potuto essere un imbecille, finché ho creduto a cose sante e pure: all'onestà! all'amicizia! Ora non più …”. Aggiungendo subito, “Non è per te, solo per dirti come mi sento …”.
Juan non vedeva perché nasconderle in suo stato d’animo, e, anche volendo, non ci sarebbe riuscito. “sono in uno stato che non so neppure descriverti. Come mi fosse tutto caduto addosso. Piangerei come un bambino tra le tue braccia … solo ne fossi capace”.
La fissava sperduto, stordito come chi abbia fissato troppo a lungo in un crepaccio senza fondo. Nell’anima si stavano consumando le sue rivolte, avviandosi timidamente verso le lacrime. I suoi occhi tentavano invano di cogliere qualcosa che non fossero le gocce di luce che tremavano sulle sue ciglia. Poteva vedere a stento la sagoma scura, tenera e grave, di Niki. Si stava muovendo con ritmo deciso, lo succhiava col mormorio dei suoi baci. Era l’amore che gli veniva incontro. All’infuori dei baci e del suo profumo di lei, tutto gli sembrava futile. Leggeva nei suoi lineamenti il luminoso sorriso che assumeva l’immagine dell’amore. Forse, finalmente, il suo passato lo stava per abbandonare, ed era sicuro che nulla avrebbe potuto sottrarlo a quella forza profonda che lo riportava al cuore delle cose. Accarezzandola, tentava di accordare il suo respiro con il sospirare tumultuoso del cuore.
‘Non è così facile diventare ciò che si è, ritrovare la propria misura profonda. Ma guardando lei il mio cuore si colma di una strana certezza ... una grande felicità ondeggia nello spazio ... allacciare alla mia pelle la sua, stretta, labbra sulle labbra. Capisco quel che chiamano gioia: il diritto di amare senza misura. Stringere il corpo di lei è stringere contro di me questa gioia. La amo con abbandono, mi dà l’orgoglio della mia condizione di uomo. Mi hanno detto che non c’è nulla di cui essere fieri. Qualcosa invece c’è: questo amore, il mio cuore che balza, l’immensità dell’amore nel quale lei e io ci incontriamo. Per conquistare e non perdere tutto questo devo adoperare la mia forza e le mie risorse. Qui ... con lei, mi sento integro, non devo abbandonare nulla di me stesso, non indosso nessuna maschera. Mi basta imparare con pazienza la difficile scienza della vita, il saper vivere. Ogni creatura bella ha l’orgoglio naturale della propria bellezza e oggi lei lascia stillare il suo orgoglio da ogni parte. Le mie mani la toccano, le mie labbra la accarezzano, la mia ebbrezza non ha più fine. Mi fa vivere con tutto il mio corpo e con tutto il mio cuore’.
Avevano fatto l’amore così, restando abbracciati, persi uno nell’altra, con le loro anime che si compenetravano, si carezzavano, si avvolgevano uno attorno all’altra, in spirali dolci e avvolgenti con tenerezza. Ciò che i loro corpi non avrebbero mai potuto fare.
Nel pomeriggio, Juan era riuscito a farsi noleggiare dall’hotel una Jeep Wrangler Traildozer Concept, prettamente fuoristrada, con un propulsore HEMI V8 da 6,4 litri e 470 CV abbinato ad un cambio manuale Getrag a sei rapporti. La trazione distribuita attraverso due assi Dana 44, e differenziali a bloccaggio elettronico. Cofano motore con feritoie per lo smaltimento del calore, verricello Mopar-Warn, pneumatici Mickey Thompson Baja Claw da 37", e nuove sospensioni AEV Dualsport RS che rialzavano la vettura di 90 mm. Insomma, proprio quello di cui aveva bisogno. Appena fuori della Città le colline si inquadravano tra gli alberi, e un nastro di mare riposava teneramente, come una vela di panna, sotto il cielo. Strade un tempo carrozzabili, si aggrappavano ai costoni che dominavano il mare. Avevano dovuto spingersi più lontano per scoprire il paesaggio che Juan cercava. Lunghe dune deserte, spiazzi coperti di asfodeli, in mezzo ai fiori solo una capanna rosa dai tarli, unica traccia del passaggio di uomini. Il mare rumoroso, il vento leggero, l’azzurro crudo del cielo, il candore degli asfodeli. Juan aveva lasciato la litoranea, per uno sterrato colore del sangue rappreso, diretto verso una spiaggia. Una bella spiaggia gialla dal dolce pendio. Si era fermato, sul ciglio dello sterrato, che rendeva invisibile la spiaggia. Mare, campagna, silenzio, profumi, riempivano l’aria viva, ancora dorata. Juan e Niki erano scesi. Lui portando quello che doveva essere un sacco da marinaio. Si erano subito messi a piedi nudi, arrotolati i pantaloni fino alle ginocchia, erano avanzati nell’acqua, mano nella mano. Lo schiudersi incessante delle onde sulla sabbia giungeva come una danza. Si erano fermati, per guardarsi e rivolgersi un sorriso, complici al sorriso splendente del cielo. Tutti i crepuscoli sembrano essere gli ultimi, agonie solenni annunciate al tramonto da un’ultima luce che incupisce tutte le tinte. Anche quello. L’acqua era di un blu oltremare, la luce era verde. Juan e Niki erano tornati alla spiaggia, per spogliarsi. Nel silenzio animato dai serici rumori del cielo, prima che la notte si spandesse come un latte sul mondo, avevano camminato sulla roccia. Il mare frusciava sommessamente. Lo vedevano pieno con già la promessa di riempirsi di stelle, di luna e di velluto, liscio e flessuoso come una bestia. Camminavano lievemente e il rumore dei suoi loro sembrava estraneo. O familiare, sì, ma come il fruscio delle bestie nei cespugli, il frangersi del mare o i battiti della notte nel profondo del cielo. E così sentivano i loro corpi nudi, li seguivano interiormente, con la stessa coscienza esterna con cui avvertivano salire il caldo respiro di quella notte d’estate, e l’odore salmastro e di marcio che saliva dal mare. Si erano seduti su una roccia, di cui sentivano sotto le dita la faccia butterata, e guardato il mare che silenziosamente si gonfiava sotto all’ultimo battito del giorno. Sulla superficie compatta dell’acqua, la luna, come un olio, metteva lunghi sorrisi errabondi. L’acqua era tiepida come una bocca, arrendevole e pronta ad infossarsi sotto di loro. Come Niki era sempre stata con lui. Juan sentiva come la felicità fosse vicina alle lacrime, tutta quanta in quella silenziosa esaltazione in cui si intrecciavano la speranza e la disperazione della sua vita. Cosciente eppure estraneo, divorato dalla passione e disinteressato, capiva che la sua vita ed il suo destino erano lì, e che tutto il suo sforzo era consistito fino ad allora nell’accontentarsi di una povera felicità e nell’affrontare la propria terribile verità. Ora doveva sprofondare nel mare caldo, perdersi per ritrovarsi, nuotare nella luna e nel tepore per far tacere ciò che ancora restava in lui del passato e far nascere il canto profondo della sua felicità. Anche Niki era scesa dallo scoglio, ed entrata nell’acqua.
“E’ caldo come il tuo corpo! Mi scivola sulle braccia, mi si avvinghia alle gambe con una stretta inafferrabile e ininterrotta. E’ come quando mi fai l’amore”.
Nuotavano regolarmente e sentivano i muscoli della schiena ritmare i movimenti. Ogni volta che sollevavano un braccio, lasciavano sul mare immenso un volo di gocce d’argento, immagine, davanti al cielo muto e vivo, della splendida semina di una messe di felicità.
O falce di luna calante, qual messe di sogni ondeggia al tuo mite chiarore quaggiù ?.
Poi il braccio si rituffava e, come un vomere vigoroso, arava, fendeva in due l’acqua per prendervi un nuovo appoggio ed una speranza. Dietro di loro, il battere dei piedi faceva nascere un ribollire di schiuma e insieme un rumore d’acqua sciabordante, stranamente chiaro nel silenzio e nella solitudine della notte. Avevano nuotato a lungo, affiancati, senza fermarsi, dritti verso il largo. Al sentire la cadenza e la sua energia di Niki, Juan a stato preso da un’esaltazione che lo faceva avanzare più in fretta, e presto si era trovato lontano da lei, solo nel cuore della notte e del mondo. Aveva pensato improvvisamente alla profondità che si estende sotto di loro, e si era fermato. Tutto quello che c’era sotto di lui lo attirava come il volto di un mondo sconosciuto, la prosecuzione di questa notte che lo restituiva a se stesso, il cuore d’acqua e di sale di una vita ancora inesplorata. Gli era venuta la tentazione di immergersi, nuotare sott’acqua, con una gran gioia in corpo, ma l’aveva respinta quasi subito. Aveva atteso Niki, e aveva capito che per lei era il momento di tornare. Meravigliosamente stanchi, esausti, erano tornati verso riva. In quel momento, improvvisamente, erano entrati in una corrente gelata che aveva fatto battere i denti a Nikolett. Quasi l’aveva costretta a fermarsi. Nuotava senza coordinare i movimenti, ma sapeva che deve non fermarsi. Avevano ritrovo l’acqua calda. Quella sorpresa del mare non lo lasciava stupito, la conosceva: come il gelo improvviso penetrava le membra e bruciava come l’amore, con un’esaltazione lucida e appassionata che lasciava senza forze. Ritornati con più fatica sulla spiaggia, di fronte al cielo e al mare, erano corsi ad asciugarsi battendo i denti e ridendo di felicità. Nel sacco Juan aveva messo accappatoi e asciugamani presi in prestito dall’Hilton. Bottigliette d’acqua, due thermos, tè e caffè, e frutta, tanta. Con lentezza e pigrizia si erano dissetati, sfamati e ... rifatto il trucco, ridendo come ragazzini. Il flauto aspro e tenero delle cicale ora taceva. Il profumo delle stelle, dei lentischi odorosi, tra le canne, erano altrettanti segni d’amore. Una bellezza indifferente cadeva dal cielo. La notte era improvvisamente caduta, mentre stavano nuotando, portando una brezza e un mormorio tra i cespugli, alle loro spalle. Il giorno era fuggito, lasciando loro la sua dolcezza. Le mani di Juan e Niki stavano toccando le loro forme spoglie, sentendo sulla pelle le carezze della notte. La pienezza della gioia, la pace intorno, li stavano colmando. Si erano stesi sui loro accappatoi, gettandosi uno nelle braccia dell’altra, con le teste risonanti dei cembali della loro nuotata, i corpi freschi, in una felice stanchezza. Juan aveva sentito Niki inarcarsi sotto di lui, quando l’aveva fatto entrare dentro di lei. Il profumo del corpo di lei si era completato con quello del suo schiudersi a lui. Avevano riempito la notte di sospiri, ascoltando le forti pulsazioni salire fino alla testa, ogni volta che lui affondava dentro di lei. Non contavano più né loro né il mondo, solo l’accordo dal quale nasceva il loro amore. Nikolett sospirava lentamente quando Juan entrava in lei, si schiudeva incessantemente a lui. D’improvviso, come lo spuntare della prima stella nella notte, il piacere aveva attraversato i loro corpi, si erano sentiti nascere dal cuore della terra. Juan, sorprendendosi, era rimasto turbato nel sentire il loro succo dolce e forte colare lungo le sue gambe. Uscendo dal tumulto, mentre si calmavano, i loro corpi distesi gustavano il silenzio interiore che nasceva dall’amore soddisfatto. Niki si era rannicchiata contro Juan, tenendo contro il suo petto i piccoli pugni chiusi che contenevano tutta la speranza del loro amore.
Solo la mattina seguente Juan si era ricordato del terzo promemoria, sul quale era scritto solo un nome: Melinda. Dvòra, Dvòra Gàl. Durante la loro luna di miele in Italia, Juan era stato conquistato dal gusto dolce, profumato, pieno e promettente delle mele golden delicious della Melinda, e da galantuomo, come grande complimento, aveva iniziato a chiamare Dvòra con quel nome, Melinda. Non l’aveva più dismesso. Aveva deciso di non riaccendere il suo Gil, voleva parlare con Anabel di persona, soprattutto dopo l’incontro con Mohamed Tell. Si era procurato un cellulare usa e getta, con scheda prepagata, e aveva composto il numero che conosceva a memoria.
“Alla buon’ora! Ora ti fai anche desiderare?”, la voce che aveva risposto.
“Bojana, era sicuro che avresti risposto tu. Dvòra non avrebbe mai lasciato questo nome. In ogni caso ti stavo per chiamare io. Tutto bene? Dvòra?”.
Non era possibile capire quando Bojana faceva l’offesa e usava un tono sostenuto, se la cosa fosse seria o solo una sua posa: “Ah, sono contenta che ti ricordi ancora di lei ...”.
Juan non aveva tempo per giochetti o schermaglie: “Ascolta Bojana, non ho tempo, e devo chiederti di fare una cosa di vitale importanza ...”.
Si era fatta subito seria e attenta: “Dimmi”.
Juan glielo aveva detto, “Non posso farlo io, e non puoi farlo tu. Fallo fare alla Private Equipment and Training”, altra società di contractor collegata al SOE e al GDS”.
Bojana, confusa, “E’ così grave?”.
Juan, secco: “Non ne sono sicuro, ma la prudenza non è mai troppa”.
“Senti, perché non molli tutto e non passi armi e bagagli con noi. Sai che la proposta è sempre valida”, e, per alleggerire la tensione, “così ti decidi anche a metter su casa con Dvòra”.
Juan non aveva tempo né voglia: “Finché non rinunci alle tue pretese su di me ... invecchio, farei fatica a soddisfare Dvòra e te. E tu saresti una suocera molto poco per bene”.
“Au contraire, mon chéri ... tu resteresti senza energie da spendere fuori casa ... No, dico sul serio, vieni con noi, e sistemati con mia figlia, lei non desidera altro ...”.
Juan, “Con tutti gli arditi figli di Davide che le fanno la corte?”.
Bojana, “Lo sai che sei uno stronzo! Ti ho già detto che la storia dei preservativi è vera ...”.
“Ok, Ok, non scaldarti. Fai subito quello che ti ho detto, anzi fallo ieri. Tra due ... tre giorni sono da te, con un bel regalo”.
“Time danaos, et dona ferentes!”.
“Non sto scherzando nemmeno io. Credo sia il ghostbuster che cercavi”.
Lunga pausa, Juan udiva solo un sospiro trattenuto, “Per il nostro padre Abramo! Se è vero ti diamo anche la cittadinanza ...”. Il tono era esitante, non osava credere ... “Vieni subito allora”.
“Non posso, prima devo fare un’altra cosa urgente e vitale ... per me”.
Bojana, con tremore, “Cos’altro c’è?”.
“Mi devo sposare”.
“Stronzo ...”, ma Juan aveva già interrotto la comunicazione.
Nikolett lo stava guardando sbalordita. Di tutto il discorso aveva capito poco, anche quell’accenno alla suocera ... alle pretese e al soddisfare ... ‘E’ un loro codice’, si era detta. Avesse saputo! Beh, forse anche avesse saputo non le sarebbe importato per nulla, non dopo che Juan, rivolgendole uno di quei suoi sguardi che la faceva sciogliere, le aveva confermato: “Sì ... prima di partire passiamo dal Comunbe o dove diavolo sta il sindaco di questa Città .. e ci sposiamo”.
“Come? Così?”. Non era delusa, incredula.
“Lasciamo fare due telefonate, poi andiamo”.
La prima telefonata era stata a Mohamed Tell, che era stato molto compiaciuto, oltre che tremendamente ilare, nell’accogliere la richiesta di Juan. “Si può fare. Io posso farlo fare. Non so che validità abbia nel vostro Paese, ma lo faccio molto volentieri ... Sono onorato, anzi. Anche perché vedo che sta facendo tesoro dei miei consigli”.
‘Si, ho capito ... un favore che devo renderti ... Non mancherò”.
Niki lo guardava stralunata, seduta sul letto, incerta se ridere o piangere. Sempre di gioia, va da sé.
C’era voluto un po’ di tempo prima che decidesse a chi fare la seconda telefonata. Di chi era assolutamente sicuro che stesse dalla sua parte al SOE. Nessuno. Non sapeva cosa aveva fatto e detto Anabel, e doveva dare per scontato che tutti fossero convinti che ci fosse il suo assenso. Rivolgersi a uno di loro avrebbe solo creato confusione e anche panico. Chi altri poteva raccogliere informazioni e diffondere notizia. ‘Ma un giornalista, Juan! Ne conosci no? Hai anche la copertura di giornalista! Stai arrugginendo, ammosciandoti ... forse è davvero ora che ti sistemi. Si, ma con chi? Ma non stai per convolare ...? Beh, sì ... cioè, no. Sto per mettere una regina sul trono ... che altro?! Ha ragione la tua aspirante suocera perversa, sei uno grandissimo stronzo! Può essere, sì può essere. Ma questo non cambia nulla ...!’.
dal vostro sempre devoto, brunodantecrespi
(V- CONTINUA)
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