La mia giovinezza

di
genere
dominazione

«E’ ‘n amico, ce devi annà senza rompe er cazzo» mi diceva Marco, mentre con la mano mi spingeva la nuca ritmicamente sul cazzo «e poi si nun ce vai, er patto va a monte... e po’ esse che a scola faccio vede’ le foto» si interruppe, mi strinse la testa con due mani e cominciò a sburrarmi in bocca «ingoia troia, brava, così... ah...». Quando ebbe finito si tirò su le braghe e si alzò per andarsene. «Allora, te aspetta domani alle tre. Come ar solito, a casa sua. Mo’ vado che ci ho da fa, oggi te devi accontentà.».

«Stai a fa’ troppi problemi, te lo sto a di’ da tanto...» continuò Stefano, mentre gli succhiavo il cazzo, e poiché avevo tirato su la testa per rispondere «nun te fermà puttana, stamme a sentì e continua a ciuccia’» spingendomi di nuovo sul membro arrapato. «Quello nu scherza è un mezzo zingaro, ce lo sai, te sputtana sur serio a scola e te gonfia pure, è stronzo, fidate. Tanto er cazzo der bidello l’hai già preso, che te cambia? Mica semo gelosi... dai mo’ struscialo sulle tette, come hai fatto ieri, dai bravo, così... dai in bocca, ancora, ancora, ah»

Stefano e Marco li frequentavo da sette mesi ormai. Quando a scuola, durante la ricreazione, mi si avvicinavano con circospezione, e mi dicevano «oggi fatte trovà», io all’uscita di scuola, giravo l’angolo del palazzo, senza perdere tempo, e montavo dietro alla vespetta di uno dei due. Un tragitto di pochi minuti per arrivare ad una baracchetta a ridosso dell’acquedotto romano che i due avevano attrezzato con dei materassi e delle stufette a gas.

La prima volta c’ero andato d’estate per provare uno spinello. «Daje, spojate, non senti che fa cardo» mi aveva detto Marco, quando ero ormai un bel po’ stordito ed io mi ero tolto i vestiti rimanendo in mutande, come loro. «Che dici» aveva continuato scoprendosi il cazzo «visto che hai fumato aggratis, se ce fai divertì un po’ pe’ ringraziacce?»

«Ma dai, non scherzare...» avevo risposto sbalordito, pensando ad uno scherzo.

«Ma daje, non c’è niente de male, sei er più piccolo, è normale, me succhi un po’ er cazzo, che sarà mai?» e senza attendere la mia risposta mi aveva preso la testa e messa sul cazzo.

«Ti prego, lasciami» ma lui come nulla fosse mi aveva mollato un ceffone, poi un altro che mi aveva convinto a collaborare «adesso da bravo dai, ce lo so che lo sai fa’, lecca bene, bravo, su e giù, su e giù» mentre Stefano, eccitato, rideva sguaiatamente. «Vedi come si’ bravo, vai, ancora bene co’ la lingua, dai pure le palle, lecca bene troia, bravo, così, mo’ apri la bocca, apri bene, bravo, fino a giù»

«Ma mi strozzi, mi fai male...»

«Zitta troia» e giù un altro ceffone «se stai tranquillo famo prima e è mejo pe’ tutti» poi, senza un preavviso, aveva cominciato ad ejacularmi in bocca.

Appena finito ero già tra le gambe di Marco «Mo tocca a me, daje, apri sto cazzo de bocca. Te piace er cazzo daje, ammazza come succhi bene, bravo»

«Tiè puliscite» mi aveva detto Marco alla fine, passandomi uno straccio sporco «e stai tranquillo, sta cosa rimane qui tra noi, non la dimo a nessuno. Ma mo vattene che c’avemo da fa...»

Mi ero rivestito velocemente, imbarazzato per quello che era successo ed ero scappato a casa, con ancora in bocca il loro sperma. Mi vergognavo da morire, non riuscivo nemmeno a prendere in considerazione l’idea di essere stato violentato e che non era stata colpa mia. Pensavo di essermela cercata. E, per di più, non mi ero nemmeno accorto delle foto che mi avevano scattato. Una decina in tutto, belle a fuoco, in cui il mio viso si vedeva chiaramente ed anche i loro cazzi. Le migliori erano le ultime quattro, io disteso ad occhi chiusi con le loro sburrate sulle labbra. Me le aveva mostrate a scuola il bidello, loro degno compare, due giorni dopo nel suo sgabuzzino. Gli avevano dato il rullino i due stronzi e lui le aveva sviluppate e stampate in casa, per non portarle in laboratorio.

«Hai fatto ‘na cazzata, te lo devo di, me spiace veramente, perché sei un bravo ragazzo. Come hai fatto a mettete co’ quei due? Mo’ so problemi, me spiace tanto, proprio co’ quelli... un po’ te posso aiutà, fino a un certo punto, ma devi esse collaborativo, devi sta un po’ ar gioco finché non se stufano» aveva detto mentre si abbassava con naturalezza la chiusura lampo. «Mo però famme un attimo sto servizietto, na cosetta veloce che sta pe’ finì la ricreazione, ci ho bisogno», poi mi aveva spinto in ginocchio davanti a lui e mi aveva messo in bocca il suo cazzo duro e sporco. «Quanno sburro ingoia, così nun se sporcamo, daje, fa er bravo!».

«Sei portato pe’ i bocchini» aveva detto serio rimettendolo dentro «grazie, me ce voleva proprio, non sai che sollievo pe’ me. Spero che nun te sei offeso che ho approfittato, sei un bravo ragazzetto, ma se te sei messo in questa situazione de merda ho pensato è perché te piace er cazzo no? Io vivo da solo qui a Roma, nun è che vado a puttane, magari ogni tanto, se te va... si nun te dispiace eh, senza forzature. So’ un omo, ogni tanto c’ho diritto pure io a svotà le palle. Io sto sempre qua... quanno c’hai voja... se te va de pijallo pure ar culo nun ce so problemi pe’ me, pure qui te lo sbatto, chiudemo a chiave nun entra nessuno... hai visto che gran cazzo che ci ho? Io non so un ragazzino deficiente come l’amici tua. C’ho cinquant’anni...» e siccome ero diventato paonazzo dalla vergogna e non rispondevo «Che dichi... er professore de matematica oggi manca, mo c’avete un’ora de buco» e tirandosi fuori di nuovo l’uccello duro senza che io avessi proferito nemmeno una parola durante il suo monologo «fammene un artro, va, con carma che c’avemo tempo, riapri sto cazzo de bocca, bravo, ah»

«Ma anche col bidello lo devo fare? Mi fa schifo è un vecchio... e poi...» allora Stefano prendendomi per un braccio e torcendomelo dietro la schiena «bello tu prendi tutti i cazzi che dico io. Tu sei roba nostra, mettitelo bene in testa e fai quello che dimo noi.». «Giusto» proseguì Marco «sta cosa la devi capì bene... si nun voi problemi tu te fai scopà da chi dimo noi, senza fa storie».

«Sì ma lui... non so se sapete...», «so già tutto» mollandomi uno schiaffo e ridendo «te lo mette ar culo» e giù risate «Embè? È ‘na persona adulta, l’hai da rispettà, e mo’ azzittate che m’hai rotto i cojoni e leccame bene sti piedi, con amore, daje, bene in mezzo alle dita che non me li lavo da ‘na settimana, ah, ah.»

Stefano e Marco erano due ragazzi ripetenti, che si erano fatti già un paio d’anni di riformatorio. Avevano almeno cinque anni più di me, ma venivano nella mia stessa scuola ai corsi di recupero per prendere la licenza media. Avevo iniziato ad aiutarli il pomeriggio per i compiti, su indicazione del professore. Poi la cosa era degenerata.

Due o tre volte a settimana ero costretto a vedermi con loro. Fra andare e tornare mi partivano un paio d’ore buone ed ogni volta dovevo inventare delle scuse a casa per il mio ritardo. Le prime volte si faceva presto, me lo mettevano in bocca e, arrapati come erano venivano quasi subito. Ma poi le cose si erano complicate. Dovevo intrattenerli, farmi umiliare, leccare i loro piedi sporchi o le ascelle sudate, farmi sputare in bocca o bere la loro urina. Stefano, di solito, dopo essere stato soddisfatto se ne andava a casa e mi lasciava da solo con Marco.

«Lo faccio pe’ te a mannallo via» mi diceva «così stai più tranquillo.»

«Sì grazie, ma anche oggi?» chiedevo ogni volta stupidamente.

«Lo sai che lo dovemo fa, sei un frocio, mejo che te lo fai piacè»

«E’ che, insomma, stamattina anche con Osvaldo ho dovuto... e mi fa un po’ male.»

«Ma no, non è niente, te devi solo abituà. A Osvaldo non je posso di de no, me serve, e gli ho dovuto da’ er permesso de fatte quello che je pare. Se te fa male dopo te metti la crema. E poi basta co tutti sti piagnistei, m’hai rotto er cazzo. Te devi mette in testa che tu er culo ce l’hai primo pe’ pijà tutti i cazzi che dico io, poi pe cacacce se te do er permesso. E mo’ mettete a pecora che ce l’ho duro e ci ho fretta»

Delle volte Marco mi sbatteva molto rapidamente, con quell’aria sprezzante da padrone, scaricando sul mio corpo tutta la sua rabbia repressa, la sua presunta superiorità. Ma qualche volta, dopo essere venuto, riprendeva subito a chiavarmi, fino a sfinirsi, fino a quando finalmente soddisfatto, il suo corpo nervoso si placava ed e si afflosciava sopra il mio fradicio di sudore.

Col passare del tempo mi ero così assuefatto alla violenza, tanto da sentirne l’inconfessabile bisogno. Quando mi lasciavano andavo a casa e correvo in bagno, senza salutare nessuno, mi sedevo sul bidet e cercavo di espellere tutto quel loro piacere brutale, ogni volta con più maestria. Studiavo la consistenza e la quantità di quello sperma spiaccicato nel bidet, confrontandolo con il piacere che avevano provato quando finalmente erano venuti ed, alla fine, mi masturbavo con forza.

scritto il
2022-05-30
3 . 2 K
visite
0
voti
valutazione
0
il tuo voto
Segnala abuso in questo racconto erotico

commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.