La mia vita tra Venere e Marte - Capitolo 97
di
Giorgio Giorgi
genere
bisex
Si avvicinava Natale e pensai che avevo pochissimi soldi da parte per fare un bel regalo a Rosa. Inoltre dovevamo fare i programmi per le feste: dove avremmo passato i vari giorni? Tra la vigilia, Natale, Santo Stefano, Capodanno e l’Epifania dovevamo decidere in quali giorni stare da me, in quali da lei e quali, malauguratamente, dovessimo passare separati.
Per fortuna, una grossa mano ce la diedero i genitori, i miei e i suoi, che ormai si sentivano spesso (le madri soprattutto, che erano passate al ‘tu’) per telefono: ci dissero che la vigilia l’avremmo passata tutti a casa nostra e il giorno di Natale, invece, da loro.
Per la festa di Capodanno, poi, ci fu la sorpresa di Claudio, che metteva la sua cantina (quella in cui avevo ballato per la prima volta con Rosa e ci eravamo innamorati) a disposizione della classe: ognuno avrebbe portato qualcosa da mangiare e da bere e si sarebbe fatta gran festa.
Con Rosa le cose procedevano a meraviglia: eravamo sempre più innamorati, quasi tutti i pomeriggi li passavamo insieme, a fare l’amore, ma anche a passeggiare, al cinema e, naturalmente, a studiare.
Un giorno che passeggiavamo, mano nella mano, per le vie del centro di Roma guardando le vetrine, ci fermammo davanti a una gioielleria, per fantasticare di come sarebbero stati gli anelli di fidanzamento e poi le fedi del matrimonio; poi lei m’indicò una collanina con un pendente a forma di cuore:
“Guarda che bella quella, amore!”
In effetti, era di una fattura squisita; pensai che sarebbe stato uno splendido regalo per Natale, se la mia tasca non avesse contenuto che pochi miseri spiccioli…
Qualche giorno dopo, mio padre, esercitando il suo solito sesto senso, mi fece, in un momento in cui eravamo soli:
“Giorgio, come stai a soldi?”
“Male, papà, anzi malissimo!”
“Non sei riuscito a risparmiare niente sulla paghetta?”
“No, forse siamo andati troppe volte al cinema…”
“Capisco, quindi non hai i soldi per i regali di Natale?”
Gli feci una faccia che spiegava tutto, senza bisogno di parole.
“Allora, a parte che da gennaio la tua paghetta aumenterà, come aumenteranno i nostri stipendi, qui ci sono cinquantamila lire extra.” e mi mise una banconota in mano. “Così potrai fare i regali a tutti, a Rosa prima di tutto, ma anche ai suoi genitori!”
“Grazie, paparino! Lo sai che questo sarà il mio più bel Natale?”
“Eh, sì! Lo immagino!”
Così, il primo pomeriggio che non dovevo incontrarmi con Rosa (mancava una settimana a Natale), cercai una gioielleria che avesse una catenina e un ciondolo simili a quelli che ci erano piaciuti tanto. Non volli andare nella stessa gioielleria, perché pensavo (a ragione) che lì il prezzo sarebbe stato più alto, e comunque speravo di trovare, se non proprio lo stesso oggetto, almeno qualcosa che ci si avvicinasse.
Presi dunque l’autobus e da San Lorenzo andai verso la periferia. Dopo qualche fermata scesi e cominciai a girare a piedi per le vie traverse della Tiburtina, finché passai davanti a una gioielleria. Osservai la vetrina, ma non vidi nessuna catenina col ciondolo a forma di cuore, però vidi altri oggetti di aspetto gradevole.
Decisi allora di entrare e di chiedere. Suonai il campanello (si cominciavano allora a vedere queste apparecchiature di sicurezza, per via delle molte rapine, politiche e non solo, di quei tempi), udii un ‘tlac’ e la porta si aprì immediatamente, entrai e si richiuse alle mie spalle. Dietro il bancone, una signora bionda, sulla cinquantina, ben pettinata e truccata, con un maglione aderentissimo che le fasciava il seno prosperoso, del quale in pratica si vedeva tutta la zona sovrastante i capezzoli.
Salutai cortesemente e lei mi rispose con un sorriso malizioso. Le spiegai cosa cercavo, e, mentre parlavo, lei si era chinata, appoggiandosi con i gomiti sul bancone e guardandomi negli occhi, mentre i miei involontariamente ogni tanto si spostavano su quel popò di pelle che mi andava mostrando.
Quando ebbi finito di spiegarle cosa cercavo, mi rialzò, mi sorrise atteggiando la bocca dipinta con un rossetto rosso carminio e poi mi fece:
“Ascolta, caro, di catenine ne ho a bizzeffe, di tutti i tipi e di tutti i prezzi, pendenti come dici tu, invece, non ne ho, ma ne ho altri tipi; se vuoi, possiamo andare nel retro a vedere se c’è qualcosa che ti piace…”
Pronunciando le ultime parole, la sua voce era salita di tono e aveva roteato gli occhi, di un azzurro profondo. Rimasi un po’ stupito di quelle due cose, ma da ingenuo qual ero non ci vidi nulla di particolarmente strano, perciò le dissi che andava bene, potevamo andare a vedere.
Allora lei andò alla porta, girò il cartello ‘Torno subito’ e si avviò, con me alle calcagna, nel retro. Osservandola da dietro, vidi che portava una stretta minigonna appena sopra il ginocchio, aveva delle calze nere trasparenti che le fasciavano un bel paio di gambe e, santo cielo! che bel culo che aveva! e come lo muoveva bene!
Arrivati nel retro, mi fece accomodare a una scrivania, mentre lei si affaccendava a tirar fuori da un armadio qualche contenitore, che poi mi mise davanti: dentro c’erano, in bella vista, alcuni ciondoli e pendenti, ma nessun cuore. Lei mi stava accanto, chinata vicino alla mia testa, tanto che potevo sentire il suo profumo: niente di dozzinale, anzi era davvero piacevole.
Stando chinata, ovviamente, mi aveva rimesso sotto gli occhi il suo seno, tanto che non sapevo se guardare quello o i ciondoli. Lei naturalmente se ne accorse e allora mi fece, con voce suadente:
“Preferisci guardare due bei ciondoli invece che tutta la scatola, vero?”
Colto in fallo, avvampai di vergogna, ma improvvisamente capii che tutto quello che mi aveva detto e stava dicendo aveva uno scopo preciso, perché mi prese una mano e se la portò proprio sul seno, mormorandomi:
“Tocca, che è meglio che guardare…”
Aveva una pelle morbidissima che dava piacere ad accarezzarla. Poi, non so, sarà stata la situazione intrigante che aveva creato, il suo profumo che mi aveva eccitato, il fatto che fossi ancora molto giovane, ma a quel punto le infilai la mano sotto il maglione per accarezzarle tutto il seno. Aveva un reggiseno leggerissimo, tanto che sentii un capezzolo inturgidirsi quando la mia mano lo sfiorò.
“Mmh” fece lei in quel momento e allora si rialzò, con un gesto si sfilò il maglione dalla testa e si tolse il reggiseno senza nemmeno sganciarlo, soltanto facendo scivolare le spalline, liberando davanti ai miei occhi due splendide semisfere con i capezzoli già rigidi e le areole grandissime.
Mi prese la testa e se la portò sul seno, chiedendomi implicitamente di baciarglielo. Lo feci, tirando fuori la lingua e le leccai i capezzoli, durissimi contro le mie labbra. Continuai a baciare e leccare, mentre i suoi ‘mmh’ aumentavano di frequenza, poi si portò la mano su un fianco, abbassò la zip della gonna e la fece cadere a terra. Sotto non aveva altro che il reggicalze! Potei vedere immediatamente il pelo pubico, biondo come i suoi capelli. Mi afferrò una mano che le avevo appoggiato sul fianco per poterle leccare meglio il seno, allargò le gambe e se la portò sulla fica, che era già bagnata.
“Oh sì, caro, mettimi due dita dentro!” mi fece. Eseguii e cominciai a scoparla con le dita. Dopo un po’ si staccò da me, s’inginocchiò tra le mie gambe, mi fece alzare e freneticamente mi tirò giù pantaloni e mutande, sicché il mio cazzo, già bello gonfio per l’eccitazione, puntò esattamente a metà tra i suoi splendidi occhi.
“Ooh! Ma che bello! Che bel cazzo che hai!” esclamò e, senza por tempo in mezzo, me lo ingoiò tutto, fino alla base. Non fossi stato quello che ero, probabilmente le avrei riempito la bocca di sborra in quel preciso istante, ma, dato che ormai avevo imparato a resistere, non sborrai subito. Lei mi pompò un po’ il cazzo, sempre ingoiandolo fino in fondo, mentre mi reggeva per le natiche.
Io, sinceramente, avevo la testa in confusione. Capivo perfettamente che stavo facendo qualcosa di profondamente sbagliato, che stavo facendo l’esatto contrario di quello che mi avevano insegnato Emma e Giulia, e che stavo pure tradendo la fiducia e l’amore di Rosa. Però… però continuai a mugolare e a provare piacere da quella bocca estranea che mi stava facendo il più bel pompino della mia vita. Presi fra le mani la testa della signora e le accennai di aumentare il ritmo, perché a quel punto volevo proprio sborrarle in bocca. Invece lei si divincolò, mi sorrise e mi fece:
“Non così, lo voglio nel culo e nella fica!”
Poi si appoggiò con le mani alla scrivania, sporse in fuori il bacino e mi disse ancora:
“Inculami, caro, fammi sentire quel tuo bel cazzone, infilamelo nel culo e fammelo arrivare in gola!”
Quel linguaggio così scurrile, quelle parole, pronunciate senza nessuna emozione, senza il minimo sentimento, mi aprirono gli occhi e mi fecero vedere l’animalità pura, senza nessuna umanità, di ciò che stavo facendo.
In un lampo mi tirai su mutande e pantaloni, mi richiusi la zip e fui fuori dal retrobottega; arrivai alla porta e cercai disperatamente il sistema per aprirla, finché vidi sullo stipite un pulsante; lo premetti, udii il ‘tlac’ dell’apertura, afferrai la maniglia e mi precipitai in strada e correndo via da quel negozio.
Avevo il cuore in gola che mi batteva a mille e, nonostante il freddo pungente, sentivo rivoli di sudore che mi scorrevano dalla fronte e dal collo. Quando ebbi corso per un bel po’, rallentai fino a fermarmi e appoggiai la fronte a un palo che segnalava una fermata di autobus.
Restai lì a calmare i battiti del cuore e il respiro, a rinfrescarmi la fronte, a raccogliere le idee. Provavo vergogna per quello che era successo, per come mi ero comportato, anche se mi sollevava un po’ il pensiero di non essere arrivato fino in fondo, di aver trovato la forza di sfuggire a quella situazione.
Passò l’autobus e mi accorsi che era quello che mi avrebbe riportato a casa; salii e mi accasciai su un sedile. Scesi alla mia fermata, arrivai a casa, entrai, mi spogliai e gettai tutti gli indumenti nel cesto della biancheria sporca, m’infilai sotto l’acqua bollente, lavandomi accuratamente e strofinandomi tutto, soprattutto l’uccello, come se quel lavaggio avesse potuto far scomparire qualunque traccia di ciò che era successo.
Per fortuna, una grossa mano ce la diedero i genitori, i miei e i suoi, che ormai si sentivano spesso (le madri soprattutto, che erano passate al ‘tu’) per telefono: ci dissero che la vigilia l’avremmo passata tutti a casa nostra e il giorno di Natale, invece, da loro.
Per la festa di Capodanno, poi, ci fu la sorpresa di Claudio, che metteva la sua cantina (quella in cui avevo ballato per la prima volta con Rosa e ci eravamo innamorati) a disposizione della classe: ognuno avrebbe portato qualcosa da mangiare e da bere e si sarebbe fatta gran festa.
Con Rosa le cose procedevano a meraviglia: eravamo sempre più innamorati, quasi tutti i pomeriggi li passavamo insieme, a fare l’amore, ma anche a passeggiare, al cinema e, naturalmente, a studiare.
Un giorno che passeggiavamo, mano nella mano, per le vie del centro di Roma guardando le vetrine, ci fermammo davanti a una gioielleria, per fantasticare di come sarebbero stati gli anelli di fidanzamento e poi le fedi del matrimonio; poi lei m’indicò una collanina con un pendente a forma di cuore:
“Guarda che bella quella, amore!”
In effetti, era di una fattura squisita; pensai che sarebbe stato uno splendido regalo per Natale, se la mia tasca non avesse contenuto che pochi miseri spiccioli…
Qualche giorno dopo, mio padre, esercitando il suo solito sesto senso, mi fece, in un momento in cui eravamo soli:
“Giorgio, come stai a soldi?”
“Male, papà, anzi malissimo!”
“Non sei riuscito a risparmiare niente sulla paghetta?”
“No, forse siamo andati troppe volte al cinema…”
“Capisco, quindi non hai i soldi per i regali di Natale?”
Gli feci una faccia che spiegava tutto, senza bisogno di parole.
“Allora, a parte che da gennaio la tua paghetta aumenterà, come aumenteranno i nostri stipendi, qui ci sono cinquantamila lire extra.” e mi mise una banconota in mano. “Così potrai fare i regali a tutti, a Rosa prima di tutto, ma anche ai suoi genitori!”
“Grazie, paparino! Lo sai che questo sarà il mio più bel Natale?”
“Eh, sì! Lo immagino!”
Così, il primo pomeriggio che non dovevo incontrarmi con Rosa (mancava una settimana a Natale), cercai una gioielleria che avesse una catenina e un ciondolo simili a quelli che ci erano piaciuti tanto. Non volli andare nella stessa gioielleria, perché pensavo (a ragione) che lì il prezzo sarebbe stato più alto, e comunque speravo di trovare, se non proprio lo stesso oggetto, almeno qualcosa che ci si avvicinasse.
Presi dunque l’autobus e da San Lorenzo andai verso la periferia. Dopo qualche fermata scesi e cominciai a girare a piedi per le vie traverse della Tiburtina, finché passai davanti a una gioielleria. Osservai la vetrina, ma non vidi nessuna catenina col ciondolo a forma di cuore, però vidi altri oggetti di aspetto gradevole.
Decisi allora di entrare e di chiedere. Suonai il campanello (si cominciavano allora a vedere queste apparecchiature di sicurezza, per via delle molte rapine, politiche e non solo, di quei tempi), udii un ‘tlac’ e la porta si aprì immediatamente, entrai e si richiuse alle mie spalle. Dietro il bancone, una signora bionda, sulla cinquantina, ben pettinata e truccata, con un maglione aderentissimo che le fasciava il seno prosperoso, del quale in pratica si vedeva tutta la zona sovrastante i capezzoli.
Salutai cortesemente e lei mi rispose con un sorriso malizioso. Le spiegai cosa cercavo, e, mentre parlavo, lei si era chinata, appoggiandosi con i gomiti sul bancone e guardandomi negli occhi, mentre i miei involontariamente ogni tanto si spostavano su quel popò di pelle che mi andava mostrando.
Quando ebbi finito di spiegarle cosa cercavo, mi rialzò, mi sorrise atteggiando la bocca dipinta con un rossetto rosso carminio e poi mi fece:
“Ascolta, caro, di catenine ne ho a bizzeffe, di tutti i tipi e di tutti i prezzi, pendenti come dici tu, invece, non ne ho, ma ne ho altri tipi; se vuoi, possiamo andare nel retro a vedere se c’è qualcosa che ti piace…”
Pronunciando le ultime parole, la sua voce era salita di tono e aveva roteato gli occhi, di un azzurro profondo. Rimasi un po’ stupito di quelle due cose, ma da ingenuo qual ero non ci vidi nulla di particolarmente strano, perciò le dissi che andava bene, potevamo andare a vedere.
Allora lei andò alla porta, girò il cartello ‘Torno subito’ e si avviò, con me alle calcagna, nel retro. Osservandola da dietro, vidi che portava una stretta minigonna appena sopra il ginocchio, aveva delle calze nere trasparenti che le fasciavano un bel paio di gambe e, santo cielo! che bel culo che aveva! e come lo muoveva bene!
Arrivati nel retro, mi fece accomodare a una scrivania, mentre lei si affaccendava a tirar fuori da un armadio qualche contenitore, che poi mi mise davanti: dentro c’erano, in bella vista, alcuni ciondoli e pendenti, ma nessun cuore. Lei mi stava accanto, chinata vicino alla mia testa, tanto che potevo sentire il suo profumo: niente di dozzinale, anzi era davvero piacevole.
Stando chinata, ovviamente, mi aveva rimesso sotto gli occhi il suo seno, tanto che non sapevo se guardare quello o i ciondoli. Lei naturalmente se ne accorse e allora mi fece, con voce suadente:
“Preferisci guardare due bei ciondoli invece che tutta la scatola, vero?”
Colto in fallo, avvampai di vergogna, ma improvvisamente capii che tutto quello che mi aveva detto e stava dicendo aveva uno scopo preciso, perché mi prese una mano e se la portò proprio sul seno, mormorandomi:
“Tocca, che è meglio che guardare…”
Aveva una pelle morbidissima che dava piacere ad accarezzarla. Poi, non so, sarà stata la situazione intrigante che aveva creato, il suo profumo che mi aveva eccitato, il fatto che fossi ancora molto giovane, ma a quel punto le infilai la mano sotto il maglione per accarezzarle tutto il seno. Aveva un reggiseno leggerissimo, tanto che sentii un capezzolo inturgidirsi quando la mia mano lo sfiorò.
“Mmh” fece lei in quel momento e allora si rialzò, con un gesto si sfilò il maglione dalla testa e si tolse il reggiseno senza nemmeno sganciarlo, soltanto facendo scivolare le spalline, liberando davanti ai miei occhi due splendide semisfere con i capezzoli già rigidi e le areole grandissime.
Mi prese la testa e se la portò sul seno, chiedendomi implicitamente di baciarglielo. Lo feci, tirando fuori la lingua e le leccai i capezzoli, durissimi contro le mie labbra. Continuai a baciare e leccare, mentre i suoi ‘mmh’ aumentavano di frequenza, poi si portò la mano su un fianco, abbassò la zip della gonna e la fece cadere a terra. Sotto non aveva altro che il reggicalze! Potei vedere immediatamente il pelo pubico, biondo come i suoi capelli. Mi afferrò una mano che le avevo appoggiato sul fianco per poterle leccare meglio il seno, allargò le gambe e se la portò sulla fica, che era già bagnata.
“Oh sì, caro, mettimi due dita dentro!” mi fece. Eseguii e cominciai a scoparla con le dita. Dopo un po’ si staccò da me, s’inginocchiò tra le mie gambe, mi fece alzare e freneticamente mi tirò giù pantaloni e mutande, sicché il mio cazzo, già bello gonfio per l’eccitazione, puntò esattamente a metà tra i suoi splendidi occhi.
“Ooh! Ma che bello! Che bel cazzo che hai!” esclamò e, senza por tempo in mezzo, me lo ingoiò tutto, fino alla base. Non fossi stato quello che ero, probabilmente le avrei riempito la bocca di sborra in quel preciso istante, ma, dato che ormai avevo imparato a resistere, non sborrai subito. Lei mi pompò un po’ il cazzo, sempre ingoiandolo fino in fondo, mentre mi reggeva per le natiche.
Io, sinceramente, avevo la testa in confusione. Capivo perfettamente che stavo facendo qualcosa di profondamente sbagliato, che stavo facendo l’esatto contrario di quello che mi avevano insegnato Emma e Giulia, e che stavo pure tradendo la fiducia e l’amore di Rosa. Però… però continuai a mugolare e a provare piacere da quella bocca estranea che mi stava facendo il più bel pompino della mia vita. Presi fra le mani la testa della signora e le accennai di aumentare il ritmo, perché a quel punto volevo proprio sborrarle in bocca. Invece lei si divincolò, mi sorrise e mi fece:
“Non così, lo voglio nel culo e nella fica!”
Poi si appoggiò con le mani alla scrivania, sporse in fuori il bacino e mi disse ancora:
“Inculami, caro, fammi sentire quel tuo bel cazzone, infilamelo nel culo e fammelo arrivare in gola!”
Quel linguaggio così scurrile, quelle parole, pronunciate senza nessuna emozione, senza il minimo sentimento, mi aprirono gli occhi e mi fecero vedere l’animalità pura, senza nessuna umanità, di ciò che stavo facendo.
In un lampo mi tirai su mutande e pantaloni, mi richiusi la zip e fui fuori dal retrobottega; arrivai alla porta e cercai disperatamente il sistema per aprirla, finché vidi sullo stipite un pulsante; lo premetti, udii il ‘tlac’ dell’apertura, afferrai la maniglia e mi precipitai in strada e correndo via da quel negozio.
Avevo il cuore in gola che mi batteva a mille e, nonostante il freddo pungente, sentivo rivoli di sudore che mi scorrevano dalla fronte e dal collo. Quando ebbi corso per un bel po’, rallentai fino a fermarmi e appoggiai la fronte a un palo che segnalava una fermata di autobus.
Restai lì a calmare i battiti del cuore e il respiro, a rinfrescarmi la fronte, a raccogliere le idee. Provavo vergogna per quello che era successo, per come mi ero comportato, anche se mi sollevava un po’ il pensiero di non essere arrivato fino in fondo, di aver trovato la forza di sfuggire a quella situazione.
Passò l’autobus e mi accorsi che era quello che mi avrebbe riportato a casa; salii e mi accasciai su un sedile. Scesi alla mia fermata, arrivai a casa, entrai, mi spogliai e gettai tutti gli indumenti nel cesto della biancheria sporca, m’infilai sotto l’acqua bollente, lavandomi accuratamente e strofinandomi tutto, soprattutto l’uccello, come se quel lavaggio avesse potuto far scomparire qualunque traccia di ciò che era successo.
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