L’assassino di micette - presepi
di
stefi pastori
genere
saffico
vi propongo un capitolo de L’ASSASSINO DI MICETTE dal titolo
PRESEPI
«Madame Martin la sta aspettando nel penthouse.» Fino a quell’istante aveva nutrito la certezza che sarebbe stata attesa al salone del piano terra dell’hotel per un tè, ma si accorge di non disdegnare l’idea di un incontro più discreto, vis-à-vis. Chissà perché mi viene da pensare in francese, ragiona Angelìa.
Bussa. Bussa di nuovo e Madame le viene ad aprire con un telefonino vecchia generazione all’orecchio: si scambiano solo un sorriso. Madame indossa una scenografica jumpsuit in pelle nera. Mentre parla al telefono in francese, In Francese! Angelìa osserva le linee nervose delle mani delle spalle del collo. Di quel capo d’abbigliamento percepisce a distanza la raffinatezza, la fragranza della fattura, la morbida seduzione. In breve, quel genere di stile che su altri corpi avrebbe oltrepassato il confine della volgarità, fa risultare Madame Martin altera, sacerdotale e rigorosa nello sguardo tagliato in lapislazzuli; ne sottolinea il viso dagli zigomi alti e scolpiti, le labbra marcate e i capelli di uno chic rosso rilucente di blu, raccolti stavolta in un tiratissimo chignon sulla sommità del capo. Nel parlare ancora al suo cellulare, Madame coglie lo sguardo dell’ereditiera diretto ai propri tronchetti in camoscio nero, con applicazione di cristalli e un tacco scultura ispirato alla silhouette del corpo di donna, raffinati e sensuali. Angelìa li desidera all’istante, lei stessa decisionista e volitiva.
Chiusa la telefonata, Madame la prende per mano senza parlare e la conduce verso un tavolino in noce apparecchiato con teiera e zuccheriera inglesi in argento, tazze in porcellana di Sèvres e un presepe di pasticceria finissima nel quale Angelìa ammira biscottini di morbida frolla, mandorle confettate, cioccolatini ripieni, gelées alla frutta, palline al cocco e praline declinate in tutte le sfumature del cacao, nidi di frolla ripieni di succulenti frutti, dolcetti senesi alla pasta di mandorle, tartufini al caffè, insomma una pletora di dolcezze da far ammorbidire alla sola vista anche la più dura delle anime. E poi sulla sedia imbottita troneggiano due divinità di diverse dimensioni, lubrificate, pronte all’uso, speciali in questa nostra civiltà fallocentrica. La vista dei simulacri, un trionfo di realismo in lattice nero lucido, rasserena di colpo Angelìa. Gli itifalli torinesi! sorride Angelìa. Le è data l’opportunità di smaltire l’attacco glicemico.
«Vieni piccola mia, accomodati.» Madame è una véritable Mistress, padrona di modi, tempi e creature. Angelìa decide all’istante di arrendersi a lei, come spesso gli individui che privilegiano la razionalità sull’istinto fanno nel momento del piacere animale. Sfilata la pelliccia, Madame Martin le sbottona la camicetta. Al tocco esperto di Madame le reciproche espressioni si fondono. Lo sguardo di Angelìa invita a osare di più la signora francese, che, quindi, inizia ad accarezzarla. Poi a mordicchiarla. Sa che Angelìa è lì per questo. L’aveva percepito già quel giorno da Afrodite. Avvicinando le labbra dipinte all’orecchio della seducente ereditiera, Madame le sussurra di spogliare l’indumento che protegge l’intimità. E intanto, sollevando la gonna morbida al tatto, appresta la mano ingioiellata alle cosce. Avvedendosi della nudità, Madame si morde le labbra in segno di apprezzamento. Con le dita, tocca l’anfratto segreto di Angelìa, non ancora umido. Sa però che in un attimo le sue delicate e preziose attenzioni acconceranno la situazione. Le depreda gonna e camicetta e sospinge Angelìa sul divano, dove si adagia. Madame si inginocchia davanti alle sue gambe. Angelìa risponde con ingordigia all’invito di aprirsi.
In armonia di pensieri erotici, i primi timidi tocchi di lingua abbracciano tutte le privatezze di Angelìa, sapendo bene quale sia l’origine della beatitudine di una donna. I colpetti si profondono in movimenti sempre più scatenati che portano Angelìa all’estasi, in un modo che mai aveva provato assieme a un uomo.
Soddisfatta della degustazione, Madame schiocca la lingua nel rialzarsi. «Vieni, prendiamo il nostro tè. Sei pronta anche pour ton petit frère, forse sentirai un po’ di dolore, ma sarà più delizioso così. Sei d’accordo?» «Certo Madame Martin. Mi guidi lei. Farò come lei mi consiglia» risponde Angelìa, eccitatissima. Madame le offre un cioccolatino che, una volta parzialmente sciolto, non seguirà la consona via digestiva, ma addolcirà i buchini dei giochini con piacevolezza cioccolatosa allo scopo di accogliere i simulacri in lattice nero. Mentre Angelìa si sistema sulla inusitata seduta, ondeggiando di bacino, Madame suggerisce di sorbire qualcosa insieme e pertanto chiama la reception. Senza rendersi conto di quanto tempo trascorra, prima del ritorno di Madame Martin Angelìa sta impazzendo dal piacere. «Brava la mia Angelìa. Non smettere, tra poco arriva une surprise» sussurra in quell’italiano che l’accento francese rende ancor più suadente. Passano solo alcuni minuti e qualcuno batte con discrezione alla porta del penthouse. All’imperioso comando di Madame, entra una ragazza che regge un vassoio con una teiera, abbigliata di grembiulino e cuffietta candidi, dai lineamenti che appaiono conosciuti. Al secondo sguardo, Angelìa si avvede che è davvero la sua amica Afrodite. Di certo, non cameriera di quell’hotel, piuttosto di Madame per i suoi privatissimi vizi. Angelìa si accorge di averlo saputo fin dal primo incontro in oreficeria.
Respira la densa lussuria tra loro. La Dame francese la invita ad alzarsi, abbandonando il simulacro anteriore, ad adagiarsi sul letto matrimoniale, vicina al bordo con le gambe aperte in posizione di invito. Depositato con garbo il vassoio, a un cenno di assenso di Madame Martin, Afrodite si avvicina ad Angelìa, si inginocchia a sua volta davanti al paradiso per raggiungerlo insieme all’amica ereditiera. Angelìa comincia a temere per la sanità della sua mente; mai avrebbe immaginato la sua amica al caffè in quelle vesti così dedite a lei, mai si sarebbe immaginata così felicemente sottoposta alla terribile, ma dal quel momento irrinunciabile tortura femminile. Il deliquio in un andirivieni da sogno e follia le fa implorare attenzioni che arrivano sotto forma di due morsetti in acciaio ingentiliti da pompon di pelliccia nera, dolce e nuovo supplizio. Da ora Angelìa non sarà più in grado di dominarsi.
Trascorre un tempo che pare infinito. Invasa da bocche, lingue, morsetti, divinità, Angelìa è infine esausta. Si lascia andare, ormai in preda a convulsioni che solo una libidine ardente sa offrire. Qualche minuto dopo, Madame, appagata, si sposta alla vetrata panoramica e con gesto misurato accende una sigaretta introdotta nel lungo bocchino bianco osso. Il suo sguardo lapislazzulo trafigge nubi e tetti, come per imprimersi nei neuroni quella ennesima lenità di vita. Angelìa si placa con Afrodite, arruffato pulcina ancora inginocchiata tra le sue gambe, incerta sul da farsi. «Brava, cara Afrodite. Ora alzati, ma ricordati che sono io a dire quel che devi o non devi fare, ma petite étoile. Per oggi puoi anche andare, verrai da me la semaine prochaine...» dice aprendo il portafoglio. Ricomponendosi, la bella ragazza accetta con garbo, lei è solo una semplice commessa, non ereditiera come Angelìa, pertanto non se ne adonta; nel chiudere la porta, rivolge all’amica un gran sorriso corrisposto, resa complice, ne è certa, anche di future avventure carnali. Pur nell’estasi dell’istante, Angelìa prende nota di quel gesto in denaro per rapportarsi in futuro con il suo Capitano. Madame le si indirizza chiedendole di offrirle il polso. Angelìa la guarda, interrogativa; nuda, con calze scomposte, tacchi e bracciale Swarovski, scatena il sorriso di Madame. Le fa allungare il braccio destro e le toglie il pesante cerchio, mentre le chiede conferma se è lì che lo porta sempre. All’assenso di Angelìa, Madame le allaccia l’ambito Ballon Bleu per circondarle la pelle della sensazione di fresca e deliziosa rivincita. I suoi occhi si colmano di gratitudine, quando apre bocca, la voce fatica a uscire.
«Dobbiamo lasciarci mia Madame. I gemelli mi aspettano all’uscita da scuola.» «Così dedita all’eterno femminino, non sia mai che proprio io impedisca a une mère di prendersi cura dei suoi piccoli. Però prima di andare, ti impongo di indossare questo petit cadeau de plaisir en or e di toglierlo solo quando sarai tornata a casa. Vedrai: sarà un piacere portarlo. Come per me sapere che lo fai.» Così dicendo estrae da un sacchettino in seta nera un plug-in, sormontato da una moneta di cristallo rosso sulla quale sono incise in nero le iniziali: MM, Minervà Martin. A essa è agganciata una sottile catenina d’oro alla cui estremità appare un lezioso ciuffo di cordini di raso nero. Con piccola pressione sul dorso, Madame ottiene l’inarcarsi della schiena di Angelìa; tolto il simulacro da penthouse, il cadeau de plaisir scompare nell’oscurità. Ora l’ereditiera ha la sua piccola coda a tenerle compagnia. Si riveste ed esce dall’hotel. Compiaciuta e gioiosa, Angelìa gongola nella piena soddisfazione della sua vacuità, del piacere del ricordo di quello che era stato e di quello che andavo portando: un Ballon Bleu da gran dama al polso, un’appendice che si dimena dietro e dentro di lei.
Fuori, Torino si muove in fretta. L’impressione di un gran chiudersi e aprirsi di sportelli d’auto, di porte e di portoni, di armadi, di cassetti, di ascensori; e di un confuso coro di smartphone, citofoni, clacson, freni, gomme e di parole, fitte, pressanti, subito disperse come pioggia sull’acqua, vane; e di sé, contenta, ma non felice, non convinta, costretta all’urgenza, sospinta, fra soprassalti, elisioni, rigurgiti, verso il buio, non verso la luce, sempre più stanca e appesantita e infine rauca nella mente, tutta la sua concentrata voluttà messa in dubbio, smentita, negata dallo scorcio di un palazzo avvizzito, nella sera, da una piazza in pigra fluttuazione, da un viale arcano nel pulviscolo, dalla cedevolezza graduale di tutta una città che il sole abbandona via via al suo annoso, accorato vizio crepuscolare, Angelìa si reca dai propri figli.
Madame Minervà Martin era stata epica. Aveva messo in luce quel che di lei era sepolto da cumuli di inutili sovrastrutture mentali dettate dalla montagninità. Esulta malinconica. Non vista, sfiora la moneta con le iniziali MM; le basta muoverla per accendere un vortice di piacevoli sensazioni nell’interiorità più recondita. Amplifica il gesto del procedere ancheggiando a mo’ di indossatrice in passerella, il cadeau de plaisir rimanda al suo cervello frecciate di estasi assoluta. Sarebbe diventato un accessorio irrinunciabile. Come pure la nuova sfumatura dell’amicizia con Afrodite. Gioiosa, forse felice, ma di quella felicità effimera, non durevole.
PRESEPI
«Madame Martin la sta aspettando nel penthouse.» Fino a quell’istante aveva nutrito la certezza che sarebbe stata attesa al salone del piano terra dell’hotel per un tè, ma si accorge di non disdegnare l’idea di un incontro più discreto, vis-à-vis. Chissà perché mi viene da pensare in francese, ragiona Angelìa.
Bussa. Bussa di nuovo e Madame le viene ad aprire con un telefonino vecchia generazione all’orecchio: si scambiano solo un sorriso. Madame indossa una scenografica jumpsuit in pelle nera. Mentre parla al telefono in francese, In Francese! Angelìa osserva le linee nervose delle mani delle spalle del collo. Di quel capo d’abbigliamento percepisce a distanza la raffinatezza, la fragranza della fattura, la morbida seduzione. In breve, quel genere di stile che su altri corpi avrebbe oltrepassato il confine della volgarità, fa risultare Madame Martin altera, sacerdotale e rigorosa nello sguardo tagliato in lapislazzuli; ne sottolinea il viso dagli zigomi alti e scolpiti, le labbra marcate e i capelli di uno chic rosso rilucente di blu, raccolti stavolta in un tiratissimo chignon sulla sommità del capo. Nel parlare ancora al suo cellulare, Madame coglie lo sguardo dell’ereditiera diretto ai propri tronchetti in camoscio nero, con applicazione di cristalli e un tacco scultura ispirato alla silhouette del corpo di donna, raffinati e sensuali. Angelìa li desidera all’istante, lei stessa decisionista e volitiva.
Chiusa la telefonata, Madame la prende per mano senza parlare e la conduce verso un tavolino in noce apparecchiato con teiera e zuccheriera inglesi in argento, tazze in porcellana di Sèvres e un presepe di pasticceria finissima nel quale Angelìa ammira biscottini di morbida frolla, mandorle confettate, cioccolatini ripieni, gelées alla frutta, palline al cocco e praline declinate in tutte le sfumature del cacao, nidi di frolla ripieni di succulenti frutti, dolcetti senesi alla pasta di mandorle, tartufini al caffè, insomma una pletora di dolcezze da far ammorbidire alla sola vista anche la più dura delle anime. E poi sulla sedia imbottita troneggiano due divinità di diverse dimensioni, lubrificate, pronte all’uso, speciali in questa nostra civiltà fallocentrica. La vista dei simulacri, un trionfo di realismo in lattice nero lucido, rasserena di colpo Angelìa. Gli itifalli torinesi! sorride Angelìa. Le è data l’opportunità di smaltire l’attacco glicemico.
«Vieni piccola mia, accomodati.» Madame è una véritable Mistress, padrona di modi, tempi e creature. Angelìa decide all’istante di arrendersi a lei, come spesso gli individui che privilegiano la razionalità sull’istinto fanno nel momento del piacere animale. Sfilata la pelliccia, Madame Martin le sbottona la camicetta. Al tocco esperto di Madame le reciproche espressioni si fondono. Lo sguardo di Angelìa invita a osare di più la signora francese, che, quindi, inizia ad accarezzarla. Poi a mordicchiarla. Sa che Angelìa è lì per questo. L’aveva percepito già quel giorno da Afrodite. Avvicinando le labbra dipinte all’orecchio della seducente ereditiera, Madame le sussurra di spogliare l’indumento che protegge l’intimità. E intanto, sollevando la gonna morbida al tatto, appresta la mano ingioiellata alle cosce. Avvedendosi della nudità, Madame si morde le labbra in segno di apprezzamento. Con le dita, tocca l’anfratto segreto di Angelìa, non ancora umido. Sa però che in un attimo le sue delicate e preziose attenzioni acconceranno la situazione. Le depreda gonna e camicetta e sospinge Angelìa sul divano, dove si adagia. Madame si inginocchia davanti alle sue gambe. Angelìa risponde con ingordigia all’invito di aprirsi.
In armonia di pensieri erotici, i primi timidi tocchi di lingua abbracciano tutte le privatezze di Angelìa, sapendo bene quale sia l’origine della beatitudine di una donna. I colpetti si profondono in movimenti sempre più scatenati che portano Angelìa all’estasi, in un modo che mai aveva provato assieme a un uomo.
Soddisfatta della degustazione, Madame schiocca la lingua nel rialzarsi. «Vieni, prendiamo il nostro tè. Sei pronta anche pour ton petit frère, forse sentirai un po’ di dolore, ma sarà più delizioso così. Sei d’accordo?» «Certo Madame Martin. Mi guidi lei. Farò come lei mi consiglia» risponde Angelìa, eccitatissima. Madame le offre un cioccolatino che, una volta parzialmente sciolto, non seguirà la consona via digestiva, ma addolcirà i buchini dei giochini con piacevolezza cioccolatosa allo scopo di accogliere i simulacri in lattice nero. Mentre Angelìa si sistema sulla inusitata seduta, ondeggiando di bacino, Madame suggerisce di sorbire qualcosa insieme e pertanto chiama la reception. Senza rendersi conto di quanto tempo trascorra, prima del ritorno di Madame Martin Angelìa sta impazzendo dal piacere. «Brava la mia Angelìa. Non smettere, tra poco arriva une surprise» sussurra in quell’italiano che l’accento francese rende ancor più suadente. Passano solo alcuni minuti e qualcuno batte con discrezione alla porta del penthouse. All’imperioso comando di Madame, entra una ragazza che regge un vassoio con una teiera, abbigliata di grembiulino e cuffietta candidi, dai lineamenti che appaiono conosciuti. Al secondo sguardo, Angelìa si avvede che è davvero la sua amica Afrodite. Di certo, non cameriera di quell’hotel, piuttosto di Madame per i suoi privatissimi vizi. Angelìa si accorge di averlo saputo fin dal primo incontro in oreficeria.
Respira la densa lussuria tra loro. La Dame francese la invita ad alzarsi, abbandonando il simulacro anteriore, ad adagiarsi sul letto matrimoniale, vicina al bordo con le gambe aperte in posizione di invito. Depositato con garbo il vassoio, a un cenno di assenso di Madame Martin, Afrodite si avvicina ad Angelìa, si inginocchia a sua volta davanti al paradiso per raggiungerlo insieme all’amica ereditiera. Angelìa comincia a temere per la sanità della sua mente; mai avrebbe immaginato la sua amica al caffè in quelle vesti così dedite a lei, mai si sarebbe immaginata così felicemente sottoposta alla terribile, ma dal quel momento irrinunciabile tortura femminile. Il deliquio in un andirivieni da sogno e follia le fa implorare attenzioni che arrivano sotto forma di due morsetti in acciaio ingentiliti da pompon di pelliccia nera, dolce e nuovo supplizio. Da ora Angelìa non sarà più in grado di dominarsi.
Trascorre un tempo che pare infinito. Invasa da bocche, lingue, morsetti, divinità, Angelìa è infine esausta. Si lascia andare, ormai in preda a convulsioni che solo una libidine ardente sa offrire. Qualche minuto dopo, Madame, appagata, si sposta alla vetrata panoramica e con gesto misurato accende una sigaretta introdotta nel lungo bocchino bianco osso. Il suo sguardo lapislazzulo trafigge nubi e tetti, come per imprimersi nei neuroni quella ennesima lenità di vita. Angelìa si placa con Afrodite, arruffato pulcina ancora inginocchiata tra le sue gambe, incerta sul da farsi. «Brava, cara Afrodite. Ora alzati, ma ricordati che sono io a dire quel che devi o non devi fare, ma petite étoile. Per oggi puoi anche andare, verrai da me la semaine prochaine...» dice aprendo il portafoglio. Ricomponendosi, la bella ragazza accetta con garbo, lei è solo una semplice commessa, non ereditiera come Angelìa, pertanto non se ne adonta; nel chiudere la porta, rivolge all’amica un gran sorriso corrisposto, resa complice, ne è certa, anche di future avventure carnali. Pur nell’estasi dell’istante, Angelìa prende nota di quel gesto in denaro per rapportarsi in futuro con il suo Capitano. Madame le si indirizza chiedendole di offrirle il polso. Angelìa la guarda, interrogativa; nuda, con calze scomposte, tacchi e bracciale Swarovski, scatena il sorriso di Madame. Le fa allungare il braccio destro e le toglie il pesante cerchio, mentre le chiede conferma se è lì che lo porta sempre. All’assenso di Angelìa, Madame le allaccia l’ambito Ballon Bleu per circondarle la pelle della sensazione di fresca e deliziosa rivincita. I suoi occhi si colmano di gratitudine, quando apre bocca, la voce fatica a uscire.
«Dobbiamo lasciarci mia Madame. I gemelli mi aspettano all’uscita da scuola.» «Così dedita all’eterno femminino, non sia mai che proprio io impedisca a une mère di prendersi cura dei suoi piccoli. Però prima di andare, ti impongo di indossare questo petit cadeau de plaisir en or e di toglierlo solo quando sarai tornata a casa. Vedrai: sarà un piacere portarlo. Come per me sapere che lo fai.» Così dicendo estrae da un sacchettino in seta nera un plug-in, sormontato da una moneta di cristallo rosso sulla quale sono incise in nero le iniziali: MM, Minervà Martin. A essa è agganciata una sottile catenina d’oro alla cui estremità appare un lezioso ciuffo di cordini di raso nero. Con piccola pressione sul dorso, Madame ottiene l’inarcarsi della schiena di Angelìa; tolto il simulacro da penthouse, il cadeau de plaisir scompare nell’oscurità. Ora l’ereditiera ha la sua piccola coda a tenerle compagnia. Si riveste ed esce dall’hotel. Compiaciuta e gioiosa, Angelìa gongola nella piena soddisfazione della sua vacuità, del piacere del ricordo di quello che era stato e di quello che andavo portando: un Ballon Bleu da gran dama al polso, un’appendice che si dimena dietro e dentro di lei.
Fuori, Torino si muove in fretta. L’impressione di un gran chiudersi e aprirsi di sportelli d’auto, di porte e di portoni, di armadi, di cassetti, di ascensori; e di un confuso coro di smartphone, citofoni, clacson, freni, gomme e di parole, fitte, pressanti, subito disperse come pioggia sull’acqua, vane; e di sé, contenta, ma non felice, non convinta, costretta all’urgenza, sospinta, fra soprassalti, elisioni, rigurgiti, verso il buio, non verso la luce, sempre più stanca e appesantita e infine rauca nella mente, tutta la sua concentrata voluttà messa in dubbio, smentita, negata dallo scorcio di un palazzo avvizzito, nella sera, da una piazza in pigra fluttuazione, da un viale arcano nel pulviscolo, dalla cedevolezza graduale di tutta una città che il sole abbandona via via al suo annoso, accorato vizio crepuscolare, Angelìa si reca dai propri figli.
Madame Minervà Martin era stata epica. Aveva messo in luce quel che di lei era sepolto da cumuli di inutili sovrastrutture mentali dettate dalla montagninità. Esulta malinconica. Non vista, sfiora la moneta con le iniziali MM; le basta muoverla per accendere un vortice di piacevoli sensazioni nell’interiorità più recondita. Amplifica il gesto del procedere ancheggiando a mo’ di indossatrice in passerella, il cadeau de plaisir rimanda al suo cervello frecciate di estasi assoluta. Sarebbe diventato un accessorio irrinunciabile. Come pure la nuova sfumatura dell’amicizia con Afrodite. Gioiosa, forse felice, ma di quella felicità effimera, non durevole.
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