Ivano

di
genere
etero

Ho sempre avuto paura di tuffarmi. Paura, terrore. Quando ero bambina ero convinta di soffocare, di affogare. Gli altri bambini si tuffavano, scherzavano, sembravano felici di saltare e buttarsi dentro l’acqua, mentre io invece mi nascondevo.
Alla fine del corso l’insegnante ci metteva in fila verso la scaletta e come ultima cosa dovevamo tuffarci. Io mi nascondevo, facevo passare avanti gli altri e quando salivo alla fine la scaletta al mio turno mi mettevo tra quelli che si erano già tuffati. Per un po’ me la sono cavata così. All’epoca l’insegnante era una donna, non era simpatica, ma faceva forse finta di nulla e poi il corso era finito e lei voleva andare via.
Poi arrivò Ivano, era simpatico. Scherzava, ci faceva fare delle cose che lei non faceva mai. Ci faceva riposare, anche e ci faceva ridere. Solo che quando si rese conto della mia paura mi chiese di uscire. Davanti agli altri mi disse che non era un problema, che succedeva, che avere paura era una cosa normale, e che mi avrebbe aiutato lui. Te la faccio passare io, mi disse.
Ancora oggi mi ricordo la calma di quelle sue parole e la sua mano grande dietro la mia schiena.
Avevo dodici anni, mio fratello faceva lezione dopo di me e quindi rimanevo sempre in piscina almeno un paio d’ore ancora, prima che ci venissero a prendere.
In effetti Ivano provò a aiutarmi, si mise in vasca, in piedi e mi parlava mentre io ero seduta a bordo vasca. Gli insegnanti non scendevano quasi mai in vasca, invece lui lo fece per me. Si spogliò e scese in acqua. Mi spiegava come fare e mentre lo faceva mi toccava le cosce, esternamente e poi dentro. Ma avevo allargato io le gambe, perché lui me le toccasse. Mi toccava e io mi ricordo benissimo che mi si bagnava la fica. Forse nemmeno sapevo che cosa fosse, ma mi ricordo bene l’eccitazione, mi piaceva da morire e dopo qualche volta che quelle mani mi toccavano come per caso io gliele fermai e me le misi da sola in mezzo alle cosce.
Mi sorrise, mi fece uscire, la lezione era finita, la vasca serviva a altri. Non mi ricordo nemmeno bene come finimmo dentro l’ufficio della scuola, però so che lui si mise a sedere alla scrivania e io mi inginocchiai per succhiargli l’uccello. Forse fui addirittura io a volerlo, o a chiederglielo, è possibile. In quel momento mi sembrava la sola cosa da fare. Non che lo avessi mai fatto prima, ma ancora oggi se penso a un uomo che mi piace mi viene in mente la punta dell’uccello di Ivano che mi entra in bocca. Morbida, tonda e che mi scivola tra le labbra e sulla lingua. E poi sento la sua voce che mi dice quanto gli piace, quanto gli piaccio e quanto piace a me quell’uccello che mi riempie la bocca. Dio come mi è sempre piaciuto e non ho mai smesso. Per tutto il tempo che ho abitato in zona non ho mai smesso di fare i pompini a Ivano. Era una nostra cosa, ormai. Non solo in piscina. Quando ci capitava di vederci era come una molla che ci scattava, quante volte mi ha fatto entrare in macchina sua.
Lo incontravo al supermercato, e mi portava in macchina. Ci vedevamo per caso in giro e trovavamo un posto appartato. Non siamo mai andati oltre, non mi ha mai voluto scopare, mai, però gli succhiavo il cazzo da tutte e parti. Glielo succhiavo proprio, era come succhiare e succhiare finché non veniva.
Dopo poco è diventato una specie di zio, non ci siamo mai persi di vista, anche dopo che ho smesso di andare in piscina. Per anni ho giocato a pallavolo in una squadra e lui ogni tanto veniva, mi accompagnava a casa e in macchina si apriva la cerniera e mi teneva la mano nei capelli mentre glielo succhiavo.
Era amico del nostro allenatore e spesso ci accompagnava anche alle partite. Nessuno ha mai immaginato quello che facevamo, io non l’ho mai detto a nessuno e lui neanche, credo. Eppure quando lo vedevo mi sentivo trasformare, mi saliva un fuoco dentro che solo quel cazzo che mi diventava duro in bocca mi faceva passare. Solo succhiarlo e farlo venire mi placava. E il momento in cui mi entrava in bocca era per me come scartare un gelato. Sapevo cosa gli piaceva, gli piaceva la punta, gli piaceva che per un po’ me lo sbattessi nella bocca solo con la punta, mentre lo tenevo morbido tra le mani e lo masturbavo su e giù, questo lo eccitava molto, era come se in quel momento gli bruciasse, si inarcava con la schiena e quasi per non urlare a quel punto me lo infilava tutto in gola, tenendomi la testa stretta a lui. Poi era grosso e a quel punto continuavo a succhiarlo, a succhiarlo, finché le mani gli si facevano molli e con un gemito a mezza voce mi veniva in bocca.
Non aveva tanti peli, e poi l’odore, dio, se chiudo gli occhi me lo ricordo ancora. L’odore della sua pelle e l’odore del suo sperma che di solito ci riempiva l’aria della macchina. E poi voleva guardare lo sperma dentro la mia bocca, non voleva che lo ingoiassi subito, lo voleva vedere, dovevo aprirgli la bocca e farglielo vedere, solo dopo me la chiudeva e mi diceva che ero bellissima. E io dopo che mi aveva detto che ero bellissima glielo leccavo ancora, anche se allora lui mi mandava via, ma scherzavamo, io gli dicevo che lo volevo ancora e lui mi diceva domani, domani, domani torno a prenderti.
E era vero, veniva a prendermi a scuola, mi accompagnava al cinema. Quando cominciai a uscire con un ragazzo mi accompagnava lui, mi controllava, ma era gentile e io mi sentivo al sicuro con lui. E poi gli raccontavo le mie cose.
Quante volte sono entrata a scuola la mattina col sapore di Ivano in bocca e tra le mani. E quante volte giravo per la città sperando di incontrarlo.
Non ho poi mai imparato a tuffarmi e ho ancora una paura terribile, però l’acqua mi piace guardarla, perché mi fa pensare a lui.
scritto il
2024-09-16
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