I piedi di Sabrina Ferilli
di
hannah
genere
feticismo
[Presunzione]
Se c’è una cosa che mi piace davvero tanto del gioco della scrittura è il fatto che sia una pratica narrativa estremamente libera. Con le parole puoi ricreare scenari fantastici, reali e irreali, puoi permetterti di girare il mondo, utilizzare mirabolanti effetti speciali o coinvolgere personaggi impossibili. Tutte cose per cui una produzione cinematografica dovrebbe spendere cifre astronomiche e che a me, invece, costano solo un po’ di tempo e pazienza.
[Ispirazione]
C’è solo un altro mondo che ha le stesse infinite possibilità, quello dei sogni. I sogni inconsapevoli, che arrivano a sorprenderti di notte, portandoti a vivere storie che forse – dicono – sono collegate alla tua vita reale ma che, spesso, sembrano davvero assurdi.
Poi ci sono gli altri sogni, quelli che creiamo coscientemente, quelli con cui diamo luce ai nostri desideri, li immaginiamo, li elaboriamo in ogni minimo dettaglio.
Ecco, con la scrittura si può fare anche questo: regalare a qualcuno un sogno che altrimenti sarebbe impossibile, o quantomeno molto improbabile.
[Esibizionismo]
Sono perfettamente consapevole che nelle mie storie ci sia (almeno) un tema ricorrente; anche quando il soggetto non riguarda specificatamente una certa pratica erotica il fascino dei piedi femminili spunta fuori spesso, tra una riga e l’altra. Ho sempre pensato che un giorno mi sarebbe piaciuto raccontarne il perché, parlare di chi e come mi ha introdotta in questo mondo. Scucire un po’ del mio solito riserbo per lasciar intravedere frammenti del mio vissuto.
Forse, il modo migliore per farlo, è quello di rivelare che raramente mi è capitato di conoscere un’altra persona con la stessa idea di “desiderio”. Una forma di piacere che arriva a essere culto, un’avventura di pochi mesi che ritengo fra le più istruttive (e divertenti) della mia vita. C’è più di un motivo che riconduce quell’esperienza a molte delle cose che scrivo.
[Devozione]
La febbre dell’ossessione ha tanti sintomi, probabilmente non tutti gradevoli ma, se si ha la fortuna di avere a che fare con qualcuno che sa raccontarti le sue passioni, non si può non rimanerne affascinati. Lui era esattamente così, un bambino alle prese con un gioco continuo da cui era impossibile non lasciarsi contagiare. Il suo modo elegantemente perverso di parlarne, la maniera estremamente brillante con cui esponeva i suoi desideri erano davvero formidabili.
Ne nacque un’intesa unica, che lo portò a liberarsi di tutte le sue fantasie, compresa quella più grande, sicuramente quella più assurda, l’adorazione spasmodica per i piedi di una donna celebre. Ne parlavamo come si parla di una qualche opera d’arte, mi riempiva di foto che io commentavo con divertita complicità, giocando e immaginando insieme un modo per dare forma a quei sogni.
[Imbarazzo]
Io, una volta, mi sono vestita da Sabrina Ferilli.
Ok, lo so, la precisazione è necessaria, dichiariamo subito forte e chiaro che io, con la bella Sabrina, c’entro poco o niente. Non sto dicendo di essere una sua sosia ma a volte, per realizzare una fantasia, bastano pochi efficaci accorgimenti.
Il vestito giusto, le scarpe adatte, una scollatura particolarmente generosa, una spazzolata ai capelli per renderli più “boccolosi”, accentuare un po’ il movimento delle anche e, soprattutto, insistere a parlare in un accento che non è il mio.
È facile immaginare come il risultato finale possa apparire come una vera e propria macchietta da cabaret ma per inscenare un gioco è davvero più che sufficiente. A pensarci bene è un po’ la stessa cosa che succede nella scrittura e anche se sono io a raccontare questa storia non ne sono però l’autrice, per una volta infatti mi sono ritrovata a essere semplicemente un personaggio.
Giocare con il proprio partner, chi è che non lo ha fatto? Limitarsi a indossare un abbigliamento succinto o spingersi oltre, fingersi altro da sé stessi per recitare una scenetta piccante; c’è chi si accontenta di interpretare una massaia che seduce un finto idraulico e chi si ritrova in casa un uomo vestito da Batman, per una volta attratto più dai piaceri del corpo che non dal bene dell’umanità.
A questa dinamica, abbastanza diffusa, vanno però aggiunte due considerazioni che possono aiutare a comprendere il livello dello spettacolo in questione.
La prima è che a me piace giocare e se davvero devo fare una cosa del genere la faccio nel migliore dei modi possibili. Ho frequentato una scuola di teatro per qualche anno e questo, oltre ad aver definito la voce che uso quando racconto o scrivo qualcosa, mi ha anche dato alcuni strumenti davvero utili a realizzare un’avventura simile.
È divertente ricordare ora tutto il lavoro che feci sul personaggio, lo studio delle foto reperite su internet, provando a imitarne il trucco davanti allo specchio, il modo di spingere con le labbra per darmi un tono da fatalona e ancora, mi ripeto, tutto l’impegno possibile nel reinventarmi l’uso delle consonanti e la lunghezza delle vocali in quella lingua splendida che è il romanesco.
La seconda e ancor più importante considerazione da fare è ribadire che a sceneggiare questo piccolo film c’era un vero e proprio maniaco! E non mi riferisco alle sue perversioni (o almeno non solo a quelle) parlo di tutta una preparazione puntigliosa e pianificata in ogni minimo dettaglio, dal “canovaccio” della storia alla location, una casa presa in prestito da un suo amico così che fosse assolutamente neutra per entrambi e dall’aspetto piuttosto “benestante”.
Poche settimane prima eravamo stati insieme al cinema per vedere “Tutta la vita davanti”, film di Paolo Virzì in cui la signora Ferilli interpreta, magistralmente, il ruolo di una fantastica cafona arricchita. Lui ne rimase ovviamente folgorato, l’idea gli arrivò proprio durante la visione; c’è una scena di quel film in cui il personaggio di Sabrina invita a casa sua una giovane impiegata e, ostentando una confidenza del tutto inopportuna, si toglie di colpo le scarpe poggiando i piedi nudi sulle gambe della sua ospite, visibilmente imbarazzata.
Me li ricordo quegli occhi che brillavano nel buio, la bocca spalancata di uno che si ritrova davanti a un’apparizione mistica e non solo per il gesto in sé ma anche e soprattutto per il contesto della scena e la caratterizzazione dei personaggi.
Non so per quanto ho riso poi, all’uscita, prendendolo in giro, ma so che lui, silenzioso e ancora assorto, stava già dando forma a una fantasia, neanche troppo assurda a ben pensarci.
Ricreare, insieme, una scena molto simile, dopo averla sapientemente riscritta in base alle sue personali esigenze.
Perché mai avrei dovuto dire di no? Magari a molti potrà sembrare una semplice sciocchezza ma quant’è bello, ogni tanto, concedersi il lusso frivolo della stupidità. Ancor più bello è condividerla con qualcuno con cui hai una forte intesa, come quando ti fai i selfie di coppia con un’amica e non riesci a resistere alla tentazione di esibirti in una smorfia, con tanto di linguaccia.
Leggera, così mi sentivo, lui era il regista e a me non restava che fare la prima attrice, presi a darmi delle arie, a diventare fin troppo esigente nel ricreare i dettagli della sceneggiata, calandomi gradualmente nel ruolo.
Così iniziammo a preparare il nostro show, studiammo la situazione e il pretesto che avrebbe dato vita al suo sogno, che a quel punto, ormai, era un po’ anche il mio. Si potrebbe quasi pensarla come un’opera a quattro mani se non fosse che, io, più che le mani, ci ho messo dentro altro.
Ho speso un sacco di parole, nella mia vita e nelle mie storie, a difendere il mondo del feticismo, ci rimango sempre un po’ male quando lo vedo demonizzare o peggio ancora ridicolizzare ma mi rendo conto che il mio punto di vista, come sempre succede, è figlio della mia sola esperienza personale e non può essere compreso da tutti.
Stavolta però ho pensato di fare qualcosa di più, raccontare questo universo a un livello ancora più estremo e, se vogliamo, decisamente torbido.
Chiudere il cerchio sull’argomento sfidando la sensibilità di chi mi legge ma, come sempre, se questo gioco non vi piace l’uscita è a un clic da qui.
Le ho avute anche io le mie resistenze ma sono riuscita in qualche modo a oltrepassarle, scoprendo dinamiche che hanno semplicemente un modo tutto loro di godere della femminilità.
Ancora oggi, quando ad esempio mi ritrovo a comprare un paio di scarpe, mi tornano in mente quei discorsi e, se camminando per strada mi accorgo che un uomo mi guarda i piedi, io sorrido, in quel contatto fugace riconosco i codici di una lingua segreta, il cui scopo ultimo è quello di definire una certa idea di bellezza.
Complessa, sì, questo è certo, dipinta con contrasti di colore a volte davvero forti, che tendono allo sgradevole per meglio sorprendere le emozioni, spiazzarle e, in qualche modo, accenderle, in quella scintilla che si crea facendo scontrare il sacro con il profano, l’eleganza e la volgarità.
Se da una parte infatti la sera prima della mia interpretazione mi dedicai a una pedicure particolarmente rigorosa il mio regista, da par suo, si prese il diritto di scegliere le scarpe che avrei indossato e, soprattutto, mi impose di calzarle tutto il giorno, per tutte le ore che precedettero il nostro incontro.
Doveva esserci vita in quelle scarpe e non una profumata finzione, doveva esserci l’essenza di una donna colta nella sua più naturale interezza.
Se mi vergogno a rivelare tutto questo? No, adesso no, anzi mi piace, se qualcuno che passa da queste parti conosce quel linguaggio allora non potrà fare altro che apprezzare.
Fu divertente quella mattina presentarsi in ufficio con quei tacchi alti e sottili, le mie colleghe apprezzarono e i miei colleghi guardarono, tutti evidentemente ignari del vero motivo per cui li avessi indossati.
«Che belle quelle scarpe, hai per caso un appuntamento stasera?».
“In realtà le ho messe perché devo fare la parte di Sabrina Ferilli”.
Miliardi di segreti corrono fra le persone, vanno a nascondersi nei posti più impensati, talvolta ci ritroviamo a indossare un’identità nascosta che nessuno immaginerebbe mai, siamo tutti un po’ Batman, in sostanza.
Le chiavi di quella casa sconosciuta che sarebbe stata la “mia” per poche ore mi furono consegnate giorni prima; ci andai subito dopo il lavoro portando con me una grande busta contenente tutto il necessario. Anche solo cambiarmi, lì dentro, mi diede una certa euforia, un capo dopo l’altro mi trasformai in quell’attrice celebre, amata e conosciuta da tutti, pronta a interpretare sé stessa per il suo ammiratore più folle.
Ma il più grande autore di storie resta il destino, maestro di penna e orditore di trame incredibili, il suo orologio batte un tempo impossibile da decifrare eppure, quando c’è da stravolgere una vita, arriva sempre puntuale. Inutilmente proviamo tutti ad imitarlo, limitandoci alla luce fioca di qualche colpo ben assestato.
Così, mentre io attendevo ripassando la mia parte, il mio regista pedalava per la città, lanciato verso il nostro gioco, così ebbro di desiderio da non accorgersi di quel grande SUV scuro, che avanzando in punta di penna, ad un tratto, gli si parò davanti.
Divenne tutto buio ma non certo in nome di un dramma, per quanto, nel momento esatto in cui riaprì gli occhi, ebbe per un attimo l’impressione di essere finito in paradiso.
Le palpebre si sfinirono battendo incredule, mettendo a fuoco un’immagine che per uno come lui doveva essere davvero irresistibile.
Un paio di décolleté scure, disposte l’una sull’altra e a loro volta poggiate sulla superficie specchiata di un tavolino da salotto, così che sembrarono per un attimo quattro, calzature eleganti a dondolare al tempo della distrazione.
Custodie in vernice lucida per gioielli in carne e ossa, la pelle tesa, liscia, nascosta quanto basta e quanto devasta, contratta dal movimento nervoso delle dita.
Il resto del quadro sembrò una naturale conseguenza di quel primo prezioso frammento, la linea delle gambe, la sua traiettoria che passa morbidamente dalle caviglie, ai polpacci, si ferma un attimo sulle ginocchia e poi si gonfia, con prepotenza, nelle cosce disegnate dai pantaloni aderenti. Poco più su, e quindi praticamente in ogni cosa, il resto di una donna, comodamente seduta in poltrona, a nascondersi il volto con le pagine patinate dell’ultimo numero di Novella 2000.
L’ombra del sospetto gonfiò il cuore del ragazzo, non può essere, no, non è possibile che sia davvero Lei, portata lì da un maestro di penna che, a volte, sa anche essere infinitamente buono.
Ti impegni così tanto per ricostruire un sogno e la vita ti premia, con un regalo incredibilmente reale. È proprio Lei?
Quasi per rispondergli la donna abbassò la rivista, svelando il proprio sguardo, le proprie labbra, aprendole poi per fugare qualsiasi dubbio:
«Te sei svejato, finalmente».
Lui riuscì solo a deglutire, con occhi sbarrati e increduli, incapace di articolare una singola parola.
«Guarda che faccia che c’hai, te senti bene?».
Il piccolo uomo, quasi minuscolo di fronte alla grande attrice si limitò ad annuire, lo sguardo basso, non certo di imbarazzo o almeno non solo, schiavo delle sue emozioni non riusciva a non fare continuamente il percorso alla rovescia. Gli occhi accesi, il collo che scivola dentro la camicetta scura, il seno prorompente e poi, dai fianchi in giù, di nuovo quell’incanto di curve che termina dentro le scarpe, perennemente inquiete.
«Ma sei matto a corre così co’ quella bicicletta? Per poco non t’ammazzo!».
Che è un po’ quello che stava comunque accadendo, un vero e proprio delitto perfetto, lento e inesorabile. Quelle gambe, le caviglie nude, la pelle lucida e ambrata…
«Si può sapé perché correvi così forte? Dove stavi andando?».
Come spiegarglielo? Che parole usare? Come raccontare che ritto sui pedali era diretto verso il gioco di un’imitazione e che, un qualsiasi maldestro incidente, lo aveva infine catapultato dentro a un’incredibile realtà.
Meglio tacere, meglio continuare a disperarsi in assoluto silenzio.
«Sei così bianco che me pari un lenzuolo, mo ce penso io a te!».
Disse poi lei sorridendo, con fare quasi materno, lui la osservò alzarsi e ancheggiare verso quella che doveva essere una cucina, visto il grande vassoio con cui infine la vide tornare. Pochi passi a ritmo, chiodi a spillo che risuonarono dentro le orecchie di quell’ospite silenzioso e imbambolato.
«Guarda qua – continuò lei sedendosi proprio di fianco a lui, sul divano – è tutta robba buona questa!».
Uno spuntino, se lo si può definire così, una tale quantità di salumi e prodotti caseari che avrebbe potuto fare tranquillamente da cena a quattro persone. Forse per fargli riprendere forze o, semplicemente, per dimostrarsi ospitale, come una vera e propria padrona di casa.
Di colpo insistente, di fronte a quel ragazzo ancora sotto l’effetto di un qualche shock, lei prese una fetta di salame fra le dita, la avvicinò a quella bocca dischiusa «Assaggia, dai!» per poi infilarcela dentro quasi a forza, lasciando che, per un solo istante, le labbra e le unghie si toccassero, condividendo il sapore e la saliva.
Si mise a ridere poi, divertita da quel nuovo gioco «Allora, com’è?» gli chiese guardandolo masticare. «Muono» rispose infine lui, con fare da ragazzino impacciato.
Poi avvenne.
Più vero di qualsiasi fantasia, più autentico di ogni possibile film, lei gli consegnò il vassoio e prese a lamentarsi, qualcosa le dava fastidio, una costrizione di cui, ora, sentiva il bisogno impellente di liberarsi.
Il rumore dei tacchi che si arrendono al pavimento, quello del divano che si contrae per il movimento delle gambe, che si sollevano e vanno beatamente a posizionarsi su quelle del suo ospite.
«Mangia, dai, così te riprendi!».
Per lui però, divenne improvvisamente molto più difficile, riprendersi. Passi la vita a inseguire un’ossessione, rendi sacra una donna idealizzando una parte del suo corpo, la osservi in ogni film e in ogni programma tv, con gli occhi perennemente puntati lì in basso, fremendo, per ogni volta in cui l’esigenza di scena le fa togliere le scarpe e, poi, d’improvviso, non solo si sfila i tacchi davanti a te ma i suoi preziosi gioielli te li poggia sulle gambe, mettendo in seria difficoltà il tuo apparato cardio respiratorio e, secondo me, solo chi non ha mai desiderato niente in vita sua può trovarlo ridicolo.
Il suo sguardo sembrò come ipnotizzato, lì, oltre tutto quel ben di dio di roba mangiare, se ne stavano comodamente adagiati quelli che lui riteneva fossero i piedi più belli del mondo. Le unghie laccate di nero, lunghe e accuratamente modellate, le linee raccolte a dare forma a una vera e propria opera d’arte, pelle lucida di sudore e di vita, respiro di femminilità e fremito d’animale, in una nuova esplosione di contrasti.
«Ma che stai a guardà?» lo sorprese lei, resasi conto che il suo ospite non stava più mangiando.
«Niente – si schermì lui, provando a guardare altrove – niente, mi scusi..».
La padrona di casa tornò a ridere, per niente ingenua, abituata a intercettare il desiderio di ogni uomo che le si parava davanti.
«T’ho capito io a te, mi sa che tu, sei proprio uno zozzone!».
Una pugnalata diritta nella gola, ad azzerargli la salivazione, facendolo arrossire di vergogna, colto sul fatto e spogliato in un istante di tutti i suoi segreti.
«Mangia, dai» gli ordinò poi consapevole, con l’unico scopo di fargli abbassare di nuovo gli occhi, oltrepassare il vassoio e perdersi ad ammirarla, ancora.
Le mani che tremano afferrando una fetta di formaggio, lucida e profumata, la avvicinano alla bocca mescolando qualsiasi sensazione.
Diabolica la donna, prese a muovere le piccole dita, distendendo i propri nervi e inceppando quelli del suo ospite, esortandolo a gustare altre prelibatezze in un doppio senso continuo ed estenuante.
«Assaggia tutto che è tutta robba buona!» e i piedi si inarcarono, dolcissimi e maleducati, orgogliosi e sfrontati, liberi di farsi guardare e generare scompiglio.
«Prova questa!» disse lei a un certo punto, infilando l’indice in una forma di ricotta fresca, tornando a spingerglielo fra le labbra, lasciandoselo quasi succhiare, ridendo forte «Ammazza come magni ragazzì» improvvisamente sguaiata eppure sempre elegantissima, vai a capire come diamine fa a riuscirci sempre.
Ma il dito spinse troppo, la bocca mancò la presa e una piccola nuvola bianca di ricotta cadde quasi al rallentatore, finendo con l’annullare le distanze fra il sogno e la realtà, posandosi delicatamente sui piedi nudi della sua Sabrina Ferilli.
Ci fu un silenzio in quel momento, un momento di vero pathos cinematografico, forse un cuore si fermò ma l’altro, è certo, iniziò a battere un po’ più forte.
«Guarda che hai fatto!» lo rimproverò lei per niente arrabbiata, sollevando il piede sporco proprio vicino al suo volto stirato dallo sgomento e dall’ubriacatura dell’eccitazione, incredulo di essere protagonista di una scena tanto assurda.
«Scusi..» si limitò a dirle, vergognandosi di sé stesso e delle proprie perversioni, incapace di staccare gli occhi da lì con un unico folle pensiero in testa, un’idea di acquolina che cresce e di lingua che, inesorabilmente, ripulisce.
«C’avevo ragione – sussurrò lei – sei proprio uno zozzone tu – stirando il collo del piede, ruotandolo appena, distendendo tutte le dita, che se ci fosse stato un premio dedicato a una performance del genere lo avrebbe vinto sicuramente – e mo? Come famo?».
Domande maliziose che non cercavano di certo risposta, erano piuttosto delle vere e proprie provocazioni, dettate dall’istinto di chi sa fin troppo bene come colpire il proprio pubblico.
Lui si scoprì a tremare, perennemente sospeso sul bordo delle proprie voglie, mal giudicato per tutta la vita e incapace ad essere semplicemente sé stesso, la bocca appena aperta, golosa e affamata di un piacere inopportuno e per questo assolutamente letale.
Il piede ormai a un soffio dalle sue labbra, la nuvola bianca a sporcare la pelle abbronzata, un invito non dichiarato che sembrava davvero troppo assurdo per essere vero.
«Posso?» le chiese quasi balbettando e lei, che di certo non aveva bisogno di dire altro si limitò a ghignare, quasi diabolica, continuando a sgranchirsi con fare da vera maestra.
Che uno avrebbe anche potuto pensare chissà quante volte l’ha già fatto allora, per essere così perfetta in questo ruolo, chissà a quanti altri ragazzi silenziosi ha concesso questo privilegio.
Qualcuno avrebbe potuto chiederselo, certo, ma non lui, che emettendo un gemito disperato si ritrovò semplicemente ad aprire la bocca, lasciando che la sua linguaccia golosa andasse infine a sporcarsi, ripulendo il piede della sua regina.
La risata di lei si fece più grossa, roca, da vera matrona capitolina ecco, sì, sembrò proprio una Lupa, intenta a nutrire uno dei suoi cuccioli, dandogli zampate di parole col solo scopo di metterlo al suo posto.
«Sei proprio uno schifoso ragazzì» disse trattenendo a stento le risate, lasciando che lui continuasse a scivolare con la lingua sul suo piede, togliendo ricotta e depositando saliva, trafitto dall’evidenza di quella dichiarazione che definì in un colpo la sua identità, sì, avrebbe voluto risponderle, sono uno schifoso e godo nell’esserlo signora, mi farei calpestare, da lei, per esserlo ancora di più.
Non lo disse ma lei sembrò capire lo stesso, il piede glielo mise in faccia, la pianta sul naso a concedere tutta la propria essenza.
Il respiro del giovanotto divenne più grosso, riempiendo d’aria i polmoni e il cervello con gli odori, sentendosi quasi impazzire di felicità.
«Me fai troppo ride tu, ma che stai a fa’? M’annusi i piedi?».
Nessuna risposta, solo il movimento di una testa che annuisce per dire sì e per farsi meglio accarezzare.
Se il paradiso esiste davvero allora sarà un posto che ognuno si costruisce come vuole, in base alla propria idea di piacere, c’è gente che se ne sbatte altamente degli angeli che cantano fra le nuvole, per lui, ad esempio il premio eterno dovrà avere quel profumo lì, di femmina e di sudore, di pelle e di suola, una fragranza che sa di passo fiero, osservato e invidiato da tutti e ora dischiuso nella sua più feroce intimità in un privilegio che brucia e sembra magnifico.
«E de che sanno?».
Solo un uomo del genere avrebbe potuto quasi commuoversi a una domanda simile, annusando forte, lasciandosi umiliare da quelle risate, da quella confidenza improvvisamente sgarbata, di donna volgare e infinitamente terrena. Quanto lo eccitavano cose del genere, io lo so, lo capisco, anche a me fece uno strano effetto quando me ne parlò la prima volta ma aveva tutto un suo modo di giustificare le proprie pulsioni che non riuscirei mai a ripetere con lo stesso entusiasmo. Per lui quel contrasto aveva qualcosa di magico, la grande donna che gli concede il lusso della propria maleducazione, diventando in qualche modo più grande e più bella, padrona assoluta di tutta quella straziante danza di emozioni.
Annusava forte lui, infilando il naso fra le dita ancora unte di ricotta, l’aveva fatto anche con me, sapevo cosa gli piaceva ma il fatto di ritrovarsi improvvisamente al cospetto della donna dei suoi sogni lo portava a essere costantemente intimorito, arrossiva e annusava, più lei si mostrava sguaiata e più i pantaloni di lui si gonfiavano. Proprio come un bambino. Vai capire a che punto della sua vita gli era esplosa, dentro, questa bomba di perversione, con che occhi si era accorto la prima volta di essere schiavo di un mondo simile.
L’infanzia molto probabilmente non è il momento migliore per imparare le emozioni ma, è indubbio, che sia davvero il più potente.
«Ahó, ma mica me vorrai dì che me puzzano i piedi!».
Ecco, per una frase costruita in questo modo, per la squisita rozzezza con cui era stata pronunciata lui, ora, avrebbe potuto benissimo venirsi nelle mutande e io lo so, lo so fin troppo bene.
«No, signora no – piagnucolava il bimbo – non mi permetterei mai.. è la ricotta, sì, è l’odore della ricotta!».
«E a te, te piace la ricotta?» sibilò la donna, già proiettata verso un nuovo azzardo e un nuovo compiacimento, continuando ad accarezzargli il naso con le unghie, ad afferrarglielo con le dita, costringendolo all’unica risposta, valevole per tutti i sensi possibili.
«Tanto!».
Lampo di genio, prontezza dei riflessi di un’attrice mai stanca di stupire, gli tolse il vassoio dalle mani, lo poggiò sul piccolo tavolino, mosse di nuovo il corpo, lasciandolo orfano dei suoi giochi ma solo per qualche istante, giusto il tempo di infilarli a fondo nel bianco cremoso e tornare a offrirglieli con veemenza.
«E allora magnatela!».
Chissà se il pastore o il mastro casaro che avevano contribuito con il loro lavoro alla creazione di quella piccola piramide di ricotta avrebbero mai potuto immaginarne una demolizione simile.
“Ci infilerà i piedi la Ferilli, per poi farseli leccare da un giovane depravato”.
Chissà che faccia avrebbero fatto, chissà, se la loro sensibilità di uomini della terra avrebbe apprezzato quell’immagine tanto assurda, la grande donna che si sporca dei loro sforzi e in qualche modo li calpesta, esibisce il proprio corpo, li tiene sospesi a mezz’aria in un primo piano goloso e spietato.
Lo smalto nero a fare da contrasto, la pelle levigata, i nervi tesi all’offerta, il formaggio spumoso a colarle ovunque in un’istantanea di bellezza che di certo non appartiene a tutti, ma la cui forza dirompente è assolutamente innegabile.
“La Ferilli? Quella della televisione?".
“Proprio Lei!”.
E qui, gente così schietta e diretta avrebbe probabilmente commentato con una bestemmia tonante, forse impreparati ai mille modi in cui si può intendere il piacere avrebbero magari immaginato un uomo fortunato che, dopo aver terminato queste porcherie, se la sarebbe infine scopata, spargendo ricotta in ogni dove.
Mi spiace, ma qui nessuno scopa se non il cervello, che gira e non vuole smetterla, altro che riprendersi, questo è un mancamento perpetuo, i gesti si fecero meccanici, la bocca ridicola si spalancò iniziando a respirare sogno annaspando vergogna e quella lingua, avida, sembrò di colpo molto più grande mentre danzava sui piedi della donna celebre, amata e desiderata da tutti.
«Ma quanto sei caruccio ragazzì».
Commentò lei, sapeva quanto la sua voce graffiata fosse parte dello spettacolo, lo guardò mordendosi le labbra, mentre lui continuava a gustarsela, mescolando sapori e odori, in un’estasi selvatica, chissà da quanto tempo portava quelle bellissime scarpe, per ogni passo fiero e slanciato i piedi avevano dato il tempo all’eleganza, bagnandosi di sudore, acre e pungente, un cocktail brutale che a quel ragazzino maschio sembrò la cosa più buona del mondo.
Basta chiudere gli occhi e immaginarsela, ognuno ha la sua, una pietanza che fa sorridere il cuore per quanto è buona, è quello il sentimento, qualcosa che forse ha a che fare con l’infanzia come i piatti di nonna, il loro solo profumo ci fa sentire di colpo abbracciati, coccolati, compresi, liberi di essere semplicemente noi stessi.
Questo stava succedendo in quella casa elegante, un rituale blasfemo di comunione, anche se, ammetto, non ho mai visto nessuno aprire la bocca con la stessa gioia davanti al prete.
Carezza di lingua a ingoiare ricotta, lucidandole i talloni con la saliva, così che sembrarono brillare, induriti dai tacchi e dagli anni, sembrava quasi volesse ingoiarli fino a strozzarsi, per poi iniziare a percorrere le piante più e più volte, fino ad arrivare lassù, lì dove la sua mania divenne arte.
Schiuse baci succhiando le dita, una alla volta fino a dieci e poi di nuovo all’indietro, sembravano tanti piccoli dolci pompini e non c’è dubbio che un uomo sappia bene come si fanno, anche se mai vorrà ammetterlo.
La padrona di casa prese allora a spingerglieli in bocca, cinque dita tutte insieme, deformandogli le labbra e quasi soffocandolo, non per dominazione che davvero non ne aveva bisogno ma per semplice diletto, un gioco di piacere per un giocattolo umano che di certo non sembrò sgradire il trattamento.
«Ma quanto te piaciono, eh?».
«Tantiffimo» rispose il bambolotto all’apice di sé stesso, sbagliato fra i giusti eppure perfetto per quel suo personale universo, ansimante a riempirsi la bocca di gusto salato e di ricotta, ormai dispersa in ogni dove a rendergli buffa la faccia, a farlo sudare mentre la sua mano, riflesso d’automa, si nascose fra le gambe a torturare una turgida indecenza.
Lei se ne accorse ovviamente e mentre con un piede continuava a cercargli la gola con l’altro prese a schiaffeggiarlo dolcemente sulla faccia, così come si fa con un bambino colto a trastullarsi, che un po’ queste cose non si fanno «Sporcaccione che non sei altro – e un po’, invece, è sempre bello lasciarsi educare a una nuova forma di piacere – che stai a fa’ con quella mano, eh?».
Ma nessuno più avrebbe potuto fermarlo, non in quel momento, non in tutti gli altri in cui avrebbe portato una donna ad assecondare le sue voglie, era come essere benedetta da un privilegio, lasciarsi andare in un abisso oscuro e sconosciuto, che senso aveva capirne il perché? Che a scopare son buoni tutti e c’è tutta una vita per farlo ma scoparsi la bocca di un maschio coi piedi, quello sì, capita ben poche volte.
Il film si consumò, bruciando fotogrammi rapidissimi, con la stessa velocità che aveva quella mano nel martoriare i pantaloni, fra gemiti sommessi e colpi di gola, sempre più forti e sempre più spenti finché, le dita rallentarono, come avessero perso la frenesia dei respiri e una grossa macchia apparve a dichiarare la fine di quell’assurda cavalcata.
Sgusciò fuori il piede ormai colante di saliva, si lasciò ammirare ancora, distendendosi, aprendo le dita e dichiarando tutto il proprio potere, era stato lui, insieme al suo gemello, a scatenare quel vortice di incomprensibile e autentica bellezza.
Forse è per questo che poi lui, il regista ragazzino, iniziò a sbaciucchiarlo, come per ringraziarlo, leccandolo poi ancora, insaziabile e già pronto per chissà quali altri spettacoli.
A ognuno degli attori il suo gran finale, la signora Ferilli si alzò in piedi quasi scocciata, liquidandolo con un’ultima battuta da applausi:
«Mo levate dal cazzo su, che io c’ho da fa!» e se ne andò, sparendo in chissà quale delle stanze di quella grande casa signorile, niente più voleva e niente più era previsto.
Quel che fece lui invece lo scoprii solo più tardi e di certo posso dire che non ne fui poi così sorpresa.
Mentre ancora ansimante provava finalmente a riprendersi, gli occhi gli caddero su un dettaglio prezioso, quelle scarpe eleganti abbandonate scomposte sul pavimento, ormai orfane della loro regina.
Le raccolse iniziando a infilarci il naso dentro, ancora ebbro di desiderio, come un giovanotto a cui il cuore si ricarica fin troppo velocemente.
Fu così che si alzò in piedi, guardandosi attorno, timoroso di vederla rientrare e coglierlo nel bel mezzo di una nuova porcheria.
Con mano tremante si abbassò la patta lurida dei calzoni, tirandone fuori il cazzo sporco e ancora sveglio.
L’abisso più grande e più insolente, un fuori copione acceso dal lampo di un genio schifoso, infilarlo dentro le décolleté, restituendole l’onta della penetrazione, fissare la porta senza più aria da respirare, agitare la mano scivolando sulla propria erezione, frenetico e impacciato, fino a riempirle le belle scarpe col proprio piacere, che per nulla al mondo mi avrebbe voluta sentire chiamare in un modo che non fosse sborra, immaginando già il momento in cui la sua bella attrice le avrebbe indossate di nuovo, chiudendo il cerchio in un nuovo affondo di bianco cremoso.
Con la scrittura puoi fare tutto, anche viaggiare nel tempo e rivivere un’emozione, così intima e bislacca che ora, a ripensarci, mi divido fra il sorriso e uno sbuffo di imbarazzo.
Ci furono altri giochi e altre scoperte fino al giorno in cui le nostre strade si divisero, nessuno aveva chiesto a quel rapporto qualcosa più di questo, non avverto il brivido dei rimorsi ma solo la consapevolezza di un’esperienza che, insieme a tante altre, mi ha reso ciò che sono ora.
Una sorta di regina del feticismo? No, assolutamente no, piuttosto una donna che ha sempre voglia di ascoltare e imparare, con gli occhi puntati verso il cielo leggero dei sogni, senza paura di allungarmi per coglierli.
Di certo però, con un bel paio di tacchi alti, alcuni di quei sogni diventano molto più vicini.
La mia voglia di raccontare storie arriva anche da lì, dall’incontro con un uomo stravagante, che di storie ne scriveva già e un milione di anni fa le pubblicava proprio su questo sito.
Gli dedico questo racconto, se pedala ancora da queste parti, lui, si riconoscerà.
No, non l’ho dimenticato, la dedica più sentita va ovviamente alla signora Sabrina Ferilli, in ogni parola di questo testo c’è anche un omaggio alla donna che è.
Cedo all’ingenuità di immaginarla qui, a leggere questo mio racconto, guidata da un destino che è capace anche di svolte simili.
La vedo, mentre scuote la testa col suo splendido sorriso, pronunciando qualcosa che suona più o meno così:
«Ma tu guarda quanto è matta, ‘sta zozzona!».
Se c’è una cosa che mi piace davvero tanto del gioco della scrittura è il fatto che sia una pratica narrativa estremamente libera. Con le parole puoi ricreare scenari fantastici, reali e irreali, puoi permetterti di girare il mondo, utilizzare mirabolanti effetti speciali o coinvolgere personaggi impossibili. Tutte cose per cui una produzione cinematografica dovrebbe spendere cifre astronomiche e che a me, invece, costano solo un po’ di tempo e pazienza.
[Ispirazione]
C’è solo un altro mondo che ha le stesse infinite possibilità, quello dei sogni. I sogni inconsapevoli, che arrivano a sorprenderti di notte, portandoti a vivere storie che forse – dicono – sono collegate alla tua vita reale ma che, spesso, sembrano davvero assurdi.
Poi ci sono gli altri sogni, quelli che creiamo coscientemente, quelli con cui diamo luce ai nostri desideri, li immaginiamo, li elaboriamo in ogni minimo dettaglio.
Ecco, con la scrittura si può fare anche questo: regalare a qualcuno un sogno che altrimenti sarebbe impossibile, o quantomeno molto improbabile.
[Esibizionismo]
Sono perfettamente consapevole che nelle mie storie ci sia (almeno) un tema ricorrente; anche quando il soggetto non riguarda specificatamente una certa pratica erotica il fascino dei piedi femminili spunta fuori spesso, tra una riga e l’altra. Ho sempre pensato che un giorno mi sarebbe piaciuto raccontarne il perché, parlare di chi e come mi ha introdotta in questo mondo. Scucire un po’ del mio solito riserbo per lasciar intravedere frammenti del mio vissuto.
Forse, il modo migliore per farlo, è quello di rivelare che raramente mi è capitato di conoscere un’altra persona con la stessa idea di “desiderio”. Una forma di piacere che arriva a essere culto, un’avventura di pochi mesi che ritengo fra le più istruttive (e divertenti) della mia vita. C’è più di un motivo che riconduce quell’esperienza a molte delle cose che scrivo.
[Devozione]
La febbre dell’ossessione ha tanti sintomi, probabilmente non tutti gradevoli ma, se si ha la fortuna di avere a che fare con qualcuno che sa raccontarti le sue passioni, non si può non rimanerne affascinati. Lui era esattamente così, un bambino alle prese con un gioco continuo da cui era impossibile non lasciarsi contagiare. Il suo modo elegantemente perverso di parlarne, la maniera estremamente brillante con cui esponeva i suoi desideri erano davvero formidabili.
Ne nacque un’intesa unica, che lo portò a liberarsi di tutte le sue fantasie, compresa quella più grande, sicuramente quella più assurda, l’adorazione spasmodica per i piedi di una donna celebre. Ne parlavamo come si parla di una qualche opera d’arte, mi riempiva di foto che io commentavo con divertita complicità, giocando e immaginando insieme un modo per dare forma a quei sogni.
[Imbarazzo]
Io, una volta, mi sono vestita da Sabrina Ferilli.
Ok, lo so, la precisazione è necessaria, dichiariamo subito forte e chiaro che io, con la bella Sabrina, c’entro poco o niente. Non sto dicendo di essere una sua sosia ma a volte, per realizzare una fantasia, bastano pochi efficaci accorgimenti.
Il vestito giusto, le scarpe adatte, una scollatura particolarmente generosa, una spazzolata ai capelli per renderli più “boccolosi”, accentuare un po’ il movimento delle anche e, soprattutto, insistere a parlare in un accento che non è il mio.
È facile immaginare come il risultato finale possa apparire come una vera e propria macchietta da cabaret ma per inscenare un gioco è davvero più che sufficiente. A pensarci bene è un po’ la stessa cosa che succede nella scrittura e anche se sono io a raccontare questa storia non ne sono però l’autrice, per una volta infatti mi sono ritrovata a essere semplicemente un personaggio.
Giocare con il proprio partner, chi è che non lo ha fatto? Limitarsi a indossare un abbigliamento succinto o spingersi oltre, fingersi altro da sé stessi per recitare una scenetta piccante; c’è chi si accontenta di interpretare una massaia che seduce un finto idraulico e chi si ritrova in casa un uomo vestito da Batman, per una volta attratto più dai piaceri del corpo che non dal bene dell’umanità.
A questa dinamica, abbastanza diffusa, vanno però aggiunte due considerazioni che possono aiutare a comprendere il livello dello spettacolo in questione.
La prima è che a me piace giocare e se davvero devo fare una cosa del genere la faccio nel migliore dei modi possibili. Ho frequentato una scuola di teatro per qualche anno e questo, oltre ad aver definito la voce che uso quando racconto o scrivo qualcosa, mi ha anche dato alcuni strumenti davvero utili a realizzare un’avventura simile.
È divertente ricordare ora tutto il lavoro che feci sul personaggio, lo studio delle foto reperite su internet, provando a imitarne il trucco davanti allo specchio, il modo di spingere con le labbra per darmi un tono da fatalona e ancora, mi ripeto, tutto l’impegno possibile nel reinventarmi l’uso delle consonanti e la lunghezza delle vocali in quella lingua splendida che è il romanesco.
La seconda e ancor più importante considerazione da fare è ribadire che a sceneggiare questo piccolo film c’era un vero e proprio maniaco! E non mi riferisco alle sue perversioni (o almeno non solo a quelle) parlo di tutta una preparazione puntigliosa e pianificata in ogni minimo dettaglio, dal “canovaccio” della storia alla location, una casa presa in prestito da un suo amico così che fosse assolutamente neutra per entrambi e dall’aspetto piuttosto “benestante”.
Poche settimane prima eravamo stati insieme al cinema per vedere “Tutta la vita davanti”, film di Paolo Virzì in cui la signora Ferilli interpreta, magistralmente, il ruolo di una fantastica cafona arricchita. Lui ne rimase ovviamente folgorato, l’idea gli arrivò proprio durante la visione; c’è una scena di quel film in cui il personaggio di Sabrina invita a casa sua una giovane impiegata e, ostentando una confidenza del tutto inopportuna, si toglie di colpo le scarpe poggiando i piedi nudi sulle gambe della sua ospite, visibilmente imbarazzata.
Me li ricordo quegli occhi che brillavano nel buio, la bocca spalancata di uno che si ritrova davanti a un’apparizione mistica e non solo per il gesto in sé ma anche e soprattutto per il contesto della scena e la caratterizzazione dei personaggi.
Non so per quanto ho riso poi, all’uscita, prendendolo in giro, ma so che lui, silenzioso e ancora assorto, stava già dando forma a una fantasia, neanche troppo assurda a ben pensarci.
Ricreare, insieme, una scena molto simile, dopo averla sapientemente riscritta in base alle sue personali esigenze.
Perché mai avrei dovuto dire di no? Magari a molti potrà sembrare una semplice sciocchezza ma quant’è bello, ogni tanto, concedersi il lusso frivolo della stupidità. Ancor più bello è condividerla con qualcuno con cui hai una forte intesa, come quando ti fai i selfie di coppia con un’amica e non riesci a resistere alla tentazione di esibirti in una smorfia, con tanto di linguaccia.
Leggera, così mi sentivo, lui era il regista e a me non restava che fare la prima attrice, presi a darmi delle arie, a diventare fin troppo esigente nel ricreare i dettagli della sceneggiata, calandomi gradualmente nel ruolo.
Così iniziammo a preparare il nostro show, studiammo la situazione e il pretesto che avrebbe dato vita al suo sogno, che a quel punto, ormai, era un po’ anche il mio. Si potrebbe quasi pensarla come un’opera a quattro mani se non fosse che, io, più che le mani, ci ho messo dentro altro.
Ho speso un sacco di parole, nella mia vita e nelle mie storie, a difendere il mondo del feticismo, ci rimango sempre un po’ male quando lo vedo demonizzare o peggio ancora ridicolizzare ma mi rendo conto che il mio punto di vista, come sempre succede, è figlio della mia sola esperienza personale e non può essere compreso da tutti.
Stavolta però ho pensato di fare qualcosa di più, raccontare questo universo a un livello ancora più estremo e, se vogliamo, decisamente torbido.
Chiudere il cerchio sull’argomento sfidando la sensibilità di chi mi legge ma, come sempre, se questo gioco non vi piace l’uscita è a un clic da qui.
Le ho avute anche io le mie resistenze ma sono riuscita in qualche modo a oltrepassarle, scoprendo dinamiche che hanno semplicemente un modo tutto loro di godere della femminilità.
Ancora oggi, quando ad esempio mi ritrovo a comprare un paio di scarpe, mi tornano in mente quei discorsi e, se camminando per strada mi accorgo che un uomo mi guarda i piedi, io sorrido, in quel contatto fugace riconosco i codici di una lingua segreta, il cui scopo ultimo è quello di definire una certa idea di bellezza.
Complessa, sì, questo è certo, dipinta con contrasti di colore a volte davvero forti, che tendono allo sgradevole per meglio sorprendere le emozioni, spiazzarle e, in qualche modo, accenderle, in quella scintilla che si crea facendo scontrare il sacro con il profano, l’eleganza e la volgarità.
Se da una parte infatti la sera prima della mia interpretazione mi dedicai a una pedicure particolarmente rigorosa il mio regista, da par suo, si prese il diritto di scegliere le scarpe che avrei indossato e, soprattutto, mi impose di calzarle tutto il giorno, per tutte le ore che precedettero il nostro incontro.
Doveva esserci vita in quelle scarpe e non una profumata finzione, doveva esserci l’essenza di una donna colta nella sua più naturale interezza.
Se mi vergogno a rivelare tutto questo? No, adesso no, anzi mi piace, se qualcuno che passa da queste parti conosce quel linguaggio allora non potrà fare altro che apprezzare.
Fu divertente quella mattina presentarsi in ufficio con quei tacchi alti e sottili, le mie colleghe apprezzarono e i miei colleghi guardarono, tutti evidentemente ignari del vero motivo per cui li avessi indossati.
«Che belle quelle scarpe, hai per caso un appuntamento stasera?».
“In realtà le ho messe perché devo fare la parte di Sabrina Ferilli”.
Miliardi di segreti corrono fra le persone, vanno a nascondersi nei posti più impensati, talvolta ci ritroviamo a indossare un’identità nascosta che nessuno immaginerebbe mai, siamo tutti un po’ Batman, in sostanza.
Le chiavi di quella casa sconosciuta che sarebbe stata la “mia” per poche ore mi furono consegnate giorni prima; ci andai subito dopo il lavoro portando con me una grande busta contenente tutto il necessario. Anche solo cambiarmi, lì dentro, mi diede una certa euforia, un capo dopo l’altro mi trasformai in quell’attrice celebre, amata e conosciuta da tutti, pronta a interpretare sé stessa per il suo ammiratore più folle.
Ma il più grande autore di storie resta il destino, maestro di penna e orditore di trame incredibili, il suo orologio batte un tempo impossibile da decifrare eppure, quando c’è da stravolgere una vita, arriva sempre puntuale. Inutilmente proviamo tutti ad imitarlo, limitandoci alla luce fioca di qualche colpo ben assestato.
Così, mentre io attendevo ripassando la mia parte, il mio regista pedalava per la città, lanciato verso il nostro gioco, così ebbro di desiderio da non accorgersi di quel grande SUV scuro, che avanzando in punta di penna, ad un tratto, gli si parò davanti.
Divenne tutto buio ma non certo in nome di un dramma, per quanto, nel momento esatto in cui riaprì gli occhi, ebbe per un attimo l’impressione di essere finito in paradiso.
Le palpebre si sfinirono battendo incredule, mettendo a fuoco un’immagine che per uno come lui doveva essere davvero irresistibile.
Un paio di décolleté scure, disposte l’una sull’altra e a loro volta poggiate sulla superficie specchiata di un tavolino da salotto, così che sembrarono per un attimo quattro, calzature eleganti a dondolare al tempo della distrazione.
Custodie in vernice lucida per gioielli in carne e ossa, la pelle tesa, liscia, nascosta quanto basta e quanto devasta, contratta dal movimento nervoso delle dita.
Il resto del quadro sembrò una naturale conseguenza di quel primo prezioso frammento, la linea delle gambe, la sua traiettoria che passa morbidamente dalle caviglie, ai polpacci, si ferma un attimo sulle ginocchia e poi si gonfia, con prepotenza, nelle cosce disegnate dai pantaloni aderenti. Poco più su, e quindi praticamente in ogni cosa, il resto di una donna, comodamente seduta in poltrona, a nascondersi il volto con le pagine patinate dell’ultimo numero di Novella 2000.
L’ombra del sospetto gonfiò il cuore del ragazzo, non può essere, no, non è possibile che sia davvero Lei, portata lì da un maestro di penna che, a volte, sa anche essere infinitamente buono.
Ti impegni così tanto per ricostruire un sogno e la vita ti premia, con un regalo incredibilmente reale. È proprio Lei?
Quasi per rispondergli la donna abbassò la rivista, svelando il proprio sguardo, le proprie labbra, aprendole poi per fugare qualsiasi dubbio:
«Te sei svejato, finalmente».
Lui riuscì solo a deglutire, con occhi sbarrati e increduli, incapace di articolare una singola parola.
«Guarda che faccia che c’hai, te senti bene?».
Il piccolo uomo, quasi minuscolo di fronte alla grande attrice si limitò ad annuire, lo sguardo basso, non certo di imbarazzo o almeno non solo, schiavo delle sue emozioni non riusciva a non fare continuamente il percorso alla rovescia. Gli occhi accesi, il collo che scivola dentro la camicetta scura, il seno prorompente e poi, dai fianchi in giù, di nuovo quell’incanto di curve che termina dentro le scarpe, perennemente inquiete.
«Ma sei matto a corre così co’ quella bicicletta? Per poco non t’ammazzo!».
Che è un po’ quello che stava comunque accadendo, un vero e proprio delitto perfetto, lento e inesorabile. Quelle gambe, le caviglie nude, la pelle lucida e ambrata…
«Si può sapé perché correvi così forte? Dove stavi andando?».
Come spiegarglielo? Che parole usare? Come raccontare che ritto sui pedali era diretto verso il gioco di un’imitazione e che, un qualsiasi maldestro incidente, lo aveva infine catapultato dentro a un’incredibile realtà.
Meglio tacere, meglio continuare a disperarsi in assoluto silenzio.
«Sei così bianco che me pari un lenzuolo, mo ce penso io a te!».
Disse poi lei sorridendo, con fare quasi materno, lui la osservò alzarsi e ancheggiare verso quella che doveva essere una cucina, visto il grande vassoio con cui infine la vide tornare. Pochi passi a ritmo, chiodi a spillo che risuonarono dentro le orecchie di quell’ospite silenzioso e imbambolato.
«Guarda qua – continuò lei sedendosi proprio di fianco a lui, sul divano – è tutta robba buona questa!».
Uno spuntino, se lo si può definire così, una tale quantità di salumi e prodotti caseari che avrebbe potuto fare tranquillamente da cena a quattro persone. Forse per fargli riprendere forze o, semplicemente, per dimostrarsi ospitale, come una vera e propria padrona di casa.
Di colpo insistente, di fronte a quel ragazzo ancora sotto l’effetto di un qualche shock, lei prese una fetta di salame fra le dita, la avvicinò a quella bocca dischiusa «Assaggia, dai!» per poi infilarcela dentro quasi a forza, lasciando che, per un solo istante, le labbra e le unghie si toccassero, condividendo il sapore e la saliva.
Si mise a ridere poi, divertita da quel nuovo gioco «Allora, com’è?» gli chiese guardandolo masticare. «Muono» rispose infine lui, con fare da ragazzino impacciato.
Poi avvenne.
Più vero di qualsiasi fantasia, più autentico di ogni possibile film, lei gli consegnò il vassoio e prese a lamentarsi, qualcosa le dava fastidio, una costrizione di cui, ora, sentiva il bisogno impellente di liberarsi.
Il rumore dei tacchi che si arrendono al pavimento, quello del divano che si contrae per il movimento delle gambe, che si sollevano e vanno beatamente a posizionarsi su quelle del suo ospite.
«Mangia, dai, così te riprendi!».
Per lui però, divenne improvvisamente molto più difficile, riprendersi. Passi la vita a inseguire un’ossessione, rendi sacra una donna idealizzando una parte del suo corpo, la osservi in ogni film e in ogni programma tv, con gli occhi perennemente puntati lì in basso, fremendo, per ogni volta in cui l’esigenza di scena le fa togliere le scarpe e, poi, d’improvviso, non solo si sfila i tacchi davanti a te ma i suoi preziosi gioielli te li poggia sulle gambe, mettendo in seria difficoltà il tuo apparato cardio respiratorio e, secondo me, solo chi non ha mai desiderato niente in vita sua può trovarlo ridicolo.
Il suo sguardo sembrò come ipnotizzato, lì, oltre tutto quel ben di dio di roba mangiare, se ne stavano comodamente adagiati quelli che lui riteneva fossero i piedi più belli del mondo. Le unghie laccate di nero, lunghe e accuratamente modellate, le linee raccolte a dare forma a una vera e propria opera d’arte, pelle lucida di sudore e di vita, respiro di femminilità e fremito d’animale, in una nuova esplosione di contrasti.
«Ma che stai a guardà?» lo sorprese lei, resasi conto che il suo ospite non stava più mangiando.
«Niente – si schermì lui, provando a guardare altrove – niente, mi scusi..».
La padrona di casa tornò a ridere, per niente ingenua, abituata a intercettare il desiderio di ogni uomo che le si parava davanti.
«T’ho capito io a te, mi sa che tu, sei proprio uno zozzone!».
Una pugnalata diritta nella gola, ad azzerargli la salivazione, facendolo arrossire di vergogna, colto sul fatto e spogliato in un istante di tutti i suoi segreti.
«Mangia, dai» gli ordinò poi consapevole, con l’unico scopo di fargli abbassare di nuovo gli occhi, oltrepassare il vassoio e perdersi ad ammirarla, ancora.
Le mani che tremano afferrando una fetta di formaggio, lucida e profumata, la avvicinano alla bocca mescolando qualsiasi sensazione.
Diabolica la donna, prese a muovere le piccole dita, distendendo i propri nervi e inceppando quelli del suo ospite, esortandolo a gustare altre prelibatezze in un doppio senso continuo ed estenuante.
«Assaggia tutto che è tutta robba buona!» e i piedi si inarcarono, dolcissimi e maleducati, orgogliosi e sfrontati, liberi di farsi guardare e generare scompiglio.
«Prova questa!» disse lei a un certo punto, infilando l’indice in una forma di ricotta fresca, tornando a spingerglielo fra le labbra, lasciandoselo quasi succhiare, ridendo forte «Ammazza come magni ragazzì» improvvisamente sguaiata eppure sempre elegantissima, vai a capire come diamine fa a riuscirci sempre.
Ma il dito spinse troppo, la bocca mancò la presa e una piccola nuvola bianca di ricotta cadde quasi al rallentatore, finendo con l’annullare le distanze fra il sogno e la realtà, posandosi delicatamente sui piedi nudi della sua Sabrina Ferilli.
Ci fu un silenzio in quel momento, un momento di vero pathos cinematografico, forse un cuore si fermò ma l’altro, è certo, iniziò a battere un po’ più forte.
«Guarda che hai fatto!» lo rimproverò lei per niente arrabbiata, sollevando il piede sporco proprio vicino al suo volto stirato dallo sgomento e dall’ubriacatura dell’eccitazione, incredulo di essere protagonista di una scena tanto assurda.
«Scusi..» si limitò a dirle, vergognandosi di sé stesso e delle proprie perversioni, incapace di staccare gli occhi da lì con un unico folle pensiero in testa, un’idea di acquolina che cresce e di lingua che, inesorabilmente, ripulisce.
«C’avevo ragione – sussurrò lei – sei proprio uno zozzone tu – stirando il collo del piede, ruotandolo appena, distendendo tutte le dita, che se ci fosse stato un premio dedicato a una performance del genere lo avrebbe vinto sicuramente – e mo? Come famo?».
Domande maliziose che non cercavano di certo risposta, erano piuttosto delle vere e proprie provocazioni, dettate dall’istinto di chi sa fin troppo bene come colpire il proprio pubblico.
Lui si scoprì a tremare, perennemente sospeso sul bordo delle proprie voglie, mal giudicato per tutta la vita e incapace ad essere semplicemente sé stesso, la bocca appena aperta, golosa e affamata di un piacere inopportuno e per questo assolutamente letale.
Il piede ormai a un soffio dalle sue labbra, la nuvola bianca a sporcare la pelle abbronzata, un invito non dichiarato che sembrava davvero troppo assurdo per essere vero.
«Posso?» le chiese quasi balbettando e lei, che di certo non aveva bisogno di dire altro si limitò a ghignare, quasi diabolica, continuando a sgranchirsi con fare da vera maestra.
Che uno avrebbe anche potuto pensare chissà quante volte l’ha già fatto allora, per essere così perfetta in questo ruolo, chissà a quanti altri ragazzi silenziosi ha concesso questo privilegio.
Qualcuno avrebbe potuto chiederselo, certo, ma non lui, che emettendo un gemito disperato si ritrovò semplicemente ad aprire la bocca, lasciando che la sua linguaccia golosa andasse infine a sporcarsi, ripulendo il piede della sua regina.
La risata di lei si fece più grossa, roca, da vera matrona capitolina ecco, sì, sembrò proprio una Lupa, intenta a nutrire uno dei suoi cuccioli, dandogli zampate di parole col solo scopo di metterlo al suo posto.
«Sei proprio uno schifoso ragazzì» disse trattenendo a stento le risate, lasciando che lui continuasse a scivolare con la lingua sul suo piede, togliendo ricotta e depositando saliva, trafitto dall’evidenza di quella dichiarazione che definì in un colpo la sua identità, sì, avrebbe voluto risponderle, sono uno schifoso e godo nell’esserlo signora, mi farei calpestare, da lei, per esserlo ancora di più.
Non lo disse ma lei sembrò capire lo stesso, il piede glielo mise in faccia, la pianta sul naso a concedere tutta la propria essenza.
Il respiro del giovanotto divenne più grosso, riempiendo d’aria i polmoni e il cervello con gli odori, sentendosi quasi impazzire di felicità.
«Me fai troppo ride tu, ma che stai a fa’? M’annusi i piedi?».
Nessuna risposta, solo il movimento di una testa che annuisce per dire sì e per farsi meglio accarezzare.
Se il paradiso esiste davvero allora sarà un posto che ognuno si costruisce come vuole, in base alla propria idea di piacere, c’è gente che se ne sbatte altamente degli angeli che cantano fra le nuvole, per lui, ad esempio il premio eterno dovrà avere quel profumo lì, di femmina e di sudore, di pelle e di suola, una fragranza che sa di passo fiero, osservato e invidiato da tutti e ora dischiuso nella sua più feroce intimità in un privilegio che brucia e sembra magnifico.
«E de che sanno?».
Solo un uomo del genere avrebbe potuto quasi commuoversi a una domanda simile, annusando forte, lasciandosi umiliare da quelle risate, da quella confidenza improvvisamente sgarbata, di donna volgare e infinitamente terrena. Quanto lo eccitavano cose del genere, io lo so, lo capisco, anche a me fece uno strano effetto quando me ne parlò la prima volta ma aveva tutto un suo modo di giustificare le proprie pulsioni che non riuscirei mai a ripetere con lo stesso entusiasmo. Per lui quel contrasto aveva qualcosa di magico, la grande donna che gli concede il lusso della propria maleducazione, diventando in qualche modo più grande e più bella, padrona assoluta di tutta quella straziante danza di emozioni.
Annusava forte lui, infilando il naso fra le dita ancora unte di ricotta, l’aveva fatto anche con me, sapevo cosa gli piaceva ma il fatto di ritrovarsi improvvisamente al cospetto della donna dei suoi sogni lo portava a essere costantemente intimorito, arrossiva e annusava, più lei si mostrava sguaiata e più i pantaloni di lui si gonfiavano. Proprio come un bambino. Vai capire a che punto della sua vita gli era esplosa, dentro, questa bomba di perversione, con che occhi si era accorto la prima volta di essere schiavo di un mondo simile.
L’infanzia molto probabilmente non è il momento migliore per imparare le emozioni ma, è indubbio, che sia davvero il più potente.
«Ahó, ma mica me vorrai dì che me puzzano i piedi!».
Ecco, per una frase costruita in questo modo, per la squisita rozzezza con cui era stata pronunciata lui, ora, avrebbe potuto benissimo venirsi nelle mutande e io lo so, lo so fin troppo bene.
«No, signora no – piagnucolava il bimbo – non mi permetterei mai.. è la ricotta, sì, è l’odore della ricotta!».
«E a te, te piace la ricotta?» sibilò la donna, già proiettata verso un nuovo azzardo e un nuovo compiacimento, continuando ad accarezzargli il naso con le unghie, ad afferrarglielo con le dita, costringendolo all’unica risposta, valevole per tutti i sensi possibili.
«Tanto!».
Lampo di genio, prontezza dei riflessi di un’attrice mai stanca di stupire, gli tolse il vassoio dalle mani, lo poggiò sul piccolo tavolino, mosse di nuovo il corpo, lasciandolo orfano dei suoi giochi ma solo per qualche istante, giusto il tempo di infilarli a fondo nel bianco cremoso e tornare a offrirglieli con veemenza.
«E allora magnatela!».
Chissà se il pastore o il mastro casaro che avevano contribuito con il loro lavoro alla creazione di quella piccola piramide di ricotta avrebbero mai potuto immaginarne una demolizione simile.
“Ci infilerà i piedi la Ferilli, per poi farseli leccare da un giovane depravato”.
Chissà che faccia avrebbero fatto, chissà, se la loro sensibilità di uomini della terra avrebbe apprezzato quell’immagine tanto assurda, la grande donna che si sporca dei loro sforzi e in qualche modo li calpesta, esibisce il proprio corpo, li tiene sospesi a mezz’aria in un primo piano goloso e spietato.
Lo smalto nero a fare da contrasto, la pelle levigata, i nervi tesi all’offerta, il formaggio spumoso a colarle ovunque in un’istantanea di bellezza che di certo non appartiene a tutti, ma la cui forza dirompente è assolutamente innegabile.
“La Ferilli? Quella della televisione?".
“Proprio Lei!”.
E qui, gente così schietta e diretta avrebbe probabilmente commentato con una bestemmia tonante, forse impreparati ai mille modi in cui si può intendere il piacere avrebbero magari immaginato un uomo fortunato che, dopo aver terminato queste porcherie, se la sarebbe infine scopata, spargendo ricotta in ogni dove.
Mi spiace, ma qui nessuno scopa se non il cervello, che gira e non vuole smetterla, altro che riprendersi, questo è un mancamento perpetuo, i gesti si fecero meccanici, la bocca ridicola si spalancò iniziando a respirare sogno annaspando vergogna e quella lingua, avida, sembrò di colpo molto più grande mentre danzava sui piedi della donna celebre, amata e desiderata da tutti.
«Ma quanto sei caruccio ragazzì».
Commentò lei, sapeva quanto la sua voce graffiata fosse parte dello spettacolo, lo guardò mordendosi le labbra, mentre lui continuava a gustarsela, mescolando sapori e odori, in un’estasi selvatica, chissà da quanto tempo portava quelle bellissime scarpe, per ogni passo fiero e slanciato i piedi avevano dato il tempo all’eleganza, bagnandosi di sudore, acre e pungente, un cocktail brutale che a quel ragazzino maschio sembrò la cosa più buona del mondo.
Basta chiudere gli occhi e immaginarsela, ognuno ha la sua, una pietanza che fa sorridere il cuore per quanto è buona, è quello il sentimento, qualcosa che forse ha a che fare con l’infanzia come i piatti di nonna, il loro solo profumo ci fa sentire di colpo abbracciati, coccolati, compresi, liberi di essere semplicemente noi stessi.
Questo stava succedendo in quella casa elegante, un rituale blasfemo di comunione, anche se, ammetto, non ho mai visto nessuno aprire la bocca con la stessa gioia davanti al prete.
Carezza di lingua a ingoiare ricotta, lucidandole i talloni con la saliva, così che sembrarono brillare, induriti dai tacchi e dagli anni, sembrava quasi volesse ingoiarli fino a strozzarsi, per poi iniziare a percorrere le piante più e più volte, fino ad arrivare lassù, lì dove la sua mania divenne arte.
Schiuse baci succhiando le dita, una alla volta fino a dieci e poi di nuovo all’indietro, sembravano tanti piccoli dolci pompini e non c’è dubbio che un uomo sappia bene come si fanno, anche se mai vorrà ammetterlo.
La padrona di casa prese allora a spingerglieli in bocca, cinque dita tutte insieme, deformandogli le labbra e quasi soffocandolo, non per dominazione che davvero non ne aveva bisogno ma per semplice diletto, un gioco di piacere per un giocattolo umano che di certo non sembrò sgradire il trattamento.
«Ma quanto te piaciono, eh?».
«Tantiffimo» rispose il bambolotto all’apice di sé stesso, sbagliato fra i giusti eppure perfetto per quel suo personale universo, ansimante a riempirsi la bocca di gusto salato e di ricotta, ormai dispersa in ogni dove a rendergli buffa la faccia, a farlo sudare mentre la sua mano, riflesso d’automa, si nascose fra le gambe a torturare una turgida indecenza.
Lei se ne accorse ovviamente e mentre con un piede continuava a cercargli la gola con l’altro prese a schiaffeggiarlo dolcemente sulla faccia, così come si fa con un bambino colto a trastullarsi, che un po’ queste cose non si fanno «Sporcaccione che non sei altro – e un po’, invece, è sempre bello lasciarsi educare a una nuova forma di piacere – che stai a fa’ con quella mano, eh?».
Ma nessuno più avrebbe potuto fermarlo, non in quel momento, non in tutti gli altri in cui avrebbe portato una donna ad assecondare le sue voglie, era come essere benedetta da un privilegio, lasciarsi andare in un abisso oscuro e sconosciuto, che senso aveva capirne il perché? Che a scopare son buoni tutti e c’è tutta una vita per farlo ma scoparsi la bocca di un maschio coi piedi, quello sì, capita ben poche volte.
Il film si consumò, bruciando fotogrammi rapidissimi, con la stessa velocità che aveva quella mano nel martoriare i pantaloni, fra gemiti sommessi e colpi di gola, sempre più forti e sempre più spenti finché, le dita rallentarono, come avessero perso la frenesia dei respiri e una grossa macchia apparve a dichiarare la fine di quell’assurda cavalcata.
Sgusciò fuori il piede ormai colante di saliva, si lasciò ammirare ancora, distendendosi, aprendo le dita e dichiarando tutto il proprio potere, era stato lui, insieme al suo gemello, a scatenare quel vortice di incomprensibile e autentica bellezza.
Forse è per questo che poi lui, il regista ragazzino, iniziò a sbaciucchiarlo, come per ringraziarlo, leccandolo poi ancora, insaziabile e già pronto per chissà quali altri spettacoli.
A ognuno degli attori il suo gran finale, la signora Ferilli si alzò in piedi quasi scocciata, liquidandolo con un’ultima battuta da applausi:
«Mo levate dal cazzo su, che io c’ho da fa!» e se ne andò, sparendo in chissà quale delle stanze di quella grande casa signorile, niente più voleva e niente più era previsto.
Quel che fece lui invece lo scoprii solo più tardi e di certo posso dire che non ne fui poi così sorpresa.
Mentre ancora ansimante provava finalmente a riprendersi, gli occhi gli caddero su un dettaglio prezioso, quelle scarpe eleganti abbandonate scomposte sul pavimento, ormai orfane della loro regina.
Le raccolse iniziando a infilarci il naso dentro, ancora ebbro di desiderio, come un giovanotto a cui il cuore si ricarica fin troppo velocemente.
Fu così che si alzò in piedi, guardandosi attorno, timoroso di vederla rientrare e coglierlo nel bel mezzo di una nuova porcheria.
Con mano tremante si abbassò la patta lurida dei calzoni, tirandone fuori il cazzo sporco e ancora sveglio.
L’abisso più grande e più insolente, un fuori copione acceso dal lampo di un genio schifoso, infilarlo dentro le décolleté, restituendole l’onta della penetrazione, fissare la porta senza più aria da respirare, agitare la mano scivolando sulla propria erezione, frenetico e impacciato, fino a riempirle le belle scarpe col proprio piacere, che per nulla al mondo mi avrebbe voluta sentire chiamare in un modo che non fosse sborra, immaginando già il momento in cui la sua bella attrice le avrebbe indossate di nuovo, chiudendo il cerchio in un nuovo affondo di bianco cremoso.
Con la scrittura puoi fare tutto, anche viaggiare nel tempo e rivivere un’emozione, così intima e bislacca che ora, a ripensarci, mi divido fra il sorriso e uno sbuffo di imbarazzo.
Ci furono altri giochi e altre scoperte fino al giorno in cui le nostre strade si divisero, nessuno aveva chiesto a quel rapporto qualcosa più di questo, non avverto il brivido dei rimorsi ma solo la consapevolezza di un’esperienza che, insieme a tante altre, mi ha reso ciò che sono ora.
Una sorta di regina del feticismo? No, assolutamente no, piuttosto una donna che ha sempre voglia di ascoltare e imparare, con gli occhi puntati verso il cielo leggero dei sogni, senza paura di allungarmi per coglierli.
Di certo però, con un bel paio di tacchi alti, alcuni di quei sogni diventano molto più vicini.
La mia voglia di raccontare storie arriva anche da lì, dall’incontro con un uomo stravagante, che di storie ne scriveva già e un milione di anni fa le pubblicava proprio su questo sito.
Gli dedico questo racconto, se pedala ancora da queste parti, lui, si riconoscerà.
No, non l’ho dimenticato, la dedica più sentita va ovviamente alla signora Sabrina Ferilli, in ogni parola di questo testo c’è anche un omaggio alla donna che è.
Cedo all’ingenuità di immaginarla qui, a leggere questo mio racconto, guidata da un destino che è capace anche di svolte simili.
La vedo, mentre scuote la testa col suo splendido sorriso, pronunciando qualcosa che suona più o meno così:
«Ma tu guarda quanto è matta, ‘sta zozzona!».
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