Le esperienze di Emilia 3

di
genere
etero

Eravamo sedute sul letto e per la prima volta nella nostra amicizia Lucia pendeva dalle mie labbra. Io, la prudente, la timida, quella che arrossisce se sente la parola "sesso" detta a voce alta, stavo raccontando a ruota libera ogni dettaglio di quello che era successo con Roberto. Niente filtri, niente censure. Come se dopo quella serata mi fossi finalmente tolta la pellicola protettiva con cui mi ero avvolta per anni.
Lucia ascoltava a bocca aperta, con un misto di eccitazione da gossip, orgoglio da migliore amica e un pizzico di sana invidia.
“Brutta zoccola che non sei altro!”
Scoppiò a ridere nel momento esatto in cui raccontai di come mi ero tolta il reggiseno davanti a lui.
Risi anche io, ma sotto sotto sentivo ancora quel brivido caldo lungo la schiena. Come se le mani di Roberto fossero ancora lì, anche se non mi aveva nemmeno toccata sul serio.
Era tutto nuovo. Una novità così potente da farmi girare la testa. Mi sentivo desiderabile e desiderata, e per una ragazza come me — abituata a sentirsi invisibile o, al massimo, “carina” — era un piccolo miracolo erotico.
Solo che insieme a questa nuova consapevolezza, come al solito, era arrivata anche la mia personale orchestra dell’ansia: sarò stata abbastanza? Avrò detto qualcosa di stupido? Forse avrei dovuto tenermi il reggiseno? Forse avrei dovuto togliermi tutto?
E poi la domanda più tremenda di tutte: e ora che ha visto cosa c’è sotto, gli interesserò ancora?
Lucia mi guardava con quella tenerezza da sorella maggiore non richiesta, quella che sa che puoi pure spiegare la strada, ma certe curve bisogna prenderle da soli.
“Emilia, fidati. Roberto non è uno stronzo. Lo hai visto. Ti tratta come una ragazza, non come un trofeo da aggiungere alla collezione. Non posso prometterti che sarà l’uomo della tua vita, ma se non ti butti con uno come lui, con chi vuoi buttarti?”
“Lo so, lo so.” Mi sdraiai sul letto, coprendomi la faccia con un cuscino. “È proprio questo il problema. Mi piace. E se mi butto e poi mi schianto?”
“Tesorina mia…” Lucia si piegò su di me, strappandomi il cuscino di dosso. “Magari avessi io la tua testa ogni tanto.”
Ridemmo insieme, come quando a 12 anni ci facevamo le trecce con la schiuma da barba di suo fratello.
“Dai, dormici sopra. Domani è l’ultima sera a Parigi. Fatti il regalo di godertela senza troppe menate.”
“Ok.” Annuii. Poi mi girai di scatto verso di lei. “Secondo te… dovrei scrivergli?”
“Tu cosa vuoi fare?”
“Voglio mandargli la mia prima foto sexy.”
Lo dissi come se stessi confessando un crimine e il rosso sulle guance parlava per me.
Lucia batté le mani. “Finalmente! Lo sapevo che c’era una zoccola che aspettava solo di venire fuori!”
Scoppiammo a ridere come sceme.
“Ma non esagerare, eh.” Mi ammonì, tornando seria un attimo. “La tua arma segreta è quel misto perfetto di sensualità e imbarazzo. Lo hai in pugno proprio per questo.”
“Grazie Lucia. Non so come farei senza di te.”
Mi alzai e andai in bagno. Guardai il mio riflesso nello specchio. Mi ero sempre vista come “Emilia carina”, quella normale, quella che sparisce quando entra una ragazza davvero sexy.
Eppure adesso c’ero io, spettinata, arrossata, con addosso solo quel perizoma che sembrava la bandiera di una rivoluzione personale. Mi spogliai del tutto, poi rimisi solo quel piccolo pezzo di pizzo e mi misi in posa.
Click.
La mia prima foto sexy. O almeno, speravo lo fosse. Non era volgare, ma nemmeno innocente. Il seno si vedeva — tanto ormai lui lo aveva già visto — e sotto c’ero io, solo con quel perizoma che prometteva più di quanto dicesse.
Non c’era il mio culo in primo piano (non volevo spingermi così tanto), ma era chiaro dove quella foto voleva andare a parare. Era la promessa di una Emilia nuova, una che voleva essere scoperta poco a poco. Una che prometteva erotismo con un sorriso timido.
Inspiro. Espiro. Invia.
E in quel momento capii che non stavo mandando solo una foto. Stavo aprendo la porta su di me, sulla donna che avevo sempre voluto essere e che forse, grazie a lui, stava finalmente venendo fuori.



L’ultimo giorno della gita scivolò via senza colpi di scena degni di nota. Era come se tutti fossimo sospesi in quella strana atmosfera da "si torna a casa", divisi tra la voglia di godersi fino all’ultimo secondo e la consapevolezza che il viaggio era ormai finito.
L’unico vero punto a favore della giornata? Io e Roberto.
Più vicini, più complici, più noi.
Anche se ufficialmente non eravamo niente, e anche se avevamo giurato (a noi stessi, perché agli altri non fregava nulla) di tenerci tutto per noi, era ormai evidente. Quel noi era chiaro come la Torre Eiffel in una foto da turista.
La scusa del “stiamo guardando le foto insieme” non aveva retto nemmeno un minuto. Nessuno credeva davvero che avessimo passato più di un’ora fuori dalla festa solo a fare scrolling nella galleria del telefono. Anzi, la leggenda metropolitana ormai narrava che fossimo finiti a letto insieme.
E pazienza. In fondo non mi importava granché. Quello che contava davvero era proteggere quel piccolo mondo che io e Roberto stavamo costruendo. Un mondo nuovo e fragile, che aveva appena imparato a camminare e che non volevo venisse calpestato dalle chiacchiere di corridoio.
Certo, non eravamo (ancora) una coppia. Non c’erano dichiarazioni ufficiali né cuori disegnati sui vetri dell’autobus. Ma chiunque ci guardasse capiva che tra noi c’era qualcosa. Quella specie di calamita invisibile che ti porta sempre a cercarti anche senza volerlo.
Le ultime escursioni passarono in automatico, tra foto di gruppo e “Ma chi ha preso i biglietti per il museo?”. Poi tutti in albergo a fare le valigie.
E per la sera? Il vuoto cosmico.
Nessuno aveva voglia di devastarsi, consapevoli che il giorno dopo ci aspettavano dieci ore di autobus e un autista col broncio.
Io e Lucia eravamo perfettamente allineate: serata tranquilla in camera, zero alcol e tanto, tantissimo gossip.
L’unica piccola fitta di dispiacere era per Roberto. Mi sarebbe piaciuto passare qualche altro momento con lui, ma decisi di non forzare le cose. C’era tempo, pensai. Una volta tornati a casa avremmo avuto tutto il tempo di dedicarci a noi. Qualsiasi cosa significasse.
Così, con un film a caso in sottofondo (di quelli che non guardi mai davvero ma servono per far sembrare la stanza meno vuota), passai la serata a tartassare Lucia di domande.
Cosa dovevo fare, cosa non dovevo fare, dove mettere le mani, come capire cosa gli piaceva, e soprattutto: come non sembrare una dodicenne alla prima cotta.
Mi rendevo conto che la mia mancanza di esperienza stava diventando quasi imbarazzante, ma Lucia aveva la pazienza di una santa e la lingua di una zia pettegola. Il mix perfetto.
Ogni tanto messaggiavo anche con Roberto.
Niente di erotico, niente foto piccanti, solo quella dolce quotidianità che iniziava a piacermi da morire. “Hai fatto la valigia?” “Io metto lo zaino dietro, tengo il posto a te e Lucia, così siamo vicini.” Quel tipo di cose semplici che però sanno di casa.
Verso le dieci, Lucia fu colpita da un’irrefrenabile voglia di Coca-Cola.
“Emi, vai tu alla macchinetta?”
“Uff, ma che palle, vai tu!”
“No, dai, è la tua occasione per sgranchirti.”
Era chiaro. Stava tramando qualcosa. Ma ero troppo pigra per oppormi. Raccolsi qualche spiccio e andai.
E fu lì che la vidi.
La mia fottuta disfatta.
Roberto.
Appoggiato al muro, braccia conserte, quello sguardo che ormai mi faceva venire caldo in posti che nemmeno sapevo di avere. Mi guardava mentre mi avvicinavo e io, in quello stesso istante, realizzai l’orrore.
Lucia.
La stronza.
Mi aveva mandata fuori conciata da casalinga disperata: capelli raccolti alla bell’e meglio, la felpa larga di mio fratello e i pantaloni del pigiama che erano stati fucsia ma dopo mille lavaggi avevano assunto un non-colore deprimente. Sembravo la testimonial della sciatteria.
Se le ultime due sere ero stata la dea della sensualità timida, adesso sembravo la sua cugina sfigata, quella che tiene il sacchetto dei pop corn alle feste.
Arrossii fino alla punta dei capelli, maledicendo Lucia in ogni lingua conosciuta e pure in quelle inventate. Ma ormai ero lì. Davanti a lui. E lo sguardo che mi lanciò era uno di quelli che ti fa sentire bella anche in tuta e ciabatte.
Forse, pensai, se anche conciata così mi guardava come se fossi la cosa più bella di Parigi… allora forse, per la prima volta nella mia vita, stavo davvero imparando a piacermi.
«Ciao.»
«Ciao.»
Era il “ciao” più carico di significati mai pronunciato davanti a una macchinetta di bibite. Avrei potuto svenire lì, tra la Coca-Cola e le patatine al formaggio.
«Adesso capisco perché ti affidi a Lucia. È la complice perfetta quando hai bisogno di ottenere qualcosa.»
Mi pizzicò la spalla con quella faccia da furbo che ormai mi faceva tremare le gambe.
«Scusami… non sono presentabile.»
«Sei bellissima, Emilia.»
Come faceva? Come? Ogni volta trovava la frase giusta, quella che non era stucchevole ma che mi faceva sentire davvero speciale. «Lo sei anche quando chiudo gli occhi. Lo sei anche quando non sei davanti a me. Lo sei sempre.»
E ovviamente io, che di default divento un semaforo umano, avvampai come se mi avesse appena confessato il suo amore sotto la pioggia con una colonna sonora anni ‘90 in sottofondo.
«Sì, beh, grazie… comunque Lucia salutala perché non credo tornerà da Parigi.»
Lui scoppiò a ridere, una risata sincera, calda, di quelle che ti fanno venire voglia di baciarlo.
«Come stai?»
«Bene, e tu?»
«Volevo vederti anche stasera. Anche solo per poco.»
«Anche io, Roberto.»
Mi prese la mano e mi tirò a sé, baciandomi.
Era un bacio dolce, sentito, delicato. Di quelli che ti fanno tremare le ginocchia e venire i brividi lungo la schiena. Le sue labbra erano morbide, calde, sapevano di voglia trattenuta e di parole non dette.
Nella mia testa, però, partì il cinema a luci rosse. Mi immaginavo già spingerlo contro le macchinette e fargli cose che nemmeno nei romanzi erotici che leggevo di nascosto. Peccato che nella realtà, di esperienza pratica ne avevo meno di zero e il rischio di farmi venire il torcicollo era altissimo.
Eppure lui, quello che tutti chiamavano il timido, sapeva perfettamente cosa fare e come farlo. Quel bacio aveva già alzato la temperatura corporea di almeno cinque gradi.
Più ci baciavamo, più la situazione sfuggiva di mano, diventando una salita vertiginosa verso la zona rossa, quella da bollino vietato ai minori.
«Ti prego Roberto… vorrei tanto passare un’altra serata come ieri, ma non qui.»
«Lo so, Emilia… volevo solo ricordarti che io ci sono. E che ti voglio mia.»
Mia. Così, con quella parola lì. Detta con una semplicità che mi spaccò il cuore in due e fece fibrillare ogni centimetro della mia pelle.
E mentre lo diceva, abbassò le mani e mi afferrò il sedere con quella sicurezza che mi fece sfuggire un piccolo urlo.
Lo guardai negli occhi cercando di attivare la mia sensualità innata, quella che nemmeno sapevo di avere fino a due giorni prima.
«Voglio essere tua, al più presto. Ma per ora, devi accontentarti del pensiero.»
Lo dissi talmente bene che lo sentii letteralmente svegliarsi nei pantaloni.
Segno che, nonostante le mie paranoie, il mio effetto su di lui era devastante.
Si avvicinò al mio orecchio e sussurrò, con una voce da brividi:
«Mi fai diventare duro ogni volta, Emilia.»
«Lo sento.» Ridacchiai, cercando di non svenire.
«Però adesso devo tornare da Lucia… prima che succeda l’irreparabile.»
Ci baciammo ancora, le sue mani ben piantate sul mio sedere e la mia voglia che continuava a crescere come un’onda anomala pronta a travolgermi.
Ci salutammo, a malincuore, ma con la certezza che ci sarebbe stato un seguito.
Tornai in camera con l’aria sognante e il sorriso più ebete della storia delle gite scolastiche.
«Era ora che tornassi!» esclamò Lucia, ovviamente già pronta a interrogarmi.
«E la mia Coca?»
«Cazzo! Me la sono dimenticata.»
«Lo immaginavo. Infatti ne avevo una di scorta.» Disse ridendo.
Poi si addolcì un attimo e aggiunse:
«Mi faceva troppa tenerezza… mi ha chiesto se potevo mandarti giù perché aveva una voglia matta di vederti. Non potevo dirgli di no.»
Lucia, la mia amica, la mia spacciatrice ufficiale di momenti magici.
«Ok, però la prossima volta almeno avvisami, mi hai mandato giù che sembravo una clochard.»
«Emi, te lo dico con affetto: sei clamorosa pure in pigiama e crocs. Stai tranquilla! ma dimmi l’hai toccato?»
«Ma va! Ti pare? Con mezzo albergo che poteva vedermi?»
«Emilia… è quello il bello!»
E scoppiammo a ridere come due sceme, sognando insieme le cose che avrei avuto paura di fare da sola.
Quel breve incontro con Roberto, oltre ad avermi mandato in orbita, mi aveva lasciato addosso una conseguenza decisamente difficile da ignorare. Un’altra maledizione a Lucia era d’obbligo.
«Non è giusto. Mi hai fatto venire voglia di andarlo a cercare.»
«E allora vai.»
«Lo sai che non posso.»
«Tu pensi sempre troppo alle conseguenze e troppo poco al tuo vero desiderio.»
«Forse… ma difficilmente riuscirai a cambiarmi.»
«Lo so, Emi.»
«Vado a farmi una doccia.»
«Brava, scarica la tensione.»
Lo disse con quel tono che lasciava pochi dubbi sul suo vero significato. Lucia era, senza ombra di dubbio, la mia porca coscienza.
Mi chiusi in bagno, mi spogliai e rimasi a fissarmi allo specchio. Era una cosa che non facevo mai: guardarmi davvero. Mi chiedevo cosa potesse piacere a Roberto di me. I miei capelli spettinati? Il mio seno non proprio da copertina? Il mio sedere, forse? Di quello ero particolarmente fiera, e non vedevo l’ora di mostrarlo a lui. E poi abbassai lo sguardo sui piedi, ancora incredula che fossero proprio loro a scatenare i suoi istinti più bassi.
Passai trenta minuti buoni sotto l’acqua calda. Trenta minuti di me stessa contro me stessa, con la mente piena di lui e delle sue mani audaci. Mi toccai pensando ai suoi sguardi, al suo respiro sul mio collo, ai suoi baci che iniziavano dolci e finivano spinti. Finì che venni con un gemito soffocato, mordendomi il labbro per non farmi sentire da Lucia.
Appena uscita, bagnata e soddisfatta, ebbi un’illuminazione. Un regalino per Roberto ci stava. Presi il telefono e scattai una foto allo specchio: questa volta ero completamente nuda, ma lo specchio appannato copriva strategicamente le parti “proibite”. Quel vedo-non-vedo era la mia firma da novellina dell’eros.
Aggiunsi una didascalia:
Se vedermi prima ti ha fatto quell’effetto, allora questa foto può aiutarti a riprendere fiato. Magari dopo ti dico esattamente dove vorrei il tuo sperma la prossima volta. 😘
Premetti invio con un mix di eccitazione e panico.
Lucia alzò lo sguardo dalla sua valigia.
«Gli hai mandato un’altra foto, vero?»
«No comment.»
«Brava Emilia, fai uscire la zoccola che è in te!»
Scoppiammo a ridere come due sceme.
Dopo pochi secondi, il telefono vibrò.
Emilia, tu mi fai impazzire… così mi fai solo venire voglia di venire a bussare alla tua porta.
Scoprii di avere talento, pensai soddisfatta.
«Lo so ;)» risposi, mordendomi un’unghia.
E mentre Lucia riprendeva a combattere con la zip della valigia, mi ricordai della promessa nel messaggio precedente.
«Senti Lucia… voglio mandargli una foto dei piedi.»
«Oddio santissimo.» Si fece il segno della croce. «Non fai prima ad andare direttamente da lui a fargli una sega?»
«No no, voglio farlo salire di giri piano piano. Quello sarà per una prossima volta»
Indossai il miglior pantaloncino che avevo in valigia, quello che lasciava scoperte le gambe chilometriche e mi misi a studiare la posa perfetta. Volevo sembrare casuale e disinvolta, ma con quella punta di malizia da “so esattamente cosa sto facendo”.
Dopo almeno 250 scatti (incluso uno con il dito medio a Lucia che rideva in sottofondo), finalmente trovai la foto giusta: seduta sul letto, gambe leggermente piegate, piedi che si sfioravano sul materasso. Era una foto apparentemente innocente, ma per Roberto sarebbe stata puro porno feticista.
Aggiunsi un messaggio che era una bomba a orologeria:
La prossima volta, se vuoi, puoi riempire i miei piedi con il tuo sperma… 💦
Inviai. E aspettai.
Lucia, sgranando gli occhi: «Ho creato un mostro.»
«Un mostro molto soddisfatto.»
«Dimmi cosa devo fare con te, Emilia.»
La sua risposta arrivò come una supplica sussurrata attraverso lo schermo, e io sapevo esattamente cosa stava succedendo dall’altra parte: era nelle mie mani. Letteralmente. Avevo il potere di decidere se farlo impazzire o lasciarlo lì, appeso al filo della mia voce (e delle mie foto). E io, ovviamente, scelsi la prima opzione.
«Voglio che ti tocchi per me. Come ho fatto io prima sotto la doccia pensando a te. Voglio che mi immagini nuda davanti a te.»
«Non desidero altro che averti qui, sotto di me, sopra di me… Dio solo sa cosa ti farei.»
«Ti stai toccando adesso, vero?»
«Sì, Emilia. Solo per te. Sono così eccitato che mi tremano le mani.»
Mi morsi il labbro, con la sensazione di avere un superpotere segreto.
«Bene. Allora continua. Voglio che vieni per me, voglio che ti svuoti immaginando che la prossima volta potrei essere io a finire il lavoro.»
Silenzio. Nessuna risposta. E sapevo benissimo perché. L’idea mi mandò una nuova scarica di piacere lungo la schiena. Mi sdraiai sul letto, sognante, con quel sorriso da gatta che ha appena fregato la panna.
Dopo quella che sembrava un’eternità, arrivò una foto. Giuro che per un secondo ebbi paura di aprirla.
«Dai aprila, Emilia!»
Lucia era già lì che si fregava le mani.
«Ok, però non sbirciare, che non si sa mai.»
«Ma per favore! Non c’è niente che non abbia già visto di Roberto, ricordi? C’ero anche io l’altra sera.»
Al ricordo della nostra prima sera mi venne da ridere. E poi aprii la foto.
Roberto era sdraiato sul letto, completamente nudo, il suo membro ancora duro tra le mani. La punta leggermente arrossata e sulla pancia un’abbondante colata del suo piacere, denso, caldo, spalmato come una firma d’autore. Una foto sincera, esplicita, senza fronzoli. La sua risposta perfetta alla mia provocazione.
Lucia restò senza parole per un attimo — un record. Forse un filo di imbarazzo l’aveva colta di sorpresa.
«Brava la mia Emilia. Stai uscendo dalla tua bolla meglio di quanto pensassi. Continua così e questo si innamora per davvero.»
Le sue parole mi colpirono in un punto che non ero ancora pronta ad affrontare. Amore? Non ci avevo nemmeno pensato. O meglio, lo avevo scacciato appena affiorava. Perché amore faceva paura. Più delle foto nude, più del sesso nei bagni di un istituto scolastico.
Eppure, dentro di me sapevo che quella gita, Parigi, la leggerezza di quei giorni stavano diventando lo sfondo perfetto per qualcosa di più. Qualcosa che non dipendeva solo dagli ormoni impazziti.
Ma prima di farmi prendere dai sentimentalismi, c’era ancora qualcosa da chiudere. O da aprire.
«Mi piace quello che vedo.» scrissi, «Mi dispiace solo non essere lì a gustarmi lo spettacolo dal vivo.»
«Tu sei fuori di testa, Emilia! In tre giorni mi hai svuotato come non mai.»
«A giudicare dalla foto, direi non abbastanza.» 😏 «Ma ci lavorerò meglio.»
«Non vedo l’ora.»
Ormai era tardi. Io e Lucia ci infilammo sotto le coperte, con la valigia quasi pronta e la stanchezza che premeva sulle palpebre. Quasi.
Perché prima di dormire, c’era ancora un’immagine incastrata nella mia mente: il suo cazzo, ancora duro, la sua mano, il suo piacere che portava il mio nome.
Mi toccai di nuovo, questa volta senza più vergogna, con le gambe aperte e le dita bagnate, pensando a lui, al suo sapore che ancora non conoscevo e che avrei voluto scoprire centimetro dopo centimetro.
Venni forte, tremando sotto le lenzuola, mordendomi il polso per non svegliare Lucia. E poi restai lì, con il cuore che batteva come dopo una corsa, mentre le stelle fuori dalla finestra brillavano su Parigi, testimoni silenziose della nascita di qualcosa che forse, solo forse, poteva chiamarsi amore.
scritto il
2025-03-05
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