Amanti
di
Anonima1981
genere
tradimenti
La mia tavola nella sala da pranzo era apparecchiata con cura “quasi maniacale” come mi diceva sempre mio marito prendendomi in giro. Ma sapevo che lui era contento, orgoglioso della mia abile ospitalità. In fondo una delle poche cose che avevo ereditato da mia madre con cui i rapporti erano ormai ai minimi termini dopo la scomparsa di papà. La capacità di organizzare una cena e far sentire bene i nostri ospiti.
Eravamo in cinque coppie, gli amici di sempre. Alcuni addirittura compagni di classe fin dai primi anni del liceo, il liceo Omero, sezione C. Anche mio marito e io eravamo stati compagni di classe, “fidanzatini” fin dai nostri 16 anni. Una frequentazione che ci aveva portati, quasi senza che ce ne accorgessimo, alla convivenza prima e poi al matrimonio e alle nostre tre figlie arrivate una dopo l’altra nel giro di pochi anni.
Una passione che si era andata lentamente affievolendo, nel torpore coniugale e nelle lente abitudini. Il sesso furibondo e quasi violento della nostra adolescenza e gioventù, quando sembrava che ci volessimo divorare a vicenda, aveva lasciato il posto a veloci amplessi nel silenzio e nel buio del letto matrimoniale. Carezze solo accennate, baci sfiorati. Le fantasie spente e annullate da consuetudini abusate, problemi piccoli e grandi, cene nervose.
Rimanevano oasi felici quelle cene tra amici, quelle poche occasioni in cui ci si ritrovava a tavola per chiacchiere e risate rinverdendo ricordi lontani, figure scomparse e amici dimenticati. Ma noi dieci eravamo sempre quelli, sembravamo non invecchiare perché in realtà invecchiavamo insieme e per questo sembravamo sempre uguali. Gli stessi giovani che si erano incontrati durante la vita, in classe o a una festa o durante le vacanze estive.
Uno di questi mi aveva fatto anche la corte al liceo, forse non me ne ero nemmeno accorta o forse non era il momento o forse non volevo accorgermene. Stefano, ora avvocato di successo e sposato con Giuliana che per lui aveva rinunciato a una carriera accademica. Da tempo mi ero accorta di avere sempre i suoi occhi addosso, in ogni occasione, e da tempo mi ero sorpresa a spiare i toni sgradevoli con cui spesso parlavano tra loro.
Poi, una sera, durante la cena in una casa che non era la mia, al momento del dolce, quando ormai numerose erano le bottiglie di vino vuote sul tavolo, improvviso ho sentito una scarpa che toccava la mia… un “piedino” come quelli di cui si parla nei romanzi o si vede nei film. Ho sposato il piede e guardato negli occhi Stefano che mi guardava con l’ombra di un sorriso stampato sul viso. L’ho interrogato in silenzio con gli occhi. Lui ha distolto lo sguardo e ha finito il vino che aveva nel suo bicchiere.
Mentre mio marito dormiva sono stata sveglia a lungo quella notte chiedendomi quanto quel breve contatto fosse stato voluto o casuale. Poi mi sono addormentata assolvendo Stefano e tacitando i miei dubbi.
Ma solo fino alla successiva cena, un mese dopo. Di nuovo quel piede, lui era seduto davanti a me. Ho spostato la gamba, mi ha inseguito. L’ho guardato negli occhi e questa volta è rimasto a fissarmi. Credo di essere diventata rossa per l’emozione e paralizzata per il timore che qualcuno si accorgesse di quanto stava succedendo, sua moglie o mio marito soprattutto. Ho lasciato il piede. Lui ha lasciato il suo. Mi sembrava impossibile che qualcuno si interessasse a me in quel modo. Quella sera, ai saluti, mi ha baciata sulla guancia come al solito, ma la sua mano è rimasta appoggiata sulla mia schiena a lungo. Ne ho sentito la presenza. Mi è piaciuto.
Il giorno dopo mi ha telefonato. Abbiamo parlato a lungo. Mi ha invitato a bere un caffè. Non sono riuscita a dire di no. Forse non volevo dire di no. Ci siamo incontrati, come fosse un caso, in un caffè elegante del centro, ci siamo seduti in una saletta in disparte. Mi ha detto che gli piacevo dai tempi di scuola ma che era arrivato “in ritardo”: ha detto proprio così, emozionandomi. Mi ha preso la mano tra le sue, non gliel’ho lasciata. Eravamo sposati, ma soprattutto eravamo sposati con persone che entrambi conoscevamo fin troppo bene. Non era il caso. Sono quasi scappata via abbandonandolo a quel tavolino. Sapevo che però non era finita, non volevo che finisse.
Una nuova cena. Alla distribuzione dei posti ho pregato, dentro di me, che lui si sedesse di fronte o vicino. Come se fosse un caso, anche se non lo era. Il Dio degli amanti mi ha esaudito. Sapevo che sarebbe successo. Stefano si è seduto al mio fianco, ho sentito un velo di sudore lungo la schiena. Quasi non mi ha rivolto la parola per tutta le cena, parlando con l’amica seduta di fronte e con mio marito all’altro capo del tavolo. Mi stavo chiedendo perché, cosa fosse successo, quando ho sentito la mano stringermi la gamba poco sopra il ginocchio, accarezzarmi la coscia senza guardare verso di me. Complice l’elegante tovaglia bianca di lino che quasi arrivava fino a terra. Ho riso, ho parlato con un tono di voce forse troppo alto. Mio marito mi ha guardato interrogandomi con gli occhi. Io ho appoggiato le dita su quella mano che mi stringeva e accarezzava e l’ho stretta in un muto patto.
La settimana dopo ci siamo incontrati di nuovo in quel caffè del centro. Sapevo che non dovevo. Il problema era che invece volevo. Volevo sentirmi di nuovo desiderata e amata come da tempo non mi sentivo. Questa volta ho lasciato che mi prendesse la mano, ho sentito con un brivido nuovo le sue dita che ne accarezzavano il dorso. Non ci sono state molte parole, ma sguardi profondi, intensi, quasi feroci. Occhi che mi dicevano il suo desiderio, occhi che gli dicevano la mia paura. Ci siamo dati appuntamento per il mercoledì successivo e mi ha salutato stringendomi a sé e dandomi un bacio sulle labbra, il primo. Ho chiuso gli occhi. Le labbra hanno risposto.
Poi sono stati giorni di parole al telefono in ore sicure e di messaggi notturni, di baci scritti e di abbracci descritti. Emozioni nascoste anche a me stessa, che non volevo ammettere che il confine era stato superato e il muro abbattuto. E’ giunto il mercoledì, atteso e temuto. Sono salita nella sua auto, mi ha stretto la mano e mi ha sorriso. Non ho chiesto dove andavamo: lo sapevo, lo immaginavo.
Era la mia prima volta in un motel. La paura di consegnare il mio documento, il timore che mi vedesse qualcuno che mi conosceva, il terrore che mio marito passasse da quelle parti e mi vedesse in auto con Stefano entrare in un posto dove tutti sanno cosa succede. Come si vede nei film, come si legge nei romanzi. Ricordo bene la mia prima emozione. Entrare in una stanza illuminata con una luce soffusa, le persiane chiuse, il letto al centro preparato con lenzuola pulite, il grande specchio sulla parete di fronte a inquadrare la scena che tutti i giorni si ripeteva uguale tra quelle mura con protagonisti sempre diversi.
Stavo sudando, non so se era emozione o paura o se, semplicemente, la stanza era troppo calda. Ricordo che mi sono detta che forse non era gradevole il mio odore e che magari avrei dovuto farmi una doccia prima. Prima? Prima di che? Poi lui mi ha fatto sedere sul bordo del letto, mi ha preso il viso tra le mani e mi ha baciata sulle labbra per pochi istanti. Mi ha guardata negli occhi e mi ha sussurrato “Non avere paura. Non succede nulla se non vuoi. Possiamo anche andare via subito. Usciamo, riprendo i documenti e ti porto a casa!”.
Ho chiuso gli occhi e l’ho baciato io. Le labbra dischiuse, la sua lingua e la mia, il suo sapore, il suo odore eccitato. Ho sentito le sue mani che slacciavano la camicetta di seta che avevo scelto con cura quella mattina. Mi è mancato il fiato quando la sua mano ha stretto il seno nudo, quando le dita hanno preso a giocare con il mio capezzolo duro. Era il primo uomo che lo faceva dopo il mio matrimonio. Gli ho chiesto di spegnere la piccola lampada sul comodino; siamo rimasti illuminati solo dalla fioca luce che filtrava dalle persiane chiuse sul sole del mattino. I nostri vestiti a terra in disordine, la biancheria nel letto disfatto.
Nuda. Ho sentito la sua bocca posarsi sulla mia pelle accaldata. Le labbra, il collo, la curva del seno. I denti mordere delicati un capezzolo poi l’altro fino farmi sfuggire un gemito soffocato. La mano accarezzarmi il fianco, l’addome, il ventre. Per scivolare poi tra i morbidi riccioli umidi e giungere al nido segreto già pronto al piacere.
Nudo. Ho appoggiato la mia mano insicura sul suo petto, ho toccato i radi peli scuri che diventavano più folti verso l’addome morbido e caldo. E poi mi sono fermata, incapace di fare di più. Si è fermato anche Stefano. Mi ha guardato negli occhi, non ha più sorriso, c’era altro nel suo sguardo ora. Ha preso la mia mano e l’ha guidata più giù, fino al suo desiderio. L’ho preso in mano, era caldo e teso, umido. Poi, con una voce che non conoscevo, gli ho detto “Ti voglio dentro di me!” e sono salita sul suo ventre, l’ho guidato nel lago della mia intimità. Ero nuda, mi vedevo nello specchio in penombra, la testa reclinata sul collo, i capelli sudati, i miei seni stretti nelle sue mani, le cosce aperte, il suo cazzo che scivolava sempre più rapido dentro e fuori di me. Rauchi e quasi osceni rantoli ci hanno accompagnato fino al termine del nostro sensuale delirio. Insieme abbiamo goduto, il suo sperma mescolato al mio orgasmo, la mia pelle sudata sulla sua, le sue mani sui miei glutei, le mie nei suoi capelli.
Da quasi un anno siamo amanti. Molti sono stati i mercoledì o i martedì o gli altri giorni della settimana. Le mattine o i pomeriggi, più raramente i giorni interi, a fuggire la luce del giorno nella stanza in penombra del motel diventato casa. Le prime timidezze sono state superate, farmi spogliare e spogliarlo non è stato più un problema. I baci e le carezze sono diventati sempre più intimi e sicuri. Piccoli morsi (attenti a non lasciar segni rossi rivelatori a sguardi imprevisti!), giochi diversi.
Mi ha fatto impazzire con la bocca e la lingua dentro di me, in modi che non conoscevo o forse avevo solo dimenticato. L’ho fatto godere nella mia bocca mentre ci spiavamo con gli occhi incendiati dal desiderio. Ho visto la sua emozione quando gli ho detto che tutto gli avrei concesso, e tutto gli ho dato, anche quello che avevo sempre rifiutato di offrire nel letto coniugale. Ha sentito il sapore del suo piacere mescolato alla saliva della mia bocca in baci lunghi e profondi. Ho mangiato con gli occhi il mio viso riflesso nel grande specchio mentre lui mi prendeva da dietro: la bocca spalancata, l’espressione trasfigurata nel travolgente piacere. Nei momenti supremi mi ha gridato puttana e troia e in mille altri modi che raddoppiavano il mio godimento. Poi mi ha detto che mi amava da sempre. E io sapevo che non era vero, sapevo che noi eravamo questo: due corpi nudi che si incontravano in un letto che conosceva mille amplessi diversi. Amanti.
I momenti più difficili, ma eccitanti da togliere il fiato, erano quelli più rischiosi, erano gli incontri tra amici durante le consuete cene. Quando lui (chissà come!) finiva sempre nella sedia di fianco alla mia, quando la tovaglia lunga a terra copriva i suoi maneggi e i miei. Le mani che si toccavano, le dita intrecciate, l’emozione impaurita che qualcuno capisse o vedesse, l’impossibilità di non farlo. Ero arrivata a indossare gonne che non ostacolassero le sue carezze, mutandine che non fossero barriera per le sue dita, in qualche occasione ero giunta al punto di nascondermi in bagno per finire quello che dovevo finire. Qualche volta l’ho visto sparire per lo stesso motivo, come mi aveva poi confessato nel letto.
C’erano stati incontri furtivi e di pochi secondi nei corridoi bui delle case che ospitavano quelle cene, incontri fintamente casuali inventando scuse con gli altri commensali, con i i nostri compagni. Pochi e brevissimi istanti pieni di noi. Le sue mani sui seni, le mie a sentire la sua emozione crescente, le labbra incollate.
Poi stasera. La cena nella mia grande casa. Sono le 11, i figli dormono, piatti sporchi dovunque, bicchieri ammucchiati sul lungo tavolo di legno scuro. Domattina passerò ore per rimettere a posto, lo so, succede sempre. Pentole e padelle con qualche resto di cibo freddo e appassito. Ho tirato fuori dal frigorifero la torta al cioccolato, degna e abituale conclusione delle nostre cene. Con il giusto coltello la sto tagliando per portarla di là pronta da servire, le ultime bottiglie di spumante freddo già sul tavolo. Dalla sala da pranzo mi giungono alle orecchie risate soffocate e parole che non capisco. Do le spalle alla porta della cucina quando sento un passo leggero, non è mio marito che ride a una battuta pronunciata da qualcuno nella sala da pranzo lontana.
E’ lui invece. Ha deciso di superare l’ultimo dei nostri tabù. Violare le nostre case, finora rimaste luoghi proibiti ai nostri proibiti piaceri di amanti. Mi manca il respiro quando le sue mani si poggiano sui fianchi, la bocca si china sul mio collo, la lingua accarezza la pelle. Ho paura che succeda qualcosa, che qualcuno venga di qui e veda tutto. “Tranquilla, stai tranquilla! Sono tutti di là che bevono e ridono. Ho detto che sarei andato un attimo in bagno e poi ad aiutarti con la torta.”
Mi eccita questa situazione imprevista e di pericolo. Sono già umida in mezzo alle cosce al solo suono della sua voce. Al desiderio, alla voglia che sento nelle sue parole. Le mani mi sollevano la gonna leggera, le dita scostano le mutandine umide. Sento la sua turgida virilità farsi strada in me, prendermi da dietro facendomi chinare con il ventre sul tavolo ingombro. Gli offro quello che vuole, non potrei mai resistere. I colpi dolci e violenti fanno tintinnare leggeri i cristalli sporchi e le porcellane ammucchiate. Bastano pochi secondi, nemmeno un minuto. Lui era già pronto, io lo sono diventata in un istante. Si svuota dentro di me, caldo. Le risate lontane non accennano a spegnersi, complici le bottiglie di vino svuotate. Lui si appoggia contro di me, il torace sulla mia schiena. Mi sussurra all’orecchio dolci lussuriose parole. Mi lecca l’orecchio nel modo che sa, per farmi impazzire. Poi si solleva e mi lascia vuota e sola.
Con la mano tremante finisco quello che stavo facendo. Vorrei scappare a nascondermi e godere di nuovo quello che è stato. Non posso. Torno in sala da pranzo. Stanno ridendo e applaudono la padrona di casa che torna con il dessert. “Ma quanto ci hai messo” chiede qualcuno per fare lo spiritoso. Mio marito sta parlando con il vicino di sedia, nemmeno mi guarda. Lui, Stefano, è seduto come se nulla fosse. Ma so che spia i miei movimenti.
Ora siedo in mezzo alle voci che si rincorrono lungo la tavola. Il rumore per me è solo un brusio di fondo. Il tambureggiare del cuore sovrasta ogni altro rumore. Prendo il calice quasi vuoto. Finisco lo spumante ormai caldo. Roberta, che mi siede vicina, mi dice qualcosa, non rispondo. Mi sorride incerta, mi chiede se tutto va bene. Faccio cenno di si con la testa. Lo sperma di Stefano non ha ancora smesso di scivolare lungo le cosce. Appiccicoso, caldo, eccitante. Chissà se Roberta ne sente l’odore?
Eravamo in cinque coppie, gli amici di sempre. Alcuni addirittura compagni di classe fin dai primi anni del liceo, il liceo Omero, sezione C. Anche mio marito e io eravamo stati compagni di classe, “fidanzatini” fin dai nostri 16 anni. Una frequentazione che ci aveva portati, quasi senza che ce ne accorgessimo, alla convivenza prima e poi al matrimonio e alle nostre tre figlie arrivate una dopo l’altra nel giro di pochi anni.
Una passione che si era andata lentamente affievolendo, nel torpore coniugale e nelle lente abitudini. Il sesso furibondo e quasi violento della nostra adolescenza e gioventù, quando sembrava che ci volessimo divorare a vicenda, aveva lasciato il posto a veloci amplessi nel silenzio e nel buio del letto matrimoniale. Carezze solo accennate, baci sfiorati. Le fantasie spente e annullate da consuetudini abusate, problemi piccoli e grandi, cene nervose.
Rimanevano oasi felici quelle cene tra amici, quelle poche occasioni in cui ci si ritrovava a tavola per chiacchiere e risate rinverdendo ricordi lontani, figure scomparse e amici dimenticati. Ma noi dieci eravamo sempre quelli, sembravamo non invecchiare perché in realtà invecchiavamo insieme e per questo sembravamo sempre uguali. Gli stessi giovani che si erano incontrati durante la vita, in classe o a una festa o durante le vacanze estive.
Uno di questi mi aveva fatto anche la corte al liceo, forse non me ne ero nemmeno accorta o forse non era il momento o forse non volevo accorgermene. Stefano, ora avvocato di successo e sposato con Giuliana che per lui aveva rinunciato a una carriera accademica. Da tempo mi ero accorta di avere sempre i suoi occhi addosso, in ogni occasione, e da tempo mi ero sorpresa a spiare i toni sgradevoli con cui spesso parlavano tra loro.
Poi, una sera, durante la cena in una casa che non era la mia, al momento del dolce, quando ormai numerose erano le bottiglie di vino vuote sul tavolo, improvviso ho sentito una scarpa che toccava la mia… un “piedino” come quelli di cui si parla nei romanzi o si vede nei film. Ho sposato il piede e guardato negli occhi Stefano che mi guardava con l’ombra di un sorriso stampato sul viso. L’ho interrogato in silenzio con gli occhi. Lui ha distolto lo sguardo e ha finito il vino che aveva nel suo bicchiere.
Mentre mio marito dormiva sono stata sveglia a lungo quella notte chiedendomi quanto quel breve contatto fosse stato voluto o casuale. Poi mi sono addormentata assolvendo Stefano e tacitando i miei dubbi.
Ma solo fino alla successiva cena, un mese dopo. Di nuovo quel piede, lui era seduto davanti a me. Ho spostato la gamba, mi ha inseguito. L’ho guardato negli occhi e questa volta è rimasto a fissarmi. Credo di essere diventata rossa per l’emozione e paralizzata per il timore che qualcuno si accorgesse di quanto stava succedendo, sua moglie o mio marito soprattutto. Ho lasciato il piede. Lui ha lasciato il suo. Mi sembrava impossibile che qualcuno si interessasse a me in quel modo. Quella sera, ai saluti, mi ha baciata sulla guancia come al solito, ma la sua mano è rimasta appoggiata sulla mia schiena a lungo. Ne ho sentito la presenza. Mi è piaciuto.
Il giorno dopo mi ha telefonato. Abbiamo parlato a lungo. Mi ha invitato a bere un caffè. Non sono riuscita a dire di no. Forse non volevo dire di no. Ci siamo incontrati, come fosse un caso, in un caffè elegante del centro, ci siamo seduti in una saletta in disparte. Mi ha detto che gli piacevo dai tempi di scuola ma che era arrivato “in ritardo”: ha detto proprio così, emozionandomi. Mi ha preso la mano tra le sue, non gliel’ho lasciata. Eravamo sposati, ma soprattutto eravamo sposati con persone che entrambi conoscevamo fin troppo bene. Non era il caso. Sono quasi scappata via abbandonandolo a quel tavolino. Sapevo che però non era finita, non volevo che finisse.
Una nuova cena. Alla distribuzione dei posti ho pregato, dentro di me, che lui si sedesse di fronte o vicino. Come se fosse un caso, anche se non lo era. Il Dio degli amanti mi ha esaudito. Sapevo che sarebbe successo. Stefano si è seduto al mio fianco, ho sentito un velo di sudore lungo la schiena. Quasi non mi ha rivolto la parola per tutta le cena, parlando con l’amica seduta di fronte e con mio marito all’altro capo del tavolo. Mi stavo chiedendo perché, cosa fosse successo, quando ho sentito la mano stringermi la gamba poco sopra il ginocchio, accarezzarmi la coscia senza guardare verso di me. Complice l’elegante tovaglia bianca di lino che quasi arrivava fino a terra. Ho riso, ho parlato con un tono di voce forse troppo alto. Mio marito mi ha guardato interrogandomi con gli occhi. Io ho appoggiato le dita su quella mano che mi stringeva e accarezzava e l’ho stretta in un muto patto.
La settimana dopo ci siamo incontrati di nuovo in quel caffè del centro. Sapevo che non dovevo. Il problema era che invece volevo. Volevo sentirmi di nuovo desiderata e amata come da tempo non mi sentivo. Questa volta ho lasciato che mi prendesse la mano, ho sentito con un brivido nuovo le sue dita che ne accarezzavano il dorso. Non ci sono state molte parole, ma sguardi profondi, intensi, quasi feroci. Occhi che mi dicevano il suo desiderio, occhi che gli dicevano la mia paura. Ci siamo dati appuntamento per il mercoledì successivo e mi ha salutato stringendomi a sé e dandomi un bacio sulle labbra, il primo. Ho chiuso gli occhi. Le labbra hanno risposto.
Poi sono stati giorni di parole al telefono in ore sicure e di messaggi notturni, di baci scritti e di abbracci descritti. Emozioni nascoste anche a me stessa, che non volevo ammettere che il confine era stato superato e il muro abbattuto. E’ giunto il mercoledì, atteso e temuto. Sono salita nella sua auto, mi ha stretto la mano e mi ha sorriso. Non ho chiesto dove andavamo: lo sapevo, lo immaginavo.
Era la mia prima volta in un motel. La paura di consegnare il mio documento, il timore che mi vedesse qualcuno che mi conosceva, il terrore che mio marito passasse da quelle parti e mi vedesse in auto con Stefano entrare in un posto dove tutti sanno cosa succede. Come si vede nei film, come si legge nei romanzi. Ricordo bene la mia prima emozione. Entrare in una stanza illuminata con una luce soffusa, le persiane chiuse, il letto al centro preparato con lenzuola pulite, il grande specchio sulla parete di fronte a inquadrare la scena che tutti i giorni si ripeteva uguale tra quelle mura con protagonisti sempre diversi.
Stavo sudando, non so se era emozione o paura o se, semplicemente, la stanza era troppo calda. Ricordo che mi sono detta che forse non era gradevole il mio odore e che magari avrei dovuto farmi una doccia prima. Prima? Prima di che? Poi lui mi ha fatto sedere sul bordo del letto, mi ha preso il viso tra le mani e mi ha baciata sulle labbra per pochi istanti. Mi ha guardata negli occhi e mi ha sussurrato “Non avere paura. Non succede nulla se non vuoi. Possiamo anche andare via subito. Usciamo, riprendo i documenti e ti porto a casa!”.
Ho chiuso gli occhi e l’ho baciato io. Le labbra dischiuse, la sua lingua e la mia, il suo sapore, il suo odore eccitato. Ho sentito le sue mani che slacciavano la camicetta di seta che avevo scelto con cura quella mattina. Mi è mancato il fiato quando la sua mano ha stretto il seno nudo, quando le dita hanno preso a giocare con il mio capezzolo duro. Era il primo uomo che lo faceva dopo il mio matrimonio. Gli ho chiesto di spegnere la piccola lampada sul comodino; siamo rimasti illuminati solo dalla fioca luce che filtrava dalle persiane chiuse sul sole del mattino. I nostri vestiti a terra in disordine, la biancheria nel letto disfatto.
Nuda. Ho sentito la sua bocca posarsi sulla mia pelle accaldata. Le labbra, il collo, la curva del seno. I denti mordere delicati un capezzolo poi l’altro fino farmi sfuggire un gemito soffocato. La mano accarezzarmi il fianco, l’addome, il ventre. Per scivolare poi tra i morbidi riccioli umidi e giungere al nido segreto già pronto al piacere.
Nudo. Ho appoggiato la mia mano insicura sul suo petto, ho toccato i radi peli scuri che diventavano più folti verso l’addome morbido e caldo. E poi mi sono fermata, incapace di fare di più. Si è fermato anche Stefano. Mi ha guardato negli occhi, non ha più sorriso, c’era altro nel suo sguardo ora. Ha preso la mia mano e l’ha guidata più giù, fino al suo desiderio. L’ho preso in mano, era caldo e teso, umido. Poi, con una voce che non conoscevo, gli ho detto “Ti voglio dentro di me!” e sono salita sul suo ventre, l’ho guidato nel lago della mia intimità. Ero nuda, mi vedevo nello specchio in penombra, la testa reclinata sul collo, i capelli sudati, i miei seni stretti nelle sue mani, le cosce aperte, il suo cazzo che scivolava sempre più rapido dentro e fuori di me. Rauchi e quasi osceni rantoli ci hanno accompagnato fino al termine del nostro sensuale delirio. Insieme abbiamo goduto, il suo sperma mescolato al mio orgasmo, la mia pelle sudata sulla sua, le sue mani sui miei glutei, le mie nei suoi capelli.
Da quasi un anno siamo amanti. Molti sono stati i mercoledì o i martedì o gli altri giorni della settimana. Le mattine o i pomeriggi, più raramente i giorni interi, a fuggire la luce del giorno nella stanza in penombra del motel diventato casa. Le prime timidezze sono state superate, farmi spogliare e spogliarlo non è stato più un problema. I baci e le carezze sono diventati sempre più intimi e sicuri. Piccoli morsi (attenti a non lasciar segni rossi rivelatori a sguardi imprevisti!), giochi diversi.
Mi ha fatto impazzire con la bocca e la lingua dentro di me, in modi che non conoscevo o forse avevo solo dimenticato. L’ho fatto godere nella mia bocca mentre ci spiavamo con gli occhi incendiati dal desiderio. Ho visto la sua emozione quando gli ho detto che tutto gli avrei concesso, e tutto gli ho dato, anche quello che avevo sempre rifiutato di offrire nel letto coniugale. Ha sentito il sapore del suo piacere mescolato alla saliva della mia bocca in baci lunghi e profondi. Ho mangiato con gli occhi il mio viso riflesso nel grande specchio mentre lui mi prendeva da dietro: la bocca spalancata, l’espressione trasfigurata nel travolgente piacere. Nei momenti supremi mi ha gridato puttana e troia e in mille altri modi che raddoppiavano il mio godimento. Poi mi ha detto che mi amava da sempre. E io sapevo che non era vero, sapevo che noi eravamo questo: due corpi nudi che si incontravano in un letto che conosceva mille amplessi diversi. Amanti.
I momenti più difficili, ma eccitanti da togliere il fiato, erano quelli più rischiosi, erano gli incontri tra amici durante le consuete cene. Quando lui (chissà come!) finiva sempre nella sedia di fianco alla mia, quando la tovaglia lunga a terra copriva i suoi maneggi e i miei. Le mani che si toccavano, le dita intrecciate, l’emozione impaurita che qualcuno capisse o vedesse, l’impossibilità di non farlo. Ero arrivata a indossare gonne che non ostacolassero le sue carezze, mutandine che non fossero barriera per le sue dita, in qualche occasione ero giunta al punto di nascondermi in bagno per finire quello che dovevo finire. Qualche volta l’ho visto sparire per lo stesso motivo, come mi aveva poi confessato nel letto.
C’erano stati incontri furtivi e di pochi secondi nei corridoi bui delle case che ospitavano quelle cene, incontri fintamente casuali inventando scuse con gli altri commensali, con i i nostri compagni. Pochi e brevissimi istanti pieni di noi. Le sue mani sui seni, le mie a sentire la sua emozione crescente, le labbra incollate.
Poi stasera. La cena nella mia grande casa. Sono le 11, i figli dormono, piatti sporchi dovunque, bicchieri ammucchiati sul lungo tavolo di legno scuro. Domattina passerò ore per rimettere a posto, lo so, succede sempre. Pentole e padelle con qualche resto di cibo freddo e appassito. Ho tirato fuori dal frigorifero la torta al cioccolato, degna e abituale conclusione delle nostre cene. Con il giusto coltello la sto tagliando per portarla di là pronta da servire, le ultime bottiglie di spumante freddo già sul tavolo. Dalla sala da pranzo mi giungono alle orecchie risate soffocate e parole che non capisco. Do le spalle alla porta della cucina quando sento un passo leggero, non è mio marito che ride a una battuta pronunciata da qualcuno nella sala da pranzo lontana.
E’ lui invece. Ha deciso di superare l’ultimo dei nostri tabù. Violare le nostre case, finora rimaste luoghi proibiti ai nostri proibiti piaceri di amanti. Mi manca il respiro quando le sue mani si poggiano sui fianchi, la bocca si china sul mio collo, la lingua accarezza la pelle. Ho paura che succeda qualcosa, che qualcuno venga di qui e veda tutto. “Tranquilla, stai tranquilla! Sono tutti di là che bevono e ridono. Ho detto che sarei andato un attimo in bagno e poi ad aiutarti con la torta.”
Mi eccita questa situazione imprevista e di pericolo. Sono già umida in mezzo alle cosce al solo suono della sua voce. Al desiderio, alla voglia che sento nelle sue parole. Le mani mi sollevano la gonna leggera, le dita scostano le mutandine umide. Sento la sua turgida virilità farsi strada in me, prendermi da dietro facendomi chinare con il ventre sul tavolo ingombro. Gli offro quello che vuole, non potrei mai resistere. I colpi dolci e violenti fanno tintinnare leggeri i cristalli sporchi e le porcellane ammucchiate. Bastano pochi secondi, nemmeno un minuto. Lui era già pronto, io lo sono diventata in un istante. Si svuota dentro di me, caldo. Le risate lontane non accennano a spegnersi, complici le bottiglie di vino svuotate. Lui si appoggia contro di me, il torace sulla mia schiena. Mi sussurra all’orecchio dolci lussuriose parole. Mi lecca l’orecchio nel modo che sa, per farmi impazzire. Poi si solleva e mi lascia vuota e sola.
Con la mano tremante finisco quello che stavo facendo. Vorrei scappare a nascondermi e godere di nuovo quello che è stato. Non posso. Torno in sala da pranzo. Stanno ridendo e applaudono la padrona di casa che torna con il dessert. “Ma quanto ci hai messo” chiede qualcuno per fare lo spiritoso. Mio marito sta parlando con il vicino di sedia, nemmeno mi guarda. Lui, Stefano, è seduto come se nulla fosse. Ma so che spia i miei movimenti.
Ora siedo in mezzo alle voci che si rincorrono lungo la tavola. Il rumore per me è solo un brusio di fondo. Il tambureggiare del cuore sovrasta ogni altro rumore. Prendo il calice quasi vuoto. Finisco lo spumante ormai caldo. Roberta, che mi siede vicina, mi dice qualcosa, non rispondo. Mi sorride incerta, mi chiede se tutto va bene. Faccio cenno di si con la testa. Lo sperma di Stefano non ha ancora smesso di scivolare lungo le cosce. Appiccicoso, caldo, eccitante. Chissà se Roberta ne sente l’odore?
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