Cena di maturità
di
Anonima1981
genere
etero
Un maggio caldo. Non me lo ricordo un maggio così. Ultima settimana di scuola, ultimo anno di liceo. Ultima cena di classe di fine anno. Tra tre settimane cominceranno gli esami di stato, il temuto esame di maturità. Io sono già nervosa e in ansia. Non è una novità. Io sono così, sempre ansiosa e insicura. Ma stasera si festeggia e basta, cosa mai ci sarà da festeggiare?!
Ci sono tutti i compagni di classe, tranne Luigi che è a casa con la gamba ingessata per la caduta dal motorino. Siamo in ventidue, quindici ragazze e sette ragazzi. Ci sediamo secondo i gruppetti consolidati da anni di studio insieme, nella stessa classe. Ovviamente, io e la mia amica Ludovica ci sediamo vicine per poter fare un po’ di commenti tra noi.
E ci sono tutti i professori: quello di italiano e latino, con la sua grossa pancia e i pochi capelli, il professore di greco, con la mania dei compiti in classe senza preavviso, quella di matematica che non nasconde antipatie e preferenze, la professoressa di storia dell’arte, magrissima e con i capelli che già diradano e gli immancabili professori di educazione fisica. E poi c’è lui, il professore di storia e filosofia, Magrini, un uomo sui cinquanta, alto, brizzolato e con la barba curata come va di moda oggi. Quest’anno è membro interno della commissione d’esame. Credo sia sposato, anche se non porta la fede, e non sono poche le fantasie su di lui che ci siamo scambiate io e Ludo mentre studiavamo tutti i pomeriggi.
Mi chiamo Marina. Ho diciannove anni appena compiuti. Non sono brutta ma nemmeno bellissima. Sono carina, come si usa dire. Castana, capelli lunghi, occhi grandi e scuri, di media statura, né magra né grassa. Una normale, insomma. Una che alle feste non fa tappezzeria ma che nemmeno fa girare gli uomini per strada.
Si cena alle 20. Risate e battute, qualche imbarazzo con i docenti, qualcuno è più simpatico di quanto non si dimostri in classe, qualcuno è più disponibile alle battute, qualcuno sta sulle sue, proprio come a scuola tutti i giorni. Si mangia e soprattutto si beve. Tutto è un po’ triste. Finisce un anno, finisce un periodo della nostra vita. L’allegria spesso sembra forzata come quando ridi per educazione alle barzellette che non fanno ridere affatto.
Quando alle 23 ci ritroviamo sul marciapiede davanti al ristorante tutti hanno solo voglia di andare a casa e di finire con questa allegria artefatta. I professori si organizzano per andare via in taxi. I ragazzi se ne vanno insieme, credo che vogliano andare da qualche parte a finire la serata tra loro. Almeno così ho sentito dire da Mario. Alla fine delle ragazze rimaniamo sul marciapiedi io e Ludo.
Decidiamo di prendere il tram che passa nella strada di fianco, non abitiamo tanto lontane l’una dall’altra. Poi sento che qualcuno la chiama per cognome, ci giriamo verso l’angolo da cui arriva la voce. E’ il professore di storia e filosofia. “Siete sole? Se volete vi porto a casa, ho sentito che parlavate, prima, a tavola e che abitate vicine. Io abito da quelle parti..”. Ludo e io ci guardiamo. Ci scambiamo un sorriso che è tutto un programma, che ci fa venire in mente tutto quello che ci siamo dette su Magrini nel corso dell’anno. Siamo un po’ imbarazzate e intimidite, è evidente. Però alla fine, dopo qualche secondo, Ludo mi dà una gomitata e si avvia verso il professore lasciandomi dietro di un paio di passi, come una cretina.
L’auto di Magrini è una vecchia Mercedes berlina, pulita ma puzza un po’ di fumo. Ludo siede dietro. “Tanto tu scendi dopo di me!” mi dice la stronza, ben sapendo che avrei voluto stare dietro. E quindi, è giocoforza che mi sieda davanti. Il sedile è comodo, avvolgente, l’aria condizionata è piacevole. Dentro si sta meglio che in strada dove l’aria è soffocante anche a quest’ora della notte. Dovevo bere di meno, non sono abituata al vino. Ho sonno, ho voglia di andare a letto, mi si chiudono gli occhi mentre sento che Ludo e il prof parlano e ridono come se fossero in una confidenza che non esiste. Mi sveglio di soprassalto quando sento sbattere la portiera, è Ludo che è scesa davanti a casa sua.
L’auto riparte, ora devo stare sveglia. Tra poco devo scendere. Sulle gambe, lasciate troppo scoperte dalla minigonna a portafoglio che indosso, si alternano le ombre scure della notte e la luce dei lampioni che illuminano la strada a intervalli regolari. L’auto procede veloce, un po’ a strappi, il professore guida un po’ nervoso cambiando spesso marcia. Guardo fuori la città che si prepara a dormire.
Improvvisa una mano sulla mia gamba. La sua mano che, dalla leva del cambio, è scivolata sulla mia coscia. Forse mi sono addormentata ed è un sogno. Ma è quello che volevo, quello che sognavo. Quello che a volte avevamo immaginato io e Ludo. Chissà se mi vedesse ora, qui. Guardo la mano, è grande, le vene in rilievo, i peli scuri, il braccio lasciato scoperto dalla manica arrotolata della camicia. Ora sono sveglia, so di essere svegli. Sono anche un po’ spaventata, anche se era quello che forse volevo. Allungo la mano per spostare la sua.
La mano è forte, più forte del mio tentativo di liberarmi della sua presa. Lo guardo, sembra sorridere, guarda la strada. Non è quella di casa mia, una strada che non riconosco, Di periferia. Ho la bocca asciutta. La sua voce “Dai, Marina, è troppo presto per andare a casa! Non trovi? Pensavo di fare un giretto per la città, in questa stagione è bellissima!” La mano mi serra la coscia, il pollice accarezza insistente la pelle sopra il ginocchio. E’ bello sentire la sua voce che pronuncia il mio nome, è bello sentire il desiderio che si fa strada nella sua voce.
Mi gira la testa per il vino e per la situazione. Cerco di nuovo di togliere la sua mano ma non ci riesco. Lievi, le mie dita ora stanno accarezzando le sue. Silenzio, l’atmosfera è mutata. Lui lo capisce bene quando mi appoggio contro lo schienale e tolgo la mia mano dalla sua lasciandogli libero campo. “Brava, Marina. Così. Cosa vuoi che succeda? Giriamo un po’, magari ci fermiamo e scambiamo quattro parole. Ti spiego come si svolge l’esame, qualche trucchetto per la commissione.”
Mentre la mano scivola senza ostacoli verso l’interno della coscia mi rendo conto che il traffico è diminuito, per strada non c’è quasi nessuno. Si è fatta mezzanotte di un giorno feriale e la gente è a casa che dorme o guarda la tv o legge un libro. Ludo sarà già a letto, penso a lei che non si immagina proprio che sta succedendo quello di cui tante volte avevamo fantasticato insieme.
L’auto sta correndo lungo una strada larga e diritta. Via Novara, leggo di sfuggita un cartello. Poi l'auto gira in uno spiazzo deserto, un grande parcheggio immerso nell'oscurità, solo tre o quattro auto buie in fondo. Spegne il motore. Si gira verso di me “Allora, dimmi Marina, cosa ti spaventa di più dell’esame? Lo sai quanto può contare il giudizio del membro interno? Basta che spieghi chi è lo studente ed ecco che un voto al limite della sufficienza diventa sufficienza piena. Il rischio di un voto finale minimo o peggio scompare e per magia il giudizio diventa eccellente”. Ma non capisce che ora, in questo momento, non ci penso proprio all’esame?
Toglie la mano dalla mia coscia. Mi accarezza una guancia, le dita giocano con i miei capelli. Non vedo il suo viso nel buio dell’auto, sento solo la voce, quasi ipnotica. Mi viene da ridere, mi trattengo a fatica. Non capisce che non deve convincermi affatto? Sono pronta. E poi questo rimarrà un segreto tra noi, lui è sposato e io sono maggiorenne da quasi un anno.
Poi si allunga verso di me, mi bacia una guancia, poi un altro bacio vicino alle labbra. Sono un po’ spaventata per le ombre che si muovono in fondo al parcheggio, forse non è vero, forse mi sbaglio. Forse anche lui poteva scegliere un posto diverso che, certo, era più a rischio per lui. Non so. La sua mano sulla spalla, scende e mi accarezza un seno. Il dito gioca in tondo sul capezzolo quasi nudo sotto la T-shirt leggera. Il dito sa fare il suo lavoro, il capezzolo risponde. Diventa un piccolo chiodo. “Che dici, Marina, ci teniamo compagnia per un pochino di tempo e concludiamo bene la serata? Così mi ricorderò sempre di te..”. Gli sorrido per fargli capire che non c’è più bisogno di parlare tanto.
Capisce al volo, il prof! L’altra mano accarezza la coscia, scivola sulla pelle, in mezzo alle gambe. Le dischiudo senza pensarci, senza dovermi chiedere se farlo o no. Facile la mano trova la via. Le dita scostano il bordo di cotone della mutandina. Mi sto inumidendo. Il seno è chiuso nella sua mano, lo stringe forte, mi manca il fiato. Le dita scivolano tra le labbra della mia intimità, insistenti sul bocciolo intimidito e curioso. Nel silenzio che ora ci avvolge avvicina la bocca alle mie labbra, le accarezza con la lingua, le forza e incontra la mia. Apro la mia bocca a lui che sa di tabacco e di vino.
La mano ora afferra il lembo delle mutandine, le fa scivolare in basso. Sa cosa voglio, so cosa vuole. Mi sento sua, il desiderio domina i miei pensieri come le sue mani sono padrone della mia pelle. Sollevo un piede e poi l’altro. Poi lui torna a giocare sul mio fiore bagnato. La mano abbandona il seno. Non voglio che ora lo lasci. Afferra la mia mano e se la porta sul grembo, sulla sua erezione scoperta. Le dita circondano il cazzo duro, grosso, caldo, vibrante. Mi penetra con un dito, forse due: le muove con fare sapiente. Non voglio che smetta. Mi sfugge un sospiro mentre mi bacia. Si stacca da me, mi guarda, sorride. Mi abbandono a lui e la cosa mi piace, mi eccita oltre misura.
Lenta lo sto masturbando. E’ grosso, più grosso di quelli che già ho conosciuto. Ora mi afferra i capelli, li tira, mi chino sul suo ventre. Il membro mi sfiora il naso, le labbra. Vuole la mia bocca e la mia lingua. Le sue dita sono dentro di me. Schiudo le labbra, la lingua accarezza il glande umido, sa di urina e sudore. Lo accolgo e assecondo il moto della mano sulla mia testa. Sento il suo respiro che si fa sonoro. Diventa frequente. Con la mano cingo il cazzo alla radice, la bocca scivola sul membro duro e vibrante. La lingua lo ricopre tutto della mia saliva.
Mi solleva la testa, mi toglie di bocca il piacere. Sono eccitata e confusa. Un’ombra è vicina al vetro del finestrino. Qualcuno che spia da fuori. Ora lui reclina lo schienale e fa scivolare indietro il sedile per fare più spazio. Poi mi prende un braccio e mi trascina sopra di sé. La minigonna in vita mentre lui mi entra dentro. Lo sento, lo voglio. Mi solleva la T-shirt, abbassa il reggiseno e mi morde un seno. Mi lecca i capezzoli, prima l’uno poi l’altro. Li prende tra i denti, mi sfugge un lamento. Lui insiste, il cazzo si muove dentro di me, sempre più dentro, sempre più veloce, in mezzo al lago del mio piacere.
L’ombra si è fatta più vicina, è un uomo. Ha la patta aperta con la mano infilata dentro. Mi guarda con un ghigno feroce. Con le labbra sillaba qualcosa, non capisco e non sento. Sono quasi nuda e lui mi sta scopando. L’ombra ora ha il cazzo in mano, lo mostra vicino al finestrino chiuso. Lo appoggia lasciando una scia sul vetro, si masturba mentre mi guarda. Forse ora mi sveglio. Non voglio svegliarmi. Gli schizzi sul vetro, bianchi, scivolano appiccicosi.
Godo, godo del cazzo dentro di me, della notte buia, della mia nudità, del piacere dell’ombra. Sento le ultime spinte, forti, vigorose, piene, cattive. Lui gode dentro di me, con me. Insieme.
La luce del giorno entra dalla finestra della mia camera. Mi sveglia, le 10. Non voglio aprire gli occhi. Forse è stato un incubo, un sogno. Nella bocca uno strano sapore, in mezzo alle gambe sono un po’ indolenzita ma è piacevole, strano. Mi tocco, umido e appiccicoso. Devo farmi una doccia, cominciare a studiare. Mancano pochi giorni alla maturità.
Gli scritti, gli orali. Il prof passa tra i banchi, si china sul mio, mi chiede se tutto va bene. Sorride, sento il calore che sale. “Concentrati” mi dice e si allontana. E’ come se non fosse successo nulla in quel parcheggio deserto, solo poche sere fa. Mi sembra impossibile, eppure è stato possibile. Fatico a concentrarmi sulla prova d’esame vedendolo passare tra i banchi, vedendolo chinarsi su qualche compagna carina, su Ludo! Sono gelosa come una cretina, lui deve guardare solo me. A lei ho raccontato solo in parte quello che è successo. Mi ha detto che lei lo avrebbe preso a schiaffi ma ho visto che la cosa in realtà l’ha eccitata. Lo vedo da come gli avvicina la testa quando lui si china su di lei, quella stronza.
Gli esami sono finiti, sono andati così così. E invece sono uscita con quasi il massimo dei voti. Incredibile per tutti considerando i risultati e i voti dell’ultimo anno, incredibile per tutti tranne che per Ludo con cui ho litigato quando mi ha dato della troia. Non lo ammetterò mai ma ha ragione lei. Vorrei che succedesse di nuovo, vorrei sentirmi ancora nelle sue mani, vorrei tornare in quel parcheggio di notte. Non succederà più.
Il tempo è passato veloce, gli anni sono trascorsi senza quasi che me ne accorgessi. La laurea, le prime supplenze, il ruolo, il matrimonio, i figli. Il ricordo e le sensazioni vissute quella notte di oltre vent’anni fa sono andati impallidendo, scomparendo quasi dalla mia mente. Ma so che è tutto presente, nascosto in qualche angolo profondo e buio dentro di me.
La vita è stata serena, tranquilla, spesso felice. Una moglie, una madre, una donna realizzata.
Mi chiamo Marina. Ho trentanove anni appena compiuti. Non sono brutta ma nemmeno bellissima. Sono carina, come si usa dire. Castana, capelli di media lunghezza, occhi grandi e scuri circondati da una ragnatela di piccole rughe, media statura, né magra né grassa. Sono chiusa nella mia auto nel parcheggio di via Novara.
Lo stesso di quella sera. Ci sono passata davanti per caso qualche giorno fa, in auto con mio marito. Sono stata travolta dall’emozione, dai ricordi e dall’eccitazione. E tutto è tornato in piena luce! Stasera sono uscita con la scusa di una cena tra amiche e colleghe di scuola e sono venuta qui. Il cuore galoppa, il ventre è contratto.
Rivivo momento per momento quella sera che credevo di aver dimenticato e invece era dentro di me. Immutata e chiara, troppo. Il parcheggio è deserto, sono le undici di una sera qualunque di un nebbioso novembre. Solo alcune auto in fondo, spente, sembrano vuote.
Come allora, qualche ombra sembra muoversi ai margini dello spiazzo. Controllo di aver abbassato la chiusura di sicurezza. Mi chiedo cosa mai sto facendo. Mi do della cretina. Allungo la mano per accendere l’auto e ripartire. Poi, la lascio ricadere in mezzo alle cosce dove, senza che me ne rendessi conto, si muoveva da sola dal momento in cui ho parcheggiato e spento il motore. Sono calda in mezzo alle cosce, umida. Sulla pelle brividi. I capezzoli duri spingono la lana del golfino che indosso sotto il cappotto aperto.
Un’ombra viene verso di me. Accendo il motore, le luci, premo il pedale del freno per inserire la marcia del cambio automatico. L’ombra bussa al finestrino. Non voglio girarmi. Bussa di nuovo, più forte. Non voglio girarmi e vedere l’ombra lì fuori. Mi giro. Vedo una mano a pugno che bussa, l’ombra indossa un paio di jeans, la cerniera abbassata, il membro eretto ed esposto. Lo tiene con l’altra mano e lento si masturba, il glande grosso e umido. Lo guardo. Spengo il motore e le luci. Ricordo. La mano bussa di nuovo. Forte. Chiudo gli occhi. Abbasso il vetro del finestrino….
Ci sono tutti i compagni di classe, tranne Luigi che è a casa con la gamba ingessata per la caduta dal motorino. Siamo in ventidue, quindici ragazze e sette ragazzi. Ci sediamo secondo i gruppetti consolidati da anni di studio insieme, nella stessa classe. Ovviamente, io e la mia amica Ludovica ci sediamo vicine per poter fare un po’ di commenti tra noi.
E ci sono tutti i professori: quello di italiano e latino, con la sua grossa pancia e i pochi capelli, il professore di greco, con la mania dei compiti in classe senza preavviso, quella di matematica che non nasconde antipatie e preferenze, la professoressa di storia dell’arte, magrissima e con i capelli che già diradano e gli immancabili professori di educazione fisica. E poi c’è lui, il professore di storia e filosofia, Magrini, un uomo sui cinquanta, alto, brizzolato e con la barba curata come va di moda oggi. Quest’anno è membro interno della commissione d’esame. Credo sia sposato, anche se non porta la fede, e non sono poche le fantasie su di lui che ci siamo scambiate io e Ludo mentre studiavamo tutti i pomeriggi.
Mi chiamo Marina. Ho diciannove anni appena compiuti. Non sono brutta ma nemmeno bellissima. Sono carina, come si usa dire. Castana, capelli lunghi, occhi grandi e scuri, di media statura, né magra né grassa. Una normale, insomma. Una che alle feste non fa tappezzeria ma che nemmeno fa girare gli uomini per strada.
Si cena alle 20. Risate e battute, qualche imbarazzo con i docenti, qualcuno è più simpatico di quanto non si dimostri in classe, qualcuno è più disponibile alle battute, qualcuno sta sulle sue, proprio come a scuola tutti i giorni. Si mangia e soprattutto si beve. Tutto è un po’ triste. Finisce un anno, finisce un periodo della nostra vita. L’allegria spesso sembra forzata come quando ridi per educazione alle barzellette che non fanno ridere affatto.
Quando alle 23 ci ritroviamo sul marciapiede davanti al ristorante tutti hanno solo voglia di andare a casa e di finire con questa allegria artefatta. I professori si organizzano per andare via in taxi. I ragazzi se ne vanno insieme, credo che vogliano andare da qualche parte a finire la serata tra loro. Almeno così ho sentito dire da Mario. Alla fine delle ragazze rimaniamo sul marciapiedi io e Ludo.
Decidiamo di prendere il tram che passa nella strada di fianco, non abitiamo tanto lontane l’una dall’altra. Poi sento che qualcuno la chiama per cognome, ci giriamo verso l’angolo da cui arriva la voce. E’ il professore di storia e filosofia. “Siete sole? Se volete vi porto a casa, ho sentito che parlavate, prima, a tavola e che abitate vicine. Io abito da quelle parti..”. Ludo e io ci guardiamo. Ci scambiamo un sorriso che è tutto un programma, che ci fa venire in mente tutto quello che ci siamo dette su Magrini nel corso dell’anno. Siamo un po’ imbarazzate e intimidite, è evidente. Però alla fine, dopo qualche secondo, Ludo mi dà una gomitata e si avvia verso il professore lasciandomi dietro di un paio di passi, come una cretina.
L’auto di Magrini è una vecchia Mercedes berlina, pulita ma puzza un po’ di fumo. Ludo siede dietro. “Tanto tu scendi dopo di me!” mi dice la stronza, ben sapendo che avrei voluto stare dietro. E quindi, è giocoforza che mi sieda davanti. Il sedile è comodo, avvolgente, l’aria condizionata è piacevole. Dentro si sta meglio che in strada dove l’aria è soffocante anche a quest’ora della notte. Dovevo bere di meno, non sono abituata al vino. Ho sonno, ho voglia di andare a letto, mi si chiudono gli occhi mentre sento che Ludo e il prof parlano e ridono come se fossero in una confidenza che non esiste. Mi sveglio di soprassalto quando sento sbattere la portiera, è Ludo che è scesa davanti a casa sua.
L’auto riparte, ora devo stare sveglia. Tra poco devo scendere. Sulle gambe, lasciate troppo scoperte dalla minigonna a portafoglio che indosso, si alternano le ombre scure della notte e la luce dei lampioni che illuminano la strada a intervalli regolari. L’auto procede veloce, un po’ a strappi, il professore guida un po’ nervoso cambiando spesso marcia. Guardo fuori la città che si prepara a dormire.
Improvvisa una mano sulla mia gamba. La sua mano che, dalla leva del cambio, è scivolata sulla mia coscia. Forse mi sono addormentata ed è un sogno. Ma è quello che volevo, quello che sognavo. Quello che a volte avevamo immaginato io e Ludo. Chissà se mi vedesse ora, qui. Guardo la mano, è grande, le vene in rilievo, i peli scuri, il braccio lasciato scoperto dalla manica arrotolata della camicia. Ora sono sveglia, so di essere svegli. Sono anche un po’ spaventata, anche se era quello che forse volevo. Allungo la mano per spostare la sua.
La mano è forte, più forte del mio tentativo di liberarmi della sua presa. Lo guardo, sembra sorridere, guarda la strada. Non è quella di casa mia, una strada che non riconosco, Di periferia. Ho la bocca asciutta. La sua voce “Dai, Marina, è troppo presto per andare a casa! Non trovi? Pensavo di fare un giretto per la città, in questa stagione è bellissima!” La mano mi serra la coscia, il pollice accarezza insistente la pelle sopra il ginocchio. E’ bello sentire la sua voce che pronuncia il mio nome, è bello sentire il desiderio che si fa strada nella sua voce.
Mi gira la testa per il vino e per la situazione. Cerco di nuovo di togliere la sua mano ma non ci riesco. Lievi, le mie dita ora stanno accarezzando le sue. Silenzio, l’atmosfera è mutata. Lui lo capisce bene quando mi appoggio contro lo schienale e tolgo la mia mano dalla sua lasciandogli libero campo. “Brava, Marina. Così. Cosa vuoi che succeda? Giriamo un po’, magari ci fermiamo e scambiamo quattro parole. Ti spiego come si svolge l’esame, qualche trucchetto per la commissione.”
Mentre la mano scivola senza ostacoli verso l’interno della coscia mi rendo conto che il traffico è diminuito, per strada non c’è quasi nessuno. Si è fatta mezzanotte di un giorno feriale e la gente è a casa che dorme o guarda la tv o legge un libro. Ludo sarà già a letto, penso a lei che non si immagina proprio che sta succedendo quello di cui tante volte avevamo fantasticato insieme.
L’auto sta correndo lungo una strada larga e diritta. Via Novara, leggo di sfuggita un cartello. Poi l'auto gira in uno spiazzo deserto, un grande parcheggio immerso nell'oscurità, solo tre o quattro auto buie in fondo. Spegne il motore. Si gira verso di me “Allora, dimmi Marina, cosa ti spaventa di più dell’esame? Lo sai quanto può contare il giudizio del membro interno? Basta che spieghi chi è lo studente ed ecco che un voto al limite della sufficienza diventa sufficienza piena. Il rischio di un voto finale minimo o peggio scompare e per magia il giudizio diventa eccellente”. Ma non capisce che ora, in questo momento, non ci penso proprio all’esame?
Toglie la mano dalla mia coscia. Mi accarezza una guancia, le dita giocano con i miei capelli. Non vedo il suo viso nel buio dell’auto, sento solo la voce, quasi ipnotica. Mi viene da ridere, mi trattengo a fatica. Non capisce che non deve convincermi affatto? Sono pronta. E poi questo rimarrà un segreto tra noi, lui è sposato e io sono maggiorenne da quasi un anno.
Poi si allunga verso di me, mi bacia una guancia, poi un altro bacio vicino alle labbra. Sono un po’ spaventata per le ombre che si muovono in fondo al parcheggio, forse non è vero, forse mi sbaglio. Forse anche lui poteva scegliere un posto diverso che, certo, era più a rischio per lui. Non so. La sua mano sulla spalla, scende e mi accarezza un seno. Il dito gioca in tondo sul capezzolo quasi nudo sotto la T-shirt leggera. Il dito sa fare il suo lavoro, il capezzolo risponde. Diventa un piccolo chiodo. “Che dici, Marina, ci teniamo compagnia per un pochino di tempo e concludiamo bene la serata? Così mi ricorderò sempre di te..”. Gli sorrido per fargli capire che non c’è più bisogno di parlare tanto.
Capisce al volo, il prof! L’altra mano accarezza la coscia, scivola sulla pelle, in mezzo alle gambe. Le dischiudo senza pensarci, senza dovermi chiedere se farlo o no. Facile la mano trova la via. Le dita scostano il bordo di cotone della mutandina. Mi sto inumidendo. Il seno è chiuso nella sua mano, lo stringe forte, mi manca il fiato. Le dita scivolano tra le labbra della mia intimità, insistenti sul bocciolo intimidito e curioso. Nel silenzio che ora ci avvolge avvicina la bocca alle mie labbra, le accarezza con la lingua, le forza e incontra la mia. Apro la mia bocca a lui che sa di tabacco e di vino.
La mano ora afferra il lembo delle mutandine, le fa scivolare in basso. Sa cosa voglio, so cosa vuole. Mi sento sua, il desiderio domina i miei pensieri come le sue mani sono padrone della mia pelle. Sollevo un piede e poi l’altro. Poi lui torna a giocare sul mio fiore bagnato. La mano abbandona il seno. Non voglio che ora lo lasci. Afferra la mia mano e se la porta sul grembo, sulla sua erezione scoperta. Le dita circondano il cazzo duro, grosso, caldo, vibrante. Mi penetra con un dito, forse due: le muove con fare sapiente. Non voglio che smetta. Mi sfugge un sospiro mentre mi bacia. Si stacca da me, mi guarda, sorride. Mi abbandono a lui e la cosa mi piace, mi eccita oltre misura.
Lenta lo sto masturbando. E’ grosso, più grosso di quelli che già ho conosciuto. Ora mi afferra i capelli, li tira, mi chino sul suo ventre. Il membro mi sfiora il naso, le labbra. Vuole la mia bocca e la mia lingua. Le sue dita sono dentro di me. Schiudo le labbra, la lingua accarezza il glande umido, sa di urina e sudore. Lo accolgo e assecondo il moto della mano sulla mia testa. Sento il suo respiro che si fa sonoro. Diventa frequente. Con la mano cingo il cazzo alla radice, la bocca scivola sul membro duro e vibrante. La lingua lo ricopre tutto della mia saliva.
Mi solleva la testa, mi toglie di bocca il piacere. Sono eccitata e confusa. Un’ombra è vicina al vetro del finestrino. Qualcuno che spia da fuori. Ora lui reclina lo schienale e fa scivolare indietro il sedile per fare più spazio. Poi mi prende un braccio e mi trascina sopra di sé. La minigonna in vita mentre lui mi entra dentro. Lo sento, lo voglio. Mi solleva la T-shirt, abbassa il reggiseno e mi morde un seno. Mi lecca i capezzoli, prima l’uno poi l’altro. Li prende tra i denti, mi sfugge un lamento. Lui insiste, il cazzo si muove dentro di me, sempre più dentro, sempre più veloce, in mezzo al lago del mio piacere.
L’ombra si è fatta più vicina, è un uomo. Ha la patta aperta con la mano infilata dentro. Mi guarda con un ghigno feroce. Con le labbra sillaba qualcosa, non capisco e non sento. Sono quasi nuda e lui mi sta scopando. L’ombra ora ha il cazzo in mano, lo mostra vicino al finestrino chiuso. Lo appoggia lasciando una scia sul vetro, si masturba mentre mi guarda. Forse ora mi sveglio. Non voglio svegliarmi. Gli schizzi sul vetro, bianchi, scivolano appiccicosi.
Godo, godo del cazzo dentro di me, della notte buia, della mia nudità, del piacere dell’ombra. Sento le ultime spinte, forti, vigorose, piene, cattive. Lui gode dentro di me, con me. Insieme.
La luce del giorno entra dalla finestra della mia camera. Mi sveglia, le 10. Non voglio aprire gli occhi. Forse è stato un incubo, un sogno. Nella bocca uno strano sapore, in mezzo alle gambe sono un po’ indolenzita ma è piacevole, strano. Mi tocco, umido e appiccicoso. Devo farmi una doccia, cominciare a studiare. Mancano pochi giorni alla maturità.
Gli scritti, gli orali. Il prof passa tra i banchi, si china sul mio, mi chiede se tutto va bene. Sorride, sento il calore che sale. “Concentrati” mi dice e si allontana. E’ come se non fosse successo nulla in quel parcheggio deserto, solo poche sere fa. Mi sembra impossibile, eppure è stato possibile. Fatico a concentrarmi sulla prova d’esame vedendolo passare tra i banchi, vedendolo chinarsi su qualche compagna carina, su Ludo! Sono gelosa come una cretina, lui deve guardare solo me. A lei ho raccontato solo in parte quello che è successo. Mi ha detto che lei lo avrebbe preso a schiaffi ma ho visto che la cosa in realtà l’ha eccitata. Lo vedo da come gli avvicina la testa quando lui si china su di lei, quella stronza.
Gli esami sono finiti, sono andati così così. E invece sono uscita con quasi il massimo dei voti. Incredibile per tutti considerando i risultati e i voti dell’ultimo anno, incredibile per tutti tranne che per Ludo con cui ho litigato quando mi ha dato della troia. Non lo ammetterò mai ma ha ragione lei. Vorrei che succedesse di nuovo, vorrei sentirmi ancora nelle sue mani, vorrei tornare in quel parcheggio di notte. Non succederà più.
Il tempo è passato veloce, gli anni sono trascorsi senza quasi che me ne accorgessi. La laurea, le prime supplenze, il ruolo, il matrimonio, i figli. Il ricordo e le sensazioni vissute quella notte di oltre vent’anni fa sono andati impallidendo, scomparendo quasi dalla mia mente. Ma so che è tutto presente, nascosto in qualche angolo profondo e buio dentro di me.
La vita è stata serena, tranquilla, spesso felice. Una moglie, una madre, una donna realizzata.
Mi chiamo Marina. Ho trentanove anni appena compiuti. Non sono brutta ma nemmeno bellissima. Sono carina, come si usa dire. Castana, capelli di media lunghezza, occhi grandi e scuri circondati da una ragnatela di piccole rughe, media statura, né magra né grassa. Sono chiusa nella mia auto nel parcheggio di via Novara.
Lo stesso di quella sera. Ci sono passata davanti per caso qualche giorno fa, in auto con mio marito. Sono stata travolta dall’emozione, dai ricordi e dall’eccitazione. E tutto è tornato in piena luce! Stasera sono uscita con la scusa di una cena tra amiche e colleghe di scuola e sono venuta qui. Il cuore galoppa, il ventre è contratto.
Rivivo momento per momento quella sera che credevo di aver dimenticato e invece era dentro di me. Immutata e chiara, troppo. Il parcheggio è deserto, sono le undici di una sera qualunque di un nebbioso novembre. Solo alcune auto in fondo, spente, sembrano vuote.
Come allora, qualche ombra sembra muoversi ai margini dello spiazzo. Controllo di aver abbassato la chiusura di sicurezza. Mi chiedo cosa mai sto facendo. Mi do della cretina. Allungo la mano per accendere l’auto e ripartire. Poi, la lascio ricadere in mezzo alle cosce dove, senza che me ne rendessi conto, si muoveva da sola dal momento in cui ho parcheggiato e spento il motore. Sono calda in mezzo alle cosce, umida. Sulla pelle brividi. I capezzoli duri spingono la lana del golfino che indosso sotto il cappotto aperto.
Un’ombra viene verso di me. Accendo il motore, le luci, premo il pedale del freno per inserire la marcia del cambio automatico. L’ombra bussa al finestrino. Non voglio girarmi. Bussa di nuovo, più forte. Non voglio girarmi e vedere l’ombra lì fuori. Mi giro. Vedo una mano a pugno che bussa, l’ombra indossa un paio di jeans, la cerniera abbassata, il membro eretto ed esposto. Lo tiene con l’altra mano e lento si masturba, il glande grosso e umido. Lo guardo. Spengo il motore e le luci. Ricordo. La mano bussa di nuovo. Forte. Chiudo gli occhi. Abbasso il vetro del finestrino….
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