Trilogia della resa. #3 La tavola delle offerte  

di
genere
esibizionismo

Tre momenti.
Tre discese.
Una donna che smette di fingere.
E si lascia attraversare.

 Leto è in fondo alla stanza. Seduto su una poltrona bassa, le mani intrecciate. La camera fissa. Nessuna musica. Solo respiri.
Giulia entra.
È nuda, senza scarpe. Nessuna parola.
Il corpo di Giulia è al centro. Stesa, offerta, le braccia legate sopra la testa con nastri di seta.
Tre figure — due donne e un uomo — si muovono attorno a lei come officianti.
Nessuno guarda la camera. Nessuno guarda Leto. Tutti vedono solo lei.
Le mani esplorano. Le bocche assaggiano. Una lingua percorre il fianco, lenta, lasciando dietro di sé una scia di pelle rizzata. Dita che affondano. Labbra che succhiano piano un capezzolo, poi l’altro. Gemiti. Ma nessuno parla. Nessun suono costruito, solo corpi che rispondono. Giulia ride, in un momento breve, scomposto. Poi geme. Forte. Ogni gesto ricevuto diventa più intenso. Ogni zona del suo corpo più viva. È uno smontaggio consapevole: di nome, di ruolo, di eleganza. Una voce femminile sussurra — quasi una cantilena —:
«Ogni parte di te è desiderata. Ogni parte è offerta.»
Ora son due corpi maschili che la prendono. Uno in piedi, la solleva e la penetra. L’altro le tiene il volto, la bocca aperta, la lingua fuori.
 Il piacere è reale, ma guidato. Voluto. Poi tutto si ferma.
Una nuova figura entra.
Alto. Scuro. Il corpo come una scultura antica: nero lucido, denso, possente.
Cammina lento. Ma è come se non toccasse davvero terra — porta con sé una calma antica, che pesa.
E tra le gambe…
un membro smisurato, mostruoso e bellissimo.
Nero come ossidiana bagnata, lucido, pulsante, quasi vivo.
Ondeggia mentre avanza, spesso alla base, affusolato in punta come un’arma cerimoniale.
Non è solo carne: è simbolo. È segno. È uno strumento di mutazione.
Sembra dotato di una volontà propria, come se si orientasse da solo verso Giulia, come se sapesse già dove andare.
Ogni venatura pulsa. Ogni battito lo fa fremere.
Non ha bisogno di parole. Esibisce sé stesso — non per vanità, ma per destino.
È l’ospite d’onore.
Giulia lo guarda.
Non si ritrae. Le gambe si aprono con lentezza. Non c’è provocazione, né paura. Solo volontà.
Lei si prepara a essere piena. Invasa. Non sopraffatta, ma compiuta.
Giulia lo guarda.
Non si ritrae. Le gambe si aprono con lentezza. Non c’è provocazione, né paura. Solo volontà.
Lei si prepara a essere piena. Invasa. Non sopraffatta, ma compiuta.
Lui si avvicina.
Le mani grandi le scivolano sui fianchi, le alzano il bacino.
Una delle officianti si inginocchia dietro di lei, le apre con gesti morbidi le natiche, le accarezza il confine, unge con lentezza.
Una carezza, poi un dito. Poi due.
Giulia ansima, ma non dice nulla. Il suo corpo cede, si offre, accoglie. Il sacrificatore si inginocchia alle sue spalle.
Posiziona la punta del suo sesso — nero, lucente, smisurato — all’ingresso più stretto.
Una pressione. Non forza. Solo presenza.
Giulia geme. Il respiro le si spezza in gola. Ma non si tira indietro.
«Sì», sussurra, quasi senza voce. «Lì… adesso…»
E lui entra.
Lentamente.
Come un coltello rovente che scava un sentiero nuovo.
I muscoli si tendono, poi si aprono. L’anello si arrende.
Il membro penetra, centimetro dopo centimetro, in un ingresso che sembrava inviolabile, ma che ora si spalanca come una verità accettata.
Giulia grida. Trema col volto deformato dalla passione
Il piacere la scava, la ricrea.
Si lascia violare anche dove non ha mai voluto, o potuto. Ma ora lo vuole. 
É dolore. È una vertigine.
Lui affonda tutto. Tutto.
Le mani la tengono ferma, inchiodata alla resa.
Ogni spinta è una frantumazione.
Ogni ritirata, un’illusione.
Il ritmo cresce con colpi pieni e violenti.
Il piacere che prevale sul dolore la travolge. Le lacrime le colano sul viso.
Il suo ano si tende, pulsa, si fa portale.
Non solo riceve: ingloba. Trattiene. Chiede ancora.
Quando lui viene — profondo dentro di lei,  — lei ha un orgasmo che la strappa dalla carne. La schiena inarca. Il ventre si contrae.
Sul volto un  sorriso contorto, devastato, euforico.
Quando il nero si ritrae, lei cade in avanti, ancora tremante.
Un filo di seme viscido le cola tra le natiche.
Giulia si gira. Si inginocchia. Lo guarda in alto.
Prende quello scettro color ebano in bocca assaporando l’umiliazione.
Le labbra si aprono, la gola si tende, accoglie tutto, deglutisce. Poi, lentamente, si stacca, restando in ginocchio.
Il viso imbrattato, le labbra socchiuse, la pelle che luccica di saliva, lacrime e sperma. La camera la fissa. Lei la guarda con complicità. Indossa ancora quella mascherina di pizzo — garanzia fragile del suo anonimato.
Ma sa che potrebbe non bastare. E se qualcuno la riconoscesse?
Un ex compagno di scuola, un collega oppure un vicino.
Qualcuno che, guardando lo schermo, dica:
« È lei.»
Quel pensiero così  sfidante ed eccitante— solo un lampo — le attraversa la pelle come una corrente
L’oscenità massima non è mostrarsi. È farsi vedere davvero.
E in quell’attimo, sotto la maschera, si espone più nuda più che mai.
[Voce fuori campo (maschile, lenta) — Leto.]
«Grandissima. Meravigliosa. Nella carne. Nell’ano. Nella gola. Nell’anima.»
 
 
 
 
scritto il
2025-07-03
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