Uno stage memorabile
di
Pisellino
genere
gay
Ho appena iniziato lo stage. La società è importante, ha la sede in un quartiere modernissimo, un palazzo tutto di vetro e acciaio. Ci sono tanti bei signori ma camminano ad un metro da terra, sembra che hanno il cazzo d’oro. Di sicuro fra loro c’è qualcuno che ama i culetti depilati come il mio, ma non lo fa vedere.
Per fortuna che, libero dal lavoro, ho i miei soliti uccelloni da soddisfare.
Le signorine della ditta sono tutte in tiro, abitini all’ultima moda, sguardo sfacciato e deciso, per uno scatto in carriera si farebbero trombare anche dal cane del padrone.
A proposito di padrone, quando passa il dottor Rogers, che è il direttore generale, tutti fanno in modo di andargli vicino, per farsi notare, una manica di lecchini.
E’ un bell’uomo, di sicuro ha superato i cinquanta anni ma non lo dimostra assolutamente.
Il primo giorno, quando gli hanno presentato noi stagisti, ci ha guardato con uno sguardo un po’ schifato e ci ha raccomandato di comportarci bene, augurandoci di imparare, poi non lo abbiamo più visto. Mentre si allontanava mi era parso di notare che il suo sguardo indugiasse su di me. Mi dissi subito di non fantasticare, di non farmi venire idee strane e di non ragionare col culetto voglioso, che quella non era roba per me e di sicuro le fighette col pisello non gli interessavano. Poteva avere tutto quello che voleva e lì c’era pieno di troiette che avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di farsi scopare da lui.
Trascorrono alcuni giorni piuttosto intensi, nel corso dei quali mi dedico al lavoro e non penso ad altro. Resterò lì solamente tre mesi e voglio imparare il più possibile, non di solo cazzo vive Pisellino.
Poi tutto ha inizio.
Per raggiungere la mensa ho preso una scorciatoia, che sarebbe proibita ma accorcia di molto il cammino. Sto attraversando il saloncino che si trova davanti all’ufficio del dottor Rogers.
Lui sta uscendo dall’ufficio proprio in quel momento e: “Se non sbaglio lei è Pisellino, uno stagista?”, colto di sorpresa soprattutto per il fatto che si ricordasse il mio nome, rispondo solamente con un cenno di assenso, lui prosegue: “Non dovrebbe essere qua ma lasciamo stare…. Non sarebbe meglio che indossasse una cravatta? Oggi c’è una delegazione in visita ed io non voglio scarmigliati in giro”.
Non sono affatto scarmigliato, ho tolto la cravatta perché mi dava fastidio, ce l’ho in tasca. Ma mi limito ad annuire.
“Ma lei è muto? Può parlare con me, non la mangio mica”, continua, ma ora sorride.
Il suo sorriso mi colpisce e mi ipnotizza, ancora di più rimango colpito quando mi invita nel suo ufficio: “Entri, che le presto una cravatta”.
Lo studio è enorme, tutto legni e cuoi pregiati. Alle pareti quadri di pittori famosi e costosi.
Passa subito al tu: “Accomodati pure sul divano”. Anche questo è gigantesco, di cuoio, antico, costerà quanto un appartamento.
“Quasi quasi la cravatta non te la do, anzi mi metto comodo anch'io”. Mentre pronuncia queste parole si toglie la giacca. Nel frattempo preme un pulsante col quale invia un messaggio alla sua segreteria, non deve essere disturbato per nessun motivo, con un altro pulsante blocca la porta.
Si siede vicino a me e mi passa la mano sul collo mentre mi sbottona la camicia: “Forse stai meglio senza cravatta. Però ti devo punire, tutti la devono portare e poi non dovevi passare di qua. E’ da quando ti ho adocchiato il primo giorno che ho capito cosa ti piace, sei una ragazza. Sono piuttosto perspicace… anche in queste cose”.
Mi toglie completamente la camicia e mi lecca i capezzoli, io inizio a mugolare: “Ma Direttore, cosa faaaa!” fingo di protestare con una vocetta querula e femminile.
“Shhh… ora guarda”.
E’ in piedi, si slaccia i pantaloni, tira fuori una proboscide.
E’ appena balzotto ma è già enorme, lunghissimo, del diametro di una lattina di coca cola. E’ proprio vero, il dominante, colui che si impone e che fa strada deve essere “grande”, a tutti i livelli, serve alla testa. Con un affarino come il mio puoi solamente essere passivo, in tutti sensi.
Ma a me piace essere passivo, moltissimo.
E’ in piedi davanti e me, mi afferra per i capelli: “Apri la bocca”.
Io la apro lui lo infila dentro, fino in gola, me lo fa succhiare fino in fondo. E’ talmente lungo che rischio di soffocare.
“Brava zoccoletta, dai, così, così… Brava! sei una troia bocchinara, si vedeva lontano un miglio”.
Mentre mi scopa la bocca mi ordina di sfilarmi i pantaloni, che non ha molto tempo.
Dice che la punizione è quella di incularmi a sangue, vuole assaggiare il mio culo per vedere come è sfondato, capire quanto sono puttana.
In realtà questa non è una punizione, è un premio.
Mi fa alzare, mi appoggio alla scrivania con il culo di fuori, lui si infila un preservativo poi mi sputa sul buco mentre mi allarga con forza le natiche.
“Ecco tieni, ora ti apro per benino”.
Tremante aspetto che il cazzone mi sfondi.
Mi penetra abbastanza brutalmente, gemo di piacere e di dolore.
E’ effettivamente molto grosso, mi riempie completamente. Mentre mi incula, il dottor Rogers afferma che può avere tutte le donne che vuole, anzi, ce le ha. Si sbatte un sacco di puttanelle, di giovani rampanti che farebbero qualsiasi cosa per lui. Ma i culetti come il mio gli piacciono tantissimo, hanno un altro sapore.
Il suo cazzo mi sfrega contro le pareti dell’intestino, allarga tutto, come un trattore fino al colon, preme contro la ghiandolina, mi provoca un dolore interno, piuttosto intenso. Proviene dal punto dove ad ogni colpo batte la punta della sproporzionata cappella. E’ un dolore che mi rende particolarmente consapevole della penetrazione, di essere totalmente posseduto, che sono contento di avvertire, nasce dalla mia dedizione al cazzo nonostante tutto e per questo lo sopporto stoicamente anche se mi fa piegare in due.
Mi capita di provarlo con cazzi magari non molto grossi ma particolarmente lunghi, in questo caso ci sono tutte e due le caratteristiche. Succedeva molto spesso quando ero una giovanissima imberbe fighetta, un culetto rotondo da poco sverginato. Fin da quando nel ripostiglio della scuola o all’oratorio e in tutti i posti che frequentavo venivo inculato da un studente più vecchio, un bidello, un insegnante, un catechista, un amichetto particolarmente sviluppato. Molto più grandi e grossi di me, dolce, femmineo e disponibile, mi mettevano rudemente nel culo le loro umide bestie anche se allora ancora quasi tutte troppo al di fuori della mia portata, che andavano oltre la mia profondità “interna”, ancora non interamente sviluppatisi.
Alcuni di questi infoiati me lo sbattevano nel buco completamente con un unico colpo e senza convenevoli; picchiavano contro la curva del retto, raddrizzandola senza pietà ogni volta che, dopo averne sfilato una parte, lo rituffavano dentro, fino in fondo senza risparmiarmi nemmeno un centimetro della loro eccitazione. Caricati ancora di più dai miei lamenti o dal mio pianto che li faceva sentire particolarmente potenti.
Il fatto era che, affamato, spesso ero io a cercarli per farmi sfondare in quel modo.
Infatti mi abituai presto ed imparai a godere di quel dolore ed ora come allora i miei gemiti non fanno altro che aumentare la libidine dei possessori di quelle lunghe verghe, solo in alcuni casi pochi diminuiscono l’intensità e la forza. Ma non mi interessa che lo facciano.
Mi sono dovuto abituare presto anche alla “larghezza”, mi sono capitati, oltre che lunghi, anche grossi fin dall'inizio quando mi trovavo spesso a dover giustificare il fatto di camminare a gambe larghe, ovviamente se sono “troppo” grossi mi fanno male anche in quel senso, ma in lunghezza di più.
Anche ora per quanto concerne la dilatazione anale sopporto cose dal diametro ragguardevole. Nonostante alcuni ci abbiano provato, non mi sono mai voluto avvicinare al fisting, non voglio diventare un secchio, mi piace “sentire” il cazzo, anche dolorosamente, il maschio sopra di me che mi domina e si muove dentro mentre mi sbatte a più non posso sbavandomi nelle orecchie, non mi interessa un braccio infilato nel culo, al limite preferisco qualche oggetto (vedi “Libidine”), un toys carino, ma niente di più.
Dolore e piacere un binomio imprescindibile.
Per un istante mi contraddico: “Ah! Ah! Rallenti un po’ Direttore, mi spacca!”.
Le parole mi escono dalla bocca anche se non avrei voluto pronunciarle.
Ma anche in questo caso il mio dolore lo fa eccitare ancora di più, perché non rallenta per nulla.
“Non è vero quello che stai dicendo, ti piace essere sfondato, dai dimmelo!”
“Si mi piace, la prego, spinga più forte! Mi spacchi il culo!” Pronuncio queste parole anche se lacrimo, mi fa ancora male.
Non se lo fa ripetere ma finalmente le mie viscere allenate si adattano e la cosa diventa sopportabile, goduriosa.
Ancora una dimostrazione che il dolore fa sempre parte del piacere, lo precede e lo completa.
La mia vera natura, quella della femmina vogliosa e desiderosa di essere sottomessa dal maschio come sempre prende passa avanti a tutto quanto il resto.
Pompa con forza e mi dice delle parolacce, mi da della troia schifosa, della checca sfondata, che questo è nulla, ci vedremo ancora, mi inculerà di nuovo e mi piscerà in faccia.
Intanto mi masturbo, veniamo praticamente assieme, io gemo un po’ più forte, lui si limita respirare solo un po’ più velocemente.
In ginocchio gli devo sfilare il preservativo e dopo avergli leccato l’uccello lo vado a gettare nel bagno privato. Per un momento avevo pensato di doverne bere il contenuto, l’ho già fatto altre volte, glielo dico, ma lui:
“Già. Veramente avrei voluto farti ingoiare ma succederà, non ti preoccupare. Rammenta bene... E’ implicito che tutto questo deve rimanere segreto. Del resto nessuno ti crederebbe”. Mi dice queste cose sorridendo ma capisco benissimo che non posso fare diversamente. Poi lui mi piace. Sarà la posizione, il modo di fare, di scopare, di farmi male, di sottomettermi, ma sono già infatuato perso, completamente devoto, schiavo, creta nelle sue mani.
“Ricomponiti ed esci di là. Ti cercherò io”. Schiaccia l’ennesimo tasto e si apre la porta fra due librerie.
Quando esco ho il cuore in gola, perché ho paura che invece non mi cerca più.
Uno così ti usa e ti butta via. Spero di sbagliarmi.
Indosso la cravatta (la mia, perché lui mi ha dato ben altro) e riprendo le mie attività, anche se ho sempre un fastidio dentro la pancia, un acuto dolorino nell’intestino, dove colpiva la testa del suo magnifico Ariete.
E’ bello, mi ricorda che quello che è accaduto è vero, non è stato un sogno.
Per fortuna che, libero dal lavoro, ho i miei soliti uccelloni da soddisfare.
Le signorine della ditta sono tutte in tiro, abitini all’ultima moda, sguardo sfacciato e deciso, per uno scatto in carriera si farebbero trombare anche dal cane del padrone.
A proposito di padrone, quando passa il dottor Rogers, che è il direttore generale, tutti fanno in modo di andargli vicino, per farsi notare, una manica di lecchini.
E’ un bell’uomo, di sicuro ha superato i cinquanta anni ma non lo dimostra assolutamente.
Il primo giorno, quando gli hanno presentato noi stagisti, ci ha guardato con uno sguardo un po’ schifato e ci ha raccomandato di comportarci bene, augurandoci di imparare, poi non lo abbiamo più visto. Mentre si allontanava mi era parso di notare che il suo sguardo indugiasse su di me. Mi dissi subito di non fantasticare, di non farmi venire idee strane e di non ragionare col culetto voglioso, che quella non era roba per me e di sicuro le fighette col pisello non gli interessavano. Poteva avere tutto quello che voleva e lì c’era pieno di troiette che avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di farsi scopare da lui.
Trascorrono alcuni giorni piuttosto intensi, nel corso dei quali mi dedico al lavoro e non penso ad altro. Resterò lì solamente tre mesi e voglio imparare il più possibile, non di solo cazzo vive Pisellino.
Poi tutto ha inizio.
Per raggiungere la mensa ho preso una scorciatoia, che sarebbe proibita ma accorcia di molto il cammino. Sto attraversando il saloncino che si trova davanti all’ufficio del dottor Rogers.
Lui sta uscendo dall’ufficio proprio in quel momento e: “Se non sbaglio lei è Pisellino, uno stagista?”, colto di sorpresa soprattutto per il fatto che si ricordasse il mio nome, rispondo solamente con un cenno di assenso, lui prosegue: “Non dovrebbe essere qua ma lasciamo stare…. Non sarebbe meglio che indossasse una cravatta? Oggi c’è una delegazione in visita ed io non voglio scarmigliati in giro”.
Non sono affatto scarmigliato, ho tolto la cravatta perché mi dava fastidio, ce l’ho in tasca. Ma mi limito ad annuire.
“Ma lei è muto? Può parlare con me, non la mangio mica”, continua, ma ora sorride.
Il suo sorriso mi colpisce e mi ipnotizza, ancora di più rimango colpito quando mi invita nel suo ufficio: “Entri, che le presto una cravatta”.
Lo studio è enorme, tutto legni e cuoi pregiati. Alle pareti quadri di pittori famosi e costosi.
Passa subito al tu: “Accomodati pure sul divano”. Anche questo è gigantesco, di cuoio, antico, costerà quanto un appartamento.
“Quasi quasi la cravatta non te la do, anzi mi metto comodo anch'io”. Mentre pronuncia queste parole si toglie la giacca. Nel frattempo preme un pulsante col quale invia un messaggio alla sua segreteria, non deve essere disturbato per nessun motivo, con un altro pulsante blocca la porta.
Si siede vicino a me e mi passa la mano sul collo mentre mi sbottona la camicia: “Forse stai meglio senza cravatta. Però ti devo punire, tutti la devono portare e poi non dovevi passare di qua. E’ da quando ti ho adocchiato il primo giorno che ho capito cosa ti piace, sei una ragazza. Sono piuttosto perspicace… anche in queste cose”.
Mi toglie completamente la camicia e mi lecca i capezzoli, io inizio a mugolare: “Ma Direttore, cosa faaaa!” fingo di protestare con una vocetta querula e femminile.
“Shhh… ora guarda”.
E’ in piedi, si slaccia i pantaloni, tira fuori una proboscide.
E’ appena balzotto ma è già enorme, lunghissimo, del diametro di una lattina di coca cola. E’ proprio vero, il dominante, colui che si impone e che fa strada deve essere “grande”, a tutti i livelli, serve alla testa. Con un affarino come il mio puoi solamente essere passivo, in tutti sensi.
Ma a me piace essere passivo, moltissimo.
E’ in piedi davanti e me, mi afferra per i capelli: “Apri la bocca”.
Io la apro lui lo infila dentro, fino in gola, me lo fa succhiare fino in fondo. E’ talmente lungo che rischio di soffocare.
“Brava zoccoletta, dai, così, così… Brava! sei una troia bocchinara, si vedeva lontano un miglio”.
Mentre mi scopa la bocca mi ordina di sfilarmi i pantaloni, che non ha molto tempo.
Dice che la punizione è quella di incularmi a sangue, vuole assaggiare il mio culo per vedere come è sfondato, capire quanto sono puttana.
In realtà questa non è una punizione, è un premio.
Mi fa alzare, mi appoggio alla scrivania con il culo di fuori, lui si infila un preservativo poi mi sputa sul buco mentre mi allarga con forza le natiche.
“Ecco tieni, ora ti apro per benino”.
Tremante aspetto che il cazzone mi sfondi.
Mi penetra abbastanza brutalmente, gemo di piacere e di dolore.
E’ effettivamente molto grosso, mi riempie completamente. Mentre mi incula, il dottor Rogers afferma che può avere tutte le donne che vuole, anzi, ce le ha. Si sbatte un sacco di puttanelle, di giovani rampanti che farebbero qualsiasi cosa per lui. Ma i culetti come il mio gli piacciono tantissimo, hanno un altro sapore.
Il suo cazzo mi sfrega contro le pareti dell’intestino, allarga tutto, come un trattore fino al colon, preme contro la ghiandolina, mi provoca un dolore interno, piuttosto intenso. Proviene dal punto dove ad ogni colpo batte la punta della sproporzionata cappella. E’ un dolore che mi rende particolarmente consapevole della penetrazione, di essere totalmente posseduto, che sono contento di avvertire, nasce dalla mia dedizione al cazzo nonostante tutto e per questo lo sopporto stoicamente anche se mi fa piegare in due.
Mi capita di provarlo con cazzi magari non molto grossi ma particolarmente lunghi, in questo caso ci sono tutte e due le caratteristiche. Succedeva molto spesso quando ero una giovanissima imberbe fighetta, un culetto rotondo da poco sverginato. Fin da quando nel ripostiglio della scuola o all’oratorio e in tutti i posti che frequentavo venivo inculato da un studente più vecchio, un bidello, un insegnante, un catechista, un amichetto particolarmente sviluppato. Molto più grandi e grossi di me, dolce, femmineo e disponibile, mi mettevano rudemente nel culo le loro umide bestie anche se allora ancora quasi tutte troppo al di fuori della mia portata, che andavano oltre la mia profondità “interna”, ancora non interamente sviluppatisi.
Alcuni di questi infoiati me lo sbattevano nel buco completamente con un unico colpo e senza convenevoli; picchiavano contro la curva del retto, raddrizzandola senza pietà ogni volta che, dopo averne sfilato una parte, lo rituffavano dentro, fino in fondo senza risparmiarmi nemmeno un centimetro della loro eccitazione. Caricati ancora di più dai miei lamenti o dal mio pianto che li faceva sentire particolarmente potenti.
Il fatto era che, affamato, spesso ero io a cercarli per farmi sfondare in quel modo.
Infatti mi abituai presto ed imparai a godere di quel dolore ed ora come allora i miei gemiti non fanno altro che aumentare la libidine dei possessori di quelle lunghe verghe, solo in alcuni casi pochi diminuiscono l’intensità e la forza. Ma non mi interessa che lo facciano.
Mi sono dovuto abituare presto anche alla “larghezza”, mi sono capitati, oltre che lunghi, anche grossi fin dall'inizio quando mi trovavo spesso a dover giustificare il fatto di camminare a gambe larghe, ovviamente se sono “troppo” grossi mi fanno male anche in quel senso, ma in lunghezza di più.
Anche ora per quanto concerne la dilatazione anale sopporto cose dal diametro ragguardevole. Nonostante alcuni ci abbiano provato, non mi sono mai voluto avvicinare al fisting, non voglio diventare un secchio, mi piace “sentire” il cazzo, anche dolorosamente, il maschio sopra di me che mi domina e si muove dentro mentre mi sbatte a più non posso sbavandomi nelle orecchie, non mi interessa un braccio infilato nel culo, al limite preferisco qualche oggetto (vedi “Libidine”), un toys carino, ma niente di più.
Dolore e piacere un binomio imprescindibile.
Per un istante mi contraddico: “Ah! Ah! Rallenti un po’ Direttore, mi spacca!”.
Le parole mi escono dalla bocca anche se non avrei voluto pronunciarle.
Ma anche in questo caso il mio dolore lo fa eccitare ancora di più, perché non rallenta per nulla.
“Non è vero quello che stai dicendo, ti piace essere sfondato, dai dimmelo!”
“Si mi piace, la prego, spinga più forte! Mi spacchi il culo!” Pronuncio queste parole anche se lacrimo, mi fa ancora male.
Non se lo fa ripetere ma finalmente le mie viscere allenate si adattano e la cosa diventa sopportabile, goduriosa.
Ancora una dimostrazione che il dolore fa sempre parte del piacere, lo precede e lo completa.
La mia vera natura, quella della femmina vogliosa e desiderosa di essere sottomessa dal maschio come sempre prende passa avanti a tutto quanto il resto.
Pompa con forza e mi dice delle parolacce, mi da della troia schifosa, della checca sfondata, che questo è nulla, ci vedremo ancora, mi inculerà di nuovo e mi piscerà in faccia.
Intanto mi masturbo, veniamo praticamente assieme, io gemo un po’ più forte, lui si limita respirare solo un po’ più velocemente.
In ginocchio gli devo sfilare il preservativo e dopo avergli leccato l’uccello lo vado a gettare nel bagno privato. Per un momento avevo pensato di doverne bere il contenuto, l’ho già fatto altre volte, glielo dico, ma lui:
“Già. Veramente avrei voluto farti ingoiare ma succederà, non ti preoccupare. Rammenta bene... E’ implicito che tutto questo deve rimanere segreto. Del resto nessuno ti crederebbe”. Mi dice queste cose sorridendo ma capisco benissimo che non posso fare diversamente. Poi lui mi piace. Sarà la posizione, il modo di fare, di scopare, di farmi male, di sottomettermi, ma sono già infatuato perso, completamente devoto, schiavo, creta nelle sue mani.
“Ricomponiti ed esci di là. Ti cercherò io”. Schiaccia l’ennesimo tasto e si apre la porta fra due librerie.
Quando esco ho il cuore in gola, perché ho paura che invece non mi cerca più.
Uno così ti usa e ti butta via. Spero di sbagliarmi.
Indosso la cravatta (la mia, perché lui mi ha dato ben altro) e riprendo le mie attività, anche se ho sempre un fastidio dentro la pancia, un acuto dolorino nell’intestino, dove colpiva la testa del suo magnifico Ariete.
E’ bello, mi ricorda che quello che è accaduto è vero, non è stato un sogno.
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