Tornando a casa - 3 - Franco e Silvia - Seconda parte
di
esperia
genere
tradimenti
Questo racconto non ha senso se non si leggono i primi due capitoli. Per i pigri, ecco un breve riassunto:
Chicco ritorna in anticipo da un viaggio di lavoro e trova la casa vuota, mentre la moglie Silvia, al telefono gli conferma di essere a casa. Una breve e sofferta indagine e Chicco capisce che la moglie è con un collega di lei, un certo Franco. Dopo due giorni Silvia ritorna e si rende subito conto delle implicazioni della sua assenza. Non nega la tresca, ma non le attribuisce importanza, dicendo di averlo fatto per riconoscenza per l'aiuto ricevuto da Franco sul lavoro. In realtà lei s'è invaghita pazzamente di Franco e ha cercato in tutti i modi di sedurlo, finché c'è riuscita qualche settimana prima.Un'esperienza sessuale per lei paradisiaca.
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FRANCO
Lo sapevo che sarebbe finita male. Dal primo momento che ho visto Silvia ho sospettato che mi avrebbe dato problemi. L’ho capito dal modo come mi ha guardato, dalla folle determinazione nel suo sguardo e dal sorriso da predatrice che le si era stampato in faccia.
Ho fatto di tutto per tenere la nostra relazione sul piano strettamente professionale e per qualche mese ci sono anche riuscito.
Intendiamoci: non è che Silvia sia una cozza o qualcosa del genere. È carina, simpatica, professionalmente brava, entusiasta e collaborativa. Ma io non sono certo in cerca di avventure sentimentali. Mi sono innamorato una volta, tanto tempo fa, e lo sono ancora, anche se quella donna, mia moglie, non c’è più ormai da sette anni.
Però penso ancora a lei e non c’è posto per nessun’altra nel mio cuore.
Certo, alle volte vedo il mio letto desolatamente vuoto e mia moglie, da lassù, mi perdonerà se cerco sollievo con qualche altra femmina.
Ho raggiunto un tacito accordo con un paio di amiche del gruppo che mi segue nel trekking e nelle regate e qualche volta (non troppo spesso per la verità), a turno, si fermano a dormire da me. Una di loro è fidanzata, ma il suo uomo lavora per una banca tedesca in Germania ed è a casa solo due fine settimana al mese. Credo che abbiano un tacito patto di reciproca tolleranza. L’altra è divorziata, sta benissimo da sola e non pensa proprio a trovarsi un uomo fisso.
Quindi il nostro accordo è perfetto: le due si conoscono, sanno l’una dell’altra senza che se ne sia mai parlato apertamente e si accettano senza problemi.
Poi è apparsa Silvia e il delicato equilibrio costruito in anni di “dico e non dico”, “so ma faccio finta di non sapere” corre il rischio di saltare.
Ormai, a cinquantacinque anni, non sento più la smania e l’urgenza di sesso continuo che avevo nei miei anni giovanili e, sinceramente, dopo una notte passata a scopare, preferisco rimanere da solo e non avere donne per casa almeno per una settimana o anche due.
Perché allora quella notte abbia accettato di passare da casa di Silvia per il bicchiere della staffa non so proprio. Sapevo benissimo che mi sarei messo nelle grane: Silvia era troppo entusiasta, troppo insistente, troppo determinata. Anche troppo poco preoccupata di farsi scoprire dal marito.
Forse l’euforia per il grosso contratto Eni, forse il vino, forse l’innegabile fascino di quella brunetta che non faceva mistero del suo desiderio (“Amor ch’a nullo amato amar perdona” dice Francesca nel canto quinto dell’Inferno di Dante), ma alla fine, contro ogni raziocinio, me la sono trombata.
Per carità, mi sono divertito un sacco, non dico di no. Lei pareva gradire in maniera spropositata. Aveva orgasmi uno dietro l’altro ed era disponibile a tutto.
Non c’è nulla di più gratificante per me che far godere una donna. Preferisco il suo orgasmo al mio, non c’è dubbio, e quella notte Silvia di orgasmi ne ha avuti tanti, più di quanti ne abbia mai procurati a nessun’altra. Un vero toccasana per il mio ego, tanto che dopo la prima chiavata è riuscita a farmelo rizzare di nuovo con un pompino da Guinness dei primati e abbiamo avuto un secondo round, una cosa che alla mia età ormai mi succede molto di rado.
Quando all'alba del giorno successivo me ne andai ero comunque determinato a non ripetere l’esperienza: troppo rischioso, sia perché non provavo per lei quello che invece lei pareva provare per me, poi perché era sposata e l’ultima cosa che avrei voluto era di dovermi preoccupare di un marito geloso che mi inseguisse armato di bastone, e infine perché era una collega e l’esperienza mi insegna di non mettersi mai con le colleghe. Finisce sempre male: alla fine tutti lo vengono a sapere, cominciano i pettegolezzi, le invidie e i rancori, il lavoro ne risente e non ti resta che cambiare aria, magari rinunciando a una bella posizione costruita in anni di fatiche.
Nei giorni successivi affrontai l’argomento facendole presente quanto poco opportuno fosse il fatto che avessimo una relazione, a quanti rischi ci si sarebbe potuti esporre e a quali svantaggi saremmo andati incontro cambiando radicalmente il nostro stile di vita.
Lei parve darmi ragione, ma mentre io intendevo interrompere immediatamente ogni contatto fisico, la sua idea era che la nostra storia avrebbe dovuto fare il suo corso ed esaurirsi spontaneamente nel giro di qualche mese.
Provai a insistere, ma vidi subito che se la sarebbe presa a male e che le veniva da piangere, così feci marcia indietro, sempre più preoccupato per le ricadute negative in ufficio, con questa Gina che ci guardava con aperto disprezzo e disapprovazione, alimentando anche un pettegolezzo contro di noi in tutto l’ufficio.
Infatti sfiorammo il disastro almeno in un paio di occasioni. Lei non riusciva assolutamente a comportarsi normalmente con me. Non ci riusciva prima della nostra nottata e tanto meno ci riusciva dopo: mi lanciava occhiate languide, mi aggrediva in ascensore, mi sussurrava proposte oscene all'orecchio, anche in presenza di altri colleghi… Io ero imbarazzatissimo e in difficoltà e non so come ho fatto a non farmi scoprire quella volta che ci siamo baciati nello stanzino delle fotocopie, e un secondo dopo che ci siamo staccati è entrato il capo, oppure quando m’ha fatto un pompino nel bagno disabili.
Da noi non ci sono disabili e il bagno non viene usato, se non nell'eventualità remotissima di visitatori affetti da qualche invalidità. Ma quella volta il bagno delle donne era occupato e la dottoressa Milani, che aveva mangiato qualcosa che le aveva fatto male e non ce la faceva più, cercò di entrare dove Silvia stava facendo del suo meglio per succhiarmi anche i coglioni fuori dall'uccello.
Trovando la porta chiusa, cominciò a bussare freneticamente. Noi entrammo nel panico non sapendo come uscire da quella situazione senza essere smascherati.
Fortuna volle che finalmente il bagno delle donne si liberasse e che la dottoressa Milani ci si precipitasse dentro, lasciandoci campo libero per andarcene alla chetichella, uno alla volta.
Ero sempre più preoccupato. Quando poi quel giorno mi propose di prenderci qualche giorno di ferie da passare insieme approfittando dell’assenza del marito (in viaggio per lavoro), mi si rizzarono i capelli in testa. Il primo impulso fu di declinare l’invito, ma non feci in tempo perché lei mi chiese di pensarci e di darle una risposta l’indomani.
Ci pensai, repressi la voglia di negarmi e, anzi, vidi l’opportunità di troncare una volta per tutte.
Così il giorno successivo le confermai il programma e le proposi a mia volta che condividesse qualcuna delle mie passioni. I primi due giorni saremmo andati al mare, nella mia barca e poi avremmo speso gli altri due in montagna, in una escursione invernale in Val d’Aosta.
E così fu. Silvia si presentò a casa mia il lunedì verso mezzogiorno con un trolley (che giudicai immediatamente inadatto per ciò che avevo in mente), vestita con una gonna e scarpe con i tacchi. Pensai che ci sarebbe stato da divertirsi…
L’operazione distruggi-Silvia cominciò appena arrivammo al mio posto barca a Santa Margherita.
Salimmo subito sul cabinato, 6,40 mt, del mio amico Bruno che lo usa solo d’estate e me lo lascia il resto dell’anno. Silvia non era mai salita su una barca a vela e non sapeva cosa fare.
Le dissi subito che avrebbe dovuto cambiarsi: le scarpe coi tacchi non sono permesse in barca, la gonna non è pratica e appena esci dal porto il vento ti gela le ossa se non hai una giacca impermeabile, anche in Riviera. Nella barca c’era qualche indumento per le emergenze: un paio di mocassini da vela, più piccole di un numero rispetto alla taglia di Silvia e una giacca di Gore-tex verde pisello, questa volta due numeri più grande. Si ritirò in cabina a cambiarsi e, dalla sua smorfia, capii che aveva un’idea delle cabine molto più romantica di quanto fossero nella realtà: ce n’erano due, a prua, ognuna delle quali conteneva un giaciglio troppo piccolo per due persone adulte che volessero dormire, per niente accoglienti, con pochissimo spazio per riporre oggetti e indumenti.
Ci dirigemmo verso ponente, io indaffarato con le vele e il timone e lei impacciata a guardarmi, in precario equilibrio. Le chiesi di preparare qualcosa per cena, ma più che una pasta al burro non riuscì a mettere insieme.
Raccolsi le vele, gettai l’ancora e ci fermammo a cenare nella rada di Portofino. Il mare non era mosso, ma certo non era calmo come nel porto e il moto ondoso pareva avere effetti spiacevoli sullo stomaco di Silvia, a giudicare dal colore verdastro che andava assumendo il suo volto. Io invece descrivevo con toni entusiastici le delizie della vita del marinaio, l’avventura, il contatto con la furia degli elementi, la soddisfazione di vincere contro venti e maree.
Silvia non pareva impressionata e mi chiese dove fosse il bagno. Con sadismo le mentii, spiegandole che, per quanto possibile, per le evacuazioni ci si doveva arrangiare sporgendo il culo fuori bordo, sottovento, per carità! C’era sì un vecchio water chimico, ma la puzza non c’era verso di eliminarla.
Comunque le mostrai il bagno. Vidi il panico disegnarsi sul suo volto quando si rese conto che il lavabo era delle dimensioni di una tazza da caffelatte o poco più e che non c’era traccia di doccia (in realtà c’era, ripiegata e nascosta da un pannello, ma siccome non me lo chiese esplicitamente, non mi parve il caso di dilungarmi in spiegazioni.
Eccola lì, un pesce fuor d’acqua, ridicola con la giacca troppo grande, scomoda per via delle scarpe piccole e con un principio di mal di mare che le toglieva ogni voglia di romanticismo.
Dopo cena cercò di mettere ordine nel suo trolley, ma un colpo di vento le fece volare una gonna in mare. Riuscii a recuperarla con un arpione, ma apparve subito completamente rovinata.
Più tardi mi avvicinai con chiare intenzioni amorose con l’intento di rincuorarla, ma mi sorrise debolmente e, anche se non mi respinse, si vedeva chiaramente che non era dell’umore giusto.
Ci accontentammo di qualche coccola prima di cadere nel sonno. Nell’attesa però mi aprii i pantaloni a babordo e pisciai fuori dalla barca, nel mare. Il freddo era intenso, la notte bellissima anche se la mia amica non pareva certo avere lo spirito per godersela. Mi guardò con orrore. Supponevo che anche lei avesse necessità di liberare la vescica a magari non solo quella, ma aveva troppa vergogna.
Le rivolsi un sorriso d’incoraggiamento.
- Fai pure con comodo. - le dissi mentre mi ritiravo nella mia cuccetta. Non c’era infatti spazio per due persone, anche se volevi fare del sesso. Il soffitto era così basso che ad ogni movimento ci avresti picchiato la testa, un gomito, un ginocchio e il materassino non era più largo di un metro.
La mattina successiva mi trovai di fronte una Silvia sull’orlo di una crisi di nervi. Così, dopo una breve colazione mi diressi di nuovo verso Santa Margherita, ormeggiai la barca nel posto assegnato e ripresi la macchina, rassicurandola circa il fatto che nella nostra nuova destinazione, un bagno l’avremmo trovato.
Silvia era ammutolita. Aveva avuto un assaggio di cosa avrebbe significato vivere accanto a me e si stava chiedendo se ne valesse la pena. Nel trolley aveva stipato vezzosi completi La Perla, camice da notte trasparenti, scarpe col tacco undici con l’idea di una romantica vacanza di seduzione e sesso e si ritrovava con un bisogno urgente di una doccia, i piedi doloranti, i capelli in disordine e, in generale, un aspetto che meno seducente di così non avrebbe potuto essere.
Nei due giorni successivi andò un po’ meglio. Per lei, voglio dire. Ci fermammo nel mio piccolo appartamentino a Courmayeur e la notte riuscimmo a fare sesso, seppure stanchissimi.
Il freddo era intenso e Silvia non aveva abiti adatti. Nell’armadio di casa c’erano giacche a vento, doposci e qualche calzamaglia termica, oltre a guanti e cappelli, ma in un posto fighetto e alla moda come Courma, come lo chiamano confidenzialmente i residenti, i suoi abiti spaiati, non proprio della misura esatta e dai colori improbabili non le facevano fare una bella figura. Si sentiva a disagio passeggiando per la stazione sciistica o a pranzo nei ristoranti, ma peggio le andò quando la costrinsi, un pomeriggio inoltrato, a una camminata sulla neve lungo un percorso che costeggiava la pista da fondo.
Fino a quando restammo lungo il costone, al sole, fu quasi piacevole, anche per lei. Ma poi ci si inoltrò nel bosco, all’ombra, e la temperatura esterna scese. Meno dieci, meno quindici… Le labbra le divennero viola, pomelli e punta del naso rosso fuoco. Cominciò a tremare incontrollabilmente e le si paralizzarono i muscoli del viso. Il naso prese a gocciolarle e il muco le si congelava sopra il labbro.
Quella sera, dopo cena, Silvia quasi ebbe una crisi di nervi. Al ristorante (polenta e capriolo), circondati da turisti che sfoggiavano i migliori capi di abbigliamento da montagna, lei cercava di rendersi piccola ed invisibile, con le sue cose spaiate e della misura sbagliata, ma era ovvio che stesse davvero male. Voleva far colpo su di me e invece riusciva solo a rendersi ridicola.
A letto, la sera, finalmente mi presi il tempo si scoparmela come si deve. A un certo punto si mise a piangere, non so se per la gioia, per la frustrazione e l’umiliazione o se per il senso di colpa verso il marito. Mi misi d’impegno e la feci godere con la lingua le dita e con una scopata di quasi quaranta minuti, forse il mio record.
Fu proprio mentre mi riposavo dopo essere venuto, ancora sudato e ansimante che mi venne l’idea. Il fatto era che ero spompato e non pensavo di essere in grado di fare un bis, anche se avessi aspettato un’ora o più. Pensai che ci sarebbe voluto qualcosa di più eccitante, qualcosa di inconsueto…
Silvia era una gran gnocca, una delle migliori che avessi mai avuto e il suo punto forte era il culo. Alto, rotondo, sporgente, con le chiappe ben separate, senza un filo di cellulite. Morbido, ma sodo, del tutto inusuale per una donna della sua età.
Decisi di comportarmi da stronzo, anche peggio di come mi ero comportato fino a quel momento.
Una volta ripreso e rifocillato ci dirigemmo di nuovo in camera. Le tolsi la vestaglia che aveva temporaneamente indossato e le sussurrai:
- Dài, girati che facciamo il culo.
- Come? No… Aspetta… Non… Franco scusa, ma non l’ho mai fatto. Anche Chicco me lo chiedeva ma non mi sono mai decisa.
- È giunto il momento. Rilassati. - E intanto la spinsi sul letto e la girai bocconi. Mi posizionai tra le sue gambe aperte e le separai le chiappe con le mani, esponendo il suo buco. A quel punto cercò di reagire e di girarsi ancora verso di me per fronteggiarmi.
Ma io sono più grosso e forte e non ebbi difficoltà a sottometterla. Dal comodino presi un gel lubrificante e le unsi l’ano, ignorando le sue proteste.
La penetrai senza altri preliminari, approfittando di quella mezza erezione che m’era tornata.
- Ahhhhhh! - Un grido di dolore, non di piacere. Non vi feci caso e continuai a pompare.
- Basta, Franco, ti prego, esci, mi fai male!
- Rilassati, bella. Se stringi le chiappe è peggio.
Era strettissima ed il massaggio al cazzo che ne ricavavo era delizioso. Per lei non doveva essere altrettanto piacevole.
- Ahiiii! Franco basta! Esci! Neanche a mio marito permetto di penetrarmi lì!
Era giunto il momento del mio discorso da figlio di puttana.
- Io non sono tuo marito. Non sono obbligato a rispettarti e a farti contenta. Mi prendo quello che voglio e tu non hai altra scelta che lasciarmi fare. Sono io che comando in camera da letto, non tu. Il bello è che non puoi correre da lui a piagnucolare, se non ti va, ma scommetto che tra un paio di giorni, passato il dolore, sarai già così affamata di cazzo che verrai a pregarmi di trombarti ancora, vero troietta? Adesso allarga bene le chiappe e sporgi il culo in fuori, che sono scomodo quando ti irrigidisci.
Non disse nulla, ma la sentii singhiozzare piano. Comunque non si mosse più e non oppose più resistenza.
Venni, tolsi l’uccello sporco di gel lubrificante, sangue, sperma e merda dal suo culo e mi misi sotto la doccia. Tornai a letto dopo qualche minuto e mi girai dall’altra parte con un freddo:
- Buonanotte. - A cui non rispose.
Dopo circa un quarto d’ora la sentii alzarsi ed andare in bagno, dove rimase quasi un’ora.
L’indomani saremmo tornati a casa e probabilmente non avrei più dovuto preoccuparmi di Silvia e delle sue paturnie. Mi addormentai con un sorriso stampato in faccia.
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SILVIA
Erano quasi le sette di sera. Sentii il motore della Land Cruiser di Chicco avvicinarsi a box e mi soffermai a constatare come la mia vita fosse andata in fumo nel giro di poche settimane.
Qualche mese fa avevo una vita piena e soddisfacente con la prospettiva di una tardiva maternità, un marito innamorato, attento e premuroso, un lavoro stimolante e una cotta pazzesca per un collega che mi dava emozioni travolgenti.
Ora tutto ciò era a rischio.
Mio marito mi aveva scoperta e chissà che decisioni avrebbe preso nei miei confronti. E comunque, qualsiasi cosa avesse deciso, anche ammesso (e non concesso) che fossimo rimasti insieme, il nostro rapporto non sarebbe mai stato più come prima.
Io avevo cercato di minimizzare inventandomi così, sui due piedi quella stupidaggine del debito di riconoscenza verso Franco che mi aveva spinta nel suo letto, ma capivo che Chicco non l’aveva bevuta neanche per un momento.
Col mio amante le cose non andavano meglio, dopo il disastro della mini-vacanza. Non sapevo infatti se la nostra storia avrebbe avuto un seguito o se fosse già finita. Io per il momento non avevo certo intenzione di rivederlo.
Questo avrebbe avuto un impatto anche sul lavoro: come avrei fatto a continuare a lavorare con lui se non riuscivo neanche a guardarlo in faccia? Avrei dovuto dimettermi?
Qualche settimana fa avevo tutto. Oggi con ogni probabilità non avevo più niente. Neanche il brivido dell’infedeltà dopo essermi sentita una perfetta deficiente sia a Santa Margherita che a Courmayeur e soprattutto dopo essere stata quasi violentata da Franco l’ultima notte. Il suo freddo commento mi risuonava nella testa e agiva come un estintore sulla fiamma di passione che avevo provato per lui fino a quel momento.
Il viaggio di ritorno dalla montagna era stato un incubo. Nessuno dei due aveva aperto bocca e io continuavo a darmi della stupida per aver rischiato tutto pur di stare con il figlio di puttana che in quel momento stava guidando. In più non avevo avuto modo di lavare la mia roba (le poche cose sexy che avevo portato e che si erano rivelate del tutto inutili) e avevo dovuto indossare la corta gonna nera che era caduta in mare due giorni prima. Era tutta stropicciata e il sale aveva lasciato aloni bianchi dappertutto. Anzi, il danno doveva essere anche più profondo e strutturale, visto che si era ristretta e alla prima sosta per far pipì, risalendo in macchina, le cuciture erano saltate lasciandomi praticamente in mutande.
Pareva non esserci fine alle umiliazioni che avevo sofferto durante quel viaggio.
Mi avvolsi le gambe in un plaid e lasciai che l’umor nero si impadronisse di me fino a casa di Franco, a Monza, dove mi congedai da lui borbottando un freddo saluto prima di salire sulla mia Mini rossa.
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Chicco entrò in casa con una borsa del supermercato, non mi salutò e si diresse in cucina, aprì il frigo e cominciò a riporvi ciò che aveva comprato.
Sentii che stappava una bottiglia di vino.
- Silvia, vuoi del Chianti?
- Sì, grazie.
Tornò in sala con due bicchieri e me ne allungò uno.
Si sedette di fronte a me.
- Allora? Che facciamo?
- Come? Niente, non è successo niente. Non è cambiato niente. Dimentichiamo tutto e continuiamo come prima.
- Ti sei innamorata di lui?
- Ma no, cosa vai a pensare?!
- E allora perché l’hai fatto? E per favore non insistere con questa balla della riconoscenza, non insultare la mia intelligenza. Se avessi voluto sdebitarti gli avresti comprato una Mont Blanc, una valigetta in pelle, o magari un servizio da scrivania in alabastro, o persino un orologio di marca, ma non gli avresti dato il culo, Silvia!
- Cosa vuoi che ti dica… È stato un momento di debolezza, un capriccio… Ma è tutto finito, Chicco, ti giuro!
- Però ci sei andata a letto, no?
- Beh, sì.
- Da quanto tempo te lo scopi?
- Chicco, lascia stare, ci facciamo solo del male a rivangare il passato.
- Da quanto, Silvia? Devo sapere: se sospettassi che tu mi nascondi la verità me ne andrei immediatamente e tra noi sarebbe finita. L’unica remota possibilità che noi si rimanga insieme passa attraverso la sincerità più completa e totale.
- Da due o forse tre settimane. Ecco!
- Quanti altri amanti hai avuto prima di lui?
- Chicco! Ma per chi mi hai preso!? - Mentre lo dicevo mi resi conto che mi aveva preso esattamente per quello che ero. Una zoccola. - Ti giuro. Questa è stata l’unica volta.
- Quante volte te lo sei trombato?
- Una volta, una sola, prima di questa vacanza, te lo giuro!
- E com’è stato? È migliore di me, come amante? - Come faccio, come faccio a dire a quest’uomo che amo e rispetto che Franco è stato il miglior amante del mondo? Che neanche in paradiso si fa l’amore così? Se gli dessi una coltellata gli farei meno male. - Diverso, forse, ma non migliore, no.
- Hai provato qualche novità con lui che con me non hai voluto sperimentare? - Non posso dirgli del culo, non posso proprio.
- No, Chicco, no. Certo, ognuno ha la sua tecnica…
- Allora, ricapitoliamo: Non sei insoddisfatta di me, lui non è un amante migliore e non hai provato con lui cose nuove. Di lui non sei innamorata e non stai pensando di lasciarmi per metterti con lui. E allora perché cazzo l’hai fatto? Perché mettere a rischio tutto per una cosa che, da come me la racconti, non significa niente? Sei in grado di rispondermi, Silvia?
Ci pensai un momento. La spiegazione era ovvia: si è trattato di una irresistibile tentazione e io sono una stupida che non è stata capace di rinunciarci. Cercai di trovare la maniera di spiegarglielo senza fargli troppo male e senza pregiudicare il nostro futuro insieme.
- Come ti spiego… Hai presente quei mocassini Timberland con il tacco basso che metto sempre? Sono le scarpe più comode del mondo. Le ho da due anni e anche se sono usate sono ancora in ottimo stato, mi stanno benissimo e le posso portare tutto il giorno senza problemi, estate e inverno. Ci sono affezionatissima e non ci rinuncerei per niente al mondo. Poi però un giorno passo davanti a un negozio e vedo delle decolleté rosse col tacco undici. So benissimo che non sono adatte a me, che mi faranno male, che non riuscirò a camminare. Ma per qualche giorno mi faranno sentire strafiga. Non riesco a resistere e entro a comprarle.
- Quindi io sarei il mocassino Timberland e Franco la decolleté rossa?
- In un certo senso…
- Capisco.
Si alzò dal divano e si infilò il cappotto.
- Dove vai?
- A fare shopping. Ho visto un paio di scarpe stringate di vitello nero della Moreschi che fanno al caso mio. Credo che sia ora di rottamare le mie vecchie Clarks.
E uscì dalla porta e dalla mia vita.
Chicco ritorna in anticipo da un viaggio di lavoro e trova la casa vuota, mentre la moglie Silvia, al telefono gli conferma di essere a casa. Una breve e sofferta indagine e Chicco capisce che la moglie è con un collega di lei, un certo Franco. Dopo due giorni Silvia ritorna e si rende subito conto delle implicazioni della sua assenza. Non nega la tresca, ma non le attribuisce importanza, dicendo di averlo fatto per riconoscenza per l'aiuto ricevuto da Franco sul lavoro. In realtà lei s'è invaghita pazzamente di Franco e ha cercato in tutti i modi di sedurlo, finché c'è riuscita qualche settimana prima.Un'esperienza sessuale per lei paradisiaca.
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FRANCO
Lo sapevo che sarebbe finita male. Dal primo momento che ho visto Silvia ho sospettato che mi avrebbe dato problemi. L’ho capito dal modo come mi ha guardato, dalla folle determinazione nel suo sguardo e dal sorriso da predatrice che le si era stampato in faccia.
Ho fatto di tutto per tenere la nostra relazione sul piano strettamente professionale e per qualche mese ci sono anche riuscito.
Intendiamoci: non è che Silvia sia una cozza o qualcosa del genere. È carina, simpatica, professionalmente brava, entusiasta e collaborativa. Ma io non sono certo in cerca di avventure sentimentali. Mi sono innamorato una volta, tanto tempo fa, e lo sono ancora, anche se quella donna, mia moglie, non c’è più ormai da sette anni.
Però penso ancora a lei e non c’è posto per nessun’altra nel mio cuore.
Certo, alle volte vedo il mio letto desolatamente vuoto e mia moglie, da lassù, mi perdonerà se cerco sollievo con qualche altra femmina.
Ho raggiunto un tacito accordo con un paio di amiche del gruppo che mi segue nel trekking e nelle regate e qualche volta (non troppo spesso per la verità), a turno, si fermano a dormire da me. Una di loro è fidanzata, ma il suo uomo lavora per una banca tedesca in Germania ed è a casa solo due fine settimana al mese. Credo che abbiano un tacito patto di reciproca tolleranza. L’altra è divorziata, sta benissimo da sola e non pensa proprio a trovarsi un uomo fisso.
Quindi il nostro accordo è perfetto: le due si conoscono, sanno l’una dell’altra senza che se ne sia mai parlato apertamente e si accettano senza problemi.
Poi è apparsa Silvia e il delicato equilibrio costruito in anni di “dico e non dico”, “so ma faccio finta di non sapere” corre il rischio di saltare.
Ormai, a cinquantacinque anni, non sento più la smania e l’urgenza di sesso continuo che avevo nei miei anni giovanili e, sinceramente, dopo una notte passata a scopare, preferisco rimanere da solo e non avere donne per casa almeno per una settimana o anche due.
Perché allora quella notte abbia accettato di passare da casa di Silvia per il bicchiere della staffa non so proprio. Sapevo benissimo che mi sarei messo nelle grane: Silvia era troppo entusiasta, troppo insistente, troppo determinata. Anche troppo poco preoccupata di farsi scoprire dal marito.
Forse l’euforia per il grosso contratto Eni, forse il vino, forse l’innegabile fascino di quella brunetta che non faceva mistero del suo desiderio (“Amor ch’a nullo amato amar perdona” dice Francesca nel canto quinto dell’Inferno di Dante), ma alla fine, contro ogni raziocinio, me la sono trombata.
Per carità, mi sono divertito un sacco, non dico di no. Lei pareva gradire in maniera spropositata. Aveva orgasmi uno dietro l’altro ed era disponibile a tutto.
Non c’è nulla di più gratificante per me che far godere una donna. Preferisco il suo orgasmo al mio, non c’è dubbio, e quella notte Silvia di orgasmi ne ha avuti tanti, più di quanti ne abbia mai procurati a nessun’altra. Un vero toccasana per il mio ego, tanto che dopo la prima chiavata è riuscita a farmelo rizzare di nuovo con un pompino da Guinness dei primati e abbiamo avuto un secondo round, una cosa che alla mia età ormai mi succede molto di rado.
Quando all'alba del giorno successivo me ne andai ero comunque determinato a non ripetere l’esperienza: troppo rischioso, sia perché non provavo per lei quello che invece lei pareva provare per me, poi perché era sposata e l’ultima cosa che avrei voluto era di dovermi preoccupare di un marito geloso che mi inseguisse armato di bastone, e infine perché era una collega e l’esperienza mi insegna di non mettersi mai con le colleghe. Finisce sempre male: alla fine tutti lo vengono a sapere, cominciano i pettegolezzi, le invidie e i rancori, il lavoro ne risente e non ti resta che cambiare aria, magari rinunciando a una bella posizione costruita in anni di fatiche.
Nei giorni successivi affrontai l’argomento facendole presente quanto poco opportuno fosse il fatto che avessimo una relazione, a quanti rischi ci si sarebbe potuti esporre e a quali svantaggi saremmo andati incontro cambiando radicalmente il nostro stile di vita.
Lei parve darmi ragione, ma mentre io intendevo interrompere immediatamente ogni contatto fisico, la sua idea era che la nostra storia avrebbe dovuto fare il suo corso ed esaurirsi spontaneamente nel giro di qualche mese.
Provai a insistere, ma vidi subito che se la sarebbe presa a male e che le veniva da piangere, così feci marcia indietro, sempre più preoccupato per le ricadute negative in ufficio, con questa Gina che ci guardava con aperto disprezzo e disapprovazione, alimentando anche un pettegolezzo contro di noi in tutto l’ufficio.
Infatti sfiorammo il disastro almeno in un paio di occasioni. Lei non riusciva assolutamente a comportarsi normalmente con me. Non ci riusciva prima della nostra nottata e tanto meno ci riusciva dopo: mi lanciava occhiate languide, mi aggrediva in ascensore, mi sussurrava proposte oscene all'orecchio, anche in presenza di altri colleghi… Io ero imbarazzatissimo e in difficoltà e non so come ho fatto a non farmi scoprire quella volta che ci siamo baciati nello stanzino delle fotocopie, e un secondo dopo che ci siamo staccati è entrato il capo, oppure quando m’ha fatto un pompino nel bagno disabili.
Da noi non ci sono disabili e il bagno non viene usato, se non nell'eventualità remotissima di visitatori affetti da qualche invalidità. Ma quella volta il bagno delle donne era occupato e la dottoressa Milani, che aveva mangiato qualcosa che le aveva fatto male e non ce la faceva più, cercò di entrare dove Silvia stava facendo del suo meglio per succhiarmi anche i coglioni fuori dall'uccello.
Trovando la porta chiusa, cominciò a bussare freneticamente. Noi entrammo nel panico non sapendo come uscire da quella situazione senza essere smascherati.
Fortuna volle che finalmente il bagno delle donne si liberasse e che la dottoressa Milani ci si precipitasse dentro, lasciandoci campo libero per andarcene alla chetichella, uno alla volta.
Ero sempre più preoccupato. Quando poi quel giorno mi propose di prenderci qualche giorno di ferie da passare insieme approfittando dell’assenza del marito (in viaggio per lavoro), mi si rizzarono i capelli in testa. Il primo impulso fu di declinare l’invito, ma non feci in tempo perché lei mi chiese di pensarci e di darle una risposta l’indomani.
Ci pensai, repressi la voglia di negarmi e, anzi, vidi l’opportunità di troncare una volta per tutte.
Così il giorno successivo le confermai il programma e le proposi a mia volta che condividesse qualcuna delle mie passioni. I primi due giorni saremmo andati al mare, nella mia barca e poi avremmo speso gli altri due in montagna, in una escursione invernale in Val d’Aosta.
E così fu. Silvia si presentò a casa mia il lunedì verso mezzogiorno con un trolley (che giudicai immediatamente inadatto per ciò che avevo in mente), vestita con una gonna e scarpe con i tacchi. Pensai che ci sarebbe stato da divertirsi…
L’operazione distruggi-Silvia cominciò appena arrivammo al mio posto barca a Santa Margherita.
Salimmo subito sul cabinato, 6,40 mt, del mio amico Bruno che lo usa solo d’estate e me lo lascia il resto dell’anno. Silvia non era mai salita su una barca a vela e non sapeva cosa fare.
Le dissi subito che avrebbe dovuto cambiarsi: le scarpe coi tacchi non sono permesse in barca, la gonna non è pratica e appena esci dal porto il vento ti gela le ossa se non hai una giacca impermeabile, anche in Riviera. Nella barca c’era qualche indumento per le emergenze: un paio di mocassini da vela, più piccole di un numero rispetto alla taglia di Silvia e una giacca di Gore-tex verde pisello, questa volta due numeri più grande. Si ritirò in cabina a cambiarsi e, dalla sua smorfia, capii che aveva un’idea delle cabine molto più romantica di quanto fossero nella realtà: ce n’erano due, a prua, ognuna delle quali conteneva un giaciglio troppo piccolo per due persone adulte che volessero dormire, per niente accoglienti, con pochissimo spazio per riporre oggetti e indumenti.
Ci dirigemmo verso ponente, io indaffarato con le vele e il timone e lei impacciata a guardarmi, in precario equilibrio. Le chiesi di preparare qualcosa per cena, ma più che una pasta al burro non riuscì a mettere insieme.
Raccolsi le vele, gettai l’ancora e ci fermammo a cenare nella rada di Portofino. Il mare non era mosso, ma certo non era calmo come nel porto e il moto ondoso pareva avere effetti spiacevoli sullo stomaco di Silvia, a giudicare dal colore verdastro che andava assumendo il suo volto. Io invece descrivevo con toni entusiastici le delizie della vita del marinaio, l’avventura, il contatto con la furia degli elementi, la soddisfazione di vincere contro venti e maree.
Silvia non pareva impressionata e mi chiese dove fosse il bagno. Con sadismo le mentii, spiegandole che, per quanto possibile, per le evacuazioni ci si doveva arrangiare sporgendo il culo fuori bordo, sottovento, per carità! C’era sì un vecchio water chimico, ma la puzza non c’era verso di eliminarla.
Comunque le mostrai il bagno. Vidi il panico disegnarsi sul suo volto quando si rese conto che il lavabo era delle dimensioni di una tazza da caffelatte o poco più e che non c’era traccia di doccia (in realtà c’era, ripiegata e nascosta da un pannello, ma siccome non me lo chiese esplicitamente, non mi parve il caso di dilungarmi in spiegazioni.
Eccola lì, un pesce fuor d’acqua, ridicola con la giacca troppo grande, scomoda per via delle scarpe piccole e con un principio di mal di mare che le toglieva ogni voglia di romanticismo.
Dopo cena cercò di mettere ordine nel suo trolley, ma un colpo di vento le fece volare una gonna in mare. Riuscii a recuperarla con un arpione, ma apparve subito completamente rovinata.
Più tardi mi avvicinai con chiare intenzioni amorose con l’intento di rincuorarla, ma mi sorrise debolmente e, anche se non mi respinse, si vedeva chiaramente che non era dell’umore giusto.
Ci accontentammo di qualche coccola prima di cadere nel sonno. Nell’attesa però mi aprii i pantaloni a babordo e pisciai fuori dalla barca, nel mare. Il freddo era intenso, la notte bellissima anche se la mia amica non pareva certo avere lo spirito per godersela. Mi guardò con orrore. Supponevo che anche lei avesse necessità di liberare la vescica a magari non solo quella, ma aveva troppa vergogna.
Le rivolsi un sorriso d’incoraggiamento.
- Fai pure con comodo. - le dissi mentre mi ritiravo nella mia cuccetta. Non c’era infatti spazio per due persone, anche se volevi fare del sesso. Il soffitto era così basso che ad ogni movimento ci avresti picchiato la testa, un gomito, un ginocchio e il materassino non era più largo di un metro.
La mattina successiva mi trovai di fronte una Silvia sull’orlo di una crisi di nervi. Così, dopo una breve colazione mi diressi di nuovo verso Santa Margherita, ormeggiai la barca nel posto assegnato e ripresi la macchina, rassicurandola circa il fatto che nella nostra nuova destinazione, un bagno l’avremmo trovato.
Silvia era ammutolita. Aveva avuto un assaggio di cosa avrebbe significato vivere accanto a me e si stava chiedendo se ne valesse la pena. Nel trolley aveva stipato vezzosi completi La Perla, camice da notte trasparenti, scarpe col tacco undici con l’idea di una romantica vacanza di seduzione e sesso e si ritrovava con un bisogno urgente di una doccia, i piedi doloranti, i capelli in disordine e, in generale, un aspetto che meno seducente di così non avrebbe potuto essere.
Nei due giorni successivi andò un po’ meglio. Per lei, voglio dire. Ci fermammo nel mio piccolo appartamentino a Courmayeur e la notte riuscimmo a fare sesso, seppure stanchissimi.
Il freddo era intenso e Silvia non aveva abiti adatti. Nell’armadio di casa c’erano giacche a vento, doposci e qualche calzamaglia termica, oltre a guanti e cappelli, ma in un posto fighetto e alla moda come Courma, come lo chiamano confidenzialmente i residenti, i suoi abiti spaiati, non proprio della misura esatta e dai colori improbabili non le facevano fare una bella figura. Si sentiva a disagio passeggiando per la stazione sciistica o a pranzo nei ristoranti, ma peggio le andò quando la costrinsi, un pomeriggio inoltrato, a una camminata sulla neve lungo un percorso che costeggiava la pista da fondo.
Fino a quando restammo lungo il costone, al sole, fu quasi piacevole, anche per lei. Ma poi ci si inoltrò nel bosco, all’ombra, e la temperatura esterna scese. Meno dieci, meno quindici… Le labbra le divennero viola, pomelli e punta del naso rosso fuoco. Cominciò a tremare incontrollabilmente e le si paralizzarono i muscoli del viso. Il naso prese a gocciolarle e il muco le si congelava sopra il labbro.
Quella sera, dopo cena, Silvia quasi ebbe una crisi di nervi. Al ristorante (polenta e capriolo), circondati da turisti che sfoggiavano i migliori capi di abbigliamento da montagna, lei cercava di rendersi piccola ed invisibile, con le sue cose spaiate e della misura sbagliata, ma era ovvio che stesse davvero male. Voleva far colpo su di me e invece riusciva solo a rendersi ridicola.
A letto, la sera, finalmente mi presi il tempo si scoparmela come si deve. A un certo punto si mise a piangere, non so se per la gioia, per la frustrazione e l’umiliazione o se per il senso di colpa verso il marito. Mi misi d’impegno e la feci godere con la lingua le dita e con una scopata di quasi quaranta minuti, forse il mio record.
Fu proprio mentre mi riposavo dopo essere venuto, ancora sudato e ansimante che mi venne l’idea. Il fatto era che ero spompato e non pensavo di essere in grado di fare un bis, anche se avessi aspettato un’ora o più. Pensai che ci sarebbe voluto qualcosa di più eccitante, qualcosa di inconsueto…
Silvia era una gran gnocca, una delle migliori che avessi mai avuto e il suo punto forte era il culo. Alto, rotondo, sporgente, con le chiappe ben separate, senza un filo di cellulite. Morbido, ma sodo, del tutto inusuale per una donna della sua età.
Decisi di comportarmi da stronzo, anche peggio di come mi ero comportato fino a quel momento.
Una volta ripreso e rifocillato ci dirigemmo di nuovo in camera. Le tolsi la vestaglia che aveva temporaneamente indossato e le sussurrai:
- Dài, girati che facciamo il culo.
- Come? No… Aspetta… Non… Franco scusa, ma non l’ho mai fatto. Anche Chicco me lo chiedeva ma non mi sono mai decisa.
- È giunto il momento. Rilassati. - E intanto la spinsi sul letto e la girai bocconi. Mi posizionai tra le sue gambe aperte e le separai le chiappe con le mani, esponendo il suo buco. A quel punto cercò di reagire e di girarsi ancora verso di me per fronteggiarmi.
Ma io sono più grosso e forte e non ebbi difficoltà a sottometterla. Dal comodino presi un gel lubrificante e le unsi l’ano, ignorando le sue proteste.
La penetrai senza altri preliminari, approfittando di quella mezza erezione che m’era tornata.
- Ahhhhhh! - Un grido di dolore, non di piacere. Non vi feci caso e continuai a pompare.
- Basta, Franco, ti prego, esci, mi fai male!
- Rilassati, bella. Se stringi le chiappe è peggio.
Era strettissima ed il massaggio al cazzo che ne ricavavo era delizioso. Per lei non doveva essere altrettanto piacevole.
- Ahiiii! Franco basta! Esci! Neanche a mio marito permetto di penetrarmi lì!
Era giunto il momento del mio discorso da figlio di puttana.
- Io non sono tuo marito. Non sono obbligato a rispettarti e a farti contenta. Mi prendo quello che voglio e tu non hai altra scelta che lasciarmi fare. Sono io che comando in camera da letto, non tu. Il bello è che non puoi correre da lui a piagnucolare, se non ti va, ma scommetto che tra un paio di giorni, passato il dolore, sarai già così affamata di cazzo che verrai a pregarmi di trombarti ancora, vero troietta? Adesso allarga bene le chiappe e sporgi il culo in fuori, che sono scomodo quando ti irrigidisci.
Non disse nulla, ma la sentii singhiozzare piano. Comunque non si mosse più e non oppose più resistenza.
Venni, tolsi l’uccello sporco di gel lubrificante, sangue, sperma e merda dal suo culo e mi misi sotto la doccia. Tornai a letto dopo qualche minuto e mi girai dall’altra parte con un freddo:
- Buonanotte. - A cui non rispose.
Dopo circa un quarto d’ora la sentii alzarsi ed andare in bagno, dove rimase quasi un’ora.
L’indomani saremmo tornati a casa e probabilmente non avrei più dovuto preoccuparmi di Silvia e delle sue paturnie. Mi addormentai con un sorriso stampato in faccia.
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SILVIA
Erano quasi le sette di sera. Sentii il motore della Land Cruiser di Chicco avvicinarsi a box e mi soffermai a constatare come la mia vita fosse andata in fumo nel giro di poche settimane.
Qualche mese fa avevo una vita piena e soddisfacente con la prospettiva di una tardiva maternità, un marito innamorato, attento e premuroso, un lavoro stimolante e una cotta pazzesca per un collega che mi dava emozioni travolgenti.
Ora tutto ciò era a rischio.
Mio marito mi aveva scoperta e chissà che decisioni avrebbe preso nei miei confronti. E comunque, qualsiasi cosa avesse deciso, anche ammesso (e non concesso) che fossimo rimasti insieme, il nostro rapporto non sarebbe mai stato più come prima.
Io avevo cercato di minimizzare inventandomi così, sui due piedi quella stupidaggine del debito di riconoscenza verso Franco che mi aveva spinta nel suo letto, ma capivo che Chicco non l’aveva bevuta neanche per un momento.
Col mio amante le cose non andavano meglio, dopo il disastro della mini-vacanza. Non sapevo infatti se la nostra storia avrebbe avuto un seguito o se fosse già finita. Io per il momento non avevo certo intenzione di rivederlo.
Questo avrebbe avuto un impatto anche sul lavoro: come avrei fatto a continuare a lavorare con lui se non riuscivo neanche a guardarlo in faccia? Avrei dovuto dimettermi?
Qualche settimana fa avevo tutto. Oggi con ogni probabilità non avevo più niente. Neanche il brivido dell’infedeltà dopo essermi sentita una perfetta deficiente sia a Santa Margherita che a Courmayeur e soprattutto dopo essere stata quasi violentata da Franco l’ultima notte. Il suo freddo commento mi risuonava nella testa e agiva come un estintore sulla fiamma di passione che avevo provato per lui fino a quel momento.
Il viaggio di ritorno dalla montagna era stato un incubo. Nessuno dei due aveva aperto bocca e io continuavo a darmi della stupida per aver rischiato tutto pur di stare con il figlio di puttana che in quel momento stava guidando. In più non avevo avuto modo di lavare la mia roba (le poche cose sexy che avevo portato e che si erano rivelate del tutto inutili) e avevo dovuto indossare la corta gonna nera che era caduta in mare due giorni prima. Era tutta stropicciata e il sale aveva lasciato aloni bianchi dappertutto. Anzi, il danno doveva essere anche più profondo e strutturale, visto che si era ristretta e alla prima sosta per far pipì, risalendo in macchina, le cuciture erano saltate lasciandomi praticamente in mutande.
Pareva non esserci fine alle umiliazioni che avevo sofferto durante quel viaggio.
Mi avvolsi le gambe in un plaid e lasciai che l’umor nero si impadronisse di me fino a casa di Franco, a Monza, dove mi congedai da lui borbottando un freddo saluto prima di salire sulla mia Mini rossa.
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Chicco entrò in casa con una borsa del supermercato, non mi salutò e si diresse in cucina, aprì il frigo e cominciò a riporvi ciò che aveva comprato.
Sentii che stappava una bottiglia di vino.
- Silvia, vuoi del Chianti?
- Sì, grazie.
Tornò in sala con due bicchieri e me ne allungò uno.
Si sedette di fronte a me.
- Allora? Che facciamo?
- Come? Niente, non è successo niente. Non è cambiato niente. Dimentichiamo tutto e continuiamo come prima.
- Ti sei innamorata di lui?
- Ma no, cosa vai a pensare?!
- E allora perché l’hai fatto? E per favore non insistere con questa balla della riconoscenza, non insultare la mia intelligenza. Se avessi voluto sdebitarti gli avresti comprato una Mont Blanc, una valigetta in pelle, o magari un servizio da scrivania in alabastro, o persino un orologio di marca, ma non gli avresti dato il culo, Silvia!
- Cosa vuoi che ti dica… È stato un momento di debolezza, un capriccio… Ma è tutto finito, Chicco, ti giuro!
- Però ci sei andata a letto, no?
- Beh, sì.
- Da quanto tempo te lo scopi?
- Chicco, lascia stare, ci facciamo solo del male a rivangare il passato.
- Da quanto, Silvia? Devo sapere: se sospettassi che tu mi nascondi la verità me ne andrei immediatamente e tra noi sarebbe finita. L’unica remota possibilità che noi si rimanga insieme passa attraverso la sincerità più completa e totale.
- Da due o forse tre settimane. Ecco!
- Quanti altri amanti hai avuto prima di lui?
- Chicco! Ma per chi mi hai preso!? - Mentre lo dicevo mi resi conto che mi aveva preso esattamente per quello che ero. Una zoccola. - Ti giuro. Questa è stata l’unica volta.
- Quante volte te lo sei trombato?
- Una volta, una sola, prima di questa vacanza, te lo giuro!
- E com’è stato? È migliore di me, come amante? - Come faccio, come faccio a dire a quest’uomo che amo e rispetto che Franco è stato il miglior amante del mondo? Che neanche in paradiso si fa l’amore così? Se gli dessi una coltellata gli farei meno male. - Diverso, forse, ma non migliore, no.
- Hai provato qualche novità con lui che con me non hai voluto sperimentare? - Non posso dirgli del culo, non posso proprio.
- No, Chicco, no. Certo, ognuno ha la sua tecnica…
- Allora, ricapitoliamo: Non sei insoddisfatta di me, lui non è un amante migliore e non hai provato con lui cose nuove. Di lui non sei innamorata e non stai pensando di lasciarmi per metterti con lui. E allora perché cazzo l’hai fatto? Perché mettere a rischio tutto per una cosa che, da come me la racconti, non significa niente? Sei in grado di rispondermi, Silvia?
Ci pensai un momento. La spiegazione era ovvia: si è trattato di una irresistibile tentazione e io sono una stupida che non è stata capace di rinunciarci. Cercai di trovare la maniera di spiegarglielo senza fargli troppo male e senza pregiudicare il nostro futuro insieme.
- Come ti spiego… Hai presente quei mocassini Timberland con il tacco basso che metto sempre? Sono le scarpe più comode del mondo. Le ho da due anni e anche se sono usate sono ancora in ottimo stato, mi stanno benissimo e le posso portare tutto il giorno senza problemi, estate e inverno. Ci sono affezionatissima e non ci rinuncerei per niente al mondo. Poi però un giorno passo davanti a un negozio e vedo delle decolleté rosse col tacco undici. So benissimo che non sono adatte a me, che mi faranno male, che non riuscirò a camminare. Ma per qualche giorno mi faranno sentire strafiga. Non riesco a resistere e entro a comprarle.
- Quindi io sarei il mocassino Timberland e Franco la decolleté rossa?
- In un certo senso…
- Capisco.
Si alzò dal divano e si infilò il cappotto.
- Dove vai?
- A fare shopping. Ho visto un paio di scarpe stringate di vitello nero della Moreschi che fanno al caso mio. Credo che sia ora di rottamare le mie vecchie Clarks.
E uscì dalla porta e dalla mia vita.
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