Lui
di
Ja
genere
sentimentali
Come tutte le mattine successive all’arrivo di Ottobre il sole si era appena affacciato, debole, e come tutte le mattine Ja si avviava alla fermata del pullman per le strade deserte del paese in cui viveva, se non che qualcosa, quel giorno, gli sembrava diverso. Poteva essere il profumo di autunno nell’aria, o il ragazzo che di lì a poco lo avrebbe inebriato di un’infinita voglia di vivere.
Ja aveva sedici anni, i capelli d’un biondo scuro e gli occhi color rovere dorato.
La fermata era situata su di un marciapiede che percorreva per una decina di metri la lingua di strada, il cui inizio accoglieva un pullman che viaggiava spedito per l’immensa e caotica scuola.
Ma quella stessa mattina le gambe del giovane non l’avrebbero portato all’inferno senza prima esser passato per il paradiso. E così, mentre Caronte proferiva che non era arrivato il loro momento, il traghetto navigava via, abbandonando le giovani anime alla zattera che gli avrebbe fatto visita di lì a un’ora.
Eccomi. Non ero felice che il pullman si fosse rivelato quasi pieno ma io non potevo farci niente. Non fui l’unico: a terra erano rimasti altri due ragazzi. Uno di loro, che abitava non lontano dalla fermata, si rifugiò a casa come se nulla fosse. L’altro si chiamava G. e viveva anche lui dietro l’angolo. Suo fratello gemello era riuscito nell’impresa e lo aveva lasciato solo. In quel paesino tutti conoscevano tutti. Aveva un anno più di me e mi ricordo di lui e di tutta la sua classe dai primi anni delle elementari. Aveva il viso tondo, un’espressione seria e sorrideva di rado. Non altissimo, vestiva come molti dei ragazzi di oggi, Nike basse, calze corte e jeans un po’ attillati.
Non capitava raramente che Ja facesse delle fantasie su di lui, o, per meglio dire, su di loro, che fossero ad aspettare sullo stesso marciapiede non degnandosi di uno sguardo, o in due letti separati da delle mura e un’altra cinquantina di case in un piccolo paese della Brianza. Ja gli esisteva vicino, eppure allontanato da un numero infinito di azioni che sarebbero rimaste incompiute finché qualcuno non avrebbe agito, ma conoscendosi, sapeva che non sarebbe mai stato lui.
Mentre mi incamminavo verso casa, pensavo a cosa fare nell’ora di attesa dell’altro pullman. Forse sarei tornato a casa a suonare il pianoforte, o a guardare l’ennesimo episodio di Shameless. Erano le cose migliori che potessi fare non avendo amici che stazionavano alla mia stessa fermata. Ma anche se ne avessi avuto qualcuno, l’opzione di attendere in loro compagnia non sarebbe stata quasi sicuramente scelta. Ero fatto così, zitto con chi non avevo rapporti, giudicavo sempre anche dall’apparenza e non dispiaciuto nel passare del tempo in solitudine a pensare.
Sentii un “Ehi…!” provenire da dietro di me. Incuriosito da chi possa stentare interesse verso di me ma cercando di apparire calmo, mi voltai come se non mi importasse niente di niente, quando vidi G. guardarmi:
“Entri a scuola alle nove…?”.
“Si…”.
“Vuoi aspettare con me, a casa mia?”.
Blocco. Non sapevo cosa pensare né tantomeno cosa dire. Con quel ragazzo non avevo mai scambiato una parola in tutta la mia vita. Se non ci fosse davvero qualcosa sotto non mi degnerebbe d’uno sguardo, e invece mi ha chiesto di aspettare il pullman a casa sua. Con lui. Pensai alla risposta, avrei voluto chiedergli “perché me lo chiedi?...”, ma timoroso che si rimangiasse la parola emisi un semplice “Ok” che andava oltre al suo mediocre significato. Non riuscivo a pensare ad altro che al perché: lui, bello (e figo), con una costante aria di “che cazzo vuoi”, giocava a calcio e ne parlava con i suoi amici che non gli mancavano mai, apparente frequentatore della movida. Io, per alcune persone “carino”, pianista, circondato raramente da veri amici e non dispiaciuto nel passare del tempo in solitudine a pensare.
Come ero solito fare, tentai di seguire il protocollo sociale e sembrare una persona sicura di sé. Camminava pochi passi più avanti di me senza guardarmi, quando gli chiesi: “Tutto bene…?” come se fossimo stati amici da chissà quanto. Di nuovo senza voltarsi mi rispose: “Si... tu?” . Fingendomi distaccato e guardandomi attorno gli dissi: “Normale…”.
Aprì il cancello di ferro con le chiavi e proseguimmo per il breve viale di mattonelle giallo-arancioni che portava alla sua porta. Mi guardavo parecchio attorno, fuori disinteressato, dentro non volevo dimenticare un particolare di ciò che stava succedendo. La porta in legno si spalancò, lui entrò, io dietro di lui. Appoggiammo i giubbetti ad un attaccapanni e togliemmo le scarpe lasciandole all’ingresso. Rimase in maniche corte, in modo da scorgere le sue braccia. Mi lanciò un “Siediti pure” indicando con un cenno la sala, nella parte sinistra della casa. Una volta seduto accarezzai il divano giallo polenta, posto di fronte a una poltrona un po’ più sull’arancione. Agli angoli trovavo delle librerie di legno scuro e una vetrina che custodiva bicchieri di cristallo. Dalla finestra intravedevo il sole, debole, sopraffatto da maestose nuvole che non l’avrebbero liberato molto presto. La stanza, collegata direttamente senza mura alla cucina, era poco illuminata, ma G., da poco tornato da un corridoio, non si precipitò ad accendere alcuna luce.
“Vuoi qualcosa?” mi chiese, trafficando nel frigorifero.
“No, grazie” dissi, accennando un sorriso.
Dopodiché si avvicinò e si fece sprofondare nella poltrona davanti a me mentre apriva una Redbull.
“Frequenti il Vanoni?”
“Si, faccio il turistico..”. Feci finta di stiracchiarmi accomodandomi meglio sul divano.
“Come vai?...”. Bevve un po’ dalla lattina.
A scuola ero il secondo della classe, ma per non sembrare arrogante decisi di tralasciare il “bene, bene” e così dissi sbuffando: “Me la cavo…”.
“Vuoi un po’?”. Mi agitò davanti la Redbull. Volevo attenermi a tutto e bere energy drink alle otto di mattina non faceva che rendermi più menefreghista e illuderlo che fossi completamente a mio agio, cosa che, non so come, mi sembrava fosse la più giusta da fare.
Sorrisi. “Si, dai…”. Si alzò e si sedette sul divano vicino a me. Mi porse la lattina e appoggiai le labbra dov’erano state le sue. Carnose.
Gliela ripassai e mi lasciai cadere sul divano e allargai le gambe per sembrare rilassato. Bevve ancora e mi guardò dritto negli occhi. Il tempo che passò cadeva su di noi insignificante. Il nostro quadretto giunse alla fine quando G. fece uno scatto, e appoggiò le sue labbra sulle mie. Chiuse gli occhi ed io lo seguii. Non servivano, la sua bocca mi faceva da guida tra le mille emozioni che provavo. Successe tutto in un istante.
Semplice. Silenzioso. Perfetto.
Non so dopo quanto tempo, mi afferrò dolcemente il viso, si allontanò di pochi centimetri e riaprì gli occhi. Accennò quasi un sorriso, e riportò la sua bocca sulla mia. Lentamente.
Niente parole, mille pensieri. Così tanti che non sapevo quale seguire. Il mio primo bacio da un ragazzo che da fuori non sembrerebbe mai com’è veramente e che poteva avere tutte le ragazze che desiderasse… perché ha scelto me? Perché tutto in quel momento? Da quanto prova questo, se questo non comprende solamente atti carnali?
Si levò, mi fece alzare dal divano e, tenendomi per mano, mi guidò per la casa. Alla fine ci trovammo in una camera da letto matrimoniale. Non ricordo come ci ero arrivato perché non riuscivo a pensare ad altro che a quello che era appena successo, e a quello che sarebbe potuto succedere. Mi fece accomodare sul letto, immobile. Nessuno diceva niente, non ce n’era il bisogno. Mi sfilò i vestiti, dolcemente, come fossi fatto di platino, e in seguito si spogliò anche lui, non staccando per un secondo lo sguardo dal mio. Il suo corpo, pieno di energia e voglia di vivere, amoreggiava stretto al mio con una lentezza che non conoscevo, in una realtà il cui tempo era immobile e dove il nostro desiderio si spingeva sempre oltre. Mentre conquistavo i suoi occhi del colore della legna che fa ardere un fuoco vivo, nel mio corpo si addentrava il suo amore con una forza divina, in una casa immersa nella quiete che spezzava ogni legame con il mondo.
G. guardava oltre la finestra il pallido sole appena sprigionato, mentre una leggera brezza gli sfiorava il torace e si dileguava lontano, mentre io giacevo sul letto, persuaso da una gioia infinita.
Senza fretta si voltò, appoggiò il ginocchio sulle lenzuola color arancio, e si distese accanto a me. Per un attimo mi guardò, chiudemmo gli occhi, e, dolcemente, mi donò un bacio. Immortale
Ja aveva sedici anni, i capelli d’un biondo scuro e gli occhi color rovere dorato.
La fermata era situata su di un marciapiede che percorreva per una decina di metri la lingua di strada, il cui inizio accoglieva un pullman che viaggiava spedito per l’immensa e caotica scuola.
Ma quella stessa mattina le gambe del giovane non l’avrebbero portato all’inferno senza prima esser passato per il paradiso. E così, mentre Caronte proferiva che non era arrivato il loro momento, il traghetto navigava via, abbandonando le giovani anime alla zattera che gli avrebbe fatto visita di lì a un’ora.
Eccomi. Non ero felice che il pullman si fosse rivelato quasi pieno ma io non potevo farci niente. Non fui l’unico: a terra erano rimasti altri due ragazzi. Uno di loro, che abitava non lontano dalla fermata, si rifugiò a casa come se nulla fosse. L’altro si chiamava G. e viveva anche lui dietro l’angolo. Suo fratello gemello era riuscito nell’impresa e lo aveva lasciato solo. In quel paesino tutti conoscevano tutti. Aveva un anno più di me e mi ricordo di lui e di tutta la sua classe dai primi anni delle elementari. Aveva il viso tondo, un’espressione seria e sorrideva di rado. Non altissimo, vestiva come molti dei ragazzi di oggi, Nike basse, calze corte e jeans un po’ attillati.
Non capitava raramente che Ja facesse delle fantasie su di lui, o, per meglio dire, su di loro, che fossero ad aspettare sullo stesso marciapiede non degnandosi di uno sguardo, o in due letti separati da delle mura e un’altra cinquantina di case in un piccolo paese della Brianza. Ja gli esisteva vicino, eppure allontanato da un numero infinito di azioni che sarebbero rimaste incompiute finché qualcuno non avrebbe agito, ma conoscendosi, sapeva che non sarebbe mai stato lui.
Mentre mi incamminavo verso casa, pensavo a cosa fare nell’ora di attesa dell’altro pullman. Forse sarei tornato a casa a suonare il pianoforte, o a guardare l’ennesimo episodio di Shameless. Erano le cose migliori che potessi fare non avendo amici che stazionavano alla mia stessa fermata. Ma anche se ne avessi avuto qualcuno, l’opzione di attendere in loro compagnia non sarebbe stata quasi sicuramente scelta. Ero fatto così, zitto con chi non avevo rapporti, giudicavo sempre anche dall’apparenza e non dispiaciuto nel passare del tempo in solitudine a pensare.
Sentii un “Ehi…!” provenire da dietro di me. Incuriosito da chi possa stentare interesse verso di me ma cercando di apparire calmo, mi voltai come se non mi importasse niente di niente, quando vidi G. guardarmi:
“Entri a scuola alle nove…?”.
“Si…”.
“Vuoi aspettare con me, a casa mia?”.
Blocco. Non sapevo cosa pensare né tantomeno cosa dire. Con quel ragazzo non avevo mai scambiato una parola in tutta la mia vita. Se non ci fosse davvero qualcosa sotto non mi degnerebbe d’uno sguardo, e invece mi ha chiesto di aspettare il pullman a casa sua. Con lui. Pensai alla risposta, avrei voluto chiedergli “perché me lo chiedi?...”, ma timoroso che si rimangiasse la parola emisi un semplice “Ok” che andava oltre al suo mediocre significato. Non riuscivo a pensare ad altro che al perché: lui, bello (e figo), con una costante aria di “che cazzo vuoi”, giocava a calcio e ne parlava con i suoi amici che non gli mancavano mai, apparente frequentatore della movida. Io, per alcune persone “carino”, pianista, circondato raramente da veri amici e non dispiaciuto nel passare del tempo in solitudine a pensare.
Come ero solito fare, tentai di seguire il protocollo sociale e sembrare una persona sicura di sé. Camminava pochi passi più avanti di me senza guardarmi, quando gli chiesi: “Tutto bene…?” come se fossimo stati amici da chissà quanto. Di nuovo senza voltarsi mi rispose: “Si... tu?” . Fingendomi distaccato e guardandomi attorno gli dissi: “Normale…”.
Aprì il cancello di ferro con le chiavi e proseguimmo per il breve viale di mattonelle giallo-arancioni che portava alla sua porta. Mi guardavo parecchio attorno, fuori disinteressato, dentro non volevo dimenticare un particolare di ciò che stava succedendo. La porta in legno si spalancò, lui entrò, io dietro di lui. Appoggiammo i giubbetti ad un attaccapanni e togliemmo le scarpe lasciandole all’ingresso. Rimase in maniche corte, in modo da scorgere le sue braccia. Mi lanciò un “Siediti pure” indicando con un cenno la sala, nella parte sinistra della casa. Una volta seduto accarezzai il divano giallo polenta, posto di fronte a una poltrona un po’ più sull’arancione. Agli angoli trovavo delle librerie di legno scuro e una vetrina che custodiva bicchieri di cristallo. Dalla finestra intravedevo il sole, debole, sopraffatto da maestose nuvole che non l’avrebbero liberato molto presto. La stanza, collegata direttamente senza mura alla cucina, era poco illuminata, ma G., da poco tornato da un corridoio, non si precipitò ad accendere alcuna luce.
“Vuoi qualcosa?” mi chiese, trafficando nel frigorifero.
“No, grazie” dissi, accennando un sorriso.
Dopodiché si avvicinò e si fece sprofondare nella poltrona davanti a me mentre apriva una Redbull.
“Frequenti il Vanoni?”
“Si, faccio il turistico..”. Feci finta di stiracchiarmi accomodandomi meglio sul divano.
“Come vai?...”. Bevve un po’ dalla lattina.
A scuola ero il secondo della classe, ma per non sembrare arrogante decisi di tralasciare il “bene, bene” e così dissi sbuffando: “Me la cavo…”.
“Vuoi un po’?”. Mi agitò davanti la Redbull. Volevo attenermi a tutto e bere energy drink alle otto di mattina non faceva che rendermi più menefreghista e illuderlo che fossi completamente a mio agio, cosa che, non so come, mi sembrava fosse la più giusta da fare.
Sorrisi. “Si, dai…”. Si alzò e si sedette sul divano vicino a me. Mi porse la lattina e appoggiai le labbra dov’erano state le sue. Carnose.
Gliela ripassai e mi lasciai cadere sul divano e allargai le gambe per sembrare rilassato. Bevve ancora e mi guardò dritto negli occhi. Il tempo che passò cadeva su di noi insignificante. Il nostro quadretto giunse alla fine quando G. fece uno scatto, e appoggiò le sue labbra sulle mie. Chiuse gli occhi ed io lo seguii. Non servivano, la sua bocca mi faceva da guida tra le mille emozioni che provavo. Successe tutto in un istante.
Semplice. Silenzioso. Perfetto.
Non so dopo quanto tempo, mi afferrò dolcemente il viso, si allontanò di pochi centimetri e riaprì gli occhi. Accennò quasi un sorriso, e riportò la sua bocca sulla mia. Lentamente.
Niente parole, mille pensieri. Così tanti che non sapevo quale seguire. Il mio primo bacio da un ragazzo che da fuori non sembrerebbe mai com’è veramente e che poteva avere tutte le ragazze che desiderasse… perché ha scelto me? Perché tutto in quel momento? Da quanto prova questo, se questo non comprende solamente atti carnali?
Si levò, mi fece alzare dal divano e, tenendomi per mano, mi guidò per la casa. Alla fine ci trovammo in una camera da letto matrimoniale. Non ricordo come ci ero arrivato perché non riuscivo a pensare ad altro che a quello che era appena successo, e a quello che sarebbe potuto succedere. Mi fece accomodare sul letto, immobile. Nessuno diceva niente, non ce n’era il bisogno. Mi sfilò i vestiti, dolcemente, come fossi fatto di platino, e in seguito si spogliò anche lui, non staccando per un secondo lo sguardo dal mio. Il suo corpo, pieno di energia e voglia di vivere, amoreggiava stretto al mio con una lentezza che non conoscevo, in una realtà il cui tempo era immobile e dove il nostro desiderio si spingeva sempre oltre. Mentre conquistavo i suoi occhi del colore della legna che fa ardere un fuoco vivo, nel mio corpo si addentrava il suo amore con una forza divina, in una casa immersa nella quiete che spezzava ogni legame con il mondo.
G. guardava oltre la finestra il pallido sole appena sprigionato, mentre una leggera brezza gli sfiorava il torace e si dileguava lontano, mentre io giacevo sul letto, persuaso da una gioia infinita.
Senza fretta si voltò, appoggiò il ginocchio sulle lenzuola color arancio, e si distese accanto a me. Per un attimo mi guardò, chiudemmo gli occhi, e, dolcemente, mi donò un bacio. Immortale
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