La mia seconda prima volta
di
tigrottina
genere
etero
Anche stavolta, come per il primo racconto, non posso non ringraziare il mio adorato amico iprimipassi per la sua traduzione da Sarese a italiano! Come farei senza di te?
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La rottura con Laurent non fu indolore. Dopo la sera della festa, per mesi continuai a ricevere le sue telefonate, i suoi messaggi, a sopportare i suoi appostamenti sotto casa e le sue comunicazioni tramite i numerosi amici in comune. A tutto questo non diedi mai una risposta diretta. Agli amici, invece, mi limitai a dire che il suo atteggiamento aveva totalmente eclissato l’amore che provavo per lui, e che per me era una storia irrimediabilmente conclusa.
Inizialmente, la rabbia mi aiutò a superare i momenti di sconforto. Pensare al suo atteggiamento freddo e al suo innervosirsi quando non assecondavo le sue fantasie cuckold, alla sua arroganza nel pensare di poter disporre di me a suo piacimento, ai malumori, ai litigi, alle sfuriate, fu un prezioso alleato nel lasciarmi alle spalle la nostra storia.
Poi, però, come sempre accade, il tempo fece il suo corso e segnò le settimane successive della mia vita, rendendo sempre più sbiaditi i ricordi negativi e vividi quelli più belli della nostra lunga relazione. Capitò spesso che la nostalgia mi assalisse, soprattutto la sera prima di addormentarmi, quando mi tornavano in mente le volte in cui mi teneva stretta a sé sotto le coperte, mentre il sonno si impadroniva lentamente di entrambi. Sera dopo sera, versai tante di quelle lacrime da rimanerne priva. Ma, nonostante questo, riuscii a non cedere mai a quella vocina autolesionista che mi sussurrava di contattarlo, di riprovarci, di dargli un’altra occasione. La gente non cambia: era l’unica certezza che avessi nella vita. Perciò, non avrebbe avuto senso riprendere in mano quella storia ormai logora.
Diversi mesi più tardi, in pieno inverno, il mio amico Bernard mi invitò a stare da lui a Lione per seguire insieme un’esibizione di poeti sudamericani emergenti che si sarebbe tenuta in un piccolo locale del centro. A differenza dei posti estremamente eleganti in cui Bernie soleva passare le sue serate, il bar nel quale si sarebbe tenuta l’esibizione era un locale spartano in un seminterrato: pochi tavoli, arredamento in stile irish pub e un piccolo palchetto appena sufficiente per la presenza contemporanea di due o tre persone non troppo corpulente. Un ambiente intimo, informale e discreto che mi piacque subito. E che giustificò un abbigliamento casual come piace a me: jeans, t-shirt, le mie solite Air Max e un grazioso piumino sfiancato, bianco come la neve che imperversava quella sera per le strade della città.
Gli artisti erano seduti su panche disposte ai lati del palchetto. Uno alla volta si susseguirono recitando le loro opere. Gran parte di essi mantennero la versione originale, in spagnolo o in portoghese, a seconda dei Paesi di provenienza. Molti recitarono in francese. Qualcuno in inglese. Fra questi, un ragazzo, probabilmente di qualche anno più grande di me, che mi colpì non appena si alzò dalla panca. Al suo aspetto rude, infusogli dai lunghi capelli che gli ricadevano scomposti sulle spalle e da una barbetta incolta, si contrapponeva un atteggiamento timido, accentuato da un lieve rossore a colorargli il volto mentre saliva sul palco. I suoi occhi mi colpirono subito. Profondi, neri come la notte, e resi brillanti come stelle dalla luce dei faretti puntati contro il suo viso. Mentre il gestore del bar delineava il profilo artistico del compositore venezuelano che prendeva posto sullo sgabello al centro del palco, io mi persi ad osservare le sue mani. Grandi, forti, eppure dalle dita lunghe e quasi affusolate, che si muovevano aggraziate prima sull’asta del microfono al fine di regolarlo e poi sul libro che teneva in mano, sfogliandone delicatamente le pagine fino a cercarne una in particolare.
Dopo mesi di completo disinteresse verso qualsivoglia ragazzo capitatomi a tiro, quello sconosciuto mi regalò un brivido lungo la schiena. Pensai alle sue mani aggraziate sul mio corpo esile, alla sua barba solleticarmi il volto, ai suoi occhi penetrare nei miei. Arrossii visibilmente sotto lo stimolo di quei pensieri, mentre il mio sguardo non si distoglieva dal poeta. Dovette accorgersene anche Bernie, che non mancò di sottolineare la cosa col suo consueto umorismo di pessimo gusto: «Tesoro, se vuoi darti sollievo dimmelo, che chiedo se hanno una tovaglia più lunga». Non riuscii a trattenere una risata che, nel locale quasi gremito ma silenzioso in maniera surreale, per qualche istante catalizzò l’attenzione su di noi, rendendo, probabilmente, il mio colorito quasi violaceo. «Ma dai, sei scemo?», gli sussurrai a denti stretti, mentre gli rifilavo una gomitata. Quando mi riscossi, notai che il poeta venezuelano, di cui mi era sfuggito il nome, aveva preso a guardarmi a sua volta. Iniziò a recitare in inglese, tenendo il libro aperto in grembo, ma con gli occhi fissi nei miei. Io feci altrettanto. Mi sembrò di vedere nei suoi occhi le immagini che la sua voce dipingeva così nitidamente: montagne innevate, uno chalet sperduto in quel deserto di ghiaccio, e dentro due amanti, impegnati a scaldarsi al fuoco di un caminetto e del loro amore. Mentre le mie orecchie erano tese ad ascoltare la sua voce quasi flebile, i miei occhi erano concentrati a vagare sul suo viso, sulle sue labbra, sulle sue mani. Mi sembrava quasi di toccarlo tanta era l’intensità con la quale lo osservavo. E lo stesso valeva certamente per lui, che pareva ricambiare a pieno i miei sguardi languidi e la mia eccitazione crescente.
Pochi minuti ancora, e la sua esibizione terminò. Il poeta si alzò, andando a sedersi al suo posto sulla panca. Continuammo, però, a guardarci con insistenza. Bernie non poté non accorgersene. «Ti sei convertita ai capelloni, vedo». Ci conoscevamo da una vita io, Bernard, Anne e Mathieu, impensabile nasconderci qualcosa, eravamo dei libri aperti l’uno per l’altra. «E’ molto attraente», gli dissi. Mi guardò con tenerezza mista a complicità. «Va’ a parlarci». «Ma dai, ma ti pare?», risposi. «Perché? Se ti piace così tanto dovresti… magari poi torna in Venezuela, e non ne avrai più l’occasione». Ero tentata, ma dubbiosa. Mi sentivo una ragazzina alle prese con il suo idolo musicale. «Ma come faccio, che gli dico». «Ho visto come vi guardavate. Non ci sarà bisogno di troppe parole, fidati di me». «Dici che dovrei buttarmi?». «Dico che è da mesi che sembri un automa senza sentimenti. Non ce la faccio più a vederti così. Una volta che qualcuno ti fa battere il cuore… vuoi sprecare questa occasione?». Il botta e risposta continuò ancora per un po’. Fu solo quando lo sconosciuto si alzò per andare sul retro che mi decisi. Attesi qualche secondo al tavolo e, dopo uno sguardo d’intesa con Bernie, mi alzai ripercorrendo il percorso intrapreso dal poeta poco prima.
Tutto il resto fu un vortice di eventi talmente rapidi da lasciarmi quasi senza fiato. Me lo ritrovai inaspettatamente davanti sull’uscio della porta di un improvvisato camerino. Ci guardammo, ancora una volta. «Hello», gli dissi con un filo di voce. Le sue labbra si piegarono in un sorriso imbarazzato. Io arrossii nuovamente. Proprio in quel momento, una pesante tenda in velluto venne mossa appena da uno spostamento d’aria, sfiorandomi una spalla. Avevo i nervi tesi allo spasimo, e quel piccolo contrattempo fu sufficiente a farmi sobbalzare per lo spavento, e a farmi spostare rapidamente verso lo sconosciuto. A pochi centimetri l’uno dall’altra, l’istinto prese il sopravvento. I nostri volti si avvicinarono fin quasi a sfiorarsi, mentre la sua mano accarezzava i miei capelli. Non resistetti, afferrai il suo volto e lo tirai a me, dando il là ad un bacio lungo e via via sempre più passionale. Prima le nostre labbra e poi le nostre lingue fecero un’approfondita conoscenza. Poi, dopo minuti interminabili, ci spingemmo vicendevolmente in camerino richiudendo la porta alle nostre spalle. Io iniziai a spogliarlo per prima, sfilandogli la pesante maglia di lana che indossava e prendendo a baciargli il torace ampio e tonico, mentre le mie dita armeggiavano con i bottoni dei suoi jeans. Una volta rimasto in slip, toccò a lui riservarmi lo stesso trattamento. Nel giro di pochi secondi, mi lasciò vestita delle sole mutandine rosa di pizzo che avevo scelto per l’occasione. La sua passione era travolgente, le sue mani e la sua bocca presero possesso di ogni centimetro del mio corpo. Non mi sentivo così eccitata e coinvolta da non so neanche quanto tempo. I capezzoli quasi mi dolevano, e sentivo il tessuto degli slip bagnarsi sempre più rapidamente.
Sono sempre stata un’accanita sostenitrice dei preliminari, e anche lui sembrava saperci fare stando ai delicati eppure sensuali approcci che mi stava riservando. Ma avevamo pochissimo tempo prima della fine dell’esibizione, e ben poco spazio per metterci comodi. Di peso, mi sollevò facendomi sedere su un pesante tavolo di legno a un lato dello stanzino. Inarcando il bacino, lo aiutai a sfilare anche il mio ultimo indumento, prima che lui facesse lo stesso con il suo. Il suo membro, completamente eretto, fece così bella mostra di sé, a pochi centimetri dalle mie gambe appena divaricate. Una volta nudi riprendemmo a baciarci, e i nostri corpi avvinghiati a scaldarsi l’uno con l’altro. Mi guardò, un mio cenno d’assenso gli fece capire di poter osare di più. Qualche secondo più tardi, avvertii il suo pene farsi strada dentro di me, lentamente. Non era più grande di quello di Laurent, ma mesi di astinenza mi portarono ad avvertire un lieve dolore al momento della penetrazione. Sussultai mentre lui entrava completamente in me, restando fermo per un attimo. Poi iniziò un lento dentro e fuori che aumentò d’intensità e velocità minuto dopo minuto, così come i frequenti e sempre più appassionati baci che, intanto, ci scambiavamo.
Pensai che quella era la prima volta che lo facevo con qualcuno che non fosse Laurent. Non credevo sarebbe mai accaduto. E invece… quello sconosciuto aveva risvegliato in me emozioni ormai sopite. Emozioni alle quali non avevo saputo né voluto resistere. L’orgasmo arrivò squassante per entrambi. Tentò di sfilarsi appena prima, ma lo bloccai con le gambe avvinghiate ai suoi glutei. Mi guardò con preoccupazione. Gli risposi con un sorriso quasi materno: «Don’t worry», gli dissi, non riuscendo a proseguire con un più rassicurante «Prendo la pillola», dato che la mia mente, annebbiata dal piacere, non riuscì a tradurre in inglese quel semplice concetto. Ad ogni modo, lui sembrò intuire il seguito. Si tranquillizzò mentre si svuotava dentro di me, nel mio corpo tremante e scosso dall’orgasmo in corso. Passato lo spossamento post-orgasmico, con dei sorrisi che non accennavano a svanire dai nostri volti, ci rivestimmo in fretta e furia, continuando a baciarci ad ogni occasione. Uscii dal camerino qualche minuto prima di lui.
Tornata al tavolo, non ebbi bisogno di dire nulla a Bernie. Sicuramente poteva leggere sul mio volto sereno ed appagato gli eventi che avevano reso indimenticabile per me quella serata. «Bentornata Sara», mi disse, con un sorriso complice che non celava il doppio senso del mio ritorno alla vita e all’amore.
Non rividi più il poeta sconosciuto. Non scoprii mai il suo nome. Eppure, quella breve, intensa esperienza, fu per me una sorta di rinascita interiore. Qualcosa che mi diede la forza di tornare a sorridere e sperare che la mia anima gemella fosse ancora lì fuori da qualche parte. La certezza che il mio cuore avrebbe potuto battere anche per qualcun altro che non fosse Laurent.
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La rottura con Laurent non fu indolore. Dopo la sera della festa, per mesi continuai a ricevere le sue telefonate, i suoi messaggi, a sopportare i suoi appostamenti sotto casa e le sue comunicazioni tramite i numerosi amici in comune. A tutto questo non diedi mai una risposta diretta. Agli amici, invece, mi limitai a dire che il suo atteggiamento aveva totalmente eclissato l’amore che provavo per lui, e che per me era una storia irrimediabilmente conclusa.
Inizialmente, la rabbia mi aiutò a superare i momenti di sconforto. Pensare al suo atteggiamento freddo e al suo innervosirsi quando non assecondavo le sue fantasie cuckold, alla sua arroganza nel pensare di poter disporre di me a suo piacimento, ai malumori, ai litigi, alle sfuriate, fu un prezioso alleato nel lasciarmi alle spalle la nostra storia.
Poi, però, come sempre accade, il tempo fece il suo corso e segnò le settimane successive della mia vita, rendendo sempre più sbiaditi i ricordi negativi e vividi quelli più belli della nostra lunga relazione. Capitò spesso che la nostalgia mi assalisse, soprattutto la sera prima di addormentarmi, quando mi tornavano in mente le volte in cui mi teneva stretta a sé sotto le coperte, mentre il sonno si impadroniva lentamente di entrambi. Sera dopo sera, versai tante di quelle lacrime da rimanerne priva. Ma, nonostante questo, riuscii a non cedere mai a quella vocina autolesionista che mi sussurrava di contattarlo, di riprovarci, di dargli un’altra occasione. La gente non cambia: era l’unica certezza che avessi nella vita. Perciò, non avrebbe avuto senso riprendere in mano quella storia ormai logora.
Diversi mesi più tardi, in pieno inverno, il mio amico Bernard mi invitò a stare da lui a Lione per seguire insieme un’esibizione di poeti sudamericani emergenti che si sarebbe tenuta in un piccolo locale del centro. A differenza dei posti estremamente eleganti in cui Bernie soleva passare le sue serate, il bar nel quale si sarebbe tenuta l’esibizione era un locale spartano in un seminterrato: pochi tavoli, arredamento in stile irish pub e un piccolo palchetto appena sufficiente per la presenza contemporanea di due o tre persone non troppo corpulente. Un ambiente intimo, informale e discreto che mi piacque subito. E che giustificò un abbigliamento casual come piace a me: jeans, t-shirt, le mie solite Air Max e un grazioso piumino sfiancato, bianco come la neve che imperversava quella sera per le strade della città.
Gli artisti erano seduti su panche disposte ai lati del palchetto. Uno alla volta si susseguirono recitando le loro opere. Gran parte di essi mantennero la versione originale, in spagnolo o in portoghese, a seconda dei Paesi di provenienza. Molti recitarono in francese. Qualcuno in inglese. Fra questi, un ragazzo, probabilmente di qualche anno più grande di me, che mi colpì non appena si alzò dalla panca. Al suo aspetto rude, infusogli dai lunghi capelli che gli ricadevano scomposti sulle spalle e da una barbetta incolta, si contrapponeva un atteggiamento timido, accentuato da un lieve rossore a colorargli il volto mentre saliva sul palco. I suoi occhi mi colpirono subito. Profondi, neri come la notte, e resi brillanti come stelle dalla luce dei faretti puntati contro il suo viso. Mentre il gestore del bar delineava il profilo artistico del compositore venezuelano che prendeva posto sullo sgabello al centro del palco, io mi persi ad osservare le sue mani. Grandi, forti, eppure dalle dita lunghe e quasi affusolate, che si muovevano aggraziate prima sull’asta del microfono al fine di regolarlo e poi sul libro che teneva in mano, sfogliandone delicatamente le pagine fino a cercarne una in particolare.
Dopo mesi di completo disinteresse verso qualsivoglia ragazzo capitatomi a tiro, quello sconosciuto mi regalò un brivido lungo la schiena. Pensai alle sue mani aggraziate sul mio corpo esile, alla sua barba solleticarmi il volto, ai suoi occhi penetrare nei miei. Arrossii visibilmente sotto lo stimolo di quei pensieri, mentre il mio sguardo non si distoglieva dal poeta. Dovette accorgersene anche Bernie, che non mancò di sottolineare la cosa col suo consueto umorismo di pessimo gusto: «Tesoro, se vuoi darti sollievo dimmelo, che chiedo se hanno una tovaglia più lunga». Non riuscii a trattenere una risata che, nel locale quasi gremito ma silenzioso in maniera surreale, per qualche istante catalizzò l’attenzione su di noi, rendendo, probabilmente, il mio colorito quasi violaceo. «Ma dai, sei scemo?», gli sussurrai a denti stretti, mentre gli rifilavo una gomitata. Quando mi riscossi, notai che il poeta venezuelano, di cui mi era sfuggito il nome, aveva preso a guardarmi a sua volta. Iniziò a recitare in inglese, tenendo il libro aperto in grembo, ma con gli occhi fissi nei miei. Io feci altrettanto. Mi sembrò di vedere nei suoi occhi le immagini che la sua voce dipingeva così nitidamente: montagne innevate, uno chalet sperduto in quel deserto di ghiaccio, e dentro due amanti, impegnati a scaldarsi al fuoco di un caminetto e del loro amore. Mentre le mie orecchie erano tese ad ascoltare la sua voce quasi flebile, i miei occhi erano concentrati a vagare sul suo viso, sulle sue labbra, sulle sue mani. Mi sembrava quasi di toccarlo tanta era l’intensità con la quale lo osservavo. E lo stesso valeva certamente per lui, che pareva ricambiare a pieno i miei sguardi languidi e la mia eccitazione crescente.
Pochi minuti ancora, e la sua esibizione terminò. Il poeta si alzò, andando a sedersi al suo posto sulla panca. Continuammo, però, a guardarci con insistenza. Bernie non poté non accorgersene. «Ti sei convertita ai capelloni, vedo». Ci conoscevamo da una vita io, Bernard, Anne e Mathieu, impensabile nasconderci qualcosa, eravamo dei libri aperti l’uno per l’altra. «E’ molto attraente», gli dissi. Mi guardò con tenerezza mista a complicità. «Va’ a parlarci». «Ma dai, ma ti pare?», risposi. «Perché? Se ti piace così tanto dovresti… magari poi torna in Venezuela, e non ne avrai più l’occasione». Ero tentata, ma dubbiosa. Mi sentivo una ragazzina alle prese con il suo idolo musicale. «Ma come faccio, che gli dico». «Ho visto come vi guardavate. Non ci sarà bisogno di troppe parole, fidati di me». «Dici che dovrei buttarmi?». «Dico che è da mesi che sembri un automa senza sentimenti. Non ce la faccio più a vederti così. Una volta che qualcuno ti fa battere il cuore… vuoi sprecare questa occasione?». Il botta e risposta continuò ancora per un po’. Fu solo quando lo sconosciuto si alzò per andare sul retro che mi decisi. Attesi qualche secondo al tavolo e, dopo uno sguardo d’intesa con Bernie, mi alzai ripercorrendo il percorso intrapreso dal poeta poco prima.
Tutto il resto fu un vortice di eventi talmente rapidi da lasciarmi quasi senza fiato. Me lo ritrovai inaspettatamente davanti sull’uscio della porta di un improvvisato camerino. Ci guardammo, ancora una volta. «Hello», gli dissi con un filo di voce. Le sue labbra si piegarono in un sorriso imbarazzato. Io arrossii nuovamente. Proprio in quel momento, una pesante tenda in velluto venne mossa appena da uno spostamento d’aria, sfiorandomi una spalla. Avevo i nervi tesi allo spasimo, e quel piccolo contrattempo fu sufficiente a farmi sobbalzare per lo spavento, e a farmi spostare rapidamente verso lo sconosciuto. A pochi centimetri l’uno dall’altra, l’istinto prese il sopravvento. I nostri volti si avvicinarono fin quasi a sfiorarsi, mentre la sua mano accarezzava i miei capelli. Non resistetti, afferrai il suo volto e lo tirai a me, dando il là ad un bacio lungo e via via sempre più passionale. Prima le nostre labbra e poi le nostre lingue fecero un’approfondita conoscenza. Poi, dopo minuti interminabili, ci spingemmo vicendevolmente in camerino richiudendo la porta alle nostre spalle. Io iniziai a spogliarlo per prima, sfilandogli la pesante maglia di lana che indossava e prendendo a baciargli il torace ampio e tonico, mentre le mie dita armeggiavano con i bottoni dei suoi jeans. Una volta rimasto in slip, toccò a lui riservarmi lo stesso trattamento. Nel giro di pochi secondi, mi lasciò vestita delle sole mutandine rosa di pizzo che avevo scelto per l’occasione. La sua passione era travolgente, le sue mani e la sua bocca presero possesso di ogni centimetro del mio corpo. Non mi sentivo così eccitata e coinvolta da non so neanche quanto tempo. I capezzoli quasi mi dolevano, e sentivo il tessuto degli slip bagnarsi sempre più rapidamente.
Sono sempre stata un’accanita sostenitrice dei preliminari, e anche lui sembrava saperci fare stando ai delicati eppure sensuali approcci che mi stava riservando. Ma avevamo pochissimo tempo prima della fine dell’esibizione, e ben poco spazio per metterci comodi. Di peso, mi sollevò facendomi sedere su un pesante tavolo di legno a un lato dello stanzino. Inarcando il bacino, lo aiutai a sfilare anche il mio ultimo indumento, prima che lui facesse lo stesso con il suo. Il suo membro, completamente eretto, fece così bella mostra di sé, a pochi centimetri dalle mie gambe appena divaricate. Una volta nudi riprendemmo a baciarci, e i nostri corpi avvinghiati a scaldarsi l’uno con l’altro. Mi guardò, un mio cenno d’assenso gli fece capire di poter osare di più. Qualche secondo più tardi, avvertii il suo pene farsi strada dentro di me, lentamente. Non era più grande di quello di Laurent, ma mesi di astinenza mi portarono ad avvertire un lieve dolore al momento della penetrazione. Sussultai mentre lui entrava completamente in me, restando fermo per un attimo. Poi iniziò un lento dentro e fuori che aumentò d’intensità e velocità minuto dopo minuto, così come i frequenti e sempre più appassionati baci che, intanto, ci scambiavamo.
Pensai che quella era la prima volta che lo facevo con qualcuno che non fosse Laurent. Non credevo sarebbe mai accaduto. E invece… quello sconosciuto aveva risvegliato in me emozioni ormai sopite. Emozioni alle quali non avevo saputo né voluto resistere. L’orgasmo arrivò squassante per entrambi. Tentò di sfilarsi appena prima, ma lo bloccai con le gambe avvinghiate ai suoi glutei. Mi guardò con preoccupazione. Gli risposi con un sorriso quasi materno: «Don’t worry», gli dissi, non riuscendo a proseguire con un più rassicurante «Prendo la pillola», dato che la mia mente, annebbiata dal piacere, non riuscì a tradurre in inglese quel semplice concetto. Ad ogni modo, lui sembrò intuire il seguito. Si tranquillizzò mentre si svuotava dentro di me, nel mio corpo tremante e scosso dall’orgasmo in corso. Passato lo spossamento post-orgasmico, con dei sorrisi che non accennavano a svanire dai nostri volti, ci rivestimmo in fretta e furia, continuando a baciarci ad ogni occasione. Uscii dal camerino qualche minuto prima di lui.
Tornata al tavolo, non ebbi bisogno di dire nulla a Bernie. Sicuramente poteva leggere sul mio volto sereno ed appagato gli eventi che avevano reso indimenticabile per me quella serata. «Bentornata Sara», mi disse, con un sorriso complice che non celava il doppio senso del mio ritorno alla vita e all’amore.
Non rividi più il poeta sconosciuto. Non scoprii mai il suo nome. Eppure, quella breve, intensa esperienza, fu per me una sorta di rinascita interiore. Qualcosa che mi diede la forza di tornare a sorridere e sperare che la mia anima gemella fosse ancora lì fuori da qualche parte. La certezza che il mio cuore avrebbe potuto battere anche per qualcun altro che non fosse Laurent.
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