Una bella vacca da pelare
di
Simone Turner
genere
sadomaso
Avevo preparato ogni cosa con cura e adesso anche lei era nuda e pronta davanti a me.
Era una ragazza esile e dal colorito pallido e aveva i capelli chiari e la pelle liscia come seta. Ma soprattutto, due seni enormi, assolutamente sproporzionati su un corpo tanto minuto. Erano sodi e pieni, nel fiore della giovinezza, eppure le ricadevano morbidamente sul ventre piatto. Nel mezzo di tutta quella generosa abbondanza, due bei capezzoli pronunciati, di un rosa più scuro rispetto alla pelle circostante, stavano rapidamente indurendosi esposti all’aria fresca della stanza.
La fissai nella sua interezza solo per un attimo, ammirato. Era certamente una ragazza timida, da quanto era arrivata non mi aveva mai guardato negli occhi, e nemmeno li aveva sollevati dal pavimento, e non aveva detto una parola. Non era necessario, i patti erano chiari e semplici – nessun limite, nessun ripensamento – una volta superata la soglia era diventata una mia proprietà, almeno finché l’avessi voluta.
La feci salire a pancia sotto sul lettino imbottito che avevo fatto modificare apposta per lei. Le assicurai strettamente le caviglie ai supporti e la feci sdraiare, il lettino era troppo corto e poteva appoggiarsi solo fino al ventre che strinsi con una cinghia di cuoio. I suoi enormi seni invece rimasero liberi, stirati verso il pavimento dal loro stesso peso, perpendicolari alla tavola in legno massello che sosteneva l’intera struttura. Le legai anche i polsi ai due pali d’acciaio davanti al letto, alla giusta altezza per evitare che potesse incurvarsi su sé stessa e abbassare troppo la testa verso il petto, oltre che per tenerla il più ferma possibile.
Il letto era abbastanza alto affinché il suo viso fosse alla stessa altezza del mio. Una volta immobilizzata la obbligai a guardarmi negli occhi sollevandole la testa per i capelli e sorrisi quando scorsi una lacrima rigarle la guancia, dunque le coprii gli occhi con una spessa maschera, accecandola.
La colpii con una pesante cinghia di cuoio sul sedere pallido e dalla curva pronunciata, una decina di volte, solo per arrossare la pelle e tastare la sua reazione. Si contorse un poco senza emettere alcun suono e allora la colpii con forza, senza trattenermi, altri dieci colpi senza sosta. Al terzo schiocco iniziò contorcersi sul serio mettendo alla prova i legami che la tenevano in posizione. Al quinto finalmente sentii la sua voce, un grido strozzato. All’ultimo schiocco secco stava ormai gridando senza trattenersi, uno dei miei suoni preferiti.
Le afferrai il capezzolo destro esposto rigirandolo e tirandolo delicatamente fra le dita perché si gonfiasse un poco e lo bloccai con una pinza a forbice dalla stretta abbastanza forte. Si lasciò sfuggire un gemito di sorpresa e un altro un poco più forte quando ripetei l’operazione sul capezzolo a sinistra. Dopo qualche secondo fissai un peso in acciaio ad ogni pinza e la ragazza legata iniziò a lamentarsi mentre i capezzoli venivano inesorabilmente distesi. Provai ad aggiungere ancora un peso di piombo e fui subito ricompensato da uno stridio di dolore, ma la presa delle pinze non era abbastanza forte e lo dovetti sostituire con un peso d’acciaio in aggiunta al primo. Con i capezzoli ben tesi che tiravano ancora più in basso i grossi seni, la ragazza aveva subito iniziato a gemere e lamentarsi in una litania continua che salì di diversi livelli quando iniziai a frustare la tenera carne dei seni con un sottile frustino.
Si lamentava più forte ad ogni colpo, e continuai a colpirla velocemente e con forza finché un grido acuto immediatamente seguito da un tonfo secco non mi avvisarono che una delle pinze si era staccata finendo rumorosamente a terra.
Staccai anche l’altra pinza, e rigirai e tirai energicamente i capezzoli schiacciati e arrossati per ridargli forma.
Tornai da lei poco dopo con due ganci d’acciaio affilati ad un’estremità. Per un attimo osservai divertito la sua espressione inconsapevole, poi afferrai il capezzolo sinistro tra il pollice e l’indice e strinsi e tirai con forza tendendo la pelle. Dunque poggiai l’estremità affilata del gancio alla base del capezzolo e applicai una forte pressione - il lamento stridulo arrivo solo dopo qualche secondo, come se il suo cervello avesse avuto bisogno di tempo per elaborare il tremendo dolore che si irradiava da quel bottoncino di pelle sensibile.
Bucare la pelle fu piuttosto semplice, far penetrare il gancio nella carne invece richiese più forza di quanto avevo previsto e a metà dell’opera le grida della ragazza si erano fatte insopportabili. Feci una pausa, poi riprovai tirando la punta del capezzolo verso l’alto mentre facevo pressione con la punta nel mezzo. Ma alla fine mi stancai di quel gioco e lasciai il gancio incastrato nella carne solo per metà, senza che la punta avesse attraversato il capezzolo da parte a parte.
Afferrai subito l’altro capezzolo, questa volta stringendo e tirando con decisione fin dall’inizio. Spinsi il gancio con forza, senza esitazione. Il metallo acuminato lacerò immediatamente la pelle ma come l’altro si blocco a metà strada. La ragazza stava nuovamente gridando e spazientito rigirai e strinsi il capezzolo in una presa ferrea spingendolo in direzione contraria a quella del gancio. D’un tratto però il capezzolo si era fatto viscido e non riuscivo più a tenere la presa, più stringevo e più sembrava sfuggirmi. Era inutile, non c’era modo di arrivare fino in fondo, così, stanco dei suoi strepiti la imbavagliai e cambiai strategia.
Recuperai i pesi in piombo di poco prima, quelli che si erano rivelati troppo pesanti per le pinze, e altri due identici e ne ancorai uno al gancio di destra. Immediatamente, il gancio - tirato in basso dal peso – tese il capezzolo allungandolo verso terra e conficcandosi più a fondo nella carne. Dato che erano già incastrati alla meglio ero arrivato alla conclusione che, aggiungendo il giusto peso. il gancio non potesse che affondare nella carne, e alla fine l’avrebbe trapassata senza che io dovessi minimamente sforzarmi. Mi ritrovai a sorridere di pura soddisfazione per quella semplice intuizione.
Quando poi feci per agganciare il peso all’altro capezzolo compresi immediatamente perché mentre lo stringevo si era fatto tanto viscido impedendomi di proseguire. Il gancio era già bagnato di liquido biancastro e un poco era finito anche sul pavimento, e un’altra grossa goccia di latte stava per staccarsi dal capezzolo gonfio e arrossato proprio in quel momento.
Fu davvero una gradita sorpresa, i seni di questa ragazza si stavano rivelando ancora più interessanti e pieni di possibilità del previsto.
Assicurai il peso con rinnovato entusiasmo e mi gustai per qualche minuto i suoi lamenti soffocati mentre le punte acuminate dei ganci scavavano lentamente la sua carne tanto sensibile quanto sorprendentemente resistente.
Ancora una volta, però, i ganci si bloccarono prima di riuscire a trapassare la pelle. In compenso la pressione aveva sensibilmente aumentato il flusso del latte dal capezzolo sinistro e ora le gocce si susseguivano uno dopo l’altra quasi senza pause.
Allora aggiunsi il secondo peso di piombo, prima al capezzolo sinistro - in cui il gancio era penetrato ancora meno in profondità e che iniziò subito a zampillare liquido perlaceo da più punti teso fino al limite, trascinando il seno già stirato allo stremo diversi altri centimetri verso terra. Lo strillo acuto della ragazza fu attutito solo in parte dal bavaglio stretto sulle sue labbra.
Subito aumentai il carico anche al seno destro e finalmente vidi il gancio farsi strada velocemente nella carne anche se nella direzione sbagliata. Non feci quasi in tempo a lasciare andare il secondo peso che li ripresi entrambi liberando il gancio. La punta affilata anziché attraversare il capezzolo da parte a parte aveva iniziato a girarsi e avrebbe finito per bucare il capezzolo proprio al centro rimanendo agganciato a un lembo di pelle troppo esiguo perché potesse resistere a tutta quella pressione. E se si fosse strappato sarebbe rimasto ben poco con cui giocare in futuro, anche una volta guarito.
Rimossi i pesi anche dall’altro capezzolo che continuava a sprizzare latte e li riposi momentaneamente da parte. Riprovai un’ultima a volta a spingere il gancio nel capezzolo di destro con le mani, non volendo darmi per vinto tanto facilmente, ma desistetti rapidamente e con un gesto secco sfilai contemporaneamente i ganci da entrambi i capezzoli. Dal buco lasciato in quello di destra uscì una goccia di sangue rosso brillante, da quello a sinistra invece con mia grande e gradita sorpresa sprizzo un piccolo getto di latte bianchissimo che continuò a gocciolare abbondantemente per qualche minuto – avevo appena creato un ben grosso dotto lattifero tutto nuovo.
Quando tornai da lei stringevo in mano un martello e due grossi chiodi, spessi più o meno come i ganci e in fin dei conti più adatti allo scopo che mi ero prefisso.
Senza perdere altro tempo puntai il primo chiodo sul foro lasciato dal gancio nel capezzolo destro e sferrai il primo colpo che spinse il chiodo fin dove il gancio aveva già scavato nella carne. Il secondo colpo trapasso il capezzolo con un piccolo schizzo di sangue e il terzo mandò il chiodo a conficcarsi in profondità nella tavola di legno duro e liscio che sosteneva il lettino. Ogni colpo fu accompagnato da un grido acuto della ragazza totalmente alla mia mercé.
Poi fu la volta del sinistro, posizionai il chiodo sul foro lattiginoso e colpii con forza schizzando di latte la tavola sottostante, bastò solo un altro colpo accompagnato da un grido stridulo soffocato per mandare il chiodo a conficcarsi nel legno scuro. Immediatamente il flusso di latte si arrestò lasciando solo una goccia sospesa sulla punta del capezzolo martoriato.
Riposto il martello, sfilai i chiodi dal legno scuotendoli con le dita - senza curarmi del fatto che anche i capezzoli feriti venissero stirati e allungati dolorosamente durante il processo. In ogni caso alla fine ottenni quello che volevo, entrambi i capezzoli forati da parte a parte con qualcosa su cui poter far presa.
Il passo successivo fu fissare un moschettone ad entrambi i chiodi e per rendere tutto ancora più divertente, almeno per me, sollevai i seni scostandoli dal piano in legno e ci fissai sotto una tavola costellata di chiodini corti ma abbastanza spessi, dalla punta non troppo affilata – volevo che pungessero senza entrare nella pelle.
Quando li lasciai andare, i seni andarono a poggiarsi sui chiodini appuntititi, spinti verso la tavola dal loro stesso peso, causando non poco dolore senza però infliggere danni particolarmente seri.
Allora fu la volta dei pesi. Recuperai i quattro cilindri di piombo dorato e stavolta inizia dal capezzolo sinistro. Il primo peso tese impietosamente la carne arrossata schiacciando nel contempo il rispettivo seno sui chiodini. Così ottenni un doppio risultato – il capezzolo stirato dolorosamente, qual era la intenzione iniziale, e il seno schiacciato sulla tavola chiodata tormentato dalla miriade di punte acuminate.
Aggiunsi subito un peso uguale al seno destro, ottenendo lo stesso fantastico risultato con l’aggiunta di nuovi lamenti soffocati a stento dal bavaglio.
Lasciai alla mia vittima il tempo di prendere confidenza con il nuovo livello di tormento prima di ricominciare a colpire i seni col sottile frustino dalla punta in cuoio e di sicuro stavolta i pesi non finirono a terra.
Con i nuovi colpi riuscii ad ottenere diversi effetti devastanti su quegli enormi seni. Infatti, come se il tremendo colpo di frusta non fosse abbastanza, ogni nuovo schiocco faceva oscillare il seno che spingevano avanti e indietro i pesi sempre più velocemente. Il movimento dei pesi martoriava i capezzoli allungandoli e torcendoli senza sosta, i quali a loro volta facevano sfregare i seni sui chiodini in un delizioso circolo di dolore infinito. In più, il movimento e la pressione, avevano nuovamente stimolato la fuoriuscita del latte dal capezzolo sinistro. A quel punto il mio nuovo obbiettivo era far sì che anche dal capezzolo destro venisse fuori qualcosa. Non mi andava di lasciare un lavoro incompiuto.
Alla fine mi stancai prima riuscire, provai persino a premere il seno con le mani - senza risultati. Forse quel seno non conteneva latte, ma non avevo alcuna intenzioni di arrendermi.
Levai i pesi e i moschettoni da entrambi i capezzoli, lasciando i chiodi al loro posto fino all’ultimo. Dopo rimossi la tavola chiodata che intanto le aveva lasciato profondi segni sulla pelle e iniziai a slegarla.
Una volta liberati i polsi, la vita e le caviglie le sfilai la maschera e il bavaglio e la aiutai a scendere dal lettino.
Aveva gli occhi rossi e lucidi e le guance arrossate, ma non disse una parola.
L’avrei lasciata riposare finché le ferite non fossero guarite e poi avremmo continuato a giocare e magari sarei anche riuscito a farle uscire del latte anche dal seno destro, in un modo o nell’altro. Non ci mancava certo il tempo per provare.
Era una ragazza esile e dal colorito pallido e aveva i capelli chiari e la pelle liscia come seta. Ma soprattutto, due seni enormi, assolutamente sproporzionati su un corpo tanto minuto. Erano sodi e pieni, nel fiore della giovinezza, eppure le ricadevano morbidamente sul ventre piatto. Nel mezzo di tutta quella generosa abbondanza, due bei capezzoli pronunciati, di un rosa più scuro rispetto alla pelle circostante, stavano rapidamente indurendosi esposti all’aria fresca della stanza.
La fissai nella sua interezza solo per un attimo, ammirato. Era certamente una ragazza timida, da quanto era arrivata non mi aveva mai guardato negli occhi, e nemmeno li aveva sollevati dal pavimento, e non aveva detto una parola. Non era necessario, i patti erano chiari e semplici – nessun limite, nessun ripensamento – una volta superata la soglia era diventata una mia proprietà, almeno finché l’avessi voluta.
La feci salire a pancia sotto sul lettino imbottito che avevo fatto modificare apposta per lei. Le assicurai strettamente le caviglie ai supporti e la feci sdraiare, il lettino era troppo corto e poteva appoggiarsi solo fino al ventre che strinsi con una cinghia di cuoio. I suoi enormi seni invece rimasero liberi, stirati verso il pavimento dal loro stesso peso, perpendicolari alla tavola in legno massello che sosteneva l’intera struttura. Le legai anche i polsi ai due pali d’acciaio davanti al letto, alla giusta altezza per evitare che potesse incurvarsi su sé stessa e abbassare troppo la testa verso il petto, oltre che per tenerla il più ferma possibile.
Il letto era abbastanza alto affinché il suo viso fosse alla stessa altezza del mio. Una volta immobilizzata la obbligai a guardarmi negli occhi sollevandole la testa per i capelli e sorrisi quando scorsi una lacrima rigarle la guancia, dunque le coprii gli occhi con una spessa maschera, accecandola.
La colpii con una pesante cinghia di cuoio sul sedere pallido e dalla curva pronunciata, una decina di volte, solo per arrossare la pelle e tastare la sua reazione. Si contorse un poco senza emettere alcun suono e allora la colpii con forza, senza trattenermi, altri dieci colpi senza sosta. Al terzo schiocco iniziò contorcersi sul serio mettendo alla prova i legami che la tenevano in posizione. Al quinto finalmente sentii la sua voce, un grido strozzato. All’ultimo schiocco secco stava ormai gridando senza trattenersi, uno dei miei suoni preferiti.
Le afferrai il capezzolo destro esposto rigirandolo e tirandolo delicatamente fra le dita perché si gonfiasse un poco e lo bloccai con una pinza a forbice dalla stretta abbastanza forte. Si lasciò sfuggire un gemito di sorpresa e un altro un poco più forte quando ripetei l’operazione sul capezzolo a sinistra. Dopo qualche secondo fissai un peso in acciaio ad ogni pinza e la ragazza legata iniziò a lamentarsi mentre i capezzoli venivano inesorabilmente distesi. Provai ad aggiungere ancora un peso di piombo e fui subito ricompensato da uno stridio di dolore, ma la presa delle pinze non era abbastanza forte e lo dovetti sostituire con un peso d’acciaio in aggiunta al primo. Con i capezzoli ben tesi che tiravano ancora più in basso i grossi seni, la ragazza aveva subito iniziato a gemere e lamentarsi in una litania continua che salì di diversi livelli quando iniziai a frustare la tenera carne dei seni con un sottile frustino.
Si lamentava più forte ad ogni colpo, e continuai a colpirla velocemente e con forza finché un grido acuto immediatamente seguito da un tonfo secco non mi avvisarono che una delle pinze si era staccata finendo rumorosamente a terra.
Staccai anche l’altra pinza, e rigirai e tirai energicamente i capezzoli schiacciati e arrossati per ridargli forma.
Tornai da lei poco dopo con due ganci d’acciaio affilati ad un’estremità. Per un attimo osservai divertito la sua espressione inconsapevole, poi afferrai il capezzolo sinistro tra il pollice e l’indice e strinsi e tirai con forza tendendo la pelle. Dunque poggiai l’estremità affilata del gancio alla base del capezzolo e applicai una forte pressione - il lamento stridulo arrivo solo dopo qualche secondo, come se il suo cervello avesse avuto bisogno di tempo per elaborare il tremendo dolore che si irradiava da quel bottoncino di pelle sensibile.
Bucare la pelle fu piuttosto semplice, far penetrare il gancio nella carne invece richiese più forza di quanto avevo previsto e a metà dell’opera le grida della ragazza si erano fatte insopportabili. Feci una pausa, poi riprovai tirando la punta del capezzolo verso l’alto mentre facevo pressione con la punta nel mezzo. Ma alla fine mi stancai di quel gioco e lasciai il gancio incastrato nella carne solo per metà, senza che la punta avesse attraversato il capezzolo da parte a parte.
Afferrai subito l’altro capezzolo, questa volta stringendo e tirando con decisione fin dall’inizio. Spinsi il gancio con forza, senza esitazione. Il metallo acuminato lacerò immediatamente la pelle ma come l’altro si blocco a metà strada. La ragazza stava nuovamente gridando e spazientito rigirai e strinsi il capezzolo in una presa ferrea spingendolo in direzione contraria a quella del gancio. D’un tratto però il capezzolo si era fatto viscido e non riuscivo più a tenere la presa, più stringevo e più sembrava sfuggirmi. Era inutile, non c’era modo di arrivare fino in fondo, così, stanco dei suoi strepiti la imbavagliai e cambiai strategia.
Recuperai i pesi in piombo di poco prima, quelli che si erano rivelati troppo pesanti per le pinze, e altri due identici e ne ancorai uno al gancio di destra. Immediatamente, il gancio - tirato in basso dal peso – tese il capezzolo allungandolo verso terra e conficcandosi più a fondo nella carne. Dato che erano già incastrati alla meglio ero arrivato alla conclusione che, aggiungendo il giusto peso. il gancio non potesse che affondare nella carne, e alla fine l’avrebbe trapassata senza che io dovessi minimamente sforzarmi. Mi ritrovai a sorridere di pura soddisfazione per quella semplice intuizione.
Quando poi feci per agganciare il peso all’altro capezzolo compresi immediatamente perché mentre lo stringevo si era fatto tanto viscido impedendomi di proseguire. Il gancio era già bagnato di liquido biancastro e un poco era finito anche sul pavimento, e un’altra grossa goccia di latte stava per staccarsi dal capezzolo gonfio e arrossato proprio in quel momento.
Fu davvero una gradita sorpresa, i seni di questa ragazza si stavano rivelando ancora più interessanti e pieni di possibilità del previsto.
Assicurai il peso con rinnovato entusiasmo e mi gustai per qualche minuto i suoi lamenti soffocati mentre le punte acuminate dei ganci scavavano lentamente la sua carne tanto sensibile quanto sorprendentemente resistente.
Ancora una volta, però, i ganci si bloccarono prima di riuscire a trapassare la pelle. In compenso la pressione aveva sensibilmente aumentato il flusso del latte dal capezzolo sinistro e ora le gocce si susseguivano uno dopo l’altra quasi senza pause.
Allora aggiunsi il secondo peso di piombo, prima al capezzolo sinistro - in cui il gancio era penetrato ancora meno in profondità e che iniziò subito a zampillare liquido perlaceo da più punti teso fino al limite, trascinando il seno già stirato allo stremo diversi altri centimetri verso terra. Lo strillo acuto della ragazza fu attutito solo in parte dal bavaglio stretto sulle sue labbra.
Subito aumentai il carico anche al seno destro e finalmente vidi il gancio farsi strada velocemente nella carne anche se nella direzione sbagliata. Non feci quasi in tempo a lasciare andare il secondo peso che li ripresi entrambi liberando il gancio. La punta affilata anziché attraversare il capezzolo da parte a parte aveva iniziato a girarsi e avrebbe finito per bucare il capezzolo proprio al centro rimanendo agganciato a un lembo di pelle troppo esiguo perché potesse resistere a tutta quella pressione. E se si fosse strappato sarebbe rimasto ben poco con cui giocare in futuro, anche una volta guarito.
Rimossi i pesi anche dall’altro capezzolo che continuava a sprizzare latte e li riposi momentaneamente da parte. Riprovai un’ultima a volta a spingere il gancio nel capezzolo di destro con le mani, non volendo darmi per vinto tanto facilmente, ma desistetti rapidamente e con un gesto secco sfilai contemporaneamente i ganci da entrambi i capezzoli. Dal buco lasciato in quello di destra uscì una goccia di sangue rosso brillante, da quello a sinistra invece con mia grande e gradita sorpresa sprizzo un piccolo getto di latte bianchissimo che continuò a gocciolare abbondantemente per qualche minuto – avevo appena creato un ben grosso dotto lattifero tutto nuovo.
Quando tornai da lei stringevo in mano un martello e due grossi chiodi, spessi più o meno come i ganci e in fin dei conti più adatti allo scopo che mi ero prefisso.
Senza perdere altro tempo puntai il primo chiodo sul foro lasciato dal gancio nel capezzolo destro e sferrai il primo colpo che spinse il chiodo fin dove il gancio aveva già scavato nella carne. Il secondo colpo trapasso il capezzolo con un piccolo schizzo di sangue e il terzo mandò il chiodo a conficcarsi in profondità nella tavola di legno duro e liscio che sosteneva il lettino. Ogni colpo fu accompagnato da un grido acuto della ragazza totalmente alla mia mercé.
Poi fu la volta del sinistro, posizionai il chiodo sul foro lattiginoso e colpii con forza schizzando di latte la tavola sottostante, bastò solo un altro colpo accompagnato da un grido stridulo soffocato per mandare il chiodo a conficcarsi nel legno scuro. Immediatamente il flusso di latte si arrestò lasciando solo una goccia sospesa sulla punta del capezzolo martoriato.
Riposto il martello, sfilai i chiodi dal legno scuotendoli con le dita - senza curarmi del fatto che anche i capezzoli feriti venissero stirati e allungati dolorosamente durante il processo. In ogni caso alla fine ottenni quello che volevo, entrambi i capezzoli forati da parte a parte con qualcosa su cui poter far presa.
Il passo successivo fu fissare un moschettone ad entrambi i chiodi e per rendere tutto ancora più divertente, almeno per me, sollevai i seni scostandoli dal piano in legno e ci fissai sotto una tavola costellata di chiodini corti ma abbastanza spessi, dalla punta non troppo affilata – volevo che pungessero senza entrare nella pelle.
Quando li lasciai andare, i seni andarono a poggiarsi sui chiodini appuntititi, spinti verso la tavola dal loro stesso peso, causando non poco dolore senza però infliggere danni particolarmente seri.
Allora fu la volta dei pesi. Recuperai i quattro cilindri di piombo dorato e stavolta inizia dal capezzolo sinistro. Il primo peso tese impietosamente la carne arrossata schiacciando nel contempo il rispettivo seno sui chiodini. Così ottenni un doppio risultato – il capezzolo stirato dolorosamente, qual era la intenzione iniziale, e il seno schiacciato sulla tavola chiodata tormentato dalla miriade di punte acuminate.
Aggiunsi subito un peso uguale al seno destro, ottenendo lo stesso fantastico risultato con l’aggiunta di nuovi lamenti soffocati a stento dal bavaglio.
Lasciai alla mia vittima il tempo di prendere confidenza con il nuovo livello di tormento prima di ricominciare a colpire i seni col sottile frustino dalla punta in cuoio e di sicuro stavolta i pesi non finirono a terra.
Con i nuovi colpi riuscii ad ottenere diversi effetti devastanti su quegli enormi seni. Infatti, come se il tremendo colpo di frusta non fosse abbastanza, ogni nuovo schiocco faceva oscillare il seno che spingevano avanti e indietro i pesi sempre più velocemente. Il movimento dei pesi martoriava i capezzoli allungandoli e torcendoli senza sosta, i quali a loro volta facevano sfregare i seni sui chiodini in un delizioso circolo di dolore infinito. In più, il movimento e la pressione, avevano nuovamente stimolato la fuoriuscita del latte dal capezzolo sinistro. A quel punto il mio nuovo obbiettivo era far sì che anche dal capezzolo destro venisse fuori qualcosa. Non mi andava di lasciare un lavoro incompiuto.
Alla fine mi stancai prima riuscire, provai persino a premere il seno con le mani - senza risultati. Forse quel seno non conteneva latte, ma non avevo alcuna intenzioni di arrendermi.
Levai i pesi e i moschettoni da entrambi i capezzoli, lasciando i chiodi al loro posto fino all’ultimo. Dopo rimossi la tavola chiodata che intanto le aveva lasciato profondi segni sulla pelle e iniziai a slegarla.
Una volta liberati i polsi, la vita e le caviglie le sfilai la maschera e il bavaglio e la aiutai a scendere dal lettino.
Aveva gli occhi rossi e lucidi e le guance arrossate, ma non disse una parola.
L’avrei lasciata riposare finché le ferite non fossero guarite e poi avremmo continuato a giocare e magari sarei anche riuscito a farle uscire del latte anche dal seno destro, in un modo o nell’altro. Non ci mancava certo il tempo per provare.
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