Fammi pure male (una storia d'amore)
di
xilia82
genere
dominazione
A Giorgio piaceva farmi male.
Mi ero innamorata di lui per i suoi modi gentili e la sua presenza elegante e decisa. Era uno che parlava poco. E questo è un grande pregio.
Ci siamo baciati la prima volta davanti alla fontana di Trevi, circondati da turisti internazionali e truffatori fin troppo nazionali. In quel primo abbraccio la sua mano già si posò naturale sul mio fondoschiena, presagendo un imminente futuro di passione e buon sesso.
Non fu così.
Quando il mio corpo nudo entrò in contatto con il suo corpo nudo, quando le nostre mani accarezzarono, prima dolci e poi più intensamente, la pelle dell’altro, quando le mia bocca non si accontentò più della sua e la mia lingua assaggiò il suo sapore, qualcosa non funzionò.
Nemmeno la seconda.
Il guerriero non voleva saperne di disseppellire l’ascia di guerra, indifferente a tutte le mie attenzioni.
Diciamoci la verità: è frustrante.
Ma le prime volte, in una relazione, capita a molti uomini. Lui ci scherzava sopra un po’ imbarazzato (“Niente. Anche oggi è in sciopero.” “Ma sei sicura di saperci fare?” “Forse ha bisogno di un po’ di palestra”...) e io rassicuravo.
Dopo tre settimane ancora niente. Mi convinsi quindi che avesse un problema piuttosto serio.
In effetti non sbagliavo di molto.
Qualcosa si mosse – è proprio il caso di dirlo – durante un pranzo a casa sua. Lo punzecchiavo con la forchetta accusandolo di essere, con poco grasso e tutti quei muscoli, non certo molto buono da masticare. Il vino mi aveva resa insistente e fastidiosa. Forse troppo.
“Ora basta.” Mi afferrò per le spalle e, rimanendo seduto sulla sedia, mi tirò prona sulle sue gambe. Mi abbassò pantaloncini e slip e mi sculacciò, ripetutamente. L’intento era scherzoso, ma il mio fondoschiena cominciò a bruciare. Cercai di divincolarmi, ma mi teneva ferma con forza e continuava. Aumentava anche la potenza. Urlai. “Zitta!” intimò, e la sculacciata seguente rimbombò nella sala. Un dolore acuto mi rizzò la schiena.
Poi lo sentii. Mi spingeva sul ventre. Tonico e possente.
Mi tirai su e mi inginocchiai di fronte a lui, in contemplazione del miracolo che avveniva sotto la stoffa dei suoi pantaloni. Lui mi guardava in silenzio; gli abbassai la cintura e finalmente eccolo lì, in tutta la sua prestanza. Lo toccai, lo baciai e lo accolsi fra le labbra.
Dopo cinque minuti era di nuovo ridotto alle dimensioni e alla consistenza di un lumacone viscido. Lo guardai interrogativa e lui fece spallucce.
Fu allora che capii.
Mi sfilai dalle gambe gli indumenti e mi sistemai nuovamente con la pancia sulle sue gambe.
Ricominciò a sculacciarmi. Forte. Molto forte. Avrei voluto correre sul bidet con l’acqua fredda a tutta pressione.
Ed eccolo di nuovo, prepotente spingermi contro l’ombelico.
Questa volta non mi alzai. Lo lasciai continuare a fendere manate e infilando un braccio sotto il mio busto, tra le sue gambe, iniziai a masturbarlo.
Mentre le mie natiche diventavano sempre più incandescenti, rosse come non erano mai state, lo sentii contrarsi e il liquido caldo mi schizzò contro la pancia e colò a terra, abbondante. La sua mano intanto si era fermata sul mio gluteo destro e nello spasmo lo stringeva con forza. Poi si abbandonò sulla mia schiena. Mi coccolò e mi accarezzò gentile, come suo solito.
Ora conoscevo la chiave segreta del suo piacere.
Ne ebbi conferma due sere dopo, sul mio divano. Lui guardava un vecchio film erotico della mia collezione con la splendida Laura Gemser e io con la testa appoggiata sulle sue cosce e la nuca rivolta al televisore cercavo di ottenere qualche risultato con, scusate l’eloquio finemente forbito, un pompino come Dio comanda.
Insospettatamente reagì.
Si inturgidì tra le mie labbra, meravigliosamente gonfio, massaggiato dalla mia lingua. Poi sentii i lamenti sensuali alle mie spalle e compresi. Erano le sevizie alla bionda di turno al fianco di Emmanuelle a eccitarlo. Cercai di approfittarne, ma la scena finì in fretta e lui iniziò a ritrarsi.
Adesso però sapevo cosa fare.
Gli presi la mano e la accompagnai sul mio seno; guidai le sue dita sul mio capezzolo e glielo feci stringere. Forte, forse troppo.
Mentre lui strizzava, torceva e tirava, io cercavo di concentrarmi, malgrado il dolore che insisteva e aumentava, sui movimenti della mia bocca e delle mie mani.
Eccolo di nuovo.
Uno splendore forte come il marmo, probabilmente in grado di portare il paradiso dentro ogni donna. Compresi che per adorare questo totem molto speciale sarei stata disposto a tutto.
Mi alzai e gli montai a cavalcioni. Lo accolsi dentro di me, finalmente, lo sentii farsi spazio nel mio corpo, perfetto come la chiave nella sua serratura.
Non mi aveva lasciato il capezzolo, continuava a tormentarlo senza alcuna premura.
Io ondeggiai il bacino su di lui, sinuosa, per godermi quel rapporto tanto agognato, ma mi fermò immediatamente afferrandomi con l’altra mano i peli del pube. Un lampo di dolore mi congelò i sensi.
Tirò verso l’alto sollevandomi letteralmente dal suo corpo e immediatamente strattonò in basso, rientrando in me. Non riuscii a trattenere uno strillo, sentivo chiaramente molti peli strapparsi e la pelle del mio delicato monte tirata all’inverosimile.
Continuò a tenerli in tensione, sempre più eccitato, mentre la mia libido era ormai annientata e il mio corpo si muoveva inerte in balia dei suoi rudi movimenti.
Venne dentro di me, contraendo sempre più le dita sul quelle povere parti maltrattate del mio corpo, poi si accasciò sul divano mentre i titoli di coda imbrunivano la stanza e i miei peli gli scivolavano tra le dita e cadevano sul tessuto.
Nei giorni seguenti la nostra relazione fu splendida. Giorgio era affettuoso ed educato come un cavaliere d’altri tempi, gioviale e serio nella giusta misura. Cosa non facile.
Decisi di farmi trovare legata.
Lascia la porta del mio appartamento socchiusa. Mi spogliai. Sul letto mi legai con la corda da arrampicata prima le caviglie agli angoli inferiori della rete, sdraiata prona, poi preparai i nodi scorsoi per i polsi agli altri due angoli, ci infilai le mani e tirando li strinsi, in modo da non riuscire più né ad uscirne, né ad allargarli di nuovo.
Scoccò l’ora dell’appuntamento.
Dopo alcuni minuti mi misi a pregare che non entrasse nessun altro in casa, ci mancava solo un ladro che mi trovasse lì bell’e pronta per aggiungere la violenza carnale al suo carnet di reati. Ovviamente il Grande Capo lassù se ne fregò altamente.
“Marinellaaa!...” urlò Davide, il mio pettegolo vicino di casa, entrando in corridoio. “Ti ho riportato il tuo...” Entrò nella stanza e ammutolì. Il suo sguardo si appiccicò tra le mie gambe spalancate, con le mie intimità ben in mostra proprio verso la porta su cui lui rimaneva impalato in trance.
“Non... Non è che.. È solo un gioco, io...” balbettai cercando di girare il viso verso di lui.
“Tutto b... bene? Sicura?...” Aveva la voce impastata da esame di diritto costituzionale. “Scu... Scusami. Allora... Torno magari domani...” e finalmente corse via. Probabilmente a masturbarsi o ad aggiornare quel suo stupido diario su quel suo stupido blog.
Giorgio entrò, in silenzio, pochi minuti dopo.
Sentivo il suo sguardo anche senza essermi voltata per osservarlo. Si avvicinò a piccoli passi. Prese in mano il frustino da cavallo – identico a quello del film di Emmanuelle – che avevo appoggiato al mio fianco.
Ci furono lunghi secondi di silenzio... Poi arrivò la prima scudisciata al sedere. Avevo immaginato facesse male, ma non pensavo tanto. Non feci in tempo a riacquistare il respiro che arrivò la seconda, alla schiena. Poi un’altra sul fianco, la punta schioccò sul lato del seno sinistro.
Non ricordo nemmeno se urlavo o meno, nei miei pensieri è presente solo quella successione di dolori lancinanti.
All’ennesimo colpo al fondoschiena strinsi istintivamente i glutei desiderando di sprofondare nel materasso. Lui mi afferrò una chiappa. Mi sollevò violentemente il bacino e ci infilò sotto un cuscino, in modo da avere ancora più esposte le mie parti più intime. Fu lì che arrivò la frustata successiva. La sentii schiantarsi sull’inguine e a quel punto gridai, sicuramente. Me ne diede un’altra, proprio in mezzo.
Vidi il rigonfiamento nei suoi pantaloni crescere e premere sulla stoffa.
Sentivo la pelle, che non è quella di un cavallo, bruciare terribilmente.
Si fermò solo dopo quel che a me parve parecchio tempo e mi mise il frustino tra i denti, come a smorzare le grida che avrei presto lanciato. Si sbottonò, salì sul letto tra le mie gambe divaricate e mi sodomizzò brutalmente, strizzandomi i seni quasi a volerli far scoppiare.
Dopo essere venuto si sdraiò sulla mia schiena, accarezzandomi le piaghe della pelle, con il pene che si ritirava nel mio sfintere e lo sperma che risaliva i miei meandri.
Nei due mesi successivi fu sempre peggio. Sembrava che ogni volta non gli bastasse più vedermi soffrire quanto la precedente. Eppure sembravamo così uniti, così intimi nella nostra vita sociale. I nostri baci in pubblico suscitavano l’invidia del prossimo. Eravamo la rappresentazione perfetta di quel che si definisce ‘una bella coppia’.
Ma in campo sessuale le cose erano ben diverse. Durante i nostri ‘rapporti’ non abbiamo mai pronunciato una sola parola. Mai. E nemmeno ne abbiamo mai parlato negli altri momenti.
Dopo quella prima serie di frustate prese a legarmi lui, tutte le volte. In posizioni sempre più umilianti e scomode; con le corde sempre più strette a tormentarmi gli arti, il seno, l’inguine, il collo... Mi frustò molte altre volte. Ovunque. Mi penetrò con gli oggetti più disparati, praticamente con tutto ciò che trovava sottomano: manici di scopa, telecomandi, bottiglie, persino un ombrello. Oggetti di dimensioni che mai avrei immaginato potessero passarci. Avevo i seni e i glutei perennemente indolenziti; capezzoli, ano e vagina costantemente infiammati, a render ancora più dolorosa ogni penetrazione successiva. Non ho mai fatto tanti giorni di mutua come in quel periodo.
A volte, per venirmi dentro, usava dei preservativi che, giuro, non so proprio dove si procurasse; incastonati con borchie di metallo e altri ammennicoli volti a togliere qualunque piacere e dare qualsivoglia tormento a lei e stimolanti per lui. Il più delle volte si masturbava guardandomi, sporcando me o i vestiti con cui dovevo rincasare, gettati a terra, spesso strappati.
Non si può certo dire che gli mancasse l’inventiva. Una sera, legata mani e piedi, fui presa in braccio e portata in bagno. Aveva preparato una vasca d’acqua gelata; pezzi di ghiaccio galleggiavano in superficie. Mi ci immerse senza troppi riguardi. Sbarrai gli occhi irrigidita dal gelo improvviso. Infilò un braccio nell’acqua e, nonostante la poca sensibilità che il freddo mi permetteva, sentii che mi infilava dentro dei cubetti informi; davanti e dietro. Si masturbò osservandomi rabbrividire e venne sulle mie labbra blu.
Si procurò anche uno strano marchingegno elettrico, roba da tortura militare, con due elettrodi da applicare sulla pelle. Li fermava sul mio corpo con lo scotch da pacchi e poi dava corrente tramite una manopola.
La prima volta fu uno shock.
Avevo la schiena contro il termoarredo bollente, le braccia alzate e i polsi legati al tubo più alto. Aveva gettato a terra quattro manciate di sassi acuminati che mi martoriavano le piante del piede su cui alternavo continuamente il peso. I capezzoli erano stretti nelle due pinze di un appendi-pantaloni (mentre le faceva scorrere sull’asta regolandone la distanza per adattarli al mio seno lo trovai assurdamente geniale).
Preparò il suo marchingegno guardandomi penare per quei molteplici supplizi. Mi applicò gli elettrodi ai lati del pube e prima di far scattare l’interruttore mi masturbò. Non lo aveva mai fatto. Durante tutta la nostra storia non avevo mai avuto un orgasmo. Mi sorpresi sentendo che il suo tocco mi faceva effetto. Ebbi quella bella sensazione di umido lascivo mentre le sue dita si muovevano tra le labbra e dentro e intorno e ancora dentro... Pochi istanti prima che la libidine toccasse il suo apice, percepii un ‘click’.
Fu un dolore intollerabile.
Mi bloccò la capacità di godere per mesi.
La corrente passava invisibile nel clitoride ancora inturgidito dalle precedenti attenzioni e un crampo esageratamente potente mi colpiva inesorabile le mie zone più sensibili e delicate.
Scalciai, senza controllo, e lui mi legò anche la cosce contro il termo, con le natiche spinte contro i tubi alla massima temperatura.
Tornò alla manopola; la ruotò a fine corsa. Pensai che quel male atroce non mi sarebbe passato mai più.
Era terribile. Il dolore che dà la corrente elettrica, pensai, è il peggiore.
Mi sbagliavo.
Era già estate, ma le finestre erano chiuse, come sempre, per via delle mie urla.
Mi aveva legata caviglie e braccia alle quattro gambe del tavolo nella mia cucina, con la pancia e il petto rivolti verso il soffitto e la schiena inarcata in quella innaturale posizione.
Iniziò con un paio di pinze con il beccuccio ricurvo. Prima me le fece vedere, poi con le due punte mi aprì la bocca, mi strinse la lingua e la tirò fuori. Mugugnai sofferente. La lasciò e scese verso il petto. Mi pizzicò, incredibilmente forte malgrado non facesse alcun apparente sforzo, un capezzolo, poi l’altro. Furono le prima grida di una lunga serie.
Scese ancora. Mi fece sentire la consistenza del metallo contro il clitoride, strinse anch’esso, per alcuni lunghissimi secondi. Le lacrime cominciarono a uscire.
Salì tra i peli del pube. Chiuse le pinze intrappolando parecchi peli proprio al centro del monte. Roteò il polso, facendo avvolgere i peli intrappolati intorno ai beccucci stretti, e tirò di colpo.
Il dolore acutissimo mi fece sbattere nuca e cosce contro i bordi del tavolo.
Avvolse altri peli ed estirpò anche quelli. Il mio pianto si acuì notevolmente.
Ripeté l’operazione molte, molte volte, fino a scoprirmi completamente la pelle, color rubino.
Poi prese lo stagnatore, uno strano attrezzo con la punta di rame che diventando incandescente scioglie lo stagno per saldarlo sui circuiti elettrici, e attaccò la spina alla presa di corrente.
Mentre il metallo bruno si arroventava lo avvicinò ai miei seni. Ne percepii il calore irraggiato nei pochi millimetri d’aria.
Ero immobilizzata dal terrore.
Lo avvicinò al mio solco. Io mi tirai il più possibile verso l’alto, abbastanza ridicolmente e soprattutto inutilmente.
Infine lo appoggiò sul pube appena bestialmente depilato e fu l’istante peggiore della mia vita. Un dolore lancinante, incredibilmente acuto, mi fece contrarre tutti i muscoli del corpo.
La corrente elettrica era un leggero fastidio in confronto.
Lo appoggiò una seconda volta. Prima di gridare ancora con tutto il mio fiato sentii chiaramente il sibilo della mia pelle che si ustionava.
Mi feci male alle caviglie e alle braccia divincolandomi. Mi morsi il labbro inferiore facendolo sanguinare e, mentre lui continuava incessantemente con quella orribile tortura, a piccoli inesorabili colpi, alcuni veloci e altri più lunghi, strisciati lungo alcuni centimetri di pelle, probabilmente persi i sensi più volte.
Non so quanto sia durata.
Ancora adesso a scriverne e a parlarne mi si irrigidiscono i muscoli e uno spiacevole sudore freddo mi fa rabbrividire.
Ricordo solo alla fine lui che si masturbava in piedi davanti a me, ormai esausta e sfinita dagli spasmi sul piano del tavolo, e il suo sperma proprio sopra la mia pelle ustionata, quasi a voler ledere il dolore ancora intensissimo.
Mi slegò; rimasi lì immobile, con il pianto che mi impiastricciava i capelli. Respiravo a fatica.
Mi baciò, per l’ultima volta, e se ne andò.
Morì il giorno dopo, in uno strano incidente stradale.
Sono convinta che si sia suicidato; per me, per amore, perché non sarebbe più riuscito a contenere il male che m’avrebbe fatto.
Di lui mi rimangono alcuni ricordi dolci, dei giochetti che farebbero impallidire i più incalliti amanti del sadomaso e una figura nascosta sotto i peli del pube, ora ricresciuti, simpatica, anche se piuttosto volgare, disegnata con metallo rovente come fuoco.
Ci fece persino, in basso a destra, la firma.
Mi ero innamorata di lui per i suoi modi gentili e la sua presenza elegante e decisa. Era uno che parlava poco. E questo è un grande pregio.
Ci siamo baciati la prima volta davanti alla fontana di Trevi, circondati da turisti internazionali e truffatori fin troppo nazionali. In quel primo abbraccio la sua mano già si posò naturale sul mio fondoschiena, presagendo un imminente futuro di passione e buon sesso.
Non fu così.
Quando il mio corpo nudo entrò in contatto con il suo corpo nudo, quando le nostre mani accarezzarono, prima dolci e poi più intensamente, la pelle dell’altro, quando le mia bocca non si accontentò più della sua e la mia lingua assaggiò il suo sapore, qualcosa non funzionò.
Nemmeno la seconda.
Il guerriero non voleva saperne di disseppellire l’ascia di guerra, indifferente a tutte le mie attenzioni.
Diciamoci la verità: è frustrante.
Ma le prime volte, in una relazione, capita a molti uomini. Lui ci scherzava sopra un po’ imbarazzato (“Niente. Anche oggi è in sciopero.” “Ma sei sicura di saperci fare?” “Forse ha bisogno di un po’ di palestra”...) e io rassicuravo.
Dopo tre settimane ancora niente. Mi convinsi quindi che avesse un problema piuttosto serio.
In effetti non sbagliavo di molto.
Qualcosa si mosse – è proprio il caso di dirlo – durante un pranzo a casa sua. Lo punzecchiavo con la forchetta accusandolo di essere, con poco grasso e tutti quei muscoli, non certo molto buono da masticare. Il vino mi aveva resa insistente e fastidiosa. Forse troppo.
“Ora basta.” Mi afferrò per le spalle e, rimanendo seduto sulla sedia, mi tirò prona sulle sue gambe. Mi abbassò pantaloncini e slip e mi sculacciò, ripetutamente. L’intento era scherzoso, ma il mio fondoschiena cominciò a bruciare. Cercai di divincolarmi, ma mi teneva ferma con forza e continuava. Aumentava anche la potenza. Urlai. “Zitta!” intimò, e la sculacciata seguente rimbombò nella sala. Un dolore acuto mi rizzò la schiena.
Poi lo sentii. Mi spingeva sul ventre. Tonico e possente.
Mi tirai su e mi inginocchiai di fronte a lui, in contemplazione del miracolo che avveniva sotto la stoffa dei suoi pantaloni. Lui mi guardava in silenzio; gli abbassai la cintura e finalmente eccolo lì, in tutta la sua prestanza. Lo toccai, lo baciai e lo accolsi fra le labbra.
Dopo cinque minuti era di nuovo ridotto alle dimensioni e alla consistenza di un lumacone viscido. Lo guardai interrogativa e lui fece spallucce.
Fu allora che capii.
Mi sfilai dalle gambe gli indumenti e mi sistemai nuovamente con la pancia sulle sue gambe.
Ricominciò a sculacciarmi. Forte. Molto forte. Avrei voluto correre sul bidet con l’acqua fredda a tutta pressione.
Ed eccolo di nuovo, prepotente spingermi contro l’ombelico.
Questa volta non mi alzai. Lo lasciai continuare a fendere manate e infilando un braccio sotto il mio busto, tra le sue gambe, iniziai a masturbarlo.
Mentre le mie natiche diventavano sempre più incandescenti, rosse come non erano mai state, lo sentii contrarsi e il liquido caldo mi schizzò contro la pancia e colò a terra, abbondante. La sua mano intanto si era fermata sul mio gluteo destro e nello spasmo lo stringeva con forza. Poi si abbandonò sulla mia schiena. Mi coccolò e mi accarezzò gentile, come suo solito.
Ora conoscevo la chiave segreta del suo piacere.
Ne ebbi conferma due sere dopo, sul mio divano. Lui guardava un vecchio film erotico della mia collezione con la splendida Laura Gemser e io con la testa appoggiata sulle sue cosce e la nuca rivolta al televisore cercavo di ottenere qualche risultato con, scusate l’eloquio finemente forbito, un pompino come Dio comanda.
Insospettatamente reagì.
Si inturgidì tra le mie labbra, meravigliosamente gonfio, massaggiato dalla mia lingua. Poi sentii i lamenti sensuali alle mie spalle e compresi. Erano le sevizie alla bionda di turno al fianco di Emmanuelle a eccitarlo. Cercai di approfittarne, ma la scena finì in fretta e lui iniziò a ritrarsi.
Adesso però sapevo cosa fare.
Gli presi la mano e la accompagnai sul mio seno; guidai le sue dita sul mio capezzolo e glielo feci stringere. Forte, forse troppo.
Mentre lui strizzava, torceva e tirava, io cercavo di concentrarmi, malgrado il dolore che insisteva e aumentava, sui movimenti della mia bocca e delle mie mani.
Eccolo di nuovo.
Uno splendore forte come il marmo, probabilmente in grado di portare il paradiso dentro ogni donna. Compresi che per adorare questo totem molto speciale sarei stata disposto a tutto.
Mi alzai e gli montai a cavalcioni. Lo accolsi dentro di me, finalmente, lo sentii farsi spazio nel mio corpo, perfetto come la chiave nella sua serratura.
Non mi aveva lasciato il capezzolo, continuava a tormentarlo senza alcuna premura.
Io ondeggiai il bacino su di lui, sinuosa, per godermi quel rapporto tanto agognato, ma mi fermò immediatamente afferrandomi con l’altra mano i peli del pube. Un lampo di dolore mi congelò i sensi.
Tirò verso l’alto sollevandomi letteralmente dal suo corpo e immediatamente strattonò in basso, rientrando in me. Non riuscii a trattenere uno strillo, sentivo chiaramente molti peli strapparsi e la pelle del mio delicato monte tirata all’inverosimile.
Continuò a tenerli in tensione, sempre più eccitato, mentre la mia libido era ormai annientata e il mio corpo si muoveva inerte in balia dei suoi rudi movimenti.
Venne dentro di me, contraendo sempre più le dita sul quelle povere parti maltrattate del mio corpo, poi si accasciò sul divano mentre i titoli di coda imbrunivano la stanza e i miei peli gli scivolavano tra le dita e cadevano sul tessuto.
Nei giorni seguenti la nostra relazione fu splendida. Giorgio era affettuoso ed educato come un cavaliere d’altri tempi, gioviale e serio nella giusta misura. Cosa non facile.
Decisi di farmi trovare legata.
Lascia la porta del mio appartamento socchiusa. Mi spogliai. Sul letto mi legai con la corda da arrampicata prima le caviglie agli angoli inferiori della rete, sdraiata prona, poi preparai i nodi scorsoi per i polsi agli altri due angoli, ci infilai le mani e tirando li strinsi, in modo da non riuscire più né ad uscirne, né ad allargarli di nuovo.
Scoccò l’ora dell’appuntamento.
Dopo alcuni minuti mi misi a pregare che non entrasse nessun altro in casa, ci mancava solo un ladro che mi trovasse lì bell’e pronta per aggiungere la violenza carnale al suo carnet di reati. Ovviamente il Grande Capo lassù se ne fregò altamente.
“Marinellaaa!...” urlò Davide, il mio pettegolo vicino di casa, entrando in corridoio. “Ti ho riportato il tuo...” Entrò nella stanza e ammutolì. Il suo sguardo si appiccicò tra le mie gambe spalancate, con le mie intimità ben in mostra proprio verso la porta su cui lui rimaneva impalato in trance.
“Non... Non è che.. È solo un gioco, io...” balbettai cercando di girare il viso verso di lui.
“Tutto b... bene? Sicura?...” Aveva la voce impastata da esame di diritto costituzionale. “Scu... Scusami. Allora... Torno magari domani...” e finalmente corse via. Probabilmente a masturbarsi o ad aggiornare quel suo stupido diario su quel suo stupido blog.
Giorgio entrò, in silenzio, pochi minuti dopo.
Sentivo il suo sguardo anche senza essermi voltata per osservarlo. Si avvicinò a piccoli passi. Prese in mano il frustino da cavallo – identico a quello del film di Emmanuelle – che avevo appoggiato al mio fianco.
Ci furono lunghi secondi di silenzio... Poi arrivò la prima scudisciata al sedere. Avevo immaginato facesse male, ma non pensavo tanto. Non feci in tempo a riacquistare il respiro che arrivò la seconda, alla schiena. Poi un’altra sul fianco, la punta schioccò sul lato del seno sinistro.
Non ricordo nemmeno se urlavo o meno, nei miei pensieri è presente solo quella successione di dolori lancinanti.
All’ennesimo colpo al fondoschiena strinsi istintivamente i glutei desiderando di sprofondare nel materasso. Lui mi afferrò una chiappa. Mi sollevò violentemente il bacino e ci infilò sotto un cuscino, in modo da avere ancora più esposte le mie parti più intime. Fu lì che arrivò la frustata successiva. La sentii schiantarsi sull’inguine e a quel punto gridai, sicuramente. Me ne diede un’altra, proprio in mezzo.
Vidi il rigonfiamento nei suoi pantaloni crescere e premere sulla stoffa.
Sentivo la pelle, che non è quella di un cavallo, bruciare terribilmente.
Si fermò solo dopo quel che a me parve parecchio tempo e mi mise il frustino tra i denti, come a smorzare le grida che avrei presto lanciato. Si sbottonò, salì sul letto tra le mie gambe divaricate e mi sodomizzò brutalmente, strizzandomi i seni quasi a volerli far scoppiare.
Dopo essere venuto si sdraiò sulla mia schiena, accarezzandomi le piaghe della pelle, con il pene che si ritirava nel mio sfintere e lo sperma che risaliva i miei meandri.
Nei due mesi successivi fu sempre peggio. Sembrava che ogni volta non gli bastasse più vedermi soffrire quanto la precedente. Eppure sembravamo così uniti, così intimi nella nostra vita sociale. I nostri baci in pubblico suscitavano l’invidia del prossimo. Eravamo la rappresentazione perfetta di quel che si definisce ‘una bella coppia’.
Ma in campo sessuale le cose erano ben diverse. Durante i nostri ‘rapporti’ non abbiamo mai pronunciato una sola parola. Mai. E nemmeno ne abbiamo mai parlato negli altri momenti.
Dopo quella prima serie di frustate prese a legarmi lui, tutte le volte. In posizioni sempre più umilianti e scomode; con le corde sempre più strette a tormentarmi gli arti, il seno, l’inguine, il collo... Mi frustò molte altre volte. Ovunque. Mi penetrò con gli oggetti più disparati, praticamente con tutto ciò che trovava sottomano: manici di scopa, telecomandi, bottiglie, persino un ombrello. Oggetti di dimensioni che mai avrei immaginato potessero passarci. Avevo i seni e i glutei perennemente indolenziti; capezzoli, ano e vagina costantemente infiammati, a render ancora più dolorosa ogni penetrazione successiva. Non ho mai fatto tanti giorni di mutua come in quel periodo.
A volte, per venirmi dentro, usava dei preservativi che, giuro, non so proprio dove si procurasse; incastonati con borchie di metallo e altri ammennicoli volti a togliere qualunque piacere e dare qualsivoglia tormento a lei e stimolanti per lui. Il più delle volte si masturbava guardandomi, sporcando me o i vestiti con cui dovevo rincasare, gettati a terra, spesso strappati.
Non si può certo dire che gli mancasse l’inventiva. Una sera, legata mani e piedi, fui presa in braccio e portata in bagno. Aveva preparato una vasca d’acqua gelata; pezzi di ghiaccio galleggiavano in superficie. Mi ci immerse senza troppi riguardi. Sbarrai gli occhi irrigidita dal gelo improvviso. Infilò un braccio nell’acqua e, nonostante la poca sensibilità che il freddo mi permetteva, sentii che mi infilava dentro dei cubetti informi; davanti e dietro. Si masturbò osservandomi rabbrividire e venne sulle mie labbra blu.
Si procurò anche uno strano marchingegno elettrico, roba da tortura militare, con due elettrodi da applicare sulla pelle. Li fermava sul mio corpo con lo scotch da pacchi e poi dava corrente tramite una manopola.
La prima volta fu uno shock.
Avevo la schiena contro il termoarredo bollente, le braccia alzate e i polsi legati al tubo più alto. Aveva gettato a terra quattro manciate di sassi acuminati che mi martoriavano le piante del piede su cui alternavo continuamente il peso. I capezzoli erano stretti nelle due pinze di un appendi-pantaloni (mentre le faceva scorrere sull’asta regolandone la distanza per adattarli al mio seno lo trovai assurdamente geniale).
Preparò il suo marchingegno guardandomi penare per quei molteplici supplizi. Mi applicò gli elettrodi ai lati del pube e prima di far scattare l’interruttore mi masturbò. Non lo aveva mai fatto. Durante tutta la nostra storia non avevo mai avuto un orgasmo. Mi sorpresi sentendo che il suo tocco mi faceva effetto. Ebbi quella bella sensazione di umido lascivo mentre le sue dita si muovevano tra le labbra e dentro e intorno e ancora dentro... Pochi istanti prima che la libidine toccasse il suo apice, percepii un ‘click’.
Fu un dolore intollerabile.
Mi bloccò la capacità di godere per mesi.
La corrente passava invisibile nel clitoride ancora inturgidito dalle precedenti attenzioni e un crampo esageratamente potente mi colpiva inesorabile le mie zone più sensibili e delicate.
Scalciai, senza controllo, e lui mi legò anche la cosce contro il termo, con le natiche spinte contro i tubi alla massima temperatura.
Tornò alla manopola; la ruotò a fine corsa. Pensai che quel male atroce non mi sarebbe passato mai più.
Era terribile. Il dolore che dà la corrente elettrica, pensai, è il peggiore.
Mi sbagliavo.
Era già estate, ma le finestre erano chiuse, come sempre, per via delle mie urla.
Mi aveva legata caviglie e braccia alle quattro gambe del tavolo nella mia cucina, con la pancia e il petto rivolti verso il soffitto e la schiena inarcata in quella innaturale posizione.
Iniziò con un paio di pinze con il beccuccio ricurvo. Prima me le fece vedere, poi con le due punte mi aprì la bocca, mi strinse la lingua e la tirò fuori. Mugugnai sofferente. La lasciò e scese verso il petto. Mi pizzicò, incredibilmente forte malgrado non facesse alcun apparente sforzo, un capezzolo, poi l’altro. Furono le prima grida di una lunga serie.
Scese ancora. Mi fece sentire la consistenza del metallo contro il clitoride, strinse anch’esso, per alcuni lunghissimi secondi. Le lacrime cominciarono a uscire.
Salì tra i peli del pube. Chiuse le pinze intrappolando parecchi peli proprio al centro del monte. Roteò il polso, facendo avvolgere i peli intrappolati intorno ai beccucci stretti, e tirò di colpo.
Il dolore acutissimo mi fece sbattere nuca e cosce contro i bordi del tavolo.
Avvolse altri peli ed estirpò anche quelli. Il mio pianto si acuì notevolmente.
Ripeté l’operazione molte, molte volte, fino a scoprirmi completamente la pelle, color rubino.
Poi prese lo stagnatore, uno strano attrezzo con la punta di rame che diventando incandescente scioglie lo stagno per saldarlo sui circuiti elettrici, e attaccò la spina alla presa di corrente.
Mentre il metallo bruno si arroventava lo avvicinò ai miei seni. Ne percepii il calore irraggiato nei pochi millimetri d’aria.
Ero immobilizzata dal terrore.
Lo avvicinò al mio solco. Io mi tirai il più possibile verso l’alto, abbastanza ridicolmente e soprattutto inutilmente.
Infine lo appoggiò sul pube appena bestialmente depilato e fu l’istante peggiore della mia vita. Un dolore lancinante, incredibilmente acuto, mi fece contrarre tutti i muscoli del corpo.
La corrente elettrica era un leggero fastidio in confronto.
Lo appoggiò una seconda volta. Prima di gridare ancora con tutto il mio fiato sentii chiaramente il sibilo della mia pelle che si ustionava.
Mi feci male alle caviglie e alle braccia divincolandomi. Mi morsi il labbro inferiore facendolo sanguinare e, mentre lui continuava incessantemente con quella orribile tortura, a piccoli inesorabili colpi, alcuni veloci e altri più lunghi, strisciati lungo alcuni centimetri di pelle, probabilmente persi i sensi più volte.
Non so quanto sia durata.
Ancora adesso a scriverne e a parlarne mi si irrigidiscono i muscoli e uno spiacevole sudore freddo mi fa rabbrividire.
Ricordo solo alla fine lui che si masturbava in piedi davanti a me, ormai esausta e sfinita dagli spasmi sul piano del tavolo, e il suo sperma proprio sopra la mia pelle ustionata, quasi a voler ledere il dolore ancora intensissimo.
Mi slegò; rimasi lì immobile, con il pianto che mi impiastricciava i capelli. Respiravo a fatica.
Mi baciò, per l’ultima volta, e se ne andò.
Morì il giorno dopo, in uno strano incidente stradale.
Sono convinta che si sia suicidato; per me, per amore, perché non sarebbe più riuscito a contenere il male che m’avrebbe fatto.
Di lui mi rimangono alcuni ricordi dolci, dei giochetti che farebbero impallidire i più incalliti amanti del sadomaso e una figura nascosta sotto i peli del pube, ora ricresciuti, simpatica, anche se piuttosto volgare, disegnata con metallo rovente come fuoco.
Ci fece persino, in basso a destra, la firma.
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