Il segreto
di
xilia82
genere
dominazione
Il cliente ha tirato un paio di occhiate al mio fondoschiena, ben delineato nei jeans elasticizzati a vita bassa, ma non è tipo da provarci. Continua a parlare di cifre e progetti aziendali anche mentre ci sediamo al tavolo del ristorante sull’Adriatica. Il parcheggio fuori è riempito da camion, parecchi furgoni e qualche auto. Si mangia bene e si spende poco. Senza scontrino ti scontano un euro.
Sono fuori luogo; coi tacchi alti, i miei orecchini a cerchio grande Trinity e la t-shirt Valentino troppo attillata avrei preferito qualcosa di più elegante. Ma sorrido con classe, o almeno ci provo, mentre entro.
Poco cavallerescamente il cliente si siede con le spalle al muro. Mi siedo di fronte a lui dando le spalle alla sala e so che qualcuno ha già notato quanto questi jeans lascino scoperto del mio corpo. Ora avranno tutto il pranzo per sbirciare. Mentre mi chiedo se la biancheria stia facendo bella mostra di sé e il cliente farfuglia qualcosa sui suoi dipendenti, lo vedo. Riflesso nella vetrata.
No, porca puttana, perché proprio lui? Proprio qui?
Mi ha già vista e se la sta ridendo dietro le mie spalle, indicandomi agli altri suoi compari; un branco di trogloditi degni della peggior galera. Unti, impolverati e sporchi come bidoni d’immondizia.
Poi si alza, spavaldo, mi viene dietro e si china su di me, ammutolendo il cliente.
“Ve’ chi c’è...” sibila nel mio orecchio con quel suo maledetto ghigno reso ancora più odioso dallo stuzzicadenti.
Mi irrigidisco di colpo sentendo i suoi pollici contro la pelle dei miei fianchi. Li infila nei jeans. Spinge con forza verso il basso; mi sta spogliando.
Sto per reagire, ma il suo fiato alla nicotina e caffè mi ringhia “Lascia fare o spiffero tutto”.
Non posso permettere che si sappia. Devo assecondare questo dannato sadico. Altri mi avrebbero ricattata, chiesto soldi o magari sesso, ma lui no. Lui è più perverso.
Mi sfila jeans e biancheria fino alle cosce, con decisione, poi se ne torna al suo tavolo lasciando il mio sedere a contatto con il legno della sedia sudicia.
Sento gli sghignazzi dei suoi amici, gli sguardi stupefatti, forse eccitati, degli altri commensali.
Se ne sono accorti praticamente tutti, tranne il cliente, che dall’altro lato del tavolo non è riuscito né a vedere né a capire. “Hai degli strani amici” mi dice. “Non li chiamerei propriamente amici” rispondo con finta disinvoltura. Molto finta.
Intanto uno dei trogloditi mi punta addosso la videocamera di un telefono e comincia a riprendere, spostandosi da una sedia all’altra del ristorante.
Il cliente ricomincia ad illustrare le sue teorie finanziarie, ma ormai non lo seguo più. Lo guardo in faccia e accenno col capo, ma l’imbarazzo è troppo e ho paura che non sia ancora finita.
Li sento confabulare, i miei non-propriamente-amici . Uno si alza. Nella vetrata la sua espressione mi intimorisce. L’evoluzione non sembra aver funzionato molto con lui.
Mi si piazza dietro. Ne sento l’odore di ruggine e asfalto. Appoggia una mano sulla mia spalla; sento la forza delle sue dita sulla pelle scoperta del mio collo anche se non sta affatto stringendo. Sono mani capaci di fare male, molto male.
Si china anche lui su di me. L’altra mano senza troppe gentilezze si fa largo tra le mie gambe.
Il cliente, che non vede cosa stia accadendo oltre il bordo del tavolo, balbetta intuendo qualcosa, forse anche immaginando senza bisogno di troppa fantasia dove finiscano le braccia di questo energumeno.
Mi stringe il sesso, sento alcune dita penetrare. Involontariamente chiudo gli occhi cercando di trattenere un gemito di dolore.
“Che troia che sei” mi sussurra.
Stringe più forte, si muove rude. Si insinua violento. Mi fa male. Volontariamente.
“Ma, cosa...?” il cliente ha un moto di disapprovazione, ma dietro la sua cravatta è davvero ridicolo.
L’energumeno molla la presa. “Tranquillo,” dice divertito, “chiedevo solo alla signorina qua se potevo favorire.” E indica il piatto di verdure per il pinzimonio.
Afferra una carota. Vedo tornare quell’espressione sul suo volto. Con una mossa lenta e decisa, porta la carota tra le mie cosce e poi la spinge dentro di me. Completamente.
Faccio un urlo soffocato, mi mordo il labbro inferiore, sento il corpo estraneo freddo essere premuto senza alcuna delicatezza in profondità.
Sento le risate smorzate agli altri tavoli, gli sguardi di tutti, l’occhio della videocamera registrare tutto.
Poi la estrae, la annusa compiaciuto e le dà rumorosamente un morso.
Lui, dal suo tavolo, si sta godendo lo spettacolo.
“E a te,” mi chiede, “ti piacciono i ravanelli?” Ne prende uno bello grosso per la radice. Me lo mostra, poi la sua mano sparisce dietro la mia schiena.
Lo sento spingere sotto il mio sedere. Si fa strada con forza tra il legno e la mia pelle. La sua grossa mano mi solleva letteralmente insinuandosi sotto la mia seduta.
Vorrei stringere i muscoli per impedirgli di passare dove ho capito che vuol passare, ma so che sarebbe peggio, mi farebbe solo più male; così lo lascio fare, sollevo anche un po’ il sedere per agevolarlo, e le grosse dita mi infilano dentro, da dietro, l’ortaggio. Lo sento assicurarsi che sia entrato per bene e poi sfila con la solita educazione la mano e se ne torna al suo posto contento.
A questo punto penso che lui sia soddisfatto. Lasciando il ravanello dov’è mi tiro su maldestramente i jeans. Vorrei andare in bagno per togliermelo, ma dovrei passare davanti a loro, così rinuncio, mi alzo ed esco dal locale senza guardare nessuno in faccia.
Il cliente mi raggiunge. Non ha abbastanza perspicacia per capire che ho un ravanello infilato nel culo, ha capito poco di quel che è successo di fronte al suo naso, pensa che sia tutto passato, che si possa proseguire coi nostri programmi come se non fosse successo nulla. Non ho abbastanza energia per contraddirlo. Mi lascio accompagnare tutto il pomeriggio per strade e cantieri, con il mio ravanello.
A sera, finalmente nell’intimità del mio appartamento, mentre sto per liberarmi del mio ortaggio, mi arriva un link sul cellulare. Lo clicco, una scritta mi chiede se sono maggiorenne, affermo ed entro in youporn. C’è il mio nome e il mio viso all’inizio del video. La scena si allarga, poi si sofferma sul mio sedere nudo in mezzo al ristorante. Mostra le facce beffarde di chi mi sta osservando. Poi di nuovo su di me, imbarazzata, sul mio corpo scoperto. Dopo qualche minuto arriva l’energumeno. Si vede bene quel che fa. La scena della carota. Divento paonazza. Sia nello schermo che davanti ad esso. Vedo i miei sussulti, le mie smorfie. Il ravanello.
Il video finisce con un primo piano del mio fondoschiena mentre mi tiro su i jeans. Nel sollevarmi di qualche centimetro dalla sedia per infilarmeli, si vede chiaramente, mentre la ripresa rallenta fino a fermarsi sul particolare, la radice fuoriuscire dal mio buco.
Almeno si vede che ho un bel culo, penso guardando il fermo immagine.
Sono fuori luogo; coi tacchi alti, i miei orecchini a cerchio grande Trinity e la t-shirt Valentino troppo attillata avrei preferito qualcosa di più elegante. Ma sorrido con classe, o almeno ci provo, mentre entro.
Poco cavallerescamente il cliente si siede con le spalle al muro. Mi siedo di fronte a lui dando le spalle alla sala e so che qualcuno ha già notato quanto questi jeans lascino scoperto del mio corpo. Ora avranno tutto il pranzo per sbirciare. Mentre mi chiedo se la biancheria stia facendo bella mostra di sé e il cliente farfuglia qualcosa sui suoi dipendenti, lo vedo. Riflesso nella vetrata.
No, porca puttana, perché proprio lui? Proprio qui?
Mi ha già vista e se la sta ridendo dietro le mie spalle, indicandomi agli altri suoi compari; un branco di trogloditi degni della peggior galera. Unti, impolverati e sporchi come bidoni d’immondizia.
Poi si alza, spavaldo, mi viene dietro e si china su di me, ammutolendo il cliente.
“Ve’ chi c’è...” sibila nel mio orecchio con quel suo maledetto ghigno reso ancora più odioso dallo stuzzicadenti.
Mi irrigidisco di colpo sentendo i suoi pollici contro la pelle dei miei fianchi. Li infila nei jeans. Spinge con forza verso il basso; mi sta spogliando.
Sto per reagire, ma il suo fiato alla nicotina e caffè mi ringhia “Lascia fare o spiffero tutto”.
Non posso permettere che si sappia. Devo assecondare questo dannato sadico. Altri mi avrebbero ricattata, chiesto soldi o magari sesso, ma lui no. Lui è più perverso.
Mi sfila jeans e biancheria fino alle cosce, con decisione, poi se ne torna al suo tavolo lasciando il mio sedere a contatto con il legno della sedia sudicia.
Sento gli sghignazzi dei suoi amici, gli sguardi stupefatti, forse eccitati, degli altri commensali.
Se ne sono accorti praticamente tutti, tranne il cliente, che dall’altro lato del tavolo non è riuscito né a vedere né a capire. “Hai degli strani amici” mi dice. “Non li chiamerei propriamente amici” rispondo con finta disinvoltura. Molto finta.
Intanto uno dei trogloditi mi punta addosso la videocamera di un telefono e comincia a riprendere, spostandosi da una sedia all’altra del ristorante.
Il cliente ricomincia ad illustrare le sue teorie finanziarie, ma ormai non lo seguo più. Lo guardo in faccia e accenno col capo, ma l’imbarazzo è troppo e ho paura che non sia ancora finita.
Li sento confabulare, i miei non-propriamente-amici . Uno si alza. Nella vetrata la sua espressione mi intimorisce. L’evoluzione non sembra aver funzionato molto con lui.
Mi si piazza dietro. Ne sento l’odore di ruggine e asfalto. Appoggia una mano sulla mia spalla; sento la forza delle sue dita sulla pelle scoperta del mio collo anche se non sta affatto stringendo. Sono mani capaci di fare male, molto male.
Si china anche lui su di me. L’altra mano senza troppe gentilezze si fa largo tra le mie gambe.
Il cliente, che non vede cosa stia accadendo oltre il bordo del tavolo, balbetta intuendo qualcosa, forse anche immaginando senza bisogno di troppa fantasia dove finiscano le braccia di questo energumeno.
Mi stringe il sesso, sento alcune dita penetrare. Involontariamente chiudo gli occhi cercando di trattenere un gemito di dolore.
“Che troia che sei” mi sussurra.
Stringe più forte, si muove rude. Si insinua violento. Mi fa male. Volontariamente.
“Ma, cosa...?” il cliente ha un moto di disapprovazione, ma dietro la sua cravatta è davvero ridicolo.
L’energumeno molla la presa. “Tranquillo,” dice divertito, “chiedevo solo alla signorina qua se potevo favorire.” E indica il piatto di verdure per il pinzimonio.
Afferra una carota. Vedo tornare quell’espressione sul suo volto. Con una mossa lenta e decisa, porta la carota tra le mie cosce e poi la spinge dentro di me. Completamente.
Faccio un urlo soffocato, mi mordo il labbro inferiore, sento il corpo estraneo freddo essere premuto senza alcuna delicatezza in profondità.
Sento le risate smorzate agli altri tavoli, gli sguardi di tutti, l’occhio della videocamera registrare tutto.
Poi la estrae, la annusa compiaciuto e le dà rumorosamente un morso.
Lui, dal suo tavolo, si sta godendo lo spettacolo.
“E a te,” mi chiede, “ti piacciono i ravanelli?” Ne prende uno bello grosso per la radice. Me lo mostra, poi la sua mano sparisce dietro la mia schiena.
Lo sento spingere sotto il mio sedere. Si fa strada con forza tra il legno e la mia pelle. La sua grossa mano mi solleva letteralmente insinuandosi sotto la mia seduta.
Vorrei stringere i muscoli per impedirgli di passare dove ho capito che vuol passare, ma so che sarebbe peggio, mi farebbe solo più male; così lo lascio fare, sollevo anche un po’ il sedere per agevolarlo, e le grosse dita mi infilano dentro, da dietro, l’ortaggio. Lo sento assicurarsi che sia entrato per bene e poi sfila con la solita educazione la mano e se ne torna al suo posto contento.
A questo punto penso che lui sia soddisfatto. Lasciando il ravanello dov’è mi tiro su maldestramente i jeans. Vorrei andare in bagno per togliermelo, ma dovrei passare davanti a loro, così rinuncio, mi alzo ed esco dal locale senza guardare nessuno in faccia.
Il cliente mi raggiunge. Non ha abbastanza perspicacia per capire che ho un ravanello infilato nel culo, ha capito poco di quel che è successo di fronte al suo naso, pensa che sia tutto passato, che si possa proseguire coi nostri programmi come se non fosse successo nulla. Non ho abbastanza energia per contraddirlo. Mi lascio accompagnare tutto il pomeriggio per strade e cantieri, con il mio ravanello.
A sera, finalmente nell’intimità del mio appartamento, mentre sto per liberarmi del mio ortaggio, mi arriva un link sul cellulare. Lo clicco, una scritta mi chiede se sono maggiorenne, affermo ed entro in youporn. C’è il mio nome e il mio viso all’inizio del video. La scena si allarga, poi si sofferma sul mio sedere nudo in mezzo al ristorante. Mostra le facce beffarde di chi mi sta osservando. Poi di nuovo su di me, imbarazzata, sul mio corpo scoperto. Dopo qualche minuto arriva l’energumeno. Si vede bene quel che fa. La scena della carota. Divento paonazza. Sia nello schermo che davanti ad esso. Vedo i miei sussulti, le mie smorfie. Il ravanello.
Il video finisce con un primo piano del mio fondoschiena mentre mi tiro su i jeans. Nel sollevarmi di qualche centimetro dalla sedia per infilarmeli, si vede chiaramente, mentre la ripresa rallenta fino a fermarsi sul particolare, la radice fuoriuscire dal mio buco.
Almeno si vede che ho un bel culo, penso guardando il fermo immagine.
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