Giuly
di
laura m.
genere
saffico
GIULY
Avevo superato appena i 40 anni. Mi sentivo ancora giovane, anche perché il mio lavoro di insegnante mi permetteva di stare in mezzo ai giovanissimi: prendevo i ragazzi in prima liceo e li portavo fino in terza; poi quando, dopo gli esami di maturità, prendevano il volo, non li vedevo quasi più. Entrare in classe la mattina era come tornare indietro di venti anni e poi era bello vederli crescere, diventare, da ragazzi che erano, uomini e donne. Certo, c’era in me un certo spirito materno, ma spesso mi sorprendevo ad osservare la loro crescita con considerazioni del tutto particolari: vedevo le guance dei ragazzi coprirsi di peluria e poi di barba e pensavo che la loro evoluzione contemporaneamente avveniva anche a livello sessuale. Erano gli anni in cui cominciavano a pensare alle donne, ad immaginare incontri amorosi, a scambiarsi baci appassionati; li vedevo a volte fare evoluzioni dietro ai banchi per guardare le mie gambe o quelle delle loro compagne. Li immaginavo, tornati a casa, soli nelle loro stanze a fantasticare su quello che avevano visto o creduto di vedere, ad accarezzarsi il pisello che diventava sempre più duro fino all’esplosione finale. E la stessa cosa immaginavo delle ragazze: le pensavo mentre si guardavano allo specchio per misurarsi la crescita del seno, le curve delle anche, per scoprire tra la peluria del pube la propria conformazione fisica e chiedersi la funzione di quel fiore delicato che si apriva fra le gambe.
Devo confessare che questi pensieri mi perseguitavano da quando avevo superato i trentacinque anni e certamente se ne avessi avuta l’occasione mi sarebbe piaciuto assaggiare uno di questi virgulti o una di queste fanciulle in fiore. Ma la scuola mi obbligava a contenermi, a reprimermi, a non manifestare nessuna simpatia di carattere erotico nei confronti degli studenti. Specialmente mi guardavo dal porre l’attenzione sui maschietti che chissà cosa avrebbero raccontato in giro se mi fossi permessa di invitarne uno a casa mia per coccolarlo un po’.
Mi limitavo, quindi, a guardare e a sospirare, accontentandomi di sfogarmi sessualmente col mio compagno di allora e, ogni tanto, con Silvia, la mia amica di sempre.
L’anno scolastico volgeva al termine, si era ormai dopo le vacanze pasquali e ci si preparava nell’ultima classe a fare la volata finale, mentre in prima e in seconda si procedeva senza sussulti.
In seconda i ragazzi erano 28, molti se si vuole lavorare bene, ma quella classe era nata numerosa fin dall’inizio e bisognava accettarla com’era. Le ragazze erano in maggioranza, ben 18, e quasi tutte si avviavano a diventare adulte, anzi molte lo erano già e mettevano sul mercato erotico la loro pregevole mercanzia di seni e di fondoschiena di prima scelta. Durante i compiti in classe occupavo il mio tempo guardandole attentamente, soppesandole quasi, ammirandone la bocca, la curva dei seni e quella delle anche. Passavo fra i banchi con la scusa di controllare, mi fermavo facendo finta di leggere e intanto aspiravo l’odore buono che veniva dai loro giovani corpi. Quante tentazioni, specie nei mesi primaverili quando, abbandonati giubbotti e maglioni, le ragazze mostravano i loro rigogliosi seni, costretti nel reggiseno che proiettava fuori la parte superiore dei globi…. Anche i ragazzi erano adorabili, ma le ragazze mi attraevano di più. Ce n’era una che aveva una folta capigliatura riccia, tra il castano e il biondo, una pelle bianca, due occhi belli, grigi e un po’ vogliosetti. Quando passavo fra i banchi, mi piaceva accarezzarle il capo, sentire i riccioli della sua chioma nel palmo della mano: lei si girava e mi guardava sorridendomi. Si chiamava Giuly.
Era il maggio odoroso, avrebbe detto il Leopardi… Un giorno mentre spiegavo, il mio sguardo si posò su Giuly. Aveva quasi un atteggiamento da trance: gli occhi sognanti, il capo reclinato su un braccio, sulle labbra un sorriso alla Gioconda. Tornai a guardarla più volte, anche lei mi guardava ed ogni tanto le sue labbra lasciavano il sorriso leonardesco per uno più aperto e rivolto a me. Nei giorni seguenti questa schermaglia di sguardi e sorrisi continuò. Anzi, mi accorsi che quando a volte gli alunni si precipitavano attorno alla cattedra, lei si metteva proprio accanto a me o dietro di me. La sua spalla si appoggiava alla mia e, mentre gli altri conversavano con me, lei se ne stava zitta e mi guardava, sempre sorridente. E quando poi se ne stava dietro di me, sentivo sulle mie spalle il dolce peso dei suoi seni; allora io mi rigiravo e lei mi guardava negli occhi e sorrideva. Cominciai a farci sopra un pensierino e volli anche fare una controprova. Una volta che con gli altri era venuta attorno alla cattedra e si era messa accanto a me, io le circondai le spalle con un braccio. Le mie dita cercarono di avvicinarsi all’attaccatura del suo seno; lei se ne accorse, pensavo si sarebbe discostata, invece si strinse di più a me permettendomi di toccarla e di sentire il turgore di un piccolo seno. Il pensierino divenne un pensierone. Ma … quanti anni aveva? Andai a guardare nel registro: 17 anni. Era ancora minorenne: meglio starle alla larga. Guardai più attentamente: era nata ad ottobre, così nel successivo anno scolastico, fra 5 mesi, sarebbe stata maggiorenne. Un periodo di tempo abbastanza breve da poter sopportare facilmente se la cosa fosse andata in porto. Ma il ferro andava tenuto caldo. Così un giorno, durante l’intervallo, le chiesi, pur sapendo cosa avrebbe risposto, se al suo paese c’erano posti adatti a fare passeggiate. «Come no», mi rispose, «ci sono tanti bei boschi». Così convenimmo che una domenica mattina sarei andata a trovarla e lei mi avrebbe portato a fare una bella passeggiata tra i boschi.
L’ultima domenica di maggio, quando avevo interrogato tutti, compresa la Giuly, e non avrei avuto così problemi per una eventuale richiesta di favore, mi misi in abito da trekking e partii per il paese di Giuly, che mi aspettava. Si mise a ridere, quando mi vide: «Dove crede di andare? Sulle Alpi?». In effetti il suo abbigliamento era molto diverso dal mio: scarpe di gomma, un paio di short di quelli sportivi, una maglietta, un berrettino e un maglioncino per eventuali abbassamenti di temperatura. Beh, ormai mi ero conciata in quel modo, non potevo cambiare indumenti. Così partimmo.
La giornata era splendida, tiepida e odorosa. Attraversammo il paese e poi prendemmo per una strada di montagna, in mezzo ai castagni. L’odore umido del sottobosco, spandendosi nell’aria, penetrava nelle narici, nei polmoni, dandomi un senso di eccitazione: avrei voluto mettermi a correre, a cantare. Mi limitavo, invece, a guardare con attenzione le erbe ed i fiori spontanei chiedendone il nome locale a Giuly. Non sempre la ragazza sapeva rispondermi, ma cercava di contentarmi e, dato che ero interessata, cominciò anche lei a mostrarmi ora un fiore selvatico, ora un cespuglio particolare. I suoi diciassette anni la facevano saltellare sui sassi come una libellula; io la guardavo con la coda dell’occhio mentre camminava accanto a me e cinguettava lieta, forse perché una professoressa le dava tanta confidenza.
La strada poi si biforcò: a sinistra continuava con lo stesso andamento, a destra invece prendeva l’aspetto di un sentiero poco praticato, che passava in mezzo al bosco. Lei decisamente prese il sentiero. «Conosci la strada? Sai dove porta?» chiesi un po’ preoccupata. Rise: «Non si preoccupi, conosco la strada perché qui nei paraggi la mia famiglia possiede un po’ di bosco dove veniamo speso a fare i picnic». Fece strada, anche perché il sentiero stretto non consentiva il passaggio di due persone contemporaneamente. Così ebbi modo di osservarla da dietro. La sua chioma riccia ondeggiava coprendole appena le spalle, la sua schiena era dritta e senza nessun segno che indicasse la presenza del reggiseno, i pantaloncini larghi facevano appena intravedere l’orlo di un piccolo slip, le gambe erano dritte e bianche con due cosce ben tornite. Mentre camminava osservavo il suo fondo schiena che se ne rimaneva immobile e sodo, malgrado gli sbalzi a cui l’andatura saltellante lo costringeva. Era veramente un bocciolo di ragazza, da cogliere con tutte le cure amorose del caso.
Dopo circa dieci minuti rallentò il passo e mi disse: «Siamo quasi arrivate … Vedo che è un po’ sudata …». «Già, sono vestita troppo pesante, ma ora non posso alleggerirmi … Potevi darmi dei suggerimenti sul vestiario più appropriato, no?». Alzò le spalle e andò avanti. Arrivammo ad una specie di terrazzo che si apriva sulla valle sottostante, un panorama mozzafiato. Lei mi indicò i paesi e i borghi e le strade che stavano sotto di noi. Chiacchierando passarono una decina di minuti durante i quali mi si asciugò un po’ il sudore e così potei togliermi il maglione e rimanere con la sola camicetta. L’aria era appena tiepida, così mi misi al sole, seduta su un sasso. Giuly si mise accanto a me, in piedi. Guardai la sua silhouette e non potei fare a meno di dirle: «Sei una gran bella ragazza». Arrossì e poi con un filo di voce mi rispose:«Anche lei è una bella donna». Mi schernii, denunciando la mia maturità di quarantenne. «Non ho gambe belle come le tue..». «Ed io non ho un seno come il suo …». Credo di essere arrossita anch’io. «Beh, è un po’ più grosso del tuo, ma ciò non vuol dire che sia più bello». «A me piacerebbe averlo più grosso …». «Ma dai» le dissi e contemporaneamente le circondai la vita, in un gesto affettuoso, ma non proprio, la vita, appena più sotto, proprio all’inizio dei glutei. Ero così vicina a quelle rotondità che quasi inconsciamente me ne riempii il palmo della mano: una soda e nello stesso tempo tenera delizia. Mi guardò con stupore e insieme con accondiscendenza. Le sorrisi: «Sì, sei proprio ben fatta … posso guardarti meglio?». «Mah … non …». Senza aspettare la risposta, abbassai un po’ i suoi short e … mi si bloccò il respiro. Due emisferi bianchi, bellissimi, tenerissimi ma compatti, divisi dalla sottile striscia dello slip azzurro. La feci girare un poco: un ventre piatto, liscio, eburneo che finiva con un monte di Venere prominente e superbo. Evitai di guardare oltre e rimisi gli short al loro posto. «Sei veramente bella … chissà quanti corteggiatori … Hai il fidanzato?». «Sto con un ragazzo …». «E .. lui … ti ha vista come ti ho vista io?». «Sì, mi ha vista» e arrossì. «Scusami l’indiscrezione, ma alla mia età si diventa curiose, forse morbosamente curiose, scusami ancora». Cambiai discorso, parlando di scuola, dei futuri progetti di lei, di mille altre cose futili, fino a quando giunse l’ora di tornare. Mentre mi stavo rimettendo il maglione mi accorsi che lei mi guardava intensamente il petto. Le presi una mano e me la portai sul seno: «Ti piacerebbe averlo così?». «Sì …». Le toccai il suo, piccolo e sodo, con un capezzolino duro che quasi perforava la maglietta. «Non lamentarti del tuo, è bellissimo così». Poi le presi l’altra mano e me la portai sull’altro seno. «Ti piace toccarmelo?». Arrossì violentemente e farfugliò un “sì”. «Ora andiamo, però, è tardi».
Lungo la strada del ritorno tornammo a parlare di nuovo di erbe e di fiori, ma io pensavo al tenero bocciolo che lei aveva tra le gambe e che avrei fatto di tutto per poterlo cogliere.
Per tutta l’estate non ebbi sue notizie; la rividi solo ad inizio di scuola. Era ancora più bella e continuava a guardarmi con desiderio. Occorreva che io trovassi il modo di creare l’occasione per poterla incontrare da sola. Ma non fu necessario che mi spremessi molto le meningi, perché dopo appena una settimana di lezioni, Giuly si assentò. Nei primi due giorni di assenza non ci feci quasi caso, perché era normale che gli studenti pendolari ogni tanto si prendessero qualche giorno di vacanza per un motivo o per un altro. Al terzo giorno chiesi notizie ad una ragazza del suo paese che però frequentava l’altra classe. «E’ stata ricoverata in ospedale per coliche renali», mi rispose. Dovettero fare degli accertamenti, così Giuly tornò a scuola dopo due settimane. Intanto lo svolgimento dei programmi era andato avanti con una certa sollecitudine e lei, trovandosi in forte ritardo, mi chiese aiuto. «Se hai la possibilità di restare nel pomeriggio, posso farti un po’ di ripetizione, così ti metti in pari …». Non mi rispose subito, ma dopo qualche giorno mi avvicinò prima di entrare in classe. «Accetto il suo invito … potrei venire uno dei pomeriggi seguenti?». Feci un po’ di conti mentalmente e le risposi che sarebbe potuta venire il martedì successivo, dato che, uscendo alle 11, avrei avuto tutto il tempo per fare eventualmente qualche servizio. «Vieni appena uscita da scuola, non voglio che tu resti a bighellonare per le strade», le dissi. «Ma devo pure fare uno spuntino …». Le risposi che avrebbe pranzato con me; lei abbozzò un rifiuto, ma poi guardandomi negli occhi rispose: «Va bene … a martedì pomeriggio». Era venerdì, ancora tre giorni e mezzo di attesa …
Il martedì successivo, dopo le lezioni, sbrigai alcune faccende e poi corsi a casa. Preparare il pranzo non era difficile, avevo un po’ di pesto con cui condire due piatti di trenette e poi avrei preparato un paio di scaloppine con il marsala secco. Persi un poco di tempo invece nel rivestirmi per l’occorrenza. Da un cassetto tirai fuori le mutandine nere col pizzo e il reggiseno nero a balconcino. Tolsi il collant e misi le calze autoreggenti, evitando il body e la canotta. Una maglietta leggera e una gonna aderente completarono il mio abbigliamento. Mi guardai allo specchio e mi trovai sufficientemente seducente, almeno per un ragazzo o per un uomo certamente lo ero, chissà per una ragazza.
Arrivò alle 13.35. La feci accomodare, poi le chiesi se aveva bisogno di andare in bagno. Io avevo già apparecchiato e l’aspettavo in cucina. La feci sedere di fronte a me e cercai di toglierla da quella situazione di imbarazzo e di timidezza in cui mi sembrava si trovasse. Ma dopo cinque minuti era già a suo agio. Mangiava con appetito e chiacchierava: mi ringraziava non solo per l’ospitalità ma anche per il lavoro cui mi costringeva. Io mi schernivo e mi difendevo dicendo di aver aiutato sempre quegli studenti che avessero mostrato interesse e buona voglia. E lei l’interesse l’aveva. Preso il caffè, andammo nello studio dove lei si mise a perlustrare la libreria. «Quanti libri! Quanti sono?». «Più di tremila». «Li ha letti tutti?». Le spiegai che molti di quei libri non erano romanzi, ma saggi, monografie che non era necessario aver letto, perché si tengono solo per consultazione o per leggere quei capitoli che più interessano. «Comunque, ne ho letti almeno una metà interamente; il resto li ho consultati, sfogliati, leggiucchiati qua e là. Se mi serve qualche informazione, so dove cercarla». Poi lei si avvicinò al finestrone che dava sulla campagna. «E’ bello qui, c’è un bella vista. A casa mia al massimo vedo la casa di fronte …». Mi avvicinai e le circondai le spalle: «Sì, è bello … quando sono stanca del lavoro, mi basta alzare gli occhi e guardare l’orizzonte per sentirmi rinfrancata» e nel dire così appoggiai il mio capo sulla sua spalla e chiusi gli occhi. Lei, poco più alta di me, reclinò il capo e l’appoggiò sul mio. Mi arrivò alle nari l’odore buono della sua pelle. Stavo per abbracciarla, ma mi trattenni. «Abbiamo poltrito abbastanza, andiamo a lavorare adesso …». Andammo avanti per più di un’ora, lei seguiva attentamente, io cercavo di non distrarmi, visto che aveva una minigonna che lasciava scoperte metà delle cosce e inoltre, essendo seduta accanto a me, le nostre ginocchia ogni tanto si toccavano. Finita la lezione ci alzammo e tornammo al finestrone. «A che ora hai il pullman?». «Fra un’ora e mezzo». «Allora mi farai un po’ di compagnia … Ti piace la musica? Ma non mi dire che ti piace solo la musica rock!». Presi un disco di musica da film, più digeribile di altri, e lo feci partire. Fortunatamente lei conosceva qualche brano, quindi non si annoiò; allora prendendola per la vita la condussi a guardare il panorama. Dopo qualche istante, la mia mano risalì sul suo corpo fino a toccare, con la punta delle dita, un suo seno. «Così i tuoi seni non ti piacciono, perché sono piccoli … ed invece sono graziosi …». Mi feci coraggio e coprii con il palmo della mia mano quella piccola protuberanza. Ci guardammo negli occhi, io sorrisi ed anche lei mi sorrise. «A te piacciono i miei, vero?». Le presi la mano e me la portai sul petto. «Toccali ….». La sua mano si muoveva timidamente sul mio seno, era una carezza leggera e titubante. «Aspetta», le dissi. Alzai la camicetta e tirai fuori i miei seni. Rimase imbambolata. Le sorrisi, poi le presi il capo tra le mani, mi avvicinai e le sfiorai la bocca con le mie labbra. Presi di nuovo le sue mani e me le appoggiai sul petto, una su ogni seno, forzandola a toccarli più energicamente di prima. «Su, coraggio, se ti piace toccarli, fallo, accarezzali, stringili … lo voglio». Le sue mani cominciavano a muoversi con più speditezza e con più animo. Metteva il palmo della mano sui capezzoli, che si irrigidivano al tocco. «Ora tocca a me» le dissi e le palpai il seno. Poi la denudai e misi allo scoperto due piccoli globi bianchi con la ciliegina sopra. «Bellissimi!», sospirai … Li accarezzavo, col polpastrello del pollice solleticavo i capezzoli. Lei chiuse gli occhi e mi lasciò fare. Allora avvicinai la mia bocca a quelle due tenere protuberanze e cominciai a sfiorarle con le labbra, poi presi i capezzoli, aprii la bocca e cominciai a passare la punta della lingua su quelle dolcezze. I capezzoli diventarono duri tra le mie labbra e così cominciai a succhiarli ma senza esagerare. I primi gemiti sfuggirono dalla gola di Giuly. Fu allora che decisi di andare oltre. Mentre la mia bocca giocava con i suoi piccoli seni, cominciai a tirarle su quel poco lembo della minigonna fino all’orlo degli slip. Stetti un po’ su quelle cosce ben tornite, sode, poi la mia mano racchiuse il suo monte di Venere. Sotto le dita sentivo le due labbra già umide. Giuly era aggrappata a me, quasi piegata in due, e continuava a gemere. Le mie dita entrarono sotto gli slip e trovarono un cespuglio di peli crespi, tra i quali si nascondeva il suo bocciolo. Lo trovai, lievemente aprii le grandi labbra e cominciai a masturbarla nel modo più dolce possibile. Dopo un po’ strinse le cosce, imprigionando la mia mano ancora in movimento, un tremolio percorreva tutto il suo corpo e poi venne abbandonandosi fra le mie braccia. La lasciai calmare, la baciai in bocca, poi le sussurrai: «Ti amo, Giuly, sei la mia dolce bimba … Vieni, sdraiati sul divano». Si adagiò ancora scossa da tremiti sul divano, io le sfilai gli slip e le allargai le gambe. «Fatti amare, bambina mia …». Lei era come in trance. Io guardai per molti secondi quel fiore che si accendeva tra la folta peluria, poi con le dita lo allargai e cominciai a baciarlo e a leccarlo. Lei si era abbandonata e mi lasciava fare. Assaporavo con golosità il suo sapore, aspiravo il suo odore, la mia lingua perlustrava dentro e fuori quella tenera conchiglia, mentre le mie mani stringevano teneramente i due piccoli seni. Con la lingua cercai il clitoride, era gonfio, lo presi tra le labbra e lo succhiai, poi tornai a leccarla. Le mie mani lasciarono il suo seno e cercarono i due semiglobi del fondo schiena. Le alzai il bacino, così potei leccarla anche nel perineo e raggiungere il buchetto posteriore. Ebbe quasi una scossa elettrica quando la punta della mia lingua guizzò dentro l’ano. Non so quanti minuti durò la mia azione. So soltanto che ad un certo punto, Giuly cominciò a tremare tutta, mi strinse la testa fra le sue cosce, quasi a soffocarmi … Mi mancò l’aria, ma continuai imperterrita a leccare e a succhiare, perché quello era il momento buono …. Urlò quasi e sussultò con tutto il corpo. Il suo orgasmo fu lungo e i suoi sussulti diminuirono di intensità a poco a poco, come i cavalloni del mare dopo una bufera, che pian piano ritornano ad essere onde normali.
Io rimasi esausta, seduta a terra con il capo appoggiato su una coscia di Giuly. Vedevo quel tesoro reso umido dalla mia saliva e dai suoi umori: era come un bocciolo di rosa bagnato dalla rugiada notturna. Sarei stata ore a guardarla, ma il tempo passava ed io ancora avevo una voglia insoddisfatta. Aspettai qualche minuto, dicendole paroline dolci e coprendola di bacini dovunque e carezzandole ora il viso ora i seni. Mi alzai, mi tolsi la gonna e le mutandine di pizzo nero e mi accostai al divano. «Amore», le dissi, «ora tocca a te … ». «Che devo fare?». «Quello che io ho fatto a te» e le sorrisi. «Ma io non so ….». «Provaci, amore …». Le presi la mano e me la portai tra le gambe. «Toccami … ti piace toccarmi?». «Sì, l’ho sempre desiderato … ho sempre desiderato vederla col petto ignudo e senza mutandine …». «Allora eccomi, sono tutta tua … aspetta … Andiamo di là, sul letto, è più comodo». Feci strada, lei mi seguì mettendosi dietro a me, incollata a me, con le braccia che mi circondavano le spalle e le dita che giocavano con i miei capezzoli. Imparava presto la giovincella, ma ciò non mi dispiacque. Mi spinse sul letto, a pancia sotto e lei su di me. Sentivo il suo respiro sul collo, la sua bocca cercava i lobi delle orecchie, mi leccava, i suoi inguini umidi erano sui miei glutei. Poi si scostò un poco e allora sentii la sua mano passarmi sui glutei, introdursi tra le gambe fino a cercare il mio sesso. «Sì, così, amore, sei brava» farfugliai, «infilami un dito dentro, così … Ora accarezzami il sedere, cercami il buchetto …». «Ci devo mettere il dito dentro?». «Sì, amore, così come io ho fatto a te …». Fece di più, perché mentre giocava col mio ano, mi mise una mano sotto per palparmi il seno. Mi concentrai sulle sue carezze, chiusi gli occhi e cercai di ricordarmela come l’avevo veduta qualche minuto prima, con le gambe spalancate e la conchiglia aperta in attesa della mia lingua.
Era arrivato il momento: mi rigirai ed aprii le gambe: «Leccami, Giuly, leccami la patata, mordila, mangiamela …». Ebbe un attimo di esitazione, poi si chinò e cominciò a leccarmi. Man mano che passavano i secondi, la sua lingua diventava sempre più audace, si muoveva dal clito alle grandi labbra, cercava di infilarsi dentro, giungeva fino all’ano, dandomi trafitture di piacere incredibili. Mentre la sua testa era fra le mie gambe, la metà inferiore del suo corpo versava a terra. Le presi una gamba e la tirai su, era quasi la posizione di un sessantanove. La feci sistemare meglio su di me e cominciai anch’io a leccarla fra le gambe. Lei prese coraggio e ce la mise tutta fino a farmi il grande regalo di un orgasmo infinito.
Le lezioni durarono per tre settimane. Lei venne complessivamente otto volte a casa mia, si mise in pari con la preparazione e per otto volte godemmo dei nostri corpi. A scuola cercavamo di evitare di guardarci e di assumere atteggiamenti controproducenti e pericolosi; imposi a me stessa e a lei una disciplina ferrea. Ci sfogavamo poi non appena c’era l’occasione per incontraci a casa mia. Diventammo intime, lei mi raccontava tutto dei suoi amorazzi con i giovanotti del suo paese, dimostrandomi che era più sveglia di quanto sembrasse. Anch’io le raccontavo qualcosa di me e delle mie vicende con altre donne. Facemmo, nella tempesta della nostra passione, anche alcune cose che mai mi sarei immaginata di fare. Una volta, per esempio, mentre eravamo a letto, si alzò, andò in cucina e tornò con un cetriolo sbucciato. «Che ci fai col cetriolo?». Mi sorrise, poi se lo portò in bocca come se fosse un membro virile; dopo averlo bagnato, mi chiese di aprire le gambe. Ormai ero nel ballo e dovevo ballare. Le ubbidii e così mi masturbò col cetriolo. Devo dire che era rinfrescante e piacevole. Un’altra volta eravamo in cucina, io in abiti succinti, lei del tutto nuda. Lei si era seduta, con un salto, sul tavolo e teneva le gambe ben aperte, per provocarmi. Dopo aver sbucciato un’arancia ne mangiai uno spicchio e uno lo detti a lei. Un’idea strana si fece strada nella mia testa. Presi uno spicchio d’arancia e l’avvicinai alla vagina di Giuly. Lei mi guardava stranita. Io le infilai dentro lo spicchio, lo rigirai un paio di volte e poi me lo portai alla bocca, masticandolo lentamente. La cosa le piacque: anche lei prese lo spicchio e lo bagnò nella mia vagina e lo mangiò. Dopo ci baciammo a lungo intrecciando le nostre lingue che avevano il sapore dell’arancia e delle nostre orchidee.
A maggio terminò la scuola e finirono anche i nostri incontri. A giugno ci furono gli esami di stato, io ero stata nominata in una sede molto lontana. Lei fu promossa con buoni voti e andò a frequentare l’università in una grande città. Non l’ho più rivista, è scomparsa come le rondini a settembre: le vedi un giorno appollaiate sui fili della luce e il giorno dopo non ci sono più.
Avevo superato appena i 40 anni. Mi sentivo ancora giovane, anche perché il mio lavoro di insegnante mi permetteva di stare in mezzo ai giovanissimi: prendevo i ragazzi in prima liceo e li portavo fino in terza; poi quando, dopo gli esami di maturità, prendevano il volo, non li vedevo quasi più. Entrare in classe la mattina era come tornare indietro di venti anni e poi era bello vederli crescere, diventare, da ragazzi che erano, uomini e donne. Certo, c’era in me un certo spirito materno, ma spesso mi sorprendevo ad osservare la loro crescita con considerazioni del tutto particolari: vedevo le guance dei ragazzi coprirsi di peluria e poi di barba e pensavo che la loro evoluzione contemporaneamente avveniva anche a livello sessuale. Erano gli anni in cui cominciavano a pensare alle donne, ad immaginare incontri amorosi, a scambiarsi baci appassionati; li vedevo a volte fare evoluzioni dietro ai banchi per guardare le mie gambe o quelle delle loro compagne. Li immaginavo, tornati a casa, soli nelle loro stanze a fantasticare su quello che avevano visto o creduto di vedere, ad accarezzarsi il pisello che diventava sempre più duro fino all’esplosione finale. E la stessa cosa immaginavo delle ragazze: le pensavo mentre si guardavano allo specchio per misurarsi la crescita del seno, le curve delle anche, per scoprire tra la peluria del pube la propria conformazione fisica e chiedersi la funzione di quel fiore delicato che si apriva fra le gambe.
Devo confessare che questi pensieri mi perseguitavano da quando avevo superato i trentacinque anni e certamente se ne avessi avuta l’occasione mi sarebbe piaciuto assaggiare uno di questi virgulti o una di queste fanciulle in fiore. Ma la scuola mi obbligava a contenermi, a reprimermi, a non manifestare nessuna simpatia di carattere erotico nei confronti degli studenti. Specialmente mi guardavo dal porre l’attenzione sui maschietti che chissà cosa avrebbero raccontato in giro se mi fossi permessa di invitarne uno a casa mia per coccolarlo un po’.
Mi limitavo, quindi, a guardare e a sospirare, accontentandomi di sfogarmi sessualmente col mio compagno di allora e, ogni tanto, con Silvia, la mia amica di sempre.
L’anno scolastico volgeva al termine, si era ormai dopo le vacanze pasquali e ci si preparava nell’ultima classe a fare la volata finale, mentre in prima e in seconda si procedeva senza sussulti.
In seconda i ragazzi erano 28, molti se si vuole lavorare bene, ma quella classe era nata numerosa fin dall’inizio e bisognava accettarla com’era. Le ragazze erano in maggioranza, ben 18, e quasi tutte si avviavano a diventare adulte, anzi molte lo erano già e mettevano sul mercato erotico la loro pregevole mercanzia di seni e di fondoschiena di prima scelta. Durante i compiti in classe occupavo il mio tempo guardandole attentamente, soppesandole quasi, ammirandone la bocca, la curva dei seni e quella delle anche. Passavo fra i banchi con la scusa di controllare, mi fermavo facendo finta di leggere e intanto aspiravo l’odore buono che veniva dai loro giovani corpi. Quante tentazioni, specie nei mesi primaverili quando, abbandonati giubbotti e maglioni, le ragazze mostravano i loro rigogliosi seni, costretti nel reggiseno che proiettava fuori la parte superiore dei globi…. Anche i ragazzi erano adorabili, ma le ragazze mi attraevano di più. Ce n’era una che aveva una folta capigliatura riccia, tra il castano e il biondo, una pelle bianca, due occhi belli, grigi e un po’ vogliosetti. Quando passavo fra i banchi, mi piaceva accarezzarle il capo, sentire i riccioli della sua chioma nel palmo della mano: lei si girava e mi guardava sorridendomi. Si chiamava Giuly.
Era il maggio odoroso, avrebbe detto il Leopardi… Un giorno mentre spiegavo, il mio sguardo si posò su Giuly. Aveva quasi un atteggiamento da trance: gli occhi sognanti, il capo reclinato su un braccio, sulle labbra un sorriso alla Gioconda. Tornai a guardarla più volte, anche lei mi guardava ed ogni tanto le sue labbra lasciavano il sorriso leonardesco per uno più aperto e rivolto a me. Nei giorni seguenti questa schermaglia di sguardi e sorrisi continuò. Anzi, mi accorsi che quando a volte gli alunni si precipitavano attorno alla cattedra, lei si metteva proprio accanto a me o dietro di me. La sua spalla si appoggiava alla mia e, mentre gli altri conversavano con me, lei se ne stava zitta e mi guardava, sempre sorridente. E quando poi se ne stava dietro di me, sentivo sulle mie spalle il dolce peso dei suoi seni; allora io mi rigiravo e lei mi guardava negli occhi e sorrideva. Cominciai a farci sopra un pensierino e volli anche fare una controprova. Una volta che con gli altri era venuta attorno alla cattedra e si era messa accanto a me, io le circondai le spalle con un braccio. Le mie dita cercarono di avvicinarsi all’attaccatura del suo seno; lei se ne accorse, pensavo si sarebbe discostata, invece si strinse di più a me permettendomi di toccarla e di sentire il turgore di un piccolo seno. Il pensierino divenne un pensierone. Ma … quanti anni aveva? Andai a guardare nel registro: 17 anni. Era ancora minorenne: meglio starle alla larga. Guardai più attentamente: era nata ad ottobre, così nel successivo anno scolastico, fra 5 mesi, sarebbe stata maggiorenne. Un periodo di tempo abbastanza breve da poter sopportare facilmente se la cosa fosse andata in porto. Ma il ferro andava tenuto caldo. Così un giorno, durante l’intervallo, le chiesi, pur sapendo cosa avrebbe risposto, se al suo paese c’erano posti adatti a fare passeggiate. «Come no», mi rispose, «ci sono tanti bei boschi». Così convenimmo che una domenica mattina sarei andata a trovarla e lei mi avrebbe portato a fare una bella passeggiata tra i boschi.
L’ultima domenica di maggio, quando avevo interrogato tutti, compresa la Giuly, e non avrei avuto così problemi per una eventuale richiesta di favore, mi misi in abito da trekking e partii per il paese di Giuly, che mi aspettava. Si mise a ridere, quando mi vide: «Dove crede di andare? Sulle Alpi?». In effetti il suo abbigliamento era molto diverso dal mio: scarpe di gomma, un paio di short di quelli sportivi, una maglietta, un berrettino e un maglioncino per eventuali abbassamenti di temperatura. Beh, ormai mi ero conciata in quel modo, non potevo cambiare indumenti. Così partimmo.
La giornata era splendida, tiepida e odorosa. Attraversammo il paese e poi prendemmo per una strada di montagna, in mezzo ai castagni. L’odore umido del sottobosco, spandendosi nell’aria, penetrava nelle narici, nei polmoni, dandomi un senso di eccitazione: avrei voluto mettermi a correre, a cantare. Mi limitavo, invece, a guardare con attenzione le erbe ed i fiori spontanei chiedendone il nome locale a Giuly. Non sempre la ragazza sapeva rispondermi, ma cercava di contentarmi e, dato che ero interessata, cominciò anche lei a mostrarmi ora un fiore selvatico, ora un cespuglio particolare. I suoi diciassette anni la facevano saltellare sui sassi come una libellula; io la guardavo con la coda dell’occhio mentre camminava accanto a me e cinguettava lieta, forse perché una professoressa le dava tanta confidenza.
La strada poi si biforcò: a sinistra continuava con lo stesso andamento, a destra invece prendeva l’aspetto di un sentiero poco praticato, che passava in mezzo al bosco. Lei decisamente prese il sentiero. «Conosci la strada? Sai dove porta?» chiesi un po’ preoccupata. Rise: «Non si preoccupi, conosco la strada perché qui nei paraggi la mia famiglia possiede un po’ di bosco dove veniamo speso a fare i picnic». Fece strada, anche perché il sentiero stretto non consentiva il passaggio di due persone contemporaneamente. Così ebbi modo di osservarla da dietro. La sua chioma riccia ondeggiava coprendole appena le spalle, la sua schiena era dritta e senza nessun segno che indicasse la presenza del reggiseno, i pantaloncini larghi facevano appena intravedere l’orlo di un piccolo slip, le gambe erano dritte e bianche con due cosce ben tornite. Mentre camminava osservavo il suo fondo schiena che se ne rimaneva immobile e sodo, malgrado gli sbalzi a cui l’andatura saltellante lo costringeva. Era veramente un bocciolo di ragazza, da cogliere con tutte le cure amorose del caso.
Dopo circa dieci minuti rallentò il passo e mi disse: «Siamo quasi arrivate … Vedo che è un po’ sudata …». «Già, sono vestita troppo pesante, ma ora non posso alleggerirmi … Potevi darmi dei suggerimenti sul vestiario più appropriato, no?». Alzò le spalle e andò avanti. Arrivammo ad una specie di terrazzo che si apriva sulla valle sottostante, un panorama mozzafiato. Lei mi indicò i paesi e i borghi e le strade che stavano sotto di noi. Chiacchierando passarono una decina di minuti durante i quali mi si asciugò un po’ il sudore e così potei togliermi il maglione e rimanere con la sola camicetta. L’aria era appena tiepida, così mi misi al sole, seduta su un sasso. Giuly si mise accanto a me, in piedi. Guardai la sua silhouette e non potei fare a meno di dirle: «Sei una gran bella ragazza». Arrossì e poi con un filo di voce mi rispose:«Anche lei è una bella donna». Mi schernii, denunciando la mia maturità di quarantenne. «Non ho gambe belle come le tue..». «Ed io non ho un seno come il suo …». Credo di essere arrossita anch’io. «Beh, è un po’ più grosso del tuo, ma ciò non vuol dire che sia più bello». «A me piacerebbe averlo più grosso …». «Ma dai» le dissi e contemporaneamente le circondai la vita, in un gesto affettuoso, ma non proprio, la vita, appena più sotto, proprio all’inizio dei glutei. Ero così vicina a quelle rotondità che quasi inconsciamente me ne riempii il palmo della mano: una soda e nello stesso tempo tenera delizia. Mi guardò con stupore e insieme con accondiscendenza. Le sorrisi: «Sì, sei proprio ben fatta … posso guardarti meglio?». «Mah … non …». Senza aspettare la risposta, abbassai un po’ i suoi short e … mi si bloccò il respiro. Due emisferi bianchi, bellissimi, tenerissimi ma compatti, divisi dalla sottile striscia dello slip azzurro. La feci girare un poco: un ventre piatto, liscio, eburneo che finiva con un monte di Venere prominente e superbo. Evitai di guardare oltre e rimisi gli short al loro posto. «Sei veramente bella … chissà quanti corteggiatori … Hai il fidanzato?». «Sto con un ragazzo …». «E .. lui … ti ha vista come ti ho vista io?». «Sì, mi ha vista» e arrossì. «Scusami l’indiscrezione, ma alla mia età si diventa curiose, forse morbosamente curiose, scusami ancora». Cambiai discorso, parlando di scuola, dei futuri progetti di lei, di mille altre cose futili, fino a quando giunse l’ora di tornare. Mentre mi stavo rimettendo il maglione mi accorsi che lei mi guardava intensamente il petto. Le presi una mano e me la portai sul seno: «Ti piacerebbe averlo così?». «Sì …». Le toccai il suo, piccolo e sodo, con un capezzolino duro che quasi perforava la maglietta. «Non lamentarti del tuo, è bellissimo così». Poi le presi l’altra mano e me la portai sull’altro seno. «Ti piace toccarmelo?». Arrossì violentemente e farfugliò un “sì”. «Ora andiamo, però, è tardi».
Lungo la strada del ritorno tornammo a parlare di nuovo di erbe e di fiori, ma io pensavo al tenero bocciolo che lei aveva tra le gambe e che avrei fatto di tutto per poterlo cogliere.
Per tutta l’estate non ebbi sue notizie; la rividi solo ad inizio di scuola. Era ancora più bella e continuava a guardarmi con desiderio. Occorreva che io trovassi il modo di creare l’occasione per poterla incontrare da sola. Ma non fu necessario che mi spremessi molto le meningi, perché dopo appena una settimana di lezioni, Giuly si assentò. Nei primi due giorni di assenza non ci feci quasi caso, perché era normale che gli studenti pendolari ogni tanto si prendessero qualche giorno di vacanza per un motivo o per un altro. Al terzo giorno chiesi notizie ad una ragazza del suo paese che però frequentava l’altra classe. «E’ stata ricoverata in ospedale per coliche renali», mi rispose. Dovettero fare degli accertamenti, così Giuly tornò a scuola dopo due settimane. Intanto lo svolgimento dei programmi era andato avanti con una certa sollecitudine e lei, trovandosi in forte ritardo, mi chiese aiuto. «Se hai la possibilità di restare nel pomeriggio, posso farti un po’ di ripetizione, così ti metti in pari …». Non mi rispose subito, ma dopo qualche giorno mi avvicinò prima di entrare in classe. «Accetto il suo invito … potrei venire uno dei pomeriggi seguenti?». Feci un po’ di conti mentalmente e le risposi che sarebbe potuta venire il martedì successivo, dato che, uscendo alle 11, avrei avuto tutto il tempo per fare eventualmente qualche servizio. «Vieni appena uscita da scuola, non voglio che tu resti a bighellonare per le strade», le dissi. «Ma devo pure fare uno spuntino …». Le risposi che avrebbe pranzato con me; lei abbozzò un rifiuto, ma poi guardandomi negli occhi rispose: «Va bene … a martedì pomeriggio». Era venerdì, ancora tre giorni e mezzo di attesa …
Il martedì successivo, dopo le lezioni, sbrigai alcune faccende e poi corsi a casa. Preparare il pranzo non era difficile, avevo un po’ di pesto con cui condire due piatti di trenette e poi avrei preparato un paio di scaloppine con il marsala secco. Persi un poco di tempo invece nel rivestirmi per l’occorrenza. Da un cassetto tirai fuori le mutandine nere col pizzo e il reggiseno nero a balconcino. Tolsi il collant e misi le calze autoreggenti, evitando il body e la canotta. Una maglietta leggera e una gonna aderente completarono il mio abbigliamento. Mi guardai allo specchio e mi trovai sufficientemente seducente, almeno per un ragazzo o per un uomo certamente lo ero, chissà per una ragazza.
Arrivò alle 13.35. La feci accomodare, poi le chiesi se aveva bisogno di andare in bagno. Io avevo già apparecchiato e l’aspettavo in cucina. La feci sedere di fronte a me e cercai di toglierla da quella situazione di imbarazzo e di timidezza in cui mi sembrava si trovasse. Ma dopo cinque minuti era già a suo agio. Mangiava con appetito e chiacchierava: mi ringraziava non solo per l’ospitalità ma anche per il lavoro cui mi costringeva. Io mi schernivo e mi difendevo dicendo di aver aiutato sempre quegli studenti che avessero mostrato interesse e buona voglia. E lei l’interesse l’aveva. Preso il caffè, andammo nello studio dove lei si mise a perlustrare la libreria. «Quanti libri! Quanti sono?». «Più di tremila». «Li ha letti tutti?». Le spiegai che molti di quei libri non erano romanzi, ma saggi, monografie che non era necessario aver letto, perché si tengono solo per consultazione o per leggere quei capitoli che più interessano. «Comunque, ne ho letti almeno una metà interamente; il resto li ho consultati, sfogliati, leggiucchiati qua e là. Se mi serve qualche informazione, so dove cercarla». Poi lei si avvicinò al finestrone che dava sulla campagna. «E’ bello qui, c’è un bella vista. A casa mia al massimo vedo la casa di fronte …». Mi avvicinai e le circondai le spalle: «Sì, è bello … quando sono stanca del lavoro, mi basta alzare gli occhi e guardare l’orizzonte per sentirmi rinfrancata» e nel dire così appoggiai il mio capo sulla sua spalla e chiusi gli occhi. Lei, poco più alta di me, reclinò il capo e l’appoggiò sul mio. Mi arrivò alle nari l’odore buono della sua pelle. Stavo per abbracciarla, ma mi trattenni. «Abbiamo poltrito abbastanza, andiamo a lavorare adesso …». Andammo avanti per più di un’ora, lei seguiva attentamente, io cercavo di non distrarmi, visto che aveva una minigonna che lasciava scoperte metà delle cosce e inoltre, essendo seduta accanto a me, le nostre ginocchia ogni tanto si toccavano. Finita la lezione ci alzammo e tornammo al finestrone. «A che ora hai il pullman?». «Fra un’ora e mezzo». «Allora mi farai un po’ di compagnia … Ti piace la musica? Ma non mi dire che ti piace solo la musica rock!». Presi un disco di musica da film, più digeribile di altri, e lo feci partire. Fortunatamente lei conosceva qualche brano, quindi non si annoiò; allora prendendola per la vita la condussi a guardare il panorama. Dopo qualche istante, la mia mano risalì sul suo corpo fino a toccare, con la punta delle dita, un suo seno. «Così i tuoi seni non ti piacciono, perché sono piccoli … ed invece sono graziosi …». Mi feci coraggio e coprii con il palmo della mia mano quella piccola protuberanza. Ci guardammo negli occhi, io sorrisi ed anche lei mi sorrise. «A te piacciono i miei, vero?». Le presi la mano e me la portai sul petto. «Toccali ….». La sua mano si muoveva timidamente sul mio seno, era una carezza leggera e titubante. «Aspetta», le dissi. Alzai la camicetta e tirai fuori i miei seni. Rimase imbambolata. Le sorrisi, poi le presi il capo tra le mani, mi avvicinai e le sfiorai la bocca con le mie labbra. Presi di nuovo le sue mani e me le appoggiai sul petto, una su ogni seno, forzandola a toccarli più energicamente di prima. «Su, coraggio, se ti piace toccarli, fallo, accarezzali, stringili … lo voglio». Le sue mani cominciavano a muoversi con più speditezza e con più animo. Metteva il palmo della mano sui capezzoli, che si irrigidivano al tocco. «Ora tocca a me» le dissi e le palpai il seno. Poi la denudai e misi allo scoperto due piccoli globi bianchi con la ciliegina sopra. «Bellissimi!», sospirai … Li accarezzavo, col polpastrello del pollice solleticavo i capezzoli. Lei chiuse gli occhi e mi lasciò fare. Allora avvicinai la mia bocca a quelle due tenere protuberanze e cominciai a sfiorarle con le labbra, poi presi i capezzoli, aprii la bocca e cominciai a passare la punta della lingua su quelle dolcezze. I capezzoli diventarono duri tra le mie labbra e così cominciai a succhiarli ma senza esagerare. I primi gemiti sfuggirono dalla gola di Giuly. Fu allora che decisi di andare oltre. Mentre la mia bocca giocava con i suoi piccoli seni, cominciai a tirarle su quel poco lembo della minigonna fino all’orlo degli slip. Stetti un po’ su quelle cosce ben tornite, sode, poi la mia mano racchiuse il suo monte di Venere. Sotto le dita sentivo le due labbra già umide. Giuly era aggrappata a me, quasi piegata in due, e continuava a gemere. Le mie dita entrarono sotto gli slip e trovarono un cespuglio di peli crespi, tra i quali si nascondeva il suo bocciolo. Lo trovai, lievemente aprii le grandi labbra e cominciai a masturbarla nel modo più dolce possibile. Dopo un po’ strinse le cosce, imprigionando la mia mano ancora in movimento, un tremolio percorreva tutto il suo corpo e poi venne abbandonandosi fra le mie braccia. La lasciai calmare, la baciai in bocca, poi le sussurrai: «Ti amo, Giuly, sei la mia dolce bimba … Vieni, sdraiati sul divano». Si adagiò ancora scossa da tremiti sul divano, io le sfilai gli slip e le allargai le gambe. «Fatti amare, bambina mia …». Lei era come in trance. Io guardai per molti secondi quel fiore che si accendeva tra la folta peluria, poi con le dita lo allargai e cominciai a baciarlo e a leccarlo. Lei si era abbandonata e mi lasciava fare. Assaporavo con golosità il suo sapore, aspiravo il suo odore, la mia lingua perlustrava dentro e fuori quella tenera conchiglia, mentre le mie mani stringevano teneramente i due piccoli seni. Con la lingua cercai il clitoride, era gonfio, lo presi tra le labbra e lo succhiai, poi tornai a leccarla. Le mie mani lasciarono il suo seno e cercarono i due semiglobi del fondo schiena. Le alzai il bacino, così potei leccarla anche nel perineo e raggiungere il buchetto posteriore. Ebbe quasi una scossa elettrica quando la punta della mia lingua guizzò dentro l’ano. Non so quanti minuti durò la mia azione. So soltanto che ad un certo punto, Giuly cominciò a tremare tutta, mi strinse la testa fra le sue cosce, quasi a soffocarmi … Mi mancò l’aria, ma continuai imperterrita a leccare e a succhiare, perché quello era il momento buono …. Urlò quasi e sussultò con tutto il corpo. Il suo orgasmo fu lungo e i suoi sussulti diminuirono di intensità a poco a poco, come i cavalloni del mare dopo una bufera, che pian piano ritornano ad essere onde normali.
Io rimasi esausta, seduta a terra con il capo appoggiato su una coscia di Giuly. Vedevo quel tesoro reso umido dalla mia saliva e dai suoi umori: era come un bocciolo di rosa bagnato dalla rugiada notturna. Sarei stata ore a guardarla, ma il tempo passava ed io ancora avevo una voglia insoddisfatta. Aspettai qualche minuto, dicendole paroline dolci e coprendola di bacini dovunque e carezzandole ora il viso ora i seni. Mi alzai, mi tolsi la gonna e le mutandine di pizzo nero e mi accostai al divano. «Amore», le dissi, «ora tocca a te … ». «Che devo fare?». «Quello che io ho fatto a te» e le sorrisi. «Ma io non so ….». «Provaci, amore …». Le presi la mano e me la portai tra le gambe. «Toccami … ti piace toccarmi?». «Sì, l’ho sempre desiderato … ho sempre desiderato vederla col petto ignudo e senza mutandine …». «Allora eccomi, sono tutta tua … aspetta … Andiamo di là, sul letto, è più comodo». Feci strada, lei mi seguì mettendosi dietro a me, incollata a me, con le braccia che mi circondavano le spalle e le dita che giocavano con i miei capezzoli. Imparava presto la giovincella, ma ciò non mi dispiacque. Mi spinse sul letto, a pancia sotto e lei su di me. Sentivo il suo respiro sul collo, la sua bocca cercava i lobi delle orecchie, mi leccava, i suoi inguini umidi erano sui miei glutei. Poi si scostò un poco e allora sentii la sua mano passarmi sui glutei, introdursi tra le gambe fino a cercare il mio sesso. «Sì, così, amore, sei brava» farfugliai, «infilami un dito dentro, così … Ora accarezzami il sedere, cercami il buchetto …». «Ci devo mettere il dito dentro?». «Sì, amore, così come io ho fatto a te …». Fece di più, perché mentre giocava col mio ano, mi mise una mano sotto per palparmi il seno. Mi concentrai sulle sue carezze, chiusi gli occhi e cercai di ricordarmela come l’avevo veduta qualche minuto prima, con le gambe spalancate e la conchiglia aperta in attesa della mia lingua.
Era arrivato il momento: mi rigirai ed aprii le gambe: «Leccami, Giuly, leccami la patata, mordila, mangiamela …». Ebbe un attimo di esitazione, poi si chinò e cominciò a leccarmi. Man mano che passavano i secondi, la sua lingua diventava sempre più audace, si muoveva dal clito alle grandi labbra, cercava di infilarsi dentro, giungeva fino all’ano, dandomi trafitture di piacere incredibili. Mentre la sua testa era fra le mie gambe, la metà inferiore del suo corpo versava a terra. Le presi una gamba e la tirai su, era quasi la posizione di un sessantanove. La feci sistemare meglio su di me e cominciai anch’io a leccarla fra le gambe. Lei prese coraggio e ce la mise tutta fino a farmi il grande regalo di un orgasmo infinito.
Le lezioni durarono per tre settimane. Lei venne complessivamente otto volte a casa mia, si mise in pari con la preparazione e per otto volte godemmo dei nostri corpi. A scuola cercavamo di evitare di guardarci e di assumere atteggiamenti controproducenti e pericolosi; imposi a me stessa e a lei una disciplina ferrea. Ci sfogavamo poi non appena c’era l’occasione per incontraci a casa mia. Diventammo intime, lei mi raccontava tutto dei suoi amorazzi con i giovanotti del suo paese, dimostrandomi che era più sveglia di quanto sembrasse. Anch’io le raccontavo qualcosa di me e delle mie vicende con altre donne. Facemmo, nella tempesta della nostra passione, anche alcune cose che mai mi sarei immaginata di fare. Una volta, per esempio, mentre eravamo a letto, si alzò, andò in cucina e tornò con un cetriolo sbucciato. «Che ci fai col cetriolo?». Mi sorrise, poi se lo portò in bocca come se fosse un membro virile; dopo averlo bagnato, mi chiese di aprire le gambe. Ormai ero nel ballo e dovevo ballare. Le ubbidii e così mi masturbò col cetriolo. Devo dire che era rinfrescante e piacevole. Un’altra volta eravamo in cucina, io in abiti succinti, lei del tutto nuda. Lei si era seduta, con un salto, sul tavolo e teneva le gambe ben aperte, per provocarmi. Dopo aver sbucciato un’arancia ne mangiai uno spicchio e uno lo detti a lei. Un’idea strana si fece strada nella mia testa. Presi uno spicchio d’arancia e l’avvicinai alla vagina di Giuly. Lei mi guardava stranita. Io le infilai dentro lo spicchio, lo rigirai un paio di volte e poi me lo portai alla bocca, masticandolo lentamente. La cosa le piacque: anche lei prese lo spicchio e lo bagnò nella mia vagina e lo mangiò. Dopo ci baciammo a lungo intrecciando le nostre lingue che avevano il sapore dell’arancia e delle nostre orchidee.
A maggio terminò la scuola e finirono anche i nostri incontri. A giugno ci furono gli esami di stato, io ero stata nominata in una sede molto lontana. Lei fu promossa con buoni voti e andò a frequentare l’università in una grande città. Non l’ho più rivista, è scomparsa come le rondini a settembre: le vedi un giorno appollaiate sui fili della luce e il giorno dopo non ci sono più.
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