Zazie - Cap. 3
di
BiDiEnne
genere
pulp
Il bar era immerso nella calma sonnacchiosa del pomeriggio. Il barista era un ragazzone barbuto che accolse Loris con un sorriso incoraggiante. «Cosa ti servo?», chiese. «Sto cercando Gianmarco». «È lì, guarda». Seduto a un tavolino accanto alla vetrata, un ragazzo tutto solo fumava una sigaretta artigianale.
Gianmarco aveva una fronte alta, punteggiata di brufoli. Occhi grandi, cerulei, arrossati dal fumo e dalla collera. «Sono stato uno stupido a scrivere quel messaggio e a infilartelo nella cassetta postale. Sarei dovuto andare dritto alla polizia. Purtroppo, mi è mancato il coraggio. Ci avreste pensato voi, mi illudevo». «Ma è quello che avrei fatto se...». «Se?». «Se Francesca non me l'avesse impedito». «Chi sarebbe questa Francesca?», chiese duro Gianmarco. «Un'amica di Tony. Non la conosci?». «Intendi la modella?». «Sì, la modella». «Se non sbaglio», disse il ragazzo dopo una pausa, «questa Francesca è anche una catechista». «Non proprio. È un'educatrice ACR». «Se non è zuppa... È comunque una complice di Frate Alberto». «Complice? In che senso?». Gianmarco ignorò la domanda e si allungò verso la ciotola di patatine. «Dunque», disse con la bocca piena, «Francesca ti ha impedito di denunciare l'accaduto? e come ci è riuscita?». «Beh...», fece Loris, «Mi ha assicurato che ci avrebbe pensato lei, ma non prima di essersi consultata con Frate Alberto». «Ecco, appunto. C'è di mezzo il prete, lo sapevo», sbraitò Gianmarco.
Il foglio lasciato nella cassetta postale riportava poche parole scritte a macchina. Un indirizzo e un messaggio lapidario. Piazzetta Monsignori 2 ANDATECI SUBITO. Quello era il posto che cervava. Loris si guardò attorno. Non c'era anima viva. Un cane abbaiava in lontananza. Il casale sembrava disabitato. Sui conci era riportato l'anno di costruzione: 1803. Al civico n. 2 l'ingresso era privo di infissi, ma una lamiera ondulata e, in parte, arrugginita impediva il passaggio. Con cautela, il giovane tentò di spostarla, rischiando inutilmente di ferirsi. Ci provò con maggiore decisione; il metallo si piegò e Loris, tenendo la presa e risucchiando l'esigua pancia, strisciò con la schiena contro lo stipite e penetrò nel fabbricato. «C'è qualcuno?», urlò Loris con voce strozzata. Gli rispose un'eco inquietante. Fece qualche passo su quel pavimento ricoperto di polvere e di escrementi di topo. Notò il materasso gettato in un angolo, la strana aura di ordine e pulizia che lo circondava. Qualcuno aveva spazzato solo in quel punto, creando un giaciglio a malapena dignitoso. C'erano anche avanzi di pasti consumati di recente, riposti in appositi sacchetti per alimenti. Uno zaino da viaggio di grosse dimensioni stava accanto a una confezione da sei bottiglie di acqua minerale. Sedette sul materasso e afferrò lo zaino, cominciando a rovistare nei tasconi. Cibo, indumenti, coperte. Un föhn professionale. Posate da campeggio. Loris fu incuriosito da un tascapane di tela. Ne ispezionò gli scomparti e tirò fuori uno smartphone spento, scarico, che non si riaccese
nonostante i numerosi tentativi di rianimazione.
Dopo un'ultima occhiata a quel giaciglio di fortuna, il giovane s'incamminò verso la porta, ma si bloccò davanti alla scala che saliva al piano superiore e veniva inghiottita da un buio pesto. Raggiunse un ambiente del tutto simile a quello che aveva visitato al pianterreno. Uno stanzone unico privo di tramezzi e immerso nella penombra. Non c'erano mobili, il pavimento era sconnesso e, probabilmente, cedevole. In un angolo, un mucchio di stracci. Un odore acre, un puzzo come di piscio ma dal bouquet più ampio e variegato rendeva la permanenza in quel posto
un'esperienza estrema. Loris, saggiando con coraggio la solidità del solaio, arrivò alle finestre che davano sulla strada. Erano sigillate con il cartone. Il giovane provò a strapparlo, ma quello era un cartone piuttosto spesso e faceva resistenza. Lo colpì con un pugno e si scorticò le nocche. «Ahii», urlò. E, perdendo la pazienza, si scagliò inviperito contro quei fogli pressati. Li prese a spallate aprendo uno squarcio longitudinale attraverso il quale poté
osservare i dintorni. Loris respirò profondamente dalla feritoia che aveva ricavato nel cartone, sfuggendo così alla persecuzione del fetore che aleggiava all'interno della casa. Dopo un'ultima boccata di quell'aria calda come brodo, ma perlomeno inodore, si disse che era davvero arrivato il momento di andarsene. Con passo svelto puntò in direzione delle scale. Mentre riattraversava la stanza si guardò attorno. La luce entrava a fatica, ma entrava. E rendeva più concreto lo
squallore. Loris notò in quello sfacelo qualcosa di sbagliato. La luce era poca, ma gettava un raggio obliquo proprio verso il fondo, rischiarando l'angolo. Detriti, cenere, rottami. Un mucchio di stracci. Sì, ma c'era dell'altro. Qualcosa di sbagliato.
La luce, sparata come da un faretto alogeno piazzato ad arte da un fotografo professionista, investiva in pieno l'errore. Loris effettuò una brusca deviazione, attirato dalla cosa illuminata. Quando fu abbastanza vicino s'ingobbì più del solito e quasi gli venne da ridere. In realtà, era il principio di una smorfia facciale che lo fece somigliare a Joker, il celebre villain dei fumetti. Il mucchio di stracci era Tony. Livido, con gli occhi spenti simili a biglie, i denti in mostra, digrignati, la mandibola deformata da un urto violento.
Il cadavere giaceva sopra un tappeto di sudiciume, in posizione scomposta, innaturale. Era contornato da un alone verdastro. Non si vedevano tracce di sangue e quella trasudazione di umori linfatici faceva pensare, stranamente, alla morte di un vegetale. Tony pareva un fiore rinsecchito, una foglia recisa, un arbusto essiccato. E Loris per un pezzo stette a fissarlo incantato, come fosse un esemplare di particolare interesse botanico. Infine, ebbe contezza
dell'accaduto. Tony aveva la testa fracassata. Gli avevano fracassato la testa. Lo avevano ammazzato e poi lo avevano buttato là come un sacco di spazzatura. Ecco tutto. Ecco tutto? Loris si sentì impazzire. Emise un rantolo e balzò all'indietro. Roteò le braccia per tenersi in equilibrio mentre le gambe rifiutavano di ubbidirgli. Rischiò di cadere e, barcollando, arrivò
alle scale. Si lanciò a capofitto dentro quel tunnel buio. Stavolta, però, gli fu di sollievo annullarsi nel nero assoluto. Perse la coscienza di sé; avvertì dei colpi, battiti costanti la cui frequenza accelerava innescando una fuga tachicardica dall'orrore.
«Il cadavere è stato rimosso». Loris boccheggiò per qualche istante. «Il cadavere è stato rimosso, ma non dalla polizia», chiarì Gianmarco, «Non lo sapevi, eh?». Ottenne in risposta solo un lieve cenno di diniego. «Sai che significa? che il prete lo ha fatto sparire. È questa la soluzione escogitata da Frate Alberto. Nessun cadavere. Nessun problema. Nessun colpevole». «Se lo ha fatto... lo ha fatto per proteggerci. Francesca in effetti...». «E piantala! Secondo te,
Frate Alberto occulterebbe un cadavere, rischiando una condanna penale, soltanto per fare un favore a te e tua madre?». La domanda si estese nello spazio come testo in una pagina. «Perché ce l'hai tanto con Frate Alberto?», fece Loris, «Anche a me non sta particolarmente simpatico, ma tu lo dipingi come un mostro. Non ti pare di esagerare?». «Io non so quali scheletri nasconda nell'armadio quel prete, ma ho il sospetto che, proprio per impedire che si ficcasse il naso nei
suoi loschi affari, Tony sia stato massacrato».
«Che ti succede? Sei così strana oggi». Enza non rispose e, sciolto l'abbraccio che li univa, si allontanò con un incedere grave. Dandogli le spalle, che sembravano scosse da un fremito, emise una specie di fischio, un sibilo appena udibile. Lui tentò di seguirla, ma lei si voltò e lo tenne a distanza con un drastico «No», quasi urlato tra i denti. «Ma... perché?», fece Tony
esterrefatto. La donna si pentì di tanta durezza e subito addolcì l'espressione del proprio viso, sul quale si dissipò la nube di impazienza che si era addensata, spazzata via dall'improvviso montare dei sensi di colpa. Tony non comprese, ma approfittò di quel cambiamento e avanzò con decisione, afferrando Enza per stringersela al petto. La tenne così, teneramente, annusando il buon odore dei suoi capelli, sentendo il fremito del suo corpo aumentare, diventare
un sussulto violento. «Rilassati. È tutto okay», disse in un sussurro. «No», ripeté lei, ma stavolta con tono arrendevole. Non piangeva, però ci mancava poco. E si capiva che a Tony, nonostante l'angoscia che tormentava la donna, quella crisi tutta femminile provocava un piacere inconfessabile. Era allarmato, certo. Tuttavia, portava acceso negli occhi fiammeggianti l'orgoglio da eroe che provava nello stendere l'ala protettrice, nel sentirsi il cavaliere impavido. «Ci sono io. Sono qui. Puoi stare tranquilla», disse. «Non capisci», gemette Enza, «È
colpa mia». Adesso era riluttante a separarsi dal ragazzo, lo cingeva possessiva, timorosa forse di perderlo per sempre. «Lo sai che puoi contare su di me. Qualunque sia il problema lo risolveremo insieme», assicurò Tony. Lei sollevò la testa, lo guardò a lungo come se stentasse a riconoscerlo; poi lo baciò, con trasporto, quasi con rabbia. Lo morse addirittura. Era febbricitante, sul punto di cadere in delirio. Il ragazzo indietreggiò e cercò di parlare, ma
venne ghermito e denudato e palpato. Allora si gettò a sua volta sulla donna, sbottonandole i vestiti, lacerando e strappando persino, facendosi strada verso la pelle incendiata dal fuoco di un sangue pazzo. Enza lanciò un grido e si ritrasse. «Sono un mostro», disse, «Dovresti odiarmi». Era sconvolta, si premeva i pugni contro le guance e fissava un punto nel vuoto. I seni tondi biancheggiavano tra i lembi della camicetta aperta. «Smettila di dire sciocchezze», disse Tony, «Vieni qui, ho bisogno di te». La raggiunse, ma lei era come impietrita. Il ragazzo tentò di baciarla ancora, Enza gli strinse il mento e lo tenne lontano, a distanza, mentre induriva il proprio sguardo fino a renderlo tagliente. «D'accordo», mormorò, «Non posso più tacere. Stammi a sentire. Sei in pericolo a causa mia». «Che significa?». «Qualcuno ti sta cercando per farti del male». «Chi?». «Un certo Gianni, lo chiamano Kurt Angle. Un delinquente».
«Non lo conosco. Perché sta cercando proprio me?». «Beh, perché...», Enza crollò il capo. Le mancava il coraggio di completare la frase. Sperava forse che il ragazzo capisse senza altre spiegazioni, che afferrasse il senso di quella situazione, evitandole il supplizio della sincerità. «Cosa stai inventando? Si tratta di uno scherzo?», chiese Tony, che cominciava a irrigidirsi. La donna s'innervosì, perdendo quel poco di autocontrollo che le rimaneva. Volle
riprendere il gioco di seduzione interrotto dianzi; conscia dell'effetto psicotropo, simile a quello di una droga pesante, che la propria fisicità produceva sul ragazzo, gli buttò le braccia al collo, gli alitò sulla faccia e, sbattendo le ciglia, increspando la superficie verde delle iridi oceaniche, con una gamba lo avvinghiò come una danzatrice di tango argentino. Lo attirò a
sé, quasi mendicando le sue carezze, estorcendogli baci dal sapore amaro. Lui dovette compiere uno sforzo enorme per fermarla. «Aspetta», disse. Enza sulle prime non lo ascoltò e continuò a dimenarsi, a offrirsi, sperando che l'esplosione dei sensi protraesse l'ultima felicità. «No. Aspetta», s'impuntò lui. Voleva la verità.
La donna dovette arrendersi. «Hai ragione», disse mentre si toglieva le lacrime dagli zigomi, «Scusami. Sono una stupida». Gli stava ancora appiccicata addosso e per lui era difficile controllare l'istinto che lo spingeva a cederle, ad assaporare quelle labbra golose. «Non sei stupida», sussurrò sollevandola per la vita. «Invece sì», fece lei, i gomiti puntati sulle spalle del ragazzo, la scarpa che scivolava dal piede sospeso. «Mettimi giù». Tony obbedì. Enza riprese fiato e disse: «Gianni ti sta cercando perché io gli appartengo». «Gli appartieni? Come
sarebbe a dire?». «Mi dispiace. Mi dispiace davvero, credimi. Purtroppo, è venuto a sapere di noi. Dovevamo stare più attenti». «Ma... tu stai dando i numeri. Devi essere impazzita». «No. Ascoltami...». «Noi due stiamo insieme. Tu appartieni a me». «Ascoltami, ti prego. Ora non c'è tempo per discutere. Sei in pericolo e devi nasconderti». «Dovrei nascondermi? e per quale motivo? Questo Gianni ti sta forse molestando? se è così dobbiamo denunciarlo alla polizia». «Stammi a sentire...». «Ti ha importunata per strada? Mica ti ha messo le mani addosso?».
«Stammi a sentire», urlò la donna, battendo il piede per la stizza, «Io e Gianni abbiamo una relazione». Tony sorrise, inebetito da quella notizia. «Cioè...», borbottò, «tu e Gianni avete... E noi? E la nostra relazione? Come hai potuto dimenticartene? Come hai potuto tradirmi?». Enza fece una smorfia tra l'esasperato e il rassegnato. «Gianni c'era già», disse piano. «C'era già? C'era già?», sbottò il ragazzo. «Sì. Prima che io e te incominciassimo a
frequentarci, prima che mi innamorassi di te, Gianni era già entrato nella mia vita». «E per tutto questo tempo... mi hai ingannato. Adesso capisco perché non volevi che ci mostrassimo in pubblico. Tutte quelle scuse...». «Cercavo di proteggerti», azzardò Enza. «Fammi il piacere! Tu sei soltanto una...», Tony non completò il pensiero e lottò per non scoppiare a piangere come un
bambino. «Offendimi pure. Me lo merito. Però, ti prego, bada a metterti in salvo. Non voglio che Gianni ti faccia del male». «Che t'importa?», disse lui velenoso, «Questo poveraccio, questo Gianni, non posso biasimarlo. Dovrebbe uccidere me perché sono un deficiente e dovrebbe uccidere te perché sei una...». «Dillo», fece lei, «Se ti fa stare meglio, dillo». «Io voglio incontrarlo», disse Tony. «Cosa?». «Sì, voglio un contraddittorio. Sono proprio curioso di
scoprire quante bugie gli hai raccontato. Per te dev'essere un'abitudine». «Oh, no no! tu non lo incontrerai. È proprio quello che dobbiamo evitare». «Già, scommetto che per te sarebbe imbarazzante». Enza era fiaccata dal peso della frustrazione. «Non fare così», supplicò, «Ho rovinato tutto, lo so bene. Ma sono davvero preoccupata per te. Non sai di cosa è capace Gianni. È un violento. È stato più volte in galera». Il ragazzo emise un risolino stridulo. «Cavolo!»,
disse, «Non immaginavo che ti piacesse quel genere. Quindi, tu saresti la donna del boss! Guai a chi ti tocca, giusto?». «Tony...», piagnucolò Enza. «No. Non aggiungere altro, per carità». Il ragazzo si ricompose gli abiti con manate vigorose, tambureggiò con puntiglio come se volesse scrollarsi di dosso lo stupore e l'ingenuità. «Io me ne vado», disse. Lei provò a trattenerlo.
«Non toccarmi», urlò lui sfuggendole. «Calmati. Prenditi un minuto», propose la donna, «Decideremo poi come comportarci». «Noi non dobbiamo decidere niente. È chiaro?». «Prenditi un minuto per ragionare». «Come?», fece Tony, «Dovrei ragionare? e su cosa? magari sul fatto che per me tu eri un angelo, che ero pronto a qualsiasi sacrificio pur di averti? Fino a che punto
vuoi umiliarmi?». «Io voglio solo saperti al sicuro». «Sarò al sicuro finché rimarrò lontano da te». La spinse da parte e corse via, trascinato dalla tristezza di quell'addio.
Gianmarco aveva una fronte alta, punteggiata di brufoli. Occhi grandi, cerulei, arrossati dal fumo e dalla collera. «Sono stato uno stupido a scrivere quel messaggio e a infilartelo nella cassetta postale. Sarei dovuto andare dritto alla polizia. Purtroppo, mi è mancato il coraggio. Ci avreste pensato voi, mi illudevo». «Ma è quello che avrei fatto se...». «Se?». «Se Francesca non me l'avesse impedito». «Chi sarebbe questa Francesca?», chiese duro Gianmarco. «Un'amica di Tony. Non la conosci?». «Intendi la modella?». «Sì, la modella». «Se non sbaglio», disse il ragazzo dopo una pausa, «questa Francesca è anche una catechista». «Non proprio. È un'educatrice ACR». «Se non è zuppa... È comunque una complice di Frate Alberto». «Complice? In che senso?». Gianmarco ignorò la domanda e si allungò verso la ciotola di patatine. «Dunque», disse con la bocca piena, «Francesca ti ha impedito di denunciare l'accaduto? e come ci è riuscita?». «Beh...», fece Loris, «Mi ha assicurato che ci avrebbe pensato lei, ma non prima di essersi consultata con Frate Alberto». «Ecco, appunto. C'è di mezzo il prete, lo sapevo», sbraitò Gianmarco.
Il foglio lasciato nella cassetta postale riportava poche parole scritte a macchina. Un indirizzo e un messaggio lapidario. Piazzetta Monsignori 2 ANDATECI SUBITO. Quello era il posto che cervava. Loris si guardò attorno. Non c'era anima viva. Un cane abbaiava in lontananza. Il casale sembrava disabitato. Sui conci era riportato l'anno di costruzione: 1803. Al civico n. 2 l'ingresso era privo di infissi, ma una lamiera ondulata e, in parte, arrugginita impediva il passaggio. Con cautela, il giovane tentò di spostarla, rischiando inutilmente di ferirsi. Ci provò con maggiore decisione; il metallo si piegò e Loris, tenendo la presa e risucchiando l'esigua pancia, strisciò con la schiena contro lo stipite e penetrò nel fabbricato. «C'è qualcuno?», urlò Loris con voce strozzata. Gli rispose un'eco inquietante. Fece qualche passo su quel pavimento ricoperto di polvere e di escrementi di topo. Notò il materasso gettato in un angolo, la strana aura di ordine e pulizia che lo circondava. Qualcuno aveva spazzato solo in quel punto, creando un giaciglio a malapena dignitoso. C'erano anche avanzi di pasti consumati di recente, riposti in appositi sacchetti per alimenti. Uno zaino da viaggio di grosse dimensioni stava accanto a una confezione da sei bottiglie di acqua minerale. Sedette sul materasso e afferrò lo zaino, cominciando a rovistare nei tasconi. Cibo, indumenti, coperte. Un föhn professionale. Posate da campeggio. Loris fu incuriosito da un tascapane di tela. Ne ispezionò gli scomparti e tirò fuori uno smartphone spento, scarico, che non si riaccese
nonostante i numerosi tentativi di rianimazione.
Dopo un'ultima occhiata a quel giaciglio di fortuna, il giovane s'incamminò verso la porta, ma si bloccò davanti alla scala che saliva al piano superiore e veniva inghiottita da un buio pesto. Raggiunse un ambiente del tutto simile a quello che aveva visitato al pianterreno. Uno stanzone unico privo di tramezzi e immerso nella penombra. Non c'erano mobili, il pavimento era sconnesso e, probabilmente, cedevole. In un angolo, un mucchio di stracci. Un odore acre, un puzzo come di piscio ma dal bouquet più ampio e variegato rendeva la permanenza in quel posto
un'esperienza estrema. Loris, saggiando con coraggio la solidità del solaio, arrivò alle finestre che davano sulla strada. Erano sigillate con il cartone. Il giovane provò a strapparlo, ma quello era un cartone piuttosto spesso e faceva resistenza. Lo colpì con un pugno e si scorticò le nocche. «Ahii», urlò. E, perdendo la pazienza, si scagliò inviperito contro quei fogli pressati. Li prese a spallate aprendo uno squarcio longitudinale attraverso il quale poté
osservare i dintorni. Loris respirò profondamente dalla feritoia che aveva ricavato nel cartone, sfuggendo così alla persecuzione del fetore che aleggiava all'interno della casa. Dopo un'ultima boccata di quell'aria calda come brodo, ma perlomeno inodore, si disse che era davvero arrivato il momento di andarsene. Con passo svelto puntò in direzione delle scale. Mentre riattraversava la stanza si guardò attorno. La luce entrava a fatica, ma entrava. E rendeva più concreto lo
squallore. Loris notò in quello sfacelo qualcosa di sbagliato. La luce era poca, ma gettava un raggio obliquo proprio verso il fondo, rischiarando l'angolo. Detriti, cenere, rottami. Un mucchio di stracci. Sì, ma c'era dell'altro. Qualcosa di sbagliato.
La luce, sparata come da un faretto alogeno piazzato ad arte da un fotografo professionista, investiva in pieno l'errore. Loris effettuò una brusca deviazione, attirato dalla cosa illuminata. Quando fu abbastanza vicino s'ingobbì più del solito e quasi gli venne da ridere. In realtà, era il principio di una smorfia facciale che lo fece somigliare a Joker, il celebre villain dei fumetti. Il mucchio di stracci era Tony. Livido, con gli occhi spenti simili a biglie, i denti in mostra, digrignati, la mandibola deformata da un urto violento.
Il cadavere giaceva sopra un tappeto di sudiciume, in posizione scomposta, innaturale. Era contornato da un alone verdastro. Non si vedevano tracce di sangue e quella trasudazione di umori linfatici faceva pensare, stranamente, alla morte di un vegetale. Tony pareva un fiore rinsecchito, una foglia recisa, un arbusto essiccato. E Loris per un pezzo stette a fissarlo incantato, come fosse un esemplare di particolare interesse botanico. Infine, ebbe contezza
dell'accaduto. Tony aveva la testa fracassata. Gli avevano fracassato la testa. Lo avevano ammazzato e poi lo avevano buttato là come un sacco di spazzatura. Ecco tutto. Ecco tutto? Loris si sentì impazzire. Emise un rantolo e balzò all'indietro. Roteò le braccia per tenersi in equilibrio mentre le gambe rifiutavano di ubbidirgli. Rischiò di cadere e, barcollando, arrivò
alle scale. Si lanciò a capofitto dentro quel tunnel buio. Stavolta, però, gli fu di sollievo annullarsi nel nero assoluto. Perse la coscienza di sé; avvertì dei colpi, battiti costanti la cui frequenza accelerava innescando una fuga tachicardica dall'orrore.
«Il cadavere è stato rimosso». Loris boccheggiò per qualche istante. «Il cadavere è stato rimosso, ma non dalla polizia», chiarì Gianmarco, «Non lo sapevi, eh?». Ottenne in risposta solo un lieve cenno di diniego. «Sai che significa? che il prete lo ha fatto sparire. È questa la soluzione escogitata da Frate Alberto. Nessun cadavere. Nessun problema. Nessun colpevole». «Se lo ha fatto... lo ha fatto per proteggerci. Francesca in effetti...». «E piantala! Secondo te,
Frate Alberto occulterebbe un cadavere, rischiando una condanna penale, soltanto per fare un favore a te e tua madre?». La domanda si estese nello spazio come testo in una pagina. «Perché ce l'hai tanto con Frate Alberto?», fece Loris, «Anche a me non sta particolarmente simpatico, ma tu lo dipingi come un mostro. Non ti pare di esagerare?». «Io non so quali scheletri nasconda nell'armadio quel prete, ma ho il sospetto che, proprio per impedire che si ficcasse il naso nei
suoi loschi affari, Tony sia stato massacrato».
«Che ti succede? Sei così strana oggi». Enza non rispose e, sciolto l'abbraccio che li univa, si allontanò con un incedere grave. Dandogli le spalle, che sembravano scosse da un fremito, emise una specie di fischio, un sibilo appena udibile. Lui tentò di seguirla, ma lei si voltò e lo tenne a distanza con un drastico «No», quasi urlato tra i denti. «Ma... perché?», fece Tony
esterrefatto. La donna si pentì di tanta durezza e subito addolcì l'espressione del proprio viso, sul quale si dissipò la nube di impazienza che si era addensata, spazzata via dall'improvviso montare dei sensi di colpa. Tony non comprese, ma approfittò di quel cambiamento e avanzò con decisione, afferrando Enza per stringersela al petto. La tenne così, teneramente, annusando il buon odore dei suoi capelli, sentendo il fremito del suo corpo aumentare, diventare
un sussulto violento. «Rilassati. È tutto okay», disse in un sussurro. «No», ripeté lei, ma stavolta con tono arrendevole. Non piangeva, però ci mancava poco. E si capiva che a Tony, nonostante l'angoscia che tormentava la donna, quella crisi tutta femminile provocava un piacere inconfessabile. Era allarmato, certo. Tuttavia, portava acceso negli occhi fiammeggianti l'orgoglio da eroe che provava nello stendere l'ala protettrice, nel sentirsi il cavaliere impavido. «Ci sono io. Sono qui. Puoi stare tranquilla», disse. «Non capisci», gemette Enza, «È
colpa mia». Adesso era riluttante a separarsi dal ragazzo, lo cingeva possessiva, timorosa forse di perderlo per sempre. «Lo sai che puoi contare su di me. Qualunque sia il problema lo risolveremo insieme», assicurò Tony. Lei sollevò la testa, lo guardò a lungo come se stentasse a riconoscerlo; poi lo baciò, con trasporto, quasi con rabbia. Lo morse addirittura. Era febbricitante, sul punto di cadere in delirio. Il ragazzo indietreggiò e cercò di parlare, ma
venne ghermito e denudato e palpato. Allora si gettò a sua volta sulla donna, sbottonandole i vestiti, lacerando e strappando persino, facendosi strada verso la pelle incendiata dal fuoco di un sangue pazzo. Enza lanciò un grido e si ritrasse. «Sono un mostro», disse, «Dovresti odiarmi». Era sconvolta, si premeva i pugni contro le guance e fissava un punto nel vuoto. I seni tondi biancheggiavano tra i lembi della camicetta aperta. «Smettila di dire sciocchezze», disse Tony, «Vieni qui, ho bisogno di te». La raggiunse, ma lei era come impietrita. Il ragazzo tentò di baciarla ancora, Enza gli strinse il mento e lo tenne lontano, a distanza, mentre induriva il proprio sguardo fino a renderlo tagliente. «D'accordo», mormorò, «Non posso più tacere. Stammi a sentire. Sei in pericolo a causa mia». «Che significa?». «Qualcuno ti sta cercando per farti del male». «Chi?». «Un certo Gianni, lo chiamano Kurt Angle. Un delinquente».
«Non lo conosco. Perché sta cercando proprio me?». «Beh, perché...», Enza crollò il capo. Le mancava il coraggio di completare la frase. Sperava forse che il ragazzo capisse senza altre spiegazioni, che afferrasse il senso di quella situazione, evitandole il supplizio della sincerità. «Cosa stai inventando? Si tratta di uno scherzo?», chiese Tony, che cominciava a irrigidirsi. La donna s'innervosì, perdendo quel poco di autocontrollo che le rimaneva. Volle
riprendere il gioco di seduzione interrotto dianzi; conscia dell'effetto psicotropo, simile a quello di una droga pesante, che la propria fisicità produceva sul ragazzo, gli buttò le braccia al collo, gli alitò sulla faccia e, sbattendo le ciglia, increspando la superficie verde delle iridi oceaniche, con una gamba lo avvinghiò come una danzatrice di tango argentino. Lo attirò a
sé, quasi mendicando le sue carezze, estorcendogli baci dal sapore amaro. Lui dovette compiere uno sforzo enorme per fermarla. «Aspetta», disse. Enza sulle prime non lo ascoltò e continuò a dimenarsi, a offrirsi, sperando che l'esplosione dei sensi protraesse l'ultima felicità. «No. Aspetta», s'impuntò lui. Voleva la verità.
La donna dovette arrendersi. «Hai ragione», disse mentre si toglieva le lacrime dagli zigomi, «Scusami. Sono una stupida». Gli stava ancora appiccicata addosso e per lui era difficile controllare l'istinto che lo spingeva a cederle, ad assaporare quelle labbra golose. «Non sei stupida», sussurrò sollevandola per la vita. «Invece sì», fece lei, i gomiti puntati sulle spalle del ragazzo, la scarpa che scivolava dal piede sospeso. «Mettimi giù». Tony obbedì. Enza riprese fiato e disse: «Gianni ti sta cercando perché io gli appartengo». «Gli appartieni? Come
sarebbe a dire?». «Mi dispiace. Mi dispiace davvero, credimi. Purtroppo, è venuto a sapere di noi. Dovevamo stare più attenti». «Ma... tu stai dando i numeri. Devi essere impazzita». «No. Ascoltami...». «Noi due stiamo insieme. Tu appartieni a me». «Ascoltami, ti prego. Ora non c'è tempo per discutere. Sei in pericolo e devi nasconderti». «Dovrei nascondermi? e per quale motivo? Questo Gianni ti sta forse molestando? se è così dobbiamo denunciarlo alla polizia». «Stammi a sentire...». «Ti ha importunata per strada? Mica ti ha messo le mani addosso?».
«Stammi a sentire», urlò la donna, battendo il piede per la stizza, «Io e Gianni abbiamo una relazione». Tony sorrise, inebetito da quella notizia. «Cioè...», borbottò, «tu e Gianni avete... E noi? E la nostra relazione? Come hai potuto dimenticartene? Come hai potuto tradirmi?». Enza fece una smorfia tra l'esasperato e il rassegnato. «Gianni c'era già», disse piano. «C'era già? C'era già?», sbottò il ragazzo. «Sì. Prima che io e te incominciassimo a
frequentarci, prima che mi innamorassi di te, Gianni era già entrato nella mia vita». «E per tutto questo tempo... mi hai ingannato. Adesso capisco perché non volevi che ci mostrassimo in pubblico. Tutte quelle scuse...». «Cercavo di proteggerti», azzardò Enza. «Fammi il piacere! Tu sei soltanto una...», Tony non completò il pensiero e lottò per non scoppiare a piangere come un
bambino. «Offendimi pure. Me lo merito. Però, ti prego, bada a metterti in salvo. Non voglio che Gianni ti faccia del male». «Che t'importa?», disse lui velenoso, «Questo poveraccio, questo Gianni, non posso biasimarlo. Dovrebbe uccidere me perché sono un deficiente e dovrebbe uccidere te perché sei una...». «Dillo», fece lei, «Se ti fa stare meglio, dillo». «Io voglio incontrarlo», disse Tony. «Cosa?». «Sì, voglio un contraddittorio. Sono proprio curioso di
scoprire quante bugie gli hai raccontato. Per te dev'essere un'abitudine». «Oh, no no! tu non lo incontrerai. È proprio quello che dobbiamo evitare». «Già, scommetto che per te sarebbe imbarazzante». Enza era fiaccata dal peso della frustrazione. «Non fare così», supplicò, «Ho rovinato tutto, lo so bene. Ma sono davvero preoccupata per te. Non sai di cosa è capace Gianni. È un violento. È stato più volte in galera». Il ragazzo emise un risolino stridulo. «Cavolo!»,
disse, «Non immaginavo che ti piacesse quel genere. Quindi, tu saresti la donna del boss! Guai a chi ti tocca, giusto?». «Tony...», piagnucolò Enza. «No. Non aggiungere altro, per carità». Il ragazzo si ricompose gli abiti con manate vigorose, tambureggiò con puntiglio come se volesse scrollarsi di dosso lo stupore e l'ingenuità. «Io me ne vado», disse. Lei provò a trattenerlo.
«Non toccarmi», urlò lui sfuggendole. «Calmati. Prenditi un minuto», propose la donna, «Decideremo poi come comportarci». «Noi non dobbiamo decidere niente. È chiaro?». «Prenditi un minuto per ragionare». «Come?», fece Tony, «Dovrei ragionare? e su cosa? magari sul fatto che per me tu eri un angelo, che ero pronto a qualsiasi sacrificio pur di averti? Fino a che punto
vuoi umiliarmi?». «Io voglio solo saperti al sicuro». «Sarò al sicuro finché rimarrò lontano da te». La spinse da parte e corse via, trascinato dalla tristezza di quell'addio.
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