Fratelli... naturalmente amanti (conclusione)

di
genere
incesti

Il ritorno in città dai genitori comportò l’adozione di una nuova routine. Non nascondo che a me e a mia sorella costò molto non poter più dormire insieme la notte né poter girare sempre per casa completamente nudi, come ormai eravamo abituati a fare. Tuttavia, trovammo il modo di organizzarci: a parte il sabato, quando tutta la famiglia era a casa, per il resto della settimana mamma e papà uscivano di casa la mattina alle otto e trenta e non tornavano prima dell’una, così mia sorella ben più mattiniera di me, mi portava il caffè a letto e mi svegliava con una carezza nei capelli e con un caldo bacio sulle labbra. Ora lei indossava il pigiama, ma io sapevo che sotto non portava mai l’intimo, mentre io dormivo solo con i boxer. Anna, poi, si distendeva al mio fianco e ci facevamo il solletico misto a baci appassionati con la lingua per eccitarci; io la denudavo lentamente e cominciavo a lavorarle di lingua la fica, che ora era completamente depilata, a parte un triangolino di peli che puntava verso il clitoride: “Sei un maschio attento, è vero. Ma è meglio lasciare un promemoria”, mi disse infatti, quando ci depilammo vicendevolmente nella casa al mare. Non ne avevo bisogno, sapevo come far godere la mia donna, e poi non potevo più far a meno di gustare ogni giorno quell’umore inebriante che mia sorella abbondantemente riversava nella mia bocca, sulla mia faccia. Seguiva una lunga doccia in cui ci insaponavamo l’un l’altra e si finiva che prendevo mia sorella da dietro e non smettevo di pomparla, finché entrambi non raggiungevamo l’orgasmo. Il finesettimana per noi era un tormento, coi genitori tra le scatole non potevamo fare nulla. Spesso, però, il sabato pomeriggio facevamo un giro in macchina, ma non si andava molto lontano: ci isolavamo in un luogo discreto e appartato appena fuori città, e ci concedevamo un po’ di carsex. Tiravo indietro il sedile e mia sorella si sedeva su di me: con la mia verga piantata nella fica, mia sorella restava apparentemente ferma mentre ci baciavamo profondamente, ma lei sapeva contrarre ritmicamente i muscoli della vagina, i quali procuravano un tale piacevole risucchio sul mio glande che non tardavo a raggiungere il culmine del piacere: allora schizzavo il mio seme nelle profondità del suo utero, che lo riceveva avidamente, senza lasciarne uscire una sola goccia. Penso che non riuscirò mai a trovare le parole adatte per esprimere fino in fondo la gioia, la fierezza che mi procurava mia sorella quando non lasciava perdere neanche una goccia del mio sperma: era per me la prova provata che lei mi volesse tutto, per sempre.

Alla fine di settembre Anna scoprì di essere incinta del nostro primo figlio. La felicità che provammo fu tanta che quella notte dormimmo assieme e facemmo l’amore fino al mattino, ma con la delicatezza che occorre quando la donna aspetta un figlio.
“Ma almeno sai chi è il padre?”, chiese la mamma ad Anna piangendo, quando mia sorella dovette rivelare di essere in stato interessante. “Tra tutti gli ‘amichetti’ di questa estate, non lo saprà neanche lei”, commentò sprezzante papà. Mi si stringeva il cuore per come veniva trattata Anna, ma non dissi mai nulla, come mi era stato imposto da mia sorella. Di aborto non si parlò nemmeno, e per fortuna, perché allora io non avrei potuto tacere e le cose avrebbero preso una piega molto diversa.
Nel frattempo io mi laureai con onore e cominciai il praticantato nello studio di un collega di papà, mentre nel maggio successivo finalmente nacque il bambino, un frugolino di tre chili, a cui demmo il nome di Fabrizio. “Quanto assomiglia a Carlo!”, commentò la mamma nell’osservare il bambino. “Il sangue non mente” le risposi ambiguamente tra le occhiatacce di mia sorella, ma per fortuna la mamma non colse il senso delle mie parole. Fabrizio diventò presto il beniamino della casa, e aveva una preferenza per me incredibile; del resto ero io quello che lo cullava, che giocava lunghe ore con lui, mentre la madre studiava per il concorso ad insegnante. Anna ed io continuavamo a fare l’amore quasi tutte le notti, ma stavolta con accresciuta circospezione e con tutti i contraccettivi possibili: non ci potevamo permettere ancora un altro figlio né di essere scoperti.
Dopo l’esame di stato mi trasferii a Roma, perché il mio professore relatore della tesi, mi aveva presentato ad un suo amico ed io incominciai a lavorare nel suo affermato studio, di cui oggi sono socio. Tornavo a casa tutti i fine settimana, non riuscivo a stare lontano dal mio Fabrizio, né da mia sorella: la nostra vita sessuale si era drasticamente ridotta ai finesettimana, per il resto dei giorni ci masturbavamo parlandoci al cellulare.
Anna superò il concorso brillantemente ed ebbe cattedra in un noto liceo della capitale: stavano per avverarsi i nostri sogni. “Carlo, prendi con te tua sorella nell’appartamento, e stai attento a lei e al bambino, sennò quella chissà che cosa è capace di combinare”, mi disse la mamma, annunciandomi che Anna si sarebbe trasferita a Roma. Non mi piaceva che i miei avessero una così brutta opinione di Anna, avrei voluto gridargli in faccia quanto la amavo e tutto quello che facevamo, ma tacqui perché il futuro si prospettava roseo per noi. “Non ti preoccupare, mamma. Mi prenderò cura io di Anna e di Fabrizio. Anzi, ti dirò che sono proprio contento di tenere con me il piccolino, mi è mancato così tanto”, le risposi. “Sei un bravo ragazzo, Carlo”, fece lei di rimando. Ricomposta a Roma la nostra famiglia, ricominciammo la nostra vita di coppia, come in quell’inizio di settembre di anni prima, ma con cautela. Fabrizio cresceva bene e dopo due anni nacque Laura, la nostra principessa, e tre anni dopo Andrea, il nostro ultimo erede. La vita continuò serena, a parte il rapporto con nostro padre che si guastò quando entrambi capirono che i tre bambini erano stati generati dall’amore incestuoso dei loro figli. “Ma come avete potuto?”, si lasciò scappare un giorno mia madre. “Omnia vincit amor, non ce l’hai sempre detto tu?”, le risposi. La mamma non ritornò mai più sull’argomento e non di rado veniva a Roma a godersi i suoi nipotini, che la adoravano. Del resto conducevamo una vita apparentemente irreprensibile: mia sorella ed io dormivamo in stanze separate (tranne poi ritrovarci tutte le notti per scopare, quando tutti dormivano) e i miei bambini mi chiamavano zio, ma non chiesero mai nulla del loro padre. Ora sono ragazzi sani, forti e veramente intelligenti, abbiamo fatto un buon lavoro Anna ed io. Due anni fa, una sera di novembre, Fabrizio mi disse con tono serio che aveva bisogno di parlarmi. Ci chiudemmo nel mio studio e, senza giri di parole ma abbassando lo sguardo, disse: “Zio, sono gay.” Poi mi guardò e aggiunse: “Non so se riuscirò a dirlo alla mamma.” Senza esitazione gli risposi: “Glielo dirai quando ti sentirai pronto. Ma fidati di tua madre, è una donna intelligente.” Lui seguitava a fissarmi con sguardo interrogativo, quando sorridendo continuai: “Fabrizio, a me e a tua madre interessa soltanto che tu sia felice.” “Sapevo di poter contare su di voi, papà” e mi abbracciò stretto.
scritto il
2021-02-08
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