Un compito importante (PT3)
di
Serendipity1707
genere
dominazione
Attivo il bottone. Le tende scorrono con un lieve ronzio, eleganti e ordinate, proiettando ombre a righe sul mi corpo. Provo una certa soddisfazione nell'aver eseguito il mio compito. Il modo elegante con cui la tenda si è chiusa, il modo in cui la luce è cambiata, il fatto che non sia esploso il mondo nel vedermi nuda alla finestra. Torno da Livrei camminando a papera, leggings che mi limitano i passi, seni che ondeggiano liberi. “Posso esserle utile in altro modo dottore?” chiedo formale ma gentile.
“No, può andare. Si rivesta prima, non mi faccia fare brutte figure”.
Impacciata mi sistemo gli abiti davanti a lui, distratto dal lavoro, saluto e mi avvio. Vengo bloccata sulla porta da una domanda inattesa “Come va la sua lingua?”
Per qualche secondo rifletto sulle implicazioni della domanda. Possibile che lo abbia fatto eccitare e che voglia un lavoretto? “Molto meglio, grazie” rispondo educata. Circa tre settimane fa uno dei miei aguzzini, quello che si fa chiamare Figaro (e che mi ha rapata a zero alla prima festa davanti allo sguardo divertito degli ospiti) mi ha spento una sigaretta sulla lingua. Ha fatto male per 10 giorni, poi ha iniziato a dare solo fastidio, ora mi ci sono abituata.
Livrei annuisce e chiama la segretaria “Lucia, può convocare anche la Dr.ssa Guidi?”
La Dr.ssa Guidi, ovvero Martina, è l’unica altra ragazza dell’azienda di cui io abbia la certezza essere nella mia stessa situazione. Martina è una matematica, dottorato a Zurigo al ETH. Segue un progetto importante per l’azienda, ma una volta l’ho intravista sotto la scrivania di Livrei, nuda con collare, che abbaiava come una cagnolina. Non abbiamo mai avuto modo di parlarci. Ma ci siamo reciprocamente viste alle feste in villa. Spesso in situazioni imbarazzanti. Quando ci incrociamo per i corridoi abbassiamo gli occhi senza avere il coraggio di salutarci.
Livrei non si cura di spiegarmi niente. Passo i minuti di attesa ferma a fissare l’enorme quadro alle spalle della sua scrivania. Immagini astratte: sinuose, inquietanti ed erotiche allo stesso tempo. Ma in maniera indiretta, subliminale. O forse sono solo le proiezioni del mio stato d’animo.
Quando Martina entra, annunciata dalla segretaria, ho un colpo: è vestita esattamente come me. Siamo due gemelle. Ho modo di notare quanto sia fuori luogo quel tipo di vestiario per un ambiente lavorativo. I leggings lasciano poco all’immaginazione per come delineano i glutei e il pube di Martina. L’ombelico esposto, le fossette lombari visibili. Il taglio informale della t-shirt. La mia pari ha uno scatto di timore nel vedermi, penso che anche lei sia sorpresa del mio vestiario, abbassa lo sguardo superandomi e portandosi a 3 passi dalla scrivania del nostro superiore.
L’uomo la guarda, la scansiona con lo sguardo poi resta a fissarla negli occhi, duro, per secondi interminabili.
“indossa intimo?” chiede infine, ripetendo la scenetta.
Martina, abituata, si denuda, mostrando il suo corpo giovane senza imbarazzo. Livrei compiaciuto la guarda. La ragazza ha un corpo simile al mio: pelle chiara figura longilinea, solo i fianchi più accennati, femminili, e un seno più pieno, probabilmente una terza. È un corpo ben proporzionato ed armonioso.
“Il buco da intrattenimento posteriore è tornato utilizzabile?” chiede lui con voce genuinamente interessata e preoccupata. La ragazza china il capo in segno di ringraziamento per la premura dell’uomo e, mentre si volta china, aprendo i glutei per mostrare il suo buchino, risponde con referenza “Grazie Signore, sta molto meglio. Le escoriazioni sono rimarginate, anche se ancora un po’ fastidiose. Se necessario può essere utilizzato”.
“Si rivesta” Liveri chiude la questione in modo secco e pratico. Torna a concentrarsi sul lavoro, ticchettando sulla tastiera.
E qui riprendiamo da dove vi avevo lasciati. Mentre è intento a scorrere dati sul monitor Livrei ci ordina senza emozioni: “Iniziate a baciarvi. Voi due ora vi accomodate sul divano e vi baciate. Continuate a baciarvi fino a nuovo ordine. Non voglio vedere le vostre labbra staccarsi. Potete usare la lingua, potete carezzarvi, potete toccarvi, ma non avete il permesso di venire”. Non ci degna di uno sguardo, lavora. Non si premura di capire se il messaggio è stato recepito.
Io e la mia collega abbiamo degli istanti di disorientamento, momenti in cui cerchiamo di elaborare il comando, di gestire le emozioni. Quasi all’unisono ci muoviamo verso il divano osservandoci per la prima volta in viso, imbarazzate. Lei cerca di sorridermi per cercare empatia, io faccio più fatica.
Non sono lesbica, non mi attirano le donne. Certo... quando è successo, presa dell’impeto dell’eccitazione, non mi sono mai tirata indietro, non mi schifa baciare una donna. Ma cosi, a freddo, non provo il desiderio di farlo. Ora sono obbligata a sfiorare le mie labbra sulle sue, sotto comando. Ma quello che mi inquieta sono state le precisazioni di Livrei. -potete toccarvi ma non venire- come se fossimo delle cagne in calore da tenere a bada. Come se il semplice fatto di baciare una ragazza mi eccitasse a tal punto da masturbarmi come una ninfomane. Probabilmente tutto ciò mi metterà a disagio e basta.
Sono persa in questi pensieri e mi ritrovo seduta sul divano in pelle nera, enorme, il volto della mia gemella a pochi centimetri. Ci guardiamo tra sorrisetti imbarazzati e occhi colpevoli. Nessuna col coraggio di iniziare. Vedo riflessi in lei i miei stessi pensieri. Sono io a prendere coraggio, ad alzare una mano per carezzarle una guancia, lei mi si avvicina e le labbra si toccano. Cominciamo a baciarci pudiche. Bacetti esplorativi, timidi. Fa sempre uno strano effetto baciare una pelle liscia, non maschile. Non è spiacevole, tutt’altro, è morbida e calda. Ma la cosa non mi provoca nessuna emozione oltre all’imbarazzo di dover eseguire un compito dato in modo denigrante.
I baci proseguono, si fanno più sicuri. Tentativi di passione da entrambe iniziano con la lingua che gioca. Ma la passione non scatta, rimane un gesto meccanico e ripetitivo. Anche se piacevole, lei ha un buon alito. Spero pensi lo stesso del mio.
Non so quanto tempo passi, so che la mandibola comincia a indolenzirsi. I baci si fanno stanchi, meccanici, labbra e lingue continuano il contatto, cercando di cambiare pose e percorsi per combattere i crampi ai muscoli. È una attività faticosa e ripetitiva. Siamo entrambe affaticate. Proseguiamo per senso del dovere, proseguiamo perché così ci è stato ordinato, senza nemmeno pensare di venire meno al compito.
Non ci carezziamo, non ci tocchiamo. Solo baci, freddi. Livrei non ci considera per tutto il tempo. Lavora, telefona, convoca la segretaria. Noi siamo un soprammobile che si bacia. Due figure simmetriche collegate per la bocca. Visibilmente stanche.
Dopo un’ora un solo ordine, semplice ed efficace: “Andatevene” Niente commenti, niente spiegazioni, nessun tipo di riscontro. Nemmeno uno sguardo che arriva dalla scrivania. Fatichiamo e interrompere cosi bruscamente la cosa. Indolenzite, disorientate, ci alziamo ed in silenzio usciamo dall’ufficio senza guardarci, senza commentare. Esauste fisicamente e mentalmente, fantasmi di noi stesse. Solo a metà corridoio la mia mente torna al lavoro difficile che il Dr. Sandri mi aveva assegnato. Me ne ero completamente dimenticata. Scatto con un gemito di ansia e mi affretto alla mia scrivania. Non ho il tempo di elaborare cosa è appena accaduto. Devi subito immergermi in altro.
“No, può andare. Si rivesta prima, non mi faccia fare brutte figure”.
Impacciata mi sistemo gli abiti davanti a lui, distratto dal lavoro, saluto e mi avvio. Vengo bloccata sulla porta da una domanda inattesa “Come va la sua lingua?”
Per qualche secondo rifletto sulle implicazioni della domanda. Possibile che lo abbia fatto eccitare e che voglia un lavoretto? “Molto meglio, grazie” rispondo educata. Circa tre settimane fa uno dei miei aguzzini, quello che si fa chiamare Figaro (e che mi ha rapata a zero alla prima festa davanti allo sguardo divertito degli ospiti) mi ha spento una sigaretta sulla lingua. Ha fatto male per 10 giorni, poi ha iniziato a dare solo fastidio, ora mi ci sono abituata.
Livrei annuisce e chiama la segretaria “Lucia, può convocare anche la Dr.ssa Guidi?”
La Dr.ssa Guidi, ovvero Martina, è l’unica altra ragazza dell’azienda di cui io abbia la certezza essere nella mia stessa situazione. Martina è una matematica, dottorato a Zurigo al ETH. Segue un progetto importante per l’azienda, ma una volta l’ho intravista sotto la scrivania di Livrei, nuda con collare, che abbaiava come una cagnolina. Non abbiamo mai avuto modo di parlarci. Ma ci siamo reciprocamente viste alle feste in villa. Spesso in situazioni imbarazzanti. Quando ci incrociamo per i corridoi abbassiamo gli occhi senza avere il coraggio di salutarci.
Livrei non si cura di spiegarmi niente. Passo i minuti di attesa ferma a fissare l’enorme quadro alle spalle della sua scrivania. Immagini astratte: sinuose, inquietanti ed erotiche allo stesso tempo. Ma in maniera indiretta, subliminale. O forse sono solo le proiezioni del mio stato d’animo.
Quando Martina entra, annunciata dalla segretaria, ho un colpo: è vestita esattamente come me. Siamo due gemelle. Ho modo di notare quanto sia fuori luogo quel tipo di vestiario per un ambiente lavorativo. I leggings lasciano poco all’immaginazione per come delineano i glutei e il pube di Martina. L’ombelico esposto, le fossette lombari visibili. Il taglio informale della t-shirt. La mia pari ha uno scatto di timore nel vedermi, penso che anche lei sia sorpresa del mio vestiario, abbassa lo sguardo superandomi e portandosi a 3 passi dalla scrivania del nostro superiore.
L’uomo la guarda, la scansiona con lo sguardo poi resta a fissarla negli occhi, duro, per secondi interminabili.
“indossa intimo?” chiede infine, ripetendo la scenetta.
Martina, abituata, si denuda, mostrando il suo corpo giovane senza imbarazzo. Livrei compiaciuto la guarda. La ragazza ha un corpo simile al mio: pelle chiara figura longilinea, solo i fianchi più accennati, femminili, e un seno più pieno, probabilmente una terza. È un corpo ben proporzionato ed armonioso.
“Il buco da intrattenimento posteriore è tornato utilizzabile?” chiede lui con voce genuinamente interessata e preoccupata. La ragazza china il capo in segno di ringraziamento per la premura dell’uomo e, mentre si volta china, aprendo i glutei per mostrare il suo buchino, risponde con referenza “Grazie Signore, sta molto meglio. Le escoriazioni sono rimarginate, anche se ancora un po’ fastidiose. Se necessario può essere utilizzato”.
“Si rivesta” Liveri chiude la questione in modo secco e pratico. Torna a concentrarsi sul lavoro, ticchettando sulla tastiera.
E qui riprendiamo da dove vi avevo lasciati. Mentre è intento a scorrere dati sul monitor Livrei ci ordina senza emozioni: “Iniziate a baciarvi. Voi due ora vi accomodate sul divano e vi baciate. Continuate a baciarvi fino a nuovo ordine. Non voglio vedere le vostre labbra staccarsi. Potete usare la lingua, potete carezzarvi, potete toccarvi, ma non avete il permesso di venire”. Non ci degna di uno sguardo, lavora. Non si premura di capire se il messaggio è stato recepito.
Io e la mia collega abbiamo degli istanti di disorientamento, momenti in cui cerchiamo di elaborare il comando, di gestire le emozioni. Quasi all’unisono ci muoviamo verso il divano osservandoci per la prima volta in viso, imbarazzate. Lei cerca di sorridermi per cercare empatia, io faccio più fatica.
Non sono lesbica, non mi attirano le donne. Certo... quando è successo, presa dell’impeto dell’eccitazione, non mi sono mai tirata indietro, non mi schifa baciare una donna. Ma cosi, a freddo, non provo il desiderio di farlo. Ora sono obbligata a sfiorare le mie labbra sulle sue, sotto comando. Ma quello che mi inquieta sono state le precisazioni di Livrei. -potete toccarvi ma non venire- come se fossimo delle cagne in calore da tenere a bada. Come se il semplice fatto di baciare una ragazza mi eccitasse a tal punto da masturbarmi come una ninfomane. Probabilmente tutto ciò mi metterà a disagio e basta.
Sono persa in questi pensieri e mi ritrovo seduta sul divano in pelle nera, enorme, il volto della mia gemella a pochi centimetri. Ci guardiamo tra sorrisetti imbarazzati e occhi colpevoli. Nessuna col coraggio di iniziare. Vedo riflessi in lei i miei stessi pensieri. Sono io a prendere coraggio, ad alzare una mano per carezzarle una guancia, lei mi si avvicina e le labbra si toccano. Cominciamo a baciarci pudiche. Bacetti esplorativi, timidi. Fa sempre uno strano effetto baciare una pelle liscia, non maschile. Non è spiacevole, tutt’altro, è morbida e calda. Ma la cosa non mi provoca nessuna emozione oltre all’imbarazzo di dover eseguire un compito dato in modo denigrante.
I baci proseguono, si fanno più sicuri. Tentativi di passione da entrambe iniziano con la lingua che gioca. Ma la passione non scatta, rimane un gesto meccanico e ripetitivo. Anche se piacevole, lei ha un buon alito. Spero pensi lo stesso del mio.
Non so quanto tempo passi, so che la mandibola comincia a indolenzirsi. I baci si fanno stanchi, meccanici, labbra e lingue continuano il contatto, cercando di cambiare pose e percorsi per combattere i crampi ai muscoli. È una attività faticosa e ripetitiva. Siamo entrambe affaticate. Proseguiamo per senso del dovere, proseguiamo perché così ci è stato ordinato, senza nemmeno pensare di venire meno al compito.
Non ci carezziamo, non ci tocchiamo. Solo baci, freddi. Livrei non ci considera per tutto il tempo. Lavora, telefona, convoca la segretaria. Noi siamo un soprammobile che si bacia. Due figure simmetriche collegate per la bocca. Visibilmente stanche.
Dopo un’ora un solo ordine, semplice ed efficace: “Andatevene” Niente commenti, niente spiegazioni, nessun tipo di riscontro. Nemmeno uno sguardo che arriva dalla scrivania. Fatichiamo e interrompere cosi bruscamente la cosa. Indolenzite, disorientate, ci alziamo ed in silenzio usciamo dall’ufficio senza guardarci, senza commentare. Esauste fisicamente e mentalmente, fantasmi di noi stesse. Solo a metà corridoio la mia mente torna al lavoro difficile che il Dr. Sandri mi aveva assegnato. Me ne ero completamente dimenticata. Scatto con un gemito di ansia e mi affretto alla mia scrivania. Non ho il tempo di elaborare cosa è appena accaduto. Devi subito immergermi in altro.
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