Sottomesso alla mia capo 3: alla scoperta della villa
di
None
genere
dominazione
Il primo giorno di lavoro trascorse quasi normalmente, e così il secondo, tanto che stavo quasi cominciando a pensare che il colloquio fosse stato una specie di rito di iniziazione o di prova di fedeltà, che non si sarebbe ripetuta.
Nel pomeriggio del secondo giorno, circa un’ora dopo della pausa pranzo, accadde, invece, qualcosa di nuovo. Era una bella giornata d’inizio estate e la mia padrona doveva essere stanca di lavorare. Così mi chiamò e mi disse: «Vieni con me, devi accompagnarmi da una parte.».
Io annuii.
Scendemmo nel garage aziendale e lei mi fece salire al suo fianco sulla sua auto; una macchina rossa sportiva scoperta. Uscimmo dall’autorimessa e, in breve, l’auto guidata dalla padrona, dal Comune della cintura milanese in cui ci trovavamo, cominciò a dirigersi sempre più fuori città.
La giornata era davvero godibile, e il movimento dei pedali faceva rialzare un po’ la gonna di Barbara, lasciando scoperte parte delle sue cosce, abbronzate e formose, sotto le quali guizzavano muscoli potenti. Io non potevo fare a meno di guardarle, anche se temevo da un momento all’altro di essere rimproverato. Ma in realtà lei mi ignorò quasi del tutto, finché, superato un cancello automatico e attraversato un vasto parco ricco di alberi ad alto fusto, ci trovammo di fronte a una villa, non grande, ma di indubbio buon gusto, che, dall’atteggiamento di Barbara e dal fatto che possedesse telecomandi e chiavi, si palesava come casa sua.
A quel punto la mia padrona mi fece scendere dall’auto e, col suo consueto tono brusco, disse: «Oggi pomeriggio ho deciso di farti l’onore di mostrarti casa mia. Ma non credere di essere in gita. Presto ti darò qualcosa da fare!».
Entrammo e, giunti in anticamera, Barbara mi ordinò di spogliarmi completamente e di lasciare tutti i vestiti su una sedia che stava di fianco a me, per poi mettermi in ginocchio sul pavimento voltato verso la porta d’ingresso, con le mani dietro la schiena. Poi, con un tono un po' più dolce, soggiunse: «Non preoccuparti, abito da sola e oggi non aspetto nessuno.». Detto ciò, sparì dalla stanza, senza darmi il tempo di obiettare o replicare.
Feci ciò che dovevo e restai in ginocchio sul pavimento per circa dieci minuti. Poi lei ritornò. Indossava solo un paio di scarpe col tacco, un reggiseno bianco e un perizoma dello stesso colore, che le lasciava scoperti i magnifici glutei, coprendo a malapena ano e vagina. Mi permise di osservarla per qualche breve attimo. Poi mi disse «Cammina sulle ginocchia e seguimi!».
Facemmo un po’ di strada, lei davanti in piedi e io dietro, sulle ginocchia, quasi magnetizzato dal suo culo, finché non arrivammo in un grande bagno rosa con tanto di vasca idromassaggio a tre posti. Lei mi fece posizionare, sempre in ginocchio, di fronte al water, poi, con assoluta naturalezza, si tolse il perizoma, che posò su un mobile, e si sedette sulla tazza con le gambe aperte, mentre io, ovviamente, le fissavo la fica.
Poi, con altrettanta naturalezza, iniziò a urinare. Di urina ne aveva raccolta parecchia e il tutto durò forse una trentina di secondi, anche se ero troppo ipnotizzato ed eccitato per mantenere il senso del tempo.
Quando ebbe terminato, mi disse: «Ho finito la carta igienica e non ho nessuna intenzione di rivestirmi con la fica sporca. Quindi ora tu, da bravo schiavetto, mi ripulirai facendomi un bel bidet con la lingua. E vedi di ripulirmi fino all’ultima goccia, se non vuoi che ti punisca selvaggiamente!».
L’ordine ricevuto mi spiazzò. Non avevo mai leccato o bevuto l’urina di nessuno, neppure la mia, e l’idea non mi attraeva affatto; ma, malgrado ciò, il mio cazzo a quel comando era divenuto ancora più duro, visto che erano giorni che speravo di poter entrare in contatto con quella regale passera bionda. In ogni caso, non potevo disobbedire, se non volevo rischiare una punizione e pure il lavoro, e così mi feci forza e cominciai a leccare.
Iniziai dal basso e dall’esterno della vulva, raccogliendo con la lingua, una per una, le goccioline di piscio che erano rimaste impigliate tra i peli della fica. Il sapore non era molto definito, perché si trattava di piccole gocce, ma l’odore di piscio era ben percepibile. Lei, nel frattempo, mi raccomandava di lavorare con cura, senza tralasciare neppure una goccia, e sapevo bene ormai che le sue indicazioni non potevano essere in alcun modo trasgredite.
Quando ebbi finito il lavaggio esterno, la padrona, mi comandò di divaricarle le labbra con le mani e mi spinse la testa verso di lei, affinché con la lingua ripulissi anche l’interno. Da allora la situazione diventò ancora più umiliante, perché io divenni uno semplice strumento nelle sue mani, costretto a leccare dove e come lei voleva, in base alla pressione che esercitava con le mani sulla mia testa. Nel frattempo lei gemeva come una maiala e mi stimolava dicendo «Lecca, bastardo, leccami tutta!» e altre cose del genere. Così al piscio, ormai pulito dal mio approfondito “bidet”, subentrarono gli umori e, alla fine, lei mi venne in bocca urlando senza ritegno. Poi, raggiunto l’orgasmo, mi spinse la testa lontano da lei. Giusto in tempo! Perché non solo avevo la bocca piena di umori misti a qualche pelo, ma a furia di essere schiacciato contro la sua passera stavo quasi per soffocare.
Al suo orgasmo seguì una pausa di forse un minuto, appena il tempo di riprendere fiato; poi Barbara mi ordinò di alzarmi e mi condusse in una camera con un letto extralarge nel mezzo. Quindi, con tono canzonatorio mi disse: «Guarda un po’ come ce l’hai duro…Evidentemente farmi da bidet ti è piaciuto, e, ormai che ci sei, vorresti farti anche una bella scopata con me. Non è vero?». Non sapevo cosa dire. Certo che avrei voluto scoparmela! Entrare con il mio cazzo nella sua splendida vagina e possederla, ma il suo tono non faceva presagire nulla di buono. Allora, giusto per non farla arrabbiare, risposi «Sì, padrona». E lei, con un sorriso sghembo: «Bene, ora te la do io la scopata!».
Aprì un cassetto del comodino a fianco al letto e ne estrasse uno strap-on nero che, a occhio, doveva essere di venti centimetri, e piuttosto spesso. Poi mi ordinò di mettermi alla pecorina sul letto. Quindi lo indossò, e, sventolandomelo davanti alla faccia, mi disse: «Volevi farti una scopata con me? Bene. Sarai accontentato. Ma i ruoli a letto li stabilisco io!».
A quel punto, ebbi davvero paura, perché il mio culo era totalmente vergine, ma non osai dire nulla, per timore di contrariarla e dover poi subire qualcosa di peggiore. Così lei lubrificò lentamente il suo membro e ne appoggiò la punta sul mio ano. Io cercavo di stare rilassato, perché sapevo che questo avrebbe facilitato l’ingresso, ma non ci riuscivo più di tanto. Allora lei mi disse: «Non avere paura, cara! Ti piacerà!». Poi rise e aggiunse: «Non è così che dite voi maschi prima di incularvi senza pietà la fidanzatina, o magari la cameriera? E allora, lo vedi che non c’è proprio nulla di cui lamentarsi?».
Poi lo infilò tutto insieme, con un colpo secco che mi tirò fuori un urlo. Quindi continuò su e giù, su e giù, senza un briciolo di compassione. Piano piano cominciai ad abituarmi, anche se continuavo a soffrire, ma il mio cazzo inspiegabilmente rimaneva duro.
Allora lei posò la mano destra sul mio membro e, mentre m’inculava selvaggiamente, si mise a masturbarmi. Ero in una situazione paradossale: soffrivo e godevo nello stesso momento, e forse era proprio ciò che lei voleva. Infine venni. Ma lei, anziché spostare la mano, la mosse, come per raccogliere tutto. Poi uscì da me, e mi costrinse al rito di leccarle la mano pulendola dal mio stesso sperma.
Quindi, nudo com’ero, mi portò via dalla sua stanza e mi fece scendere nel seminterrato. Mi mostrò una stanza semibuia, con un letto di ferro su una parete e pochi altri arredi, illuminata solo da una finestra rettangolare posta a oltre due metri di altezza, e mi mostrò anche il bagno lì accanto. Mi disse che, visto che stavo per essere sfrattato, che ero povero in canna ma che, in fondo, non ero un cattivo assistente, da quel giorno avrei vissuto lì. Naturalmente però non avrei dovuto dire a nessuno dove vivevo e sarei dovuto salire sopra-terra solo per servirla, se e quando richiesto.
Ormai ero rassegnato a tutto, e quindi accettai di rimanere lì, mangiare ciò che lei voleva e dormire nudo su quel giaciglio degradante senza nessuna obiezione, proprio come lei mi aveva ordinato. (continua, forse).
AVVERTENZA: Ogni riferimento a cose, persone e fatti realmente accaduti, in questo come nei precedenti episodi della storia, è puramente causale. Ci scusiamo, in ogni caso, con gli interessati per eventuali, se pur casuali, somiglianze e omonimie.
Nel pomeriggio del secondo giorno, circa un’ora dopo della pausa pranzo, accadde, invece, qualcosa di nuovo. Era una bella giornata d’inizio estate e la mia padrona doveva essere stanca di lavorare. Così mi chiamò e mi disse: «Vieni con me, devi accompagnarmi da una parte.».
Io annuii.
Scendemmo nel garage aziendale e lei mi fece salire al suo fianco sulla sua auto; una macchina rossa sportiva scoperta. Uscimmo dall’autorimessa e, in breve, l’auto guidata dalla padrona, dal Comune della cintura milanese in cui ci trovavamo, cominciò a dirigersi sempre più fuori città.
La giornata era davvero godibile, e il movimento dei pedali faceva rialzare un po’ la gonna di Barbara, lasciando scoperte parte delle sue cosce, abbronzate e formose, sotto le quali guizzavano muscoli potenti. Io non potevo fare a meno di guardarle, anche se temevo da un momento all’altro di essere rimproverato. Ma in realtà lei mi ignorò quasi del tutto, finché, superato un cancello automatico e attraversato un vasto parco ricco di alberi ad alto fusto, ci trovammo di fronte a una villa, non grande, ma di indubbio buon gusto, che, dall’atteggiamento di Barbara e dal fatto che possedesse telecomandi e chiavi, si palesava come casa sua.
A quel punto la mia padrona mi fece scendere dall’auto e, col suo consueto tono brusco, disse: «Oggi pomeriggio ho deciso di farti l’onore di mostrarti casa mia. Ma non credere di essere in gita. Presto ti darò qualcosa da fare!».
Entrammo e, giunti in anticamera, Barbara mi ordinò di spogliarmi completamente e di lasciare tutti i vestiti su una sedia che stava di fianco a me, per poi mettermi in ginocchio sul pavimento voltato verso la porta d’ingresso, con le mani dietro la schiena. Poi, con un tono un po' più dolce, soggiunse: «Non preoccuparti, abito da sola e oggi non aspetto nessuno.». Detto ciò, sparì dalla stanza, senza darmi il tempo di obiettare o replicare.
Feci ciò che dovevo e restai in ginocchio sul pavimento per circa dieci minuti. Poi lei ritornò. Indossava solo un paio di scarpe col tacco, un reggiseno bianco e un perizoma dello stesso colore, che le lasciava scoperti i magnifici glutei, coprendo a malapena ano e vagina. Mi permise di osservarla per qualche breve attimo. Poi mi disse «Cammina sulle ginocchia e seguimi!».
Facemmo un po’ di strada, lei davanti in piedi e io dietro, sulle ginocchia, quasi magnetizzato dal suo culo, finché non arrivammo in un grande bagno rosa con tanto di vasca idromassaggio a tre posti. Lei mi fece posizionare, sempre in ginocchio, di fronte al water, poi, con assoluta naturalezza, si tolse il perizoma, che posò su un mobile, e si sedette sulla tazza con le gambe aperte, mentre io, ovviamente, le fissavo la fica.
Poi, con altrettanta naturalezza, iniziò a urinare. Di urina ne aveva raccolta parecchia e il tutto durò forse una trentina di secondi, anche se ero troppo ipnotizzato ed eccitato per mantenere il senso del tempo.
Quando ebbe terminato, mi disse: «Ho finito la carta igienica e non ho nessuna intenzione di rivestirmi con la fica sporca. Quindi ora tu, da bravo schiavetto, mi ripulirai facendomi un bel bidet con la lingua. E vedi di ripulirmi fino all’ultima goccia, se non vuoi che ti punisca selvaggiamente!».
L’ordine ricevuto mi spiazzò. Non avevo mai leccato o bevuto l’urina di nessuno, neppure la mia, e l’idea non mi attraeva affatto; ma, malgrado ciò, il mio cazzo a quel comando era divenuto ancora più duro, visto che erano giorni che speravo di poter entrare in contatto con quella regale passera bionda. In ogni caso, non potevo disobbedire, se non volevo rischiare una punizione e pure il lavoro, e così mi feci forza e cominciai a leccare.
Iniziai dal basso e dall’esterno della vulva, raccogliendo con la lingua, una per una, le goccioline di piscio che erano rimaste impigliate tra i peli della fica. Il sapore non era molto definito, perché si trattava di piccole gocce, ma l’odore di piscio era ben percepibile. Lei, nel frattempo, mi raccomandava di lavorare con cura, senza tralasciare neppure una goccia, e sapevo bene ormai che le sue indicazioni non potevano essere in alcun modo trasgredite.
Quando ebbi finito il lavaggio esterno, la padrona, mi comandò di divaricarle le labbra con le mani e mi spinse la testa verso di lei, affinché con la lingua ripulissi anche l’interno. Da allora la situazione diventò ancora più umiliante, perché io divenni uno semplice strumento nelle sue mani, costretto a leccare dove e come lei voleva, in base alla pressione che esercitava con le mani sulla mia testa. Nel frattempo lei gemeva come una maiala e mi stimolava dicendo «Lecca, bastardo, leccami tutta!» e altre cose del genere. Così al piscio, ormai pulito dal mio approfondito “bidet”, subentrarono gli umori e, alla fine, lei mi venne in bocca urlando senza ritegno. Poi, raggiunto l’orgasmo, mi spinse la testa lontano da lei. Giusto in tempo! Perché non solo avevo la bocca piena di umori misti a qualche pelo, ma a furia di essere schiacciato contro la sua passera stavo quasi per soffocare.
Al suo orgasmo seguì una pausa di forse un minuto, appena il tempo di riprendere fiato; poi Barbara mi ordinò di alzarmi e mi condusse in una camera con un letto extralarge nel mezzo. Quindi, con tono canzonatorio mi disse: «Guarda un po’ come ce l’hai duro…Evidentemente farmi da bidet ti è piaciuto, e, ormai che ci sei, vorresti farti anche una bella scopata con me. Non è vero?». Non sapevo cosa dire. Certo che avrei voluto scoparmela! Entrare con il mio cazzo nella sua splendida vagina e possederla, ma il suo tono non faceva presagire nulla di buono. Allora, giusto per non farla arrabbiare, risposi «Sì, padrona». E lei, con un sorriso sghembo: «Bene, ora te la do io la scopata!».
Aprì un cassetto del comodino a fianco al letto e ne estrasse uno strap-on nero che, a occhio, doveva essere di venti centimetri, e piuttosto spesso. Poi mi ordinò di mettermi alla pecorina sul letto. Quindi lo indossò, e, sventolandomelo davanti alla faccia, mi disse: «Volevi farti una scopata con me? Bene. Sarai accontentato. Ma i ruoli a letto li stabilisco io!».
A quel punto, ebbi davvero paura, perché il mio culo era totalmente vergine, ma non osai dire nulla, per timore di contrariarla e dover poi subire qualcosa di peggiore. Così lei lubrificò lentamente il suo membro e ne appoggiò la punta sul mio ano. Io cercavo di stare rilassato, perché sapevo che questo avrebbe facilitato l’ingresso, ma non ci riuscivo più di tanto. Allora lei mi disse: «Non avere paura, cara! Ti piacerà!». Poi rise e aggiunse: «Non è così che dite voi maschi prima di incularvi senza pietà la fidanzatina, o magari la cameriera? E allora, lo vedi che non c’è proprio nulla di cui lamentarsi?».
Poi lo infilò tutto insieme, con un colpo secco che mi tirò fuori un urlo. Quindi continuò su e giù, su e giù, senza un briciolo di compassione. Piano piano cominciai ad abituarmi, anche se continuavo a soffrire, ma il mio cazzo inspiegabilmente rimaneva duro.
Allora lei posò la mano destra sul mio membro e, mentre m’inculava selvaggiamente, si mise a masturbarmi. Ero in una situazione paradossale: soffrivo e godevo nello stesso momento, e forse era proprio ciò che lei voleva. Infine venni. Ma lei, anziché spostare la mano, la mosse, come per raccogliere tutto. Poi uscì da me, e mi costrinse al rito di leccarle la mano pulendola dal mio stesso sperma.
Quindi, nudo com’ero, mi portò via dalla sua stanza e mi fece scendere nel seminterrato. Mi mostrò una stanza semibuia, con un letto di ferro su una parete e pochi altri arredi, illuminata solo da una finestra rettangolare posta a oltre due metri di altezza, e mi mostrò anche il bagno lì accanto. Mi disse che, visto che stavo per essere sfrattato, che ero povero in canna ma che, in fondo, non ero un cattivo assistente, da quel giorno avrei vissuto lì. Naturalmente però non avrei dovuto dire a nessuno dove vivevo e sarei dovuto salire sopra-terra solo per servirla, se e quando richiesto.
Ormai ero rassegnato a tutto, e quindi accettai di rimanere lì, mangiare ciò che lei voleva e dormire nudo su quel giaciglio degradante senza nessuna obiezione, proprio come lei mi aveva ordinato. (continua, forse).
AVVERTENZA: Ogni riferimento a cose, persone e fatti realmente accaduti, in questo come nei precedenti episodi della storia, è puramente causale. Ci scusiamo, in ogni caso, con gli interessati per eventuali, se pur casuali, somiglianze e omonimie.
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