L'Ascensore

di
genere
dominazione

1.

Le prime volte non ci avevo fatto troppo caso. Abitavamo in un palazzo di dieci piani, in un quartiere semi periferico di Milano. Probabilmente eravamo entrambi single devoti alla nostra professione perché spesso ci incrociavamo intorno alle venti di sera davanti alla porta dell’ascensore. A quell’ora non c’era quasi mai nessuno. Lei era prossima alla quarantina e vestiva sempre con quella sorta di divisa d’ordinanza delle manager in carriera. Tailleur dai colori sfumati, tacchi alti, occhiali scuri. Portava i capelli corvini raccolti in una coda di cavallo ed aveva fianchi generosi che iniziavano a manifestare i segni di una leggera pinguedine.
Pur abitando da quasi quattro anni in quel condominio non conoscevo nessuno, neppure lei. Doveva abitare all’ultimo piano perché io scendevo al nono e la lasciavo li nell’ascensore, apparentemente persa nei suoi pensieri.
In quel minuto nel quale le nostre vite si incrociavano ci limitavamo ad un anodino buonasera e a qualche sbirciata di traverso finché le porte dell’ascensore si aprivano sul pianerottolo del mio piano ed io con un altro “buonasera” bofonchiato a mezza voce mi preparavo ad entrare nel mio bilocale dove mi attendeva l’ennesima cena scaldata al microonde o nella migliore delle ipotesi qualcosa ordinato attraverso Just Eat.

Non so esattamente quando ci presentammo, sicuramente passarono diverse settimane. Lei si chiamava Roberta Lensi ed era dirigente delle Risorse Umane di una società di trasporti. Adesso quando ci incrociavamo i nostri saluti erano appena un po’ meno formali.
“Buonasera Roberta”.
“Buonasera Claudio”.
Dopodiché il copione era sempre lo stesso. Uscivo al nono piano e mi preparavo mentalmente ad una serata su Netflix oppure a correggere i compiti dei miei studenti. Insegnavo italiano e storia in una scuola media della periferia milanese.
Una sera che ero particolarmente svogliato, ho aperto Facebook e seguendo un impulso improvviso ho digitato nella barra di ricerca il suo nome: Roberta Lensi. La query mi ritorna due soli risultati. Il secondo nominativo era inconfondibilmente lei. La foto era inequivocabile. Senza pensare digitai “aggiungi agli amici”. Per tutta la serata aspettai una risposta inutilmente. La cosa non mi sorprese. A giudicare dalla sua bacheca, frequentava raramente il social. In media una o due volte alla settimana.
Due giorni dopo, una notifica all’ora di pranzo, mi avvisò che Roberta aveva accettato l’amicizia. Trovo un messaggio privato. “Mi chiedevo quando l’avresti fatto…” seguito da un emoji ammiccante.
Non mi aspettavo che accettasse l’amicizia e tanto meno una frase del genere. Decisi di non risponderle. Esaminai con più attenzione i pochi post pubblicati da Roberta sulla sua bacheca, scorrendo indietro nel tempo di qualche mese. Erano per lo più commenti a qualche articolo di giornale o pensieri in libertà. Uno però attrasse la mia attenzione. Era una clip del film “Cinquanta sfumature di grigio”. Pochi secondi dove si intravedeva la protagonista bendata e legata dal suo giovane, controverso e ricco amante.
Nient’altro. Solo quella clip. Senza una parola. Un commento, una battuta. Niente.
Spinto da un’intuizione cercai su youtube una breve video di “Histoire d’O”, un vecchio film con Carole Andrè. La scena era quella dove il giovane amante di O, sfila le mutandine in auto alla sua giovane fidanzata prima di consegnarla alla dominazione di Sir Stephen.
Le inviai in privato il link. Quella sera non ci incontrammo davanti all’ascensore ed un sentimento di delusione mi assalì. Forse avevo fatto una mossa sbagliata. Oppure avevo frainteso un messaggio o un’aspettativa appena accennata o forse più semplicemente i nostri orari per una volta non coincidevano. Un’ora più tardi invece mentre nel microonde scaldo delle orribili lasagne surgelate, una notifica su Messanger manda all’aria ogni mia elucubrazione e mi lasciò senza fiato.
“Potrei non averle indosso……”. Mio malgardo ammisi con me stesso che questa donna aveva il potere di stupirmi. Adesso non stavo più nella pelle. Non vedevo l’ora di rivederla. Non riescì a non pensare a lei per tutta la serata. Alla fine dopo contorte ed agitate riflessioni credetti di sapere come dovevo comportarmi per evitare che quella apparente disponibilità potesse tradursi in un rifiuto. Passai una notte agitata, con sogni talmente erotici che mi svegliai con una colossale erezione. Dovetti farmi una sega sotto la doccia per stemperare la tensione.
La giornata passò lentissima. Arrivai a casa alle 19.45. Davanti all’ascensore lei non c’era, in compenso trovai due vecchietti che trascinavano con fatica alcune buste della spesa. Mi allontanai fingendo di dover fare una telefonata. Volevo aspettare. I minuti passavano lentamente. L’attesa si fece snervante. Alla fine mi arresi erano quasi le venti e trenta quando, sconsolato, pigiai il pulsante di chiamata dell’ascensore. Ero deluso ed irritato, soprattutto con me stesso, per il castello di aspettative che mi ero costruito nelle ultime ore.
Le porte si aprirono ed io entrai, trascinandomi stancamente nella cabina. Stavo per premere il pulsante del nono piano quando mi accorsi che il portone di casa si apriva. Era lei. Mi vedi nell’ascensore ed iniziò a correre perlomeno come glielo permetteva un vestitino verde attillato che non nascondeva niente delle sue forme generose.
“Aspetta!” quasi gridò, affannata.
Improvvisamente recupero tutto il mio sangue freddo. L’attesi, tenendo una mano sulle cellule fotoelettriche dell’ascensore. Irruppe trafelata. Senza dire una parola selezionai il tasto del nono piano. Lei mi guardò ansimando leggermente. Rimanemmo così per qualche secondo, il mio sguardo perso sulle sue labbra appena socchiuse e sul suo petto che si sollevava su e giù in una respirazione affannata che non dipendeva soltanto dalla piccola corsa sostenuta. La presi per le spalle e la voltai bruscamenteo contro una parete dell’ascensore. Roberta non reagì. Con le mani le afferrai il bordo del vestito attillato e lo sollevai su fin sopra le natiche generose.
Non indossava mutandine. Sentii il suo respiro affannato e stavolta fui sicuro non si trattasse degli effetti della breve corsa. Avvicinai la mia bocca alle sue orecchie facendole sentire la pressione della mia erezione sulle sue chiappe.
“Da ora sei mia”, le sussurrai. La vedi arrossire. Il suo profumo mi stordiva, sapeva di gelsomino e di sesso.
L’ascensore si fermò al mio piano. Rimanemmo fermi in una posa irreale. Indifferenti al rischio che correvamo di essere visti. Alla fine mi scossi come chi si risveglia da un sogno, recuperai la borsa dal pavimento dell’ascensore e le dissi con voce appena un po’ arrochita.
“Per stasera basta così”. Uscii e l’ultima immagine che vidi di Roberta era quella di lei appoggiata alla parete dell’ascensore con il vestito rialzato ed il culo prosperoso in bella mostra.

2.

Roberta era incredula. Non sapeva capacitarsi di quello che era successo la sera prima in ascensore con Claudio. Per tutta la giornata in ufficio un guazzabuglio di emozioni contrastanti (vergogna, eccitazione, rabbia) gli avevano reso difficile concentrarsi sul lavoro. Durante le riunioni, spesso i suoi collaboratori la sorprendevano con lo sguardo assente, vagamente trasognato. Si giustificò dicendo che aveva dormito poco e che aveva un gran mal di testa.
Non riusciva a capire perché aveva concesso ad un uomo che nell’ultimo anno aveva incrociato davanti all’ascensore, si e no, una ventina di volte, di voltarla rudemente contro una parete e denudarle il sedere. Per la verità non riusciva anche a capire perché, in risposta alla clip che gli aveva inviato, lo aveva provocato con quella risposta sibillina: “Potrei non averle indosso…”. Evidentemente c’erano cose di lei, desideri inconfessabili, pulsioni che neppure lei conosceva bene. Qualcosa che si era, per così dire, attivato soltanto attraverso sguardi e pochi messaggi scambiati su un social. Una Roberta impavida, trasgressiva, sognatrice avida di esperienze che riteneva confinate nell’ambito delle semplici ed innocue fantasie.
E la cosa le era definitivamente sfuggita di mano quando nel tardo pomeriggio, prima di uscire dall’ufficio era andata in bagno a togliersi le mutandine nere che indossava. Si rese conto che desiderava incrociarlo in ascensore per leggere sul suo volto il desiderio o perlomeno la curiosità morbosa di uno scenario appena evocato.
Eppure le prime volte che aveva incrociato Claudio, allora non sapeva neppure il suo nome, non gli aveva fatto una grande impressione. Non molto alto, superava di qualche centimetro il metro e settanta, un fisico asciutto ma non tonico. L’aspetto di un topo da biblioteca con due occhialini rotondi. Un velo di barba su un volto dai lineamenti regolari, capelli cortissimi per cercare di mitigare i primi spruzzi bianchi.
Doveva avere più o meno la sua età. Intorno ai quarant’anni o poco più. Insomma un tipo ordinario, normale. L’unica cosa che lo contraddistingueva era lo sguardo indagatore, curioso, affilato che sembrava radiografare l’essenza di una persona.
Quando finalmente si erano presentati, la quarta o quinta volta che si erano incrociati nella tarda serata su quel benedetto ascensore aveva acquisito oltre al nome, Claudio Tentoni, solo pochi altri spiccioli di informazione.. Era un’insegnante, viveva solo nel bilocale dell’ultimo piano e si muoveva per Milano esclusivamente a piedi o con i mezzi pubblici. Tutto qui.
Ed adesso non riusciva a staccare il pensiero da quello che era accaduto e dall’ultima frase che aveva pronunciato “Da adesso sei mia”. Che cazzata! Lei era una tipa indipendente ed un assurdo momento di debolezza non poteva certo significare niente. Non era certamente bisogno di sesso. Da due anni viveva una relazione con il vicedirettore della filiale della Banca Popolare di Sondrio nei pressi di Piazza Borromeo. Umberto era un uomo tranquillo, metodico, affidabile. Si vedevano un paio di volte alla settimana e generalmente il sabato dormivano, alternativamente a casa dell’uno o del l’altro. Il sesso con Umberto era buono seppure canonico e prevedibile. Lei aveva sempre respinto le sue proposte di vivere insieme. Gli aveva spiegato che non voleva rovinare una cosa che funzionava, anche grazie alla loro autonomia.
Umberto aveva capito e alla fine accettato con una certa gratitudine le sue obiezioni. Si erano fatte le 17 e Roberta realizzò che aveva controllato i messaggi privati di Fb almeno una ventina di volte fino ad allora. Indispettita chiuse il notebook, salutò i colleghi ed uscì prima del solito dal lavoro.
Per due giorni attese un messaggio di Claudio e stazionò qualche minuto in più nei pressi dell’ascensore quando rincasava. Niente. Sembrava sparito. Non riusciva a capire questo comportamento. L’irritazione cresceva insieme ad un’amara delusione e Roberta si scoprì più nervosa di quanto volesse ammettere. Si era già pentito? Non gli era piaciuta? Arrivò persino a pensare di aver fatto qualcosa di sbagliato pur avendolo assecondato in tutto.
Poi il terzo giorno, un venerdi sera, il messaggio tanto sospirato si materializzò. Poche, imperative parole: “Dammi il tuo numero di cellulare”. L’esitazione durò meno di un minuto e con mani lievemente tremanti, Roberta digitò il numero. Quella sera a letto si accarezzò come non faceva da tempo. Con una mano stimolava il suo seno generoso, accanendosi intorno ai grossi capezzoli violacei. Con l’altra alternava movimenti circolari ora lenti e dolci, ora veloci e ruvidi sul suo clitoride.
L’orgasmo la travolse dopo pochi minuti mentre riviveva per l’ennesima volta la scena dell’ascensore tra lei e Claudio.
Il giorno dopo sabato si svegliò tardi e pigramente iniziò a prepararsi per uscire. Aveva in programma di pranzare con Umberto in un delizioso ristorante con terrazza sul lago di Como, La Baia di Moltrasio.
Mentre finiva di truccarsi lo squillo di un SMS in arrivo la fece trasalire. Era Claudio. Ancora una volta il tono era imperativo. “Tra 15 minuti in ascensore”. Il cuore iniziò a batterle all’impazzata. I dubbi se obbedire o no a quell’intimazione durarono pochi secondi.

L’eccitazione che proveniva dal suo basso ventre le fecero capire che non aveva scampo. Aveva bisogno di trasformare quelle fantasie in qualcosa di tangibile, reale, carnale. Confrontarsi con esse e capire se davvero facevano parte di lei.
Quindici minuti dopo era davanti alla porta dell’ascensore. Dovette aspettare solo pochi secondi. Le porte si aprirono. Claudio era li, con un impercettibile sorriso e l’aria sicura di chi era certo di non avere sorprese sgradite.
“Entra.”
Roberta obbedì. Una parte di lei sembrava vivere un’esperienza extra corporea ed osservava quella donna di quasi quarantanni, con un fisico prosperoso avanzare senza esitazioni dentro l’ascensore.
Claudio azionò il blocca porte. Poi estrasse un oggetto, mostrandolo a Roberta, a pochi centimetri dal viso.
“Sai cos’é, vero?” domando retoricamente.
Roberta non faticò a riconoscere un plug anale. Era nero con alla base una pietra lucente e colorata.
“Allora sai cos’é?”
Roberta annuì. Sentiva la gola secca ed aveva timore di parlare e rivelare il tumulto di emozioni contrastanti che in quel momento la devastavano.
“Voltati.” ordinò Claudio
Lentamente Roberta si voltò faccia alla parete dell’ascensore, replicando la posizione assunta qualche giorno prima. Oggi indossava un vestito leggero con fantasia floreale maniche per tre quarti a palloncino, linea svasata ed ampia scollatura che metteva in mostra il suo seno importante. Il vestito arrivava poco sopra il ginocchio.

“Tirati su il vestito.” La voce di Claudio era tranquilla ma non ammetteva contraddittorio. Dopo un attimo di esitazione Roberta obbedì. Poi si trovo sulle labbra il plug.
“Ti conviene bagnarlo” la canzonò benevolmente Claudio. Quella situazione ma soprattutto le parole dell’uomo le procurarono un’eccitazione fisica come non ricordava da quando era giovane. Avvertì il suo sesso bagnarsi.
Nervosamente succhiò l’oggetto di plastica, ma aveva la gola secca e il plug rimase praticamente asciutto. Con un gesto rapido l’uomo le abbassò le caste mutandine bianche che indossava in quell’occasione.

Con una delle sue mani le divaricò le natiche scoprendo lo stretto orifizio anale di Roberta con l’altra appoggiò il plug sull’ano della donna.
“Ti prego fai piano….”sussurrò lei.
Roberta si sentì dapprima dilatare e poi invadere dall’oggetto che si piantò saldamente nel suo sedere. Non si rese conto che Claudio le aveva rialzato le mutandine un istante dopo. Era preda di un incantesimo e sentiva il suo culo violato e riempito da quell’estensione di Claudio. Non era vergine dietro ma non amava particolarmente il sesso anale. Il dolore che provava nelle poche occasioni in cui aveva provato non era stato compensato da un adeguato piacere.
“Non devi toglierlo, finché non andrai a letto stasera” puntualizzò il suo vicino di casa.
“Ma….” cercò di interloquire Roberta.
“Nessun ma. Se lo togli non mi vedrai più.”
“Posso voltarmi?”
“Si” concesse Claudio. Lo sguardo dell’uomo non abbandonò il suo, in una muta ostentazione di autorità. Alla fine fu lei ad abbassare gli occhi.
“Non lo toglierò” mormoro a voce bassissima Roberta.
“Ogni tanto ti chiederò di inviarmi una foto che comprovi la tua lealtà” disse Claudio, alzando la posta in gioco ancora un po'.
Ormai domata Roberta si limitò ad annuire.
“Adesso vai pure. Io prendo le scale”. Rimasta sola Roberta sbloccò l’ascensore e premette il pulsante del piano terra.
Con andatura leggermente barcollante uscì nel sole primaverile di Milano con il plug saldamente piantato nelle sue chiappe. Tra mezz’ora doveva incontrare Umberto.

3.

Roberta


Il momento più difficile era stato quando Umberto mi aveva baciata, come fa sempre prima di farmi accomodare sulla sua Audi A4 TDC. I baci di Umberto sono semplici, rassicuranti, metodici. La sua lingua giocava con la mia solo il tempo che la sua mano accarezzasse i miei capelli, che oggi avevo lasciato sciolti, per poi passare fugacemente sul viso.

Mentre mi bacia non potevo fare a meno di vergognarmi. Lo stavo tradendo, con una facilità ed un’incoscienza che non avrei mai supposto che mi appartenessero. Me lo ricordava il plug infisso saldamente nel mio sedere e che iniziava a darmi sempre più fastidio. Avevo 39 anni e negli ultimi 15 anni di vita sono stata essenzialmente monogama nelle mie relazioni. Devo essere sincera una fedeltà in parte dovuta al fatto che dopo 10 ore di lavoro medie al giorno, non avevo tempo e voglia di complicarmi la vita anche con la gestione di un’amante.
Io e Umberto stavamo insieme da quasi tre anni. Ed adesso lo stavo tradendo con una storia assurda, nata casualmente in un ascensore e che aveva demolito la mia razionalità con una facilità che aumentava il mio disorientamento.
L’ora di viaggio che intercorre da Milano al ristorante La Baia di Moltrasio sulle rive del lago di Como fu una tortura. Fisica, perché il plug mi faceva male, cercavo di contenere il dolore cambiando frequentemente posizione ed emotiva, non riescivo a guardare negli occhi Umberto che guidava con la consueta prudenza, parlandomi della sua settimana di lavoro, dell’ultima partita a paddle e del viaggio che stavamo organizzando in Canada per la prossima estate.
Faticavo a seguire i suoi discorsi ed a stento anche riuscì a rispondere nel modo giusto ed al momento giusto per non fargli capire quanto ero agitata ed assente. Al ristorante il cameriere ci fece accomodare sul lungo e stretto terrazzino affacciato sul lago. Il tiepido sole di aprile faceva baluginare di riflessi l’acqua. Ne approfittai per mettermi gli occhiali scuri. Non volevo che Umberto leggesse nei miei occhi il senso di colpa e di disagio. Prendemmo entrambi un risotto con il persico, insalata greca ed un Ribolla gialla ghiacciato. Non avevo fame e spelluzicai distrattamente per tutto il pasto.
“Ti senti bene?” mi chiese premuroso Umberto ad un certo punto
“Si, perché?”
“Mi sembra che tu non abbia appetito.”
“E’ solo che forse ho ecceduto con la colazione stamattina” sorrisi cercando di schermirmi.
“Non ti piace?”
“Scherzi? E’ buonissimo!”.
Per dimostrare che non stavo mentendo mi applicai nel buttare giù qualche forchettata di risotto. Il plug mi dilaniava le viscere. Ero tentata di andare in bagno e togliermelo.

Però esitavo. Che cavolo facevo. Claudio non poteva vedermi. Adesso lo tolgo, mi dissi e poi magari lo rimetto. No, adesso lo tolgo definitivamente ed affanculo questa stronzata. Ma lo volevo davvero togliere? Mi resi conto che l’idea di deludere Claudio mi era intollerabile almeno quanto il fastidio che mi procurava quell’oggetto di plastica.
“Allora che ne dici?” chiese perplesso Umberto. Cazzo! Cosa avrà detto, non ho sentito una parola, pensai uscendo dalle mie farneticanti elucubrazioni.
“Mi sembra una buona idea – balbettai – Scusami devo andare un minuto in bagno”. Umberto da consumato gentiluomo si alzò in piedi quando io, a mia volta, mi alzai per cercare la toilette. Gli sorrisi per rassicurarlo e mi precipitai dentro il ristorante alla ricerca del bagno.
In quel mentre sentii il cellulare vibrare. Un messaggio. Lo aprii freneticamente. Era di Claudio.
“Lo indossi ancora?”.
“Si.” rispondo all’istante.
Passano pochi secondi ed un altro messaggio si materializza.
“Adesso puoi togliertelo”.
Senza riflettere rispondo: “Ma non volevi una prova?”.
“Mi fido di te. Toglilo”.
Rimango frastornata e poi avvertii un assurdo sentimento di orgoglio. Claudio si fidava di me. Entrai in bagno. Mi abbassai le mutandine e delicatamente estrassi il piccolo strumento di tortura dal mio sedere, mugolando di dolore.
Con orrore vidi che era sporco e macchiato da alcune goccioline di sangue. Lo lavai freneticamente sotto il rubinetto.
Cercai di cancellare non solo le tracce fisiche ma soprattutto quelle della mia devianza morale che mi aveva portato in questo bagno con un plug sporco di sangue e merda in mano. Mi ricomposi e tornai da Umberto.
Finimmo di pranzare scambiando poche parole. Lui doveva aver capito che c’era qualcosa che non andava ma, da uomo garbato e rispettoso quale era, aveva deciso di non pressarmi. Di lasciarmi il mio spazio. Gli ero grata per questo ed allo stesso tempo questo comportamento del mio uomo mi faceva sentire uno schifo.
Dopo pranzo decidemmo di passeggiare per il lungolago. La giornata era meravigliosa e le persone sciamavano assorbendo la primavera che esplodeva in tutti i suoi colori e profumi. Dopo qualche minuto scorsi un piccolo sentiero sulla sinistra, presi per mano Umberto e lo trascinai con me.

Il sentiero si inerpicava dolcemente verso una macchia formata da qualche cipresso e da piante di alloro e di rododendri. Ansimando leggermente arrivammo al primo cipresso. Umberto era leggermente perplesso, non capiva perché eravamo li, a faticare, invece di camminare comodamente sull’assolato lungolago. Maliziosamente lo guardai negli occhi.
Volevo espiare. Avevo bisogno di espiare. E’ scelsi la via più semplice per farlo. Lo spinsi spalle contro il cipresso. Mi inginocchiai davanti a lui armeggiando con la cintura dei pantaloni.
“Roberta, che fai? “ chiese allarmato.
“Non lo vedi?” replicai tirando fuori dai boxer il suo cazzo.
“Ma sei matta! Ci possono vedere….”
Leccai la punta del membro di Umberto mentre lo impugno saldamente.
“Roberta….” protestò con voce stridula.
Glielo presi in bocca ancora moscio, succhiandolo con voluttà, senza fretta. Con una mano gli accarezzai lo scroto. Il suo cazzo rispose inturgidendosi.
Umberto non protestava più. Ansimaava leggermente, con gli occhi socchiusi. Le braccia abbandonate lungo i fianchi. Inerme.
Non mi ci volle molto per farlo sborrare. Come sempre un istante prima che venisse lo estrassi dalla mia bocca e lo accompagnai negli ultimi istanti con una sega vigorosa. Cinque minuti ed è tutto finito.
Purtroppo non mi sentivoo emendata. Ero sempre una schifosa traditrice.


4.

Claudio.


Non riescivo a non pensare a lei. Mi chiedevo cosa stesse facendo in quel momento. Con chi era. Se mi pensava. E soprattutto cosa pensava di me e di quello che le avevo fatto e detto. Erano le dieci di domenica e mi ero alzato da poco dal letto, dopo una notte agitata.
Osservavo la moka che stava per rilasciare i profumi del caffè. Mi ero ripromesso di non scriverle subito. Volevo che cuocesse a fuoco lento. Per la verità quello che volevo capire era se fosse ancora presa all’amo, come io lo sono di lei. Solo adesso mi rendevo conto che non sapevo quasi niente di Roberta e l’ansia di conoscere ogni particolare della sua vita passata e presente era diventata un urgenza improcrastinabile.
L’ultimo briciolo di razionalità mi suggeriva di smetterla, avevo 42 anni, non ero un ragazzino alla sua prima infatuazione. Bevvi lentamente il caffè, amaro come piaceva a me, sbirciando dalla finestra. Era una giornata variabile come il mio umore, sole e nuvole si alternavano sui tetti di Milano. Il traffico domenicale era scarso. Decisi di fare un po’ di jogging per scaricarmi. Quaranta minuti dopo correvo per i vialetti del Parco Sempione. Ultimamente facevo poca attività e non mi ci volle molto per avere il fiatone. Decisi di prendermela comoda, rallentando fin quasi ad un “passo svelto”, mentre con gli auricolari ascoltavo una playlist di arie d’opera.
Un bip interruppe per un istante il flusso della musica. Era arrivato un messaggio di Roberta.
“Rivuoi il plug?” scriveva allegando la foto del sex toy che le avevo inserito nel sedere. Un lieve sorriso mi increspò le labbra. Dopo aver riflettuto qualche secondo le risposi: “Stasera, alle 21. A casa mia”.
Attesi con una certa ansia la risposta. Tre minuti dopo Roberta rispose con un laconico: “Ci sarò”. Decisi di tornare a casa.
Il pomeriggio trascorse con una lentezza esasperante. Cercai di distrarmi correggendo i compiti dei miei studenti ma trovai quasi impossibile concentrarmi. In serata preparai una cena leggera per la mia ospite. Non volevo “appesantirla”. Avevo programmi impegnativi per lei. E poi non ero un grande cuoco. Filet mignon al pepe rosa, insalata mista ed una bottiglia di Brunello di Montalcino fu tutto quello che riuscii a preparare. Cinque minuti prima delle 21 era tutto pronto e in tavola. Stranamente non ero più nervoso. Forse mi aiuta la consapevolezza di sapere cosa voglio e che Roberta è qualcosa di più di un’occasione generata per caso. La voglio e la voglio in un modo totalizzante. Roberta deve essere mia. Nessun altro esito era ammesso. Alle 21.02 il campanello di casa trillò. Aprii la porta, eccola finalmente di fronte a me, appena un po’ pallida. Due occhi nocciola profondi come le acque scure di un lago. I capelli sciolti che le lambivano le spalle. Indossava un vestito nero con una scollatura appena accennata e sobri accessori dall’apparenza molto costosa. In mano aveva una piccola borsetta.
“Accomodati” le sorrisi incoraggiante.

La sua figura piacente, appena un po’ eccessivamente prosperosa, si fece strada nel mio ampio soggiorno tinello. La vidi sbriciare il tavolo perfettamente apparecchiato per due.
“Hai fame?” chiesi.
“Si, un po’.” La sua voce mi sembrò ferma, tranquilla, come chi ha preso una decisione difficile ma irrevocabile.
“Questo dove lo metto?” mi domandò estraendo dalla borsetta il plug nero.
Sorrisi ironicamente. Spostai appena una sedia dalla tavola. Mi sedetti e allungai una una mano verso di lei.
“Vieni.”
Esitò solo un istante. Poi si avvicinò quel tanto che bastava perché io potessi prenderla per la vita e spingerla con fermezza ma, lasciandole la sensazione che potessi sottrarsi se lo desiderava, sulle mie ginocchia. Non lo fece.
Contemplai il suo culo che si disegnava perfettamente sotto il vestito. Lei non diceva una parola. Accettava la sua sottomissione come fosse scontata. Le sollevai il vestito. Le sue mutandine bianche di pizzo faticavano a contenere due natiche imperiali.
La prima sculacciata era come l’incipit di una sinfonia. Un preludio ad un movimento che si farà intenso nell’arco di pochi minuti. Le colpii le natiche alternativamente attento a dosare la forza in modo da portarla gradualmente verso i suoi limiti.
Roberta sussultava ad ogni sculaccione. La sua pelle chiara si colorò da prima di un rosa pallido, che poi si accese di un colore più vivido. Iniziò a gemere a bassa voce. Mi interruppi soltanto per abbassarle le mutandine e continuai a sculacciarla con maggiore intensità.
Lei si inarcava per gestire un dolore a cui non era evidentemente abituata.
“Vuoi che smetta?” le chiesi.
“No.” rispose a bassa voce con una determinazione che mi sorprese.
Capii a quel punto che lei aveva deciso di essere davvero mia. Ed un’esaltazione fanciullesca mi pervase. Ripresi a sculacciarla.
La dura musica che suonavo su quelle splendide natiche trovava un contrappunto nei suoi lamenti.
Ero certo che il bello doveva ancora venire.




scritto il
2022-02-03
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