Odore di Rosa
di
chicken1973
genere
etero
l’arrivo di Rosa dalla sede distaccata a quella centrale dove lavoravo arrivò come il colpo di grazia.
Il periodo funestato da viaggi all’estero era tanto stimolante quanto destabilizzante.
Ritrovarsi nella hall dell’ennesimo albergo di lusso, partito prima dell’alba per l’aeroporto, il sonno che si impossessa di te prima che l’aereo abbia cominciato a rullare sulla pista, gli occhi che si riaprono su un panorama di nuvole bianche che disegnano paesaggi da sogno, le voci attorno a te che parlano lingue incomprensibili e sempre diverse.
Non era facile ricordarsi che quella non era la vita normale e vivevo ogni giorno in attesa di una svolta inaspettata.
Quando poi anche la normale vita di ufficio fu investita dall’imprevista presenza di una donna, di una nuova collega, con il suo caschetto di capelli un po’ ricci, gli occhi felini, la figura piccolina che, misteriosa, si aggirava per le stanze con le sue curve morbide, mai celate dagli abiti… a quel punto il mio inconscio, abituato a colleghi maschi, alzò le mani dichiarando la resa a tutto ciò che sarebbe potuto succedere.
Rosa si ricordava di me, si ricordava di esserci incrociati presso la sede dove aveva lavorato fino a poche settimane prima. Aveva chiesto di essere spostata presso l’ufficio centrale per sfuggire alle piccolezze della provincia, guidata dal suo gusto per la scoperta, per le novità, per la vita pienamente assaporata.
E per sfuggire dai ricordi dell’uomo che l’aveva lasciata dopo che lei aveva cambiato città per lui.
Io invece avevo cominciato a scoprirla piano piano, giorno dopo giorno, caffè dopo caffè.
Ed i racconti delle sue infinite battaglie tra diete e piacere per vino e cibo, così come dei duelli tra mentalità di provincia e danza del ventre, battaglie per i diritti degli omosessuali e viaggi e stage di burlesque, i suoi racconti – dicevo - lasciavano trasparire una dirompente sensualità che all’apparenza solo io (e poi un altro collega, scoprii) sembravo cogliere, tra tutti gli uomini dell’ufficio.
Ovviamente, alle altre poche donne in sede non sfuggiva nulla, invece.
La figura di Rosa mi si piantò in testa.
Ed io cominciai ad alimentare il nostro rapporto con ogni mia passione, trovando dall’altra parte sempre una pronta risonanza.
Che si parlasse di storia della musica e madrigali, di gallerie d’arte, di matematica e stelle o della mia pronuncia d’inglese (lei che dichiarava di ascoltare con delizia le mie call con l’estero).
Ma anche che il tema fosse cucina mediorientale o sushi, creme o biscotti secchi, vino rosso o vino bianco.
E infine che si discutesse della preferenza degli uomini tra donne magre o curve più morbide, tra intimo di pizzo e mutande di cotone bianco (io che mi dichiaravo strenuo e stremato difensore delle seconde).
L’unico mistero restava la sua vita sessuale: impossibile pensare che le sue vivide passioni non includessero una certa cura per le necessità del suo sesso. E nelle carbonare chiacchierate che la riguardavano, con Giovanni – che condivideva con me la passione per Rosa – immaginavamo il suo vibratore di fiducia, a cui magari aveva dato un nome, a tenere in allenamento i muscoli della vagina in caso di prolungata mancanza di uomini degni introdursi dentro di lei.
Un tormento di stimoli che mi fiaccava ad ogni pausa caffè, la testa troppo vuota e troppo piena allo stesso tempo.
Ed il mio membro laggiù, a reclamare la sua parte fregandosene del lavoro d’ufficio.
Mi accorsi presto di una cosa: Rosa sembrava mia moglie quando ci eravamo conosciuti; era un viaggio nel tempo, l’eccitante scoperta di qualcosa di familiare. Così, ipocritamente, giustificavo l’energia vitale che stavo spostando via da casa per riversarla su quella figura dai fianchi tondi e dai seni avvolgenti.
E poi ci furono due episodi che segnarono il mio tempo sotto l’influsso di Rosa.
Cena aziendale di Natale, lei che si presenta con gonna corta, calze scure ed un incredibile camicetta nera trasparente a far intravedere il reggiseno occhieggiare dietro un grande fiocco nero di pizzo attorno al collo. Dissimulo l’assoluta adorazione.
Fianco a fianco ci aggiriamo tra il buffet, lei prende una tartina, le sue labbra si aprono e lei la sta poggiando sulla lingua.
“Rosa, ferma”, le tocco il braccio con una mano.
“Cosa?”
“Formaggio. La tartina è al formaggio!”
Io che ho registrato tutto di lei, sono arrivato a conoscerne anche le idiosincrasie alimentari.
Lei si blocca per un attimo, forse stupita della mia familiarità con i suoi gusti; e lentamente allontana la tartina dalla bocca e dalle labbra.
Me la porge.
Per un attimo non so cosa fare.
E infine la porto alle mie labbra e la mangio.
Un’innocente gesto, ma la mia mente non smette di pensare all’incontro per procura delle nostre lingue.
E’ come se stessi introducendo Rosa dentro di me.
Quando sono io che languo da mesi per entrare dentro la sua intimità.
Lei capisce perfettamente. Credo.
La sera prosegue in un inferno di non-detti, io che mi aggiro a notte fonda attorno alla sua stanza sperando in un incontro fortuito che possa sollevarmi dalle mie responsabilità per gettarmi tra le sue gambe, immaginandomi introdotto nella sua camera tra intimità ed abiti smessi e le sue mutande distrattamente lasciate chissà dove: il mio viso tra le sue cosce, il mio naso tra i suoi odori.
Ma nulla: riverso la mia agitazione su un pianoforte solitario lontano dalle stanze, suonando Billy Joel come un tristissimo pianista da pianobar.
E pochi giorni dopo siamo di nuovo in ufficio.
Rimasti solo noi due a lavorare a sera tardi.
Mi chiudo in bagno sedendomi per terra, testa tra le mani senza sapere come gestire la marea di fantasie che mi investono, con tutte le possibili combinazioni di finali: un arcobaleno che spazia dal suo sdegnato e fermo rifiuto – con tanto di denuncia interna aziendale per condotta scorretta - a lei che si alza la gonna per regalarmi la vista del suo pube peloso dietro mutandine troppo piccole per contenerlo, invitandomi a portare le mie dita in mezzo alle sue cosce e alle sue ricche labbra, per toccare con mano la sua eccitata umidità.
Torno al mio posto cercando di dissimulare l’eccitazione per quella stanza deserta abitata solo dai nostri due corpi e dalle mie fantasie, senza avere idea di cosa la trattiene realmente in ufficio con me.
Era tutto il giorno che negoziavamo attorno ad una serie di spettacoli teatrali per uscire la sera, magari coinvolgendo altri colleghi.
E lei mi si fa vicina, appoggiandosi alla mia spalla, per guardare lo schermo del PC assieme a me, saltando di pagina in pagina, di programma in programma.
La sento. Sento il suo corpo lì ad un millimetro, la sua bocca vicina al mio collo. Sento il suo odore tenue, un po’ di profumo, forse il detersivo dei panni. Vorrei sentire il suo odore di donna, il suo sudore dopo una giornata chiusa in ufficio, un’intimità concessa solo a me che divido la stessa aria con il suo corpo.
Il suo seno mi tocca la spalla, e noi discutiamo del programma di tal teatro, contro la locandina di quell’altro teatro.
Il suo seno mi tocca la spalla e lei mi parla di attori ed orari all’orecchio, prigionieri nello stesso millimetro quadrato.
La mano sul mouse trema. Mi fermo.
“Rosa. Non so come dirtelo: ho un debole per te e in questa situazione… non voglio fare casini, non voglio crearti problemi a lavoro. Se mi vedi che divento troppo insistente, dimmelo e tornerò al mio posto. Non voglio crearti casini”
Rosa da china si rimette dritta, indietreggia un poco, mi guarda stupita, non commenta.
Solo un “oh!” esce dalle sue labbra tonde, la forma di quella sera che - eroicamente - la salvai dalla tartina al formaggio.
Avrei voluto tuffarmi io in quelle labbra tonde.
Ma lei torna silenziosa alla sua scrivania…
Il periodo funestato da viaggi all’estero era tanto stimolante quanto destabilizzante.
Ritrovarsi nella hall dell’ennesimo albergo di lusso, partito prima dell’alba per l’aeroporto, il sonno che si impossessa di te prima che l’aereo abbia cominciato a rullare sulla pista, gli occhi che si riaprono su un panorama di nuvole bianche che disegnano paesaggi da sogno, le voci attorno a te che parlano lingue incomprensibili e sempre diverse.
Non era facile ricordarsi che quella non era la vita normale e vivevo ogni giorno in attesa di una svolta inaspettata.
Quando poi anche la normale vita di ufficio fu investita dall’imprevista presenza di una donna, di una nuova collega, con il suo caschetto di capelli un po’ ricci, gli occhi felini, la figura piccolina che, misteriosa, si aggirava per le stanze con le sue curve morbide, mai celate dagli abiti… a quel punto il mio inconscio, abituato a colleghi maschi, alzò le mani dichiarando la resa a tutto ciò che sarebbe potuto succedere.
Rosa si ricordava di me, si ricordava di esserci incrociati presso la sede dove aveva lavorato fino a poche settimane prima. Aveva chiesto di essere spostata presso l’ufficio centrale per sfuggire alle piccolezze della provincia, guidata dal suo gusto per la scoperta, per le novità, per la vita pienamente assaporata.
E per sfuggire dai ricordi dell’uomo che l’aveva lasciata dopo che lei aveva cambiato città per lui.
Io invece avevo cominciato a scoprirla piano piano, giorno dopo giorno, caffè dopo caffè.
Ed i racconti delle sue infinite battaglie tra diete e piacere per vino e cibo, così come dei duelli tra mentalità di provincia e danza del ventre, battaglie per i diritti degli omosessuali e viaggi e stage di burlesque, i suoi racconti – dicevo - lasciavano trasparire una dirompente sensualità che all’apparenza solo io (e poi un altro collega, scoprii) sembravo cogliere, tra tutti gli uomini dell’ufficio.
Ovviamente, alle altre poche donne in sede non sfuggiva nulla, invece.
La figura di Rosa mi si piantò in testa.
Ed io cominciai ad alimentare il nostro rapporto con ogni mia passione, trovando dall’altra parte sempre una pronta risonanza.
Che si parlasse di storia della musica e madrigali, di gallerie d’arte, di matematica e stelle o della mia pronuncia d’inglese (lei che dichiarava di ascoltare con delizia le mie call con l’estero).
Ma anche che il tema fosse cucina mediorientale o sushi, creme o biscotti secchi, vino rosso o vino bianco.
E infine che si discutesse della preferenza degli uomini tra donne magre o curve più morbide, tra intimo di pizzo e mutande di cotone bianco (io che mi dichiaravo strenuo e stremato difensore delle seconde).
L’unico mistero restava la sua vita sessuale: impossibile pensare che le sue vivide passioni non includessero una certa cura per le necessità del suo sesso. E nelle carbonare chiacchierate che la riguardavano, con Giovanni – che condivideva con me la passione per Rosa – immaginavamo il suo vibratore di fiducia, a cui magari aveva dato un nome, a tenere in allenamento i muscoli della vagina in caso di prolungata mancanza di uomini degni introdursi dentro di lei.
Un tormento di stimoli che mi fiaccava ad ogni pausa caffè, la testa troppo vuota e troppo piena allo stesso tempo.
Ed il mio membro laggiù, a reclamare la sua parte fregandosene del lavoro d’ufficio.
Mi accorsi presto di una cosa: Rosa sembrava mia moglie quando ci eravamo conosciuti; era un viaggio nel tempo, l’eccitante scoperta di qualcosa di familiare. Così, ipocritamente, giustificavo l’energia vitale che stavo spostando via da casa per riversarla su quella figura dai fianchi tondi e dai seni avvolgenti.
E poi ci furono due episodi che segnarono il mio tempo sotto l’influsso di Rosa.
Cena aziendale di Natale, lei che si presenta con gonna corta, calze scure ed un incredibile camicetta nera trasparente a far intravedere il reggiseno occhieggiare dietro un grande fiocco nero di pizzo attorno al collo. Dissimulo l’assoluta adorazione.
Fianco a fianco ci aggiriamo tra il buffet, lei prende una tartina, le sue labbra si aprono e lei la sta poggiando sulla lingua.
“Rosa, ferma”, le tocco il braccio con una mano.
“Cosa?”
“Formaggio. La tartina è al formaggio!”
Io che ho registrato tutto di lei, sono arrivato a conoscerne anche le idiosincrasie alimentari.
Lei si blocca per un attimo, forse stupita della mia familiarità con i suoi gusti; e lentamente allontana la tartina dalla bocca e dalle labbra.
Me la porge.
Per un attimo non so cosa fare.
E infine la porto alle mie labbra e la mangio.
Un’innocente gesto, ma la mia mente non smette di pensare all’incontro per procura delle nostre lingue.
E’ come se stessi introducendo Rosa dentro di me.
Quando sono io che languo da mesi per entrare dentro la sua intimità.
Lei capisce perfettamente. Credo.
La sera prosegue in un inferno di non-detti, io che mi aggiro a notte fonda attorno alla sua stanza sperando in un incontro fortuito che possa sollevarmi dalle mie responsabilità per gettarmi tra le sue gambe, immaginandomi introdotto nella sua camera tra intimità ed abiti smessi e le sue mutande distrattamente lasciate chissà dove: il mio viso tra le sue cosce, il mio naso tra i suoi odori.
Ma nulla: riverso la mia agitazione su un pianoforte solitario lontano dalle stanze, suonando Billy Joel come un tristissimo pianista da pianobar.
E pochi giorni dopo siamo di nuovo in ufficio.
Rimasti solo noi due a lavorare a sera tardi.
Mi chiudo in bagno sedendomi per terra, testa tra le mani senza sapere come gestire la marea di fantasie che mi investono, con tutte le possibili combinazioni di finali: un arcobaleno che spazia dal suo sdegnato e fermo rifiuto – con tanto di denuncia interna aziendale per condotta scorretta - a lei che si alza la gonna per regalarmi la vista del suo pube peloso dietro mutandine troppo piccole per contenerlo, invitandomi a portare le mie dita in mezzo alle sue cosce e alle sue ricche labbra, per toccare con mano la sua eccitata umidità.
Torno al mio posto cercando di dissimulare l’eccitazione per quella stanza deserta abitata solo dai nostri due corpi e dalle mie fantasie, senza avere idea di cosa la trattiene realmente in ufficio con me.
Era tutto il giorno che negoziavamo attorno ad una serie di spettacoli teatrali per uscire la sera, magari coinvolgendo altri colleghi.
E lei mi si fa vicina, appoggiandosi alla mia spalla, per guardare lo schermo del PC assieme a me, saltando di pagina in pagina, di programma in programma.
La sento. Sento il suo corpo lì ad un millimetro, la sua bocca vicina al mio collo. Sento il suo odore tenue, un po’ di profumo, forse il detersivo dei panni. Vorrei sentire il suo odore di donna, il suo sudore dopo una giornata chiusa in ufficio, un’intimità concessa solo a me che divido la stessa aria con il suo corpo.
Il suo seno mi tocca la spalla, e noi discutiamo del programma di tal teatro, contro la locandina di quell’altro teatro.
Il suo seno mi tocca la spalla e lei mi parla di attori ed orari all’orecchio, prigionieri nello stesso millimetro quadrato.
La mano sul mouse trema. Mi fermo.
“Rosa. Non so come dirtelo: ho un debole per te e in questa situazione… non voglio fare casini, non voglio crearti problemi a lavoro. Se mi vedi che divento troppo insistente, dimmelo e tornerò al mio posto. Non voglio crearti casini”
Rosa da china si rimette dritta, indietreggia un poco, mi guarda stupita, non commenta.
Solo un “oh!” esce dalle sue labbra tonde, la forma di quella sera che - eroicamente - la salvai dalla tartina al formaggio.
Avrei voluto tuffarmi io in quelle labbra tonde.
Ma lei torna silenziosa alla sua scrivania…
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