Un sorprendente antidepressivo

di
genere
etero

“E dopo la lievitazione questo è il risultato, guardate che bella palla liscia e morbida!
Adesso impastate così, tirate ai lati poi riportate le estremità al centro e riunite l’impasto, aventi e indietro con forza, FORZAAAA. A Martì, eja, e chist’è fuorz?!”
Il suo tono di voce non era certo da rimprovero, ma in quel periodo dentro di me cadevo a pezzi.
Bastò quella semplice esortazione a farmi scoppiare in lacrime; mi tolsi il grembiule e scappai via, lasciando lo chef attonito.
Probabilmente si stava chiedendo se avesse fatto qualcosa di male, cercando nello sguardo dei miei compagni di corso un cenno di risposta.

La verità è che quando sei al limite basta niente a farti crollare: avevo ventiquattro anni e studiavo alla Cattolica da fuori corso; ormai mi mancavano quattro esami ma lentamente sentivo di non avere più interesse a fare nulla, semplicemente non riuscivo a visualizzare un futuro.
Avevo fallito.
Quando per tutta la vita sei tra le migliori della classe, quando sei convinta che certe sfighe – tipo il tuo ragazzo del liceo con cui eri sicura di sposarti ti lascia dopo l’Erasmus- capitino solo agli altri, è difficile accettare di aver fallito, reinventarti un’esistenza in cui non avrai la vita perfetta (non che sognavi, ma) che eri convinta sarebbe arrivata.
Ero cresciuta in una famiglia in cui vigevano alcuni semplici dogmi: eccellere negli studi, essere magri, frequentare i propri simili; e c’era la sottile convinzione che se una persona non fosse bella, ricca, di successo, in qualche modo la colpa era solo sua.
Insomma, viaggiavo con passo andante verso la depressione: uscivo di casa solo per correre due ore al giorno, avevo perso tantissimi chili – ed essendo già magra, iniziava a diventare un problema- studiavo per inerzia e dormivo per il resto del tempo.
Mia madre non era un grande supporto psicologico – pesava a entrambi i miei genitori l’orribile onta di avere una figlia fuori corso- ma quando si rese conto che la situazione si stava aggravando, nella speranza che ricominciassi a mangiare, mi iscrisse a un corso di cucina- corso raccomandatole da una di quelle sciure col foulard di Hermes con cui giocava a carte il sabato pomeriggio.

Ma ecco che dopo un solo appuntamento sentivo di non essere in grado neanche di impastare il pane!
Rimasi a piangere in auto per mezz’ora prima di tornare a casa, chiudermici dentro e proseguire così fino ad addormentarmi.
Il giorno dopo mia madre – che come dicevo non era una persona particolarmente comprensiva né empatica- mi costrinse a tornare al corso facendo leva sui miei sensi di colpa, dato che lei aveva già saldato l’intero importo.
Mi recai controvoglia, infilai il grembiule, feci un cenno di saluto ai presenti.
Lo chef si comportò come se non fosse successo niente, spiegava i passaggi a voce alta mescolando italiano e napoletano, ci divertiva con battute pungenti, ogni tanto canticchiava… bisognava riconoscergli un certo carisma, tanto che al terzo appuntamento mi recai con un atteggiamento ben diverso, fino a quando al sesto addirittura mi sorpresi contenta di andarci.
Ogni volta che il corso terminava, assaggiavamo i piatti che avevamo preparato, ma cercavo di evitarlo perché avevo lo stomaco perennemente chiuso.
Eppure guardavo lo chef addentare un pezzo di pizza e masticarla come se fosse la cosa più buona sulla terra, e aveva un modo di mangiare straordinariamente sensuale…
In quel periodo non provavo alcuna gioia di vivere, niente mi dava piacere; erano mesi che non mi toccavo – mai accaduto per un periodo così lungo da quando avevo undici anni!- ma quell’uomo muoveva la mascella in un modo che…
Quella sera mi tornò l’impulso di toccarmi ma non portai a termine il lavoro perché mi colse all’improvviso un profondo senso di tristezza.
Durante l’incontro successivo percepii più distintamente i suoi occhi su di me.
Mi guardava così anche prima? Perché non ci avevo fatto caso?
Silvia mi avrebbe detto che “sì certo, sei bellissima, è normale che un uomo ti guardi, come fai a non accorgertene?” ma mi sentivo uno sgorbio rattrappito, autostima non pervenuta.
Al termine, tutti uscirono ma lui mi chiese di restare “Posso parlarti un attimo?”.
Sospirai profondamente, temevo la classica conversazione che prova a imbastire una persona in buona fede ma limitata, che si rende conto che stai male ma non sa che pesci prendere.
Non intendevo parlare della mia vita con nessuno perché temevo il benaltrismo sotteso nel retropensiero altrui.
“Sentì Martì, te vuless dì che sabato prossimo teng nu cuors a Napoli…” mi spiegò che il corso si sarebbe svolto in un luogo molto suggestivo. Poteva essere un’idea per un fine settimana diverso dal solito, e me la condì parlando di bellezza, e bellezza, e ancora bellezza.
“si vuò, una volta finito, ti faccio vedere nu poco di Napoli e ci mangiamo insieme ‘na bella pizz’”.
Fatto sta che questa bellezza mi risuonò in testa per tutta la sera, con la sua pronuncia musicale e simpatica, e alla fine “’a bellezz ‘a bellezz” vinse tutti gli ostacoli che l’apatia era così brava a farmi immaginare.

Sabato alle sedici mi trovavo dietro a un tavolo con altre sei persone, Antonio aveva posizionato il proprio tavolo davanti a noi; ai lati ci circondavano maestose rovine decorate da pittura pompeiana di primo stile, abbracciate dall’edera, mentre davanti si apriva una vista sconfinata sul mare, incorniciata da cascate di bouganville, gelsomini e aranci in fiore.
Sembrava una specie di sogno.
Dopo aver realizzato quella che poteva essere la migliore pizza con le scarole della mia vita, tornai in camera a cambiarmi per incontrare Antonio e fare il giro della città che aveva promesso; ero di buon umore e indossai un vestito corto, bianco con stampa di grandi fiori rossi acquerello che esaltava le gambe e il punto vita e un paio di sandali.
Antonio mi aspettava in strada seduto sulla moto sorridente e con un mazzo enorme di rose rosse tra le mani.
Scoppiai a ridere per la sorpresa e l’imbarazzo, corsi a ringraziarlo e consegnai le rose alla reception per farmele portare in stanza.
Passammo il resto del pomeriggio a visitare posti meravigliosi e opere d’arte mozzafiato, come il Cristo Velato, Monte Echia, le 13 discese.
Ci recammo, per cena, in una tipica trattoria locale, dove i ragazzi che ci lavoravano lo salutarono con gioioso baccano e cenammo all’aperto accompagnati dalle loro battute chiassose e dalla musica tradizionale suonata da un artista di strada.
Quella città era magica: ogni cosa sembrava traboccare di passione per la vita. Il pensiero mi commosse, e mi resi conto che per la prima volta da mesi potevano essere lacrime di gioia.

Nel frattempo potevo godermi nel privato il sublime spettacolo di guardare Antonio mangiare… era mostruosamente sensuale nel modo di ripulire un’ostrica dal suo interno, mordere il pane, ripulirsi la barba dal sugo, e trovavo stranamente virile il fatto che mangiasse anche ciò che qualcuno di più schizzinoso avrebbe lasciato nel piatto.
Gli piacevano i sapori forti e piccanti, era quasi eccessivo riempire gli spaghetti di olio al peperoncino eppure anche questo aspetto mi provocava dei brividi di piacere…
Fu una delle prime sere in cui riuscii a terminare con gusto un pasto intero.
Dopo un’emozionante passeggiata notturna tra i quartieri spagnoli mi accompagnò in hotel, e una volta parcheggiata la moto, mi cinse con un braccio attirandomi a sé.
“Martì, si na Bellezz’.”
I nostri visi erano molto vicini.
“Mi sei piaciuta ‘a primma vista.”
Adoravo il suo modo di prendere iniziativa. Sorrisi, e mi baciò.
Un bacio intenso, passionale, mentre con una mano mi toccava i capelli e l’altra mi stringeva a sé.
Senza dire nulla, mi scostai lentamente, scesi dalla moto e andai verso l’ingresso seguita da lui.
La camera era affacciata sul mare e l’interno illuminato da un candido plenilunio.
Mi spogliò con veemenza, restammo nudi nel giro di trenta secondi, tuffò il viso tra le mie cosce e leccò avidamente facendo anche commenti su quanto gli piacesse il mio sapore.
Non ero mai stata a letto con un uomo di quella stazza, era il doppio di me in lunghezza e larghezza, e fu un piacere sentirmi così piccola tra le sue sapienti e forti mani.
Mentre mi leccava con passione mi girai sopra di lui in modo che lui, sdraiato sul pavimento, continuasse a mangiare la mia piccola e liscia fighettina e io potessi ricambiare accogliendo il suo largo cazzo in bocca.
Gemendo per il sublime piacere che mi provocava con la bocca, lottavo per accogliere tutto il cazzo in gola, fottendolo con foga crescente massaggiandogli le palle e stimolando di tanto in tanto la cappella con la lingua.
Lo sentivo vibrare di piacere, il suo cazzo era sempre più duro e proseguimmo così per una buona mezz’ora, fino a quando inevitabilmente, usando anche le dita, mi fece squirtare in modo indecoroso, e solo allora esplose anche lui innaffiandomi bocca e viso con il suo delizioso sperma, e mi guardò esausta ma ancora vogliosa leccare tutto fissandolo negli occhi.
Antonio divenne una specie di droga, mi riportò inconsapevolmente alla vita.
Non riuscivo a stare per più di tre giorni senza di lui, avevo il perenne desiderio che mi scopasse con passione, dicendomi tutte quelle oscenità in napoletano, violando tutte le mie barriere fisiche e mentali.
Ci frequentavamo regolarmente da un paio di mesi, quando una sera dopo il corso, non potendo attendere il nostro appuntamento che sarebbe stato tre giorni dopo, mi trattenni sperando di essere scopata.
In quei due mesi ero tornata ad avere un corpo sano, allenato, ma con le curve giuste. Avevo recuperato la mia terza di seno e il sedere alto, tondo e sodo che le amiche mi avevano sempre invidiato.
“Martì mi fai uscì pazz’” mi disse alzando il vestito e accorgendosi che non indossavo gli slip.
Si posizionò dietro di me e iniziò a parlarmi all’orecchio “Sacc'io che vulisse… o Sacc’ ammore mì”
E iniziò a stimolarmi il clitoride palpandomi con l’altra mano il seno.
Sentivo la sua erezione che strusciava deliziosamente contro al culo; con la mano che palpava liberò il cazzo dai pantaloni e lo appoggiò tra le labbra fradicie.
“Stasera cambiamm nu poco, che ne dite?”
“Tonì fammi quello che vuoi… fai sempre quello che vuoi e lo adoro…” gli dissi senza pensare, in preda all’estasi.
Fece suonare entrambe le mani sul mio culo con una sculacciata
“Che cc' facimmo cu chistu culo, O' guardammo sulamente?”
Si versò un po’ di olio sull’indice e iniziò ad accarezzarmi la fessura serrata.
“Tonì… oddio…” mi baciò mentre con il dito effettuava movimenti circolari aumentando la pressione fino a sipingere dentro la prima falange. Mi piaceva da morire. Inserì anche la seconda, e iniziò a muovere il dito dentro e fuori senza smettere di baciarmi con ardore. Sentiva che a poco a poco si apriva, e inserì un altro dito. Mi sfuggì un gemito, ma continuò, e infine appoggiò la punta cosparsa d’olio extravergine di oliva di un pluripremiato frantoio del casertano.
“Martì fammi fare… A primma parte fa male, ma po' fa' buono… fidati…” mi parlava all’orecchio mentre spingeva dentro la punta “fa’ buono…” afferrandomi con forza per i fianchi per evitare i miei involontari tentativi di spostarmi avanti.
“Siente comme entra.. Sembra 'e taglià 'o burro. Siento che 'o vuò" mentre gemevo sentivo che mi stava penetrando lentamente ma inesorabilmente; quel dolore sopportabile, l’eccitazione, le sue parole all’orecchio, la sua forte stretta, il senso di impotenza: tutti questi elementi insieme mi facevano godere come mai nella vita, e comunque non avevo altra scelta che lasciarlo finire il lavoro…
“Fammi entrare Martì” continuava a parlare, e io annuii tra i lamenti, e sentii affondare tutto il cazzo fino alla base; faceva male, ma era anche così gradevole…
Iniziò a spingere piano, poi a poco a poco sentiva il buchino cedere e aumentò il ritmo descrivendomi all’orecchio le sue sensazioni, dicendo che godeva tanto a sentire il muscolo stretto ben lubrificato che gli massaggiava il cazzo, che ero brava a farlo godere così, che il mio culo meritava una visita del genere, era davvero sprecato a non farsi mai scopare.
Ero eccitatissima quando lui riprese a massaggiarmi il clitoride facendomi gridare dal piacere con un orgasmo che sembrava infinito; a quel punto spinse con forza fino a riempirmi di sperma e nello sfilare il cazzo guardò con soddisfazione il buco aperto e gocciolante.
Stesi sul pavimento quasi in fin di vita, lo baciai e gli feci promettere di fottermi così il culo almeno una volta a settimana.








scritto il
2024-09-04
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