Suave, mari magno...

di
genere
confessioni

Per molto tempo non ho compreso come si potesse vivere un’esistenza di emozioni tiepide.
Il ricordo del momento in cui, dieci anni fa, ero legata con delle fascette di plastica, e un ragazzo che conoscevo a malapena mi scorreva una lama lungo la schiena, definisce il limite estremo cui mi ha condotto questa convinzione; la ricordo altresì come una delle esperienze fisicamente più appaganti ed emotivamente più dolorose della mia vita.
In quel periodo c’erano molti motivi che concorrevano a non rendermi felice, per cui avevo un grande desiderio di evadere; lo conobbi a una festa in cui molti ragazzi ci provavano con me e io avevo voglia di scopare ma i corpi statuari e i cazzi enormi mi avevano annoiata.
Lui si era presentato in smoking; nonostante fosse preceduto da un ego abnorme, fui io a farmi avanti, scoprendo una persona con cui potevo avere un dialogo alla pari- evento tragicamente raro in una dinamica sessuale o romantica.
Non ci andai a letto quella sera, ma iniziammo a sentirci con una frequenza anomala sovrapponendo vita privata a giochi sessuali; viveva lontano, era impegnato, era un traditore seriale, non aveva l’atteggiamento di una persona sinceramente interessata a legarsi a un’altra; di contro, io avevo iniziato a provare indefinibili sentimenti nei suoi confronti -e quanto mi pesa ammetterlo anche a distanza di dieci anni!
Eppure… suave, mari magno: ripensare oggi a quella catastrofe emotiva ha il sapore sublime e orrifico di certi dipinti di Fussli.
L’incontro successivo si tenne nel buio di un tardo pomeriggio invernale in una località di mare, dove la desolazione delle strade era accentuata dall’insegna luminosa, appannata dalla nebbia, dell’unico bar che aveva l’ardire di rimanere aperto.
In casa e’era la tipica aria rarefatta delle case rimaste chiuse a lungo, e il calore dei radiatori appena accesi non aveva raggiunto la temperatura ottimale.
Ho sempre subito il fascino delle case al mare, che vengono aperte occasionalmente fuori stagione per attività che per un motivo o per un altro vanno tenute nascoste.

Mi bendò senza dire una parola e mi infilò in bocca un ball gag; strinse le mollette sui capezzoli e iniziò a giocare con la cera; poi mi colpì con un frustino l’interno coscia intervallando i colpi con parole che non ricordo, camminando intorno alla stanza per darmi qualche istante di tregua dopo aver colpito forte, e prima di ricominciare.
Ero così eccitata che sentivo i fluidi colarmi lungo le cosce senza soluzione di continuità.
A un certo punto decise di penetrarmi, e tentò di farlo senza preparazione ma lo pregai di infilarci prima le dita, quindi accolse la richiesta infilandoci tre dita tutte insieme, ruotando in senso orario e antiorario, senza pietà, e poi di colpo, il cazzo fino alla base, spingendo forte da subito, ignorando i miei gemiti e le mie richieste di fare più piano.
Del resto, avevo sempre la safe word… ma non la usai, perché per la prima volta qualcuno realizzò una delle mie fantasie più inconfessabili: da maniaca del controllo combattiva, dominante, aggressiva, non c’è niente di più scandaloso che immaginarsi qualcuno più forte di te che ti obbliga a subire e a fare cose che ti fanno male o di cui ti vergogni, o ancora meglio, tutte e due le cose insieme (come quando ti scopa il culo mentre non puoi fare niente per impedirlo) è una sensazione divina.
Dopo essere venuto – io non raggiunsi mai l’orgasmo- ci rivestimmo e proseguimmo la serata a parlare del più e del meno, di interessi in comune, come se nulla fosse accaduto.
Glielo chiesi io dopo un paio d’ore – già che c’ero, volevo godere fino in fondo- di essere sculacciata di nuovo.
Ricordo la sensazione delle mie anche nude sui suoi pantaloni eleganti, le sue mani che accarezzano, palpano, e poi colpiscono; ricordo il dolore fisico, l’adrenalina che spegne pensieri ed emozioni per dare spazio esclusivamente al piacere, intensissimo, del colpo ricevuto, della pelle infiammata, della carne esposta, offerta, del pudore forzatamente violato.
Ma quando usò lo zenzero urlai, non riuscii a stare ferma, violai tutti i suoi ordini, insomma feci un disastro fino a quando il bruciore fu così insopportabile da costringermi a usare la safe word.
Lui lo tolse immediatamente; stizzito per quell’insubordinazione mi punì frustandomi con una frusta di cuoio, lasciandomi grossi segni scarlatti sulla schiena.

Il giorno seguente mi svegliai in un letto che non era mio, accanto a un ragazzo che non era il mio ragazzo, che mi piaceva troppo, ma che non mi sarebbe mai appartenuto, col quale godevo, ma con cui non stavo condividendo alcuna vera forma di intimità.
E quel profumo che aveva, raffinatissimo, introvabile, le cui note olfattive si erano marchiate a fuoco nella mia memoria, in seguito, per un periodo indefinibile, mi avrebbero reso la vita un inferno.

Un’angoscia fortissima mi strinse il cuore; inoltre mi sentivo a disagio all’idea che mi avrebbe vista appena sveglia, condividendo con un semi sconosciuto le prime ore del mattino.
Era tutto mostruoso, mi sentivo sopraffatta, volevo scappare, volevo SPARIRE.
Oppure, semplicemente, volevo quel tipo di piacere in una dinamica di altro tipo, una dinamica in cui l’altra persona potesse offrirmi anche altro.
Me ne andai da quella casa ancora eccitata e con la morte nel cuore; nei giorni successivi ammirai l’opera che mi aveva lasciato sul corpo, i segni sulla schiena e sul culo, indicibili altre parti del corpo che mi facevano male e col dolore rievocavano le sensazioni sublimi di quando ero tra le sue mani.

Passarono anni, da quell’evento, prima che riuscissi a godere di nuovo scopando in modo normale, accontentandomi di nuovo di bei corpi che non mi trasmettevano niente; e alla fine ho trovato anche tanto altro, ma mai più quel tipo di piacere che, al contrario, adesso sono io a dare.
E alla fine va bene così.








scritto il
2024-09-19
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