Il vento di scirocco (1a di 3)
di
Erasmo
genere
tradimenti
Ragionando da un punto più alto, da una prospettiva più elevata, quando ormai gli anni hanno superato i 30, ci si accorge che le cose che hanno segnato in maniera preponderante il nostro percorso, facendoci diventare quello che siamo, sono davvero poche.
Un treno banalmente perso, e nell'attendere quello successivo, ci ha fatto incontrare la persona che ancora ci sta accanto; una banale febbre che ci ha costretto a letto quel capodanno, ed il tuo lui del periodo ti ha tradita, e quindi non hai più voluto vederlo; una tragica rottura di un profilattico, che si è trasformata, dopo i primi disperati momenti in Andrea, o Marco, che ora ha 20 anni ed è felice, ed anche tu lo sei: o l'esatto contrario: ti ha rovinato l'esistenza...
Insomma senza quel treno perso, senza il termometro che ci ha bloccato amareggiati a casa, comprando un altra marca di profilattici, e non sempre quelli più economici, potremmo scrivere pagine completamente diverse di quello che siamo. E nessuno può dire, tranne che in casi eclatanti, se sarebbe stato meglio o peggio. Perché: se al bello c'è il bellissimo, anche al male c'è il malissimo. Nella mia vita, nel girotondi di pensieri e passioni la cosa più costante, che mi ha fatto divenire quella che sono è la malattia mentale.
E di quelle due parole, 15 lettere, tra vocali e consonanti, che terrorizzano i giganti e tutti quelli che si sentono indistruttibili, ne ho fatto una passione ed un mestiere.
Sono una psicologa e una psichiatra: una 'psicopsichiatrica', un po' 'psicosessuologa' e un po' pure 'psicoinfantile', così scherzando mi definiscono i colleghi.
Comunque credo, che rivedendo i perché sono quello che sono, devo dire che non avrei avuto altra possibilità, la pazzia, la demenza mi ha inseguito fin da piccola, il vento di Scirocco a spostato la rotta verso quell'oceano sedato dei disturbi mentali.
Mio padre era un docente di Economia e commercio, mia madre un'Etologa che girava il mondo per studiare il comportamento di animali che da bambina credevo fossero nati dalla fantasia dei fratelli Grimm.
Entrambi provenivano da famiglie dell'alta società, dell'aristocrazia, e di sicuro mio fratello Filippo, che aveva scelto Giurisprudenza, ed ora era un avvocato di successo, aveva fatto contenti molto di più i miei di me, che "avrei fatto una vita di sacrifici su casi umani, spesso con poche o senza speranze", diventando psicologa.
Ma se come dicevo prima c'è un qualcosa che decide il sentiero da percorrere, di sicuro il 'vigile' che per primo mi ha indicato la via è stato Orazio, pazzo filosofo eremita, così lo descrivevano i paesani, che viveva a quattro chilometri verso la cima della montagna dal paesino sperso nelle Alpi, dove passavamo tutte le estati nella casa di villeggiatura a 1543 metri sul mare.
Un pomeriggio nell'andare a passeggio da sola, avevo solo 7 anni, ho imboccato un sentiero che non conoscevo e mi sono persa. In realtà ero a poche centinaia di metri da casa, ma il senso di smarrimento e la paura di non trovare la via del ritorno, non mi avevano impressionato più di tanto. Mi avevano sempre spiegato che se ci si perde, la miglior cosa da fare è semplicemente fermarsi, ed aspettare, spostandosi avrebbe reso le ricerche molto più complicate. E così al bordo di un sentiero mi ero seduta, ero certo un po' spaventata, la sera era incombente; poi un rumore tra uno cespuglio, un grosso cane, enorme, bianco, peloso è uscito dalla vegetazione e mi è arrivato addosso, io ho iniziato a piangere, il cane mi guardava ad un metro, ho abbassato il viso a mi sono coperta con le mani gli occhi e tremavo, singhiozzando, poi un fischio, ho alzato lo sguardo il cane si era accucciato davanti a me, non mi aveva attaccato; e un uomo scuro con la barba stava risalendo il sentiero. Tremavo ancora terrorizzata, la sua barba, il suo bastone, il cane per me era la fine? La sua baritonale voce: «Socrate, vieni qui. Hei piccola cosa ci fai qui? Ti sei persa? Non avere paura, Socrate è più buono di molta gente, stai tranquilla ora ti riporto a casa.» Seduta la prima cosa che ho sentito, e stata la lingua calda e bagnata del cane che mi 'slapazzava' la mano con la quale mi tappavo gli occhi. Mi ha ricondotta a casa, e non ha detto una sola parola sul fatto, accennando alla nonna poche parole di saluto, alla quali lei aveva risposto in maniera imbarazzata, con uno sguardo strano, con gli occhi che pensavano lontano. Nonno Marco a cena, saputo il fatto, mi aveva detto: «Ora sai che è il filosofo matto della montagna, quello ha mollato tutto, ha regalato tutte le sue ricchezze e si è rintanato qhi, sempre solo, o meglio sempre con il cane.»
Lavoro in una struttura ospedaliera pubblica, sono vice direttrice del Servizio Psichiatrico, il lavoro mi piace, anche se spesso le sconfitte sono più che le vittorie in questo campo. Ogni tanto, nei momenti di scoramento penso che se avessi fatto ortopedia, o chirurgia, una volta fatta bene l'operazione del caso, il paziente non lo avrei più visto ed avrei migliorato, se non addirittura salvato, la sua vita; la psichiatria non è così, una persona può sembrarti perfettamente guarita, ed una settimana dopo avere una ricaduta peggiore di quando l'hai presa in cura.
Quando io e mio fratello gemello Filippo avevamo 15 anni, in casa cambiarono molte cose, e da quegli eventi anche la nostra vita seguì inevitabilmente un divenire diverso, una potente traccia di tristezza segnò le nostre esistenze.
Camilla, mia madre, rimase incinta, aveva 40 anni, ed appena apprese questa inattesa notizia ce la disse con un'euforia inimmaginabile, con un calore impensato per una donna fredda che pareva sempre non provare nessuna emozione, e ci fu come una rinascita, uno riscoprire nostra madre una donna diversa: solare, sempre pronta per noi, attiva, piena di voglia di fare quello che fino a prima era tabù ora sembrava divertirla. Mio padre Ludovico, che aveva 45 anni, mal sopportò quel test di gravidanza, richiudendosi in lunghi silenzi, e dal suo studio dopo il lavoro usciva solo per cenare, usando le parole solo lo stretto necessario.
Poi un pomeriggio, scoprì i motivi di questo cambiamento. Loro erano convinti di essere soli nella nostra grande villa, erano certi che io e Filippo fossimo a la scuola, quel giorno la cameriera era malata, ed era lei a pensare a noi, ma io ero tornata prima dalle lezioni e scendendo piano le scale mi imbattei in un discorso tra i due. Mio padre con voce greve aveva iniziato a dire: «Camilla devi essere onesta con me, mi credi stupido, vuoi continuare con il giochetto della Madonna vergine, incinta per volontà del signore, io sono stufo, se vuoi tenere la tua, ribadisco 'tua' creatura, io me ne vado di qui. Non è figlio mio e tu lo sai, mi hai tradito, con chi? Con Franco il tuo collega? E' inutile che ti nascondi, io non accetterò in casa mia un figlio bastardo, nato dalla tua sfrenata lussuria, dal tuo essere una grande... la tua facciata da santa che dai verso il mondo esterno, tutte le tue falsità, cosa credi che sia cieco, che non abbia capito che vai a letto con chi capita da anni, almeno cinque te ne sei 'passati'.. non mentire, se tu porterai avanti la gravidanza farò fare le analisi del dna e come è certo che sia, i risultati non combaceranno con il mio genoma, porterò tutto da un avvocato e ti lascerò senza neppure un paio di scarpe. Ci penserà Franco a mantenerti, e spiegherò tutto ai nostri figli, sono abbastanza grandi da capire che donna sei, ed i tuoi capricci...» Lei piangeva singhiozzando, cercava di controbattere, ma le lettere uscivano sommessamente, quasi balbettate, fino a quando cercò un'ultima difesa: «Ludovico, non c'è nulla tra me e Franco, sei tu il padre di... sei tu, te lo giuro» Un colpo fortissimo vibrò nella casa, mio padre aveva tirato un pugno sul tavolo e gridando aveva attaccato distruggendo ogni possibile parola di mia madre: «Ma che cazzo dici, ti ricordi 4 mesi fa, il disturbo che avevo per quella cistite? Te lo ricordi? Ecco già che c'ero mi sono fatto fare analisi approfondite, e hanno trovato che la mia spermatogenesi, i miei spermatozoi sono troppo pochi per poter fecondare un ovulo. Capisci cosa cazzo, voglio dire? Io fisiologicamente non posso essere il padre del bastardo che sta dentro te, ora cosa mi dirai dell'Arcangelo Gabriele, della volontà del Signore, o di te che sei una grandissima puttana, e la dai da anni a tutti quelli che ti danno un minimo di attenzione. Cosa credi che non avrei potuto farlo anch'io, mai o ho un'etica, una morale, ci sono dei figli da crescere, e non mi regalo alla prima che passa per strada. Concludo, ho l'aborto, tanto sei al primo mese, anche se sembra, da quanto ne parli, che devi partorire domani, oppure te la vedi da sola fuori da questa casa. I ragazzi staranno con me, altrimenti tutta la città saprà le tue pie e caste notti, con le mutande abbassate.»
Io nascosta nel sottoscala non respiravo, sentivo il pianto disperato di mia madre, e dopo alcuni secondi la porta di casa ha sbattuto. Non ci venne spiegato niente, mio padre per un lavoro all'estero sarebbe stato via un mese, la gravidanza proseguiva, ma anche dopo quel mese Ludovico, non fece più ritorno nella nostra casa, comprò un appartamento in centro dove noi per tutti i fine settimana stavamo con lui.
Venerdì, sabato e domenica, erano i giorni in cui stavamo con mio padre, gli altri nella villa con Camilla. Non avevano ancora parlato di divorzio, credo che lasciassero che la gravidanza avvenisse senza aggiungere altro stress, ma Ludovico era stato categorico con noi: «Non so e non voglio sapere, ma il figlio che nascerà non è mio, questo lo dovete sapere, io e vostra madre abbiamo deciso di lasciar passare questi mesi fino alla nascita, e poi prenderemo le decisioni definitive. Ma come potete immaginare la nostra storia è finita. Nessuno ha colpa o ragione, capirete quando sarete più gradi che in un rapporto lungo, non sempre tutto va come dovrebbe, poi vedrete voi con chi preferirete stare, ma per ora è ancora presto. Noi vi ameremo sempre e non vi mancherà nulla, state tranquilli.»
Io e Filippo, 15enni, avevamo da sempre avuto una sorta di timore verso quel padre tutto d'un pezzo e risoluto nel suo modo di parlare e di agire, ed anche il suo importante ruolo di economista, sia all'università che come 'giornalista tecnico' per una importante testata, ci aveva imposto un senso di rigorosa soggezione.
Un sabato, vedendo durante la settimana mia madre molto affranta e demoralizzata, cosa che dopo la lieta notizia non era mai successa, infatti sembrava non interessarle neppure un po' il fatto del trasferimento del marito, sono passata a trovarla. La casa era avvolta nel silenzio, i cani erano chiusi nel loro recinto, sembrava essere vuota. Ma salendo le scale, alcuni rumori hanno incuriosito la mia mente ed arrivando in camera dei miei sono rimasta pietrificata, mia madre nuda aveva il cazzo, di Franco il suo collega, in bocca. Una scena agghiacciante, lui disteso supino, e lei tra le sue gambe andava su e giù con la testa, con uno sguardo di pura estasi negli occhi. Ero giovane e solo il pensiero di mettermi in bocca una cosa da dove usciva la pipì, mi sconcertava e mi dava il voltastomaco. Ma quell'insano gesto, quel modo ritmato, quel leccare lento quella rosa cappella mi attirava, non riuscivo ad andare via dal mio nascondiglio. Quindi aveva ragione mio padre, era solo una facciata la religiosa e casta mamma che per prima varcava il portone della chiesa ogni domenica.
Ho continuato a osservare, e ad ascoltare le loro sconce parole, frasi che mi facevano arrossire di imbarazzo, frasi che uscivano da quelle labbra che mi avevano sempre baciata dolcemente, e detto parole d'amore e di conforto, labbra che ora si stringevano, dissolute e libidinose, avviluppate su un paletto di carne duro e turgido.
Poi Franco aveva fatto mettere mia madre a quattro zampe, io vedevo molto bene tutto dal posto dove ero ferma con il cuore in gola, dicendole: «Cami, sai che non riesco davanti da quando aspetti nostro figlio, te lo metto piano piano dietro, ok?» e dopo un lascivo «Va bene amore, fai quello che vuoi di me...» lui, facendo cadere saliva sul suo culetto e divaricando l'orifizio con le dita, l'ha penetrata, con un sobbalzo di Camilla, ed un lieve rantolo nella voce. Ai primi movimenti lenti, ed alle grida di dolore di mia madre, si sono susseguite spinte più forti, un 'ciac ciac' più rapido delle cosce di lui che sbattevano sui glutei di lei, e le grida sono diventate suoni orgasmici, strani 'vagiti' di puro godimento.
A quel punto imbarazzata e schifata, sono uscita di casa. Da quel giorno ho visto mia madre con altri occhi, per me era una persona diversa, e da quel sabato senza dover nessuna spiegazione ho vissuto sempre con mio padre.
Per la prima volta avevo visto una bocca baciare un pene, ed un pene varcare l'ano dove escono pipì e cacca. Dove gli scarti del nostro organismo uscivano qualcuno trovava il piacere, un piacere immondo, orripilante a mio modo di vedere da 15enne.
Di quel osceno pomeriggio, negli anni ne parlai solo due volte, una con Orazio a 18 anni, ed una con Camilla quando la sua via verso la predizione mentale era avviata e conclamata.
Nella prima, inesperta e per nulla curiosa, volevo parlarne con Orazio, uomo che aveva vissuto la vita, per cercare di capire i perché una donna arrivasse a tanto: ad una infedeltà con gravidanza, a fare sesso sul letto matrimoniale condiviso per anni con il marito, al dimenticarsi dei gemelli 15enni, in un'età di sviluppo e di crescita importante. Cosa poteva portare un così radicale decadimento della morale, se non la pazzia, la follia più pura.
E Orazio, forte del suo sapere e della sua enorme esperienza, mi aveva detto: «Cara Sara, l'amore è un miraggio, una cosa costruita dall'uomo, l'amore e come la religione, ci dà speranza nei momenti bui, e ci abbatte quando ci rendiamo conto delle menzogne a cui dobbiamo assoggettarci per crederlo reale. Nessun animale della terra, neppure i più intelligenti dei mammiferi prova un senso del genere. Pensa se un leone dovesse rimuginare e struggersi per ogni leonessa uccisa dai bracconieri o da un bufalo, sarebbero già estinti. L'amore è la cocaina dei popoli, il sogno irrealizzabile di qualcosa, che dovrebbe unire due corpi e due menti, ma nessuno, e ti dico nessuno può raggiungere tale livello di complicità, solo che ci fa star bene pensarlo. Quando, ormai anni fa, Lucrezia, mia moglie è morta, potevo rifarmi una vita, forse due, ed avrei ambito di trovare nelle nuove donne quello che avevo raggiunto con lei, o avrei voluto di più, cercando di colmare tutte quelle piccole, o grandi cose che mi facevo andar bene di Lucrezia, ma che sotto sotto non sopportavo. Ma anche la solitudine, la quotidianità snervante in certi periodi è difficile da abbandonare, e quindi spesso si resta immobili a subire passivamente, convinti di essere felici; o si salta il fosso, come ha fatto tua madre, ponendosi di fronte però alla gogna della società moralistica, che è sempre pronta a giudicare. Tua madre ha avuto un amante, forse tuo padre non le bastava, ma credo sia rimasta spiazzata della gravidanza, ed ha indugiato non sapendo cosa fare, sperando in un nuovo rifiorire, di poter riprovare la maternità con l'uomo che credeva di amare, cetra di essere contraccambiata.. Poi sappiamo come è andata...»
La seconda volta è stata con mia madre, gli ho spiattellato con tutto l'odio più profondo, cercando di sanare un mio gigantesco problema, non molto diverso da quello che aveva vissuto.
Ma sfogandomi con lei, facendole capire il suo comportamento indegno ed indecente cercavo solo di ripulire la mia di colpa. E quella volta, con mia madre già nel paradiso dei folli, mi aveva risposto in maniera sboccata e vergognosa: «Cara la mi dolce figlia, ora sei grande, ti piace il cazzo? Ti piace sentire le vibrazioni, quello sbrodolamento che ti provoca tra le cosce, ti gusta il sapore dello sperma dopo che le guance ti fanno male dal troppo succhiare? Dimmi, ti piace? O sei una lecca fica, un frigida di quelle: questo no, quello neanche? Rispondimi...» La sua veemenza mi aveva fatto pentire di averla attaccata, ma non riuscivo a rispondere, che lei incalzava a sparare su di me verdetti che erano tatuati dentro il mio essere, sebbene lei non ne sapesse niente. «Il tuo grande padre, il docente tutto d'un pezzo, non mi scopava mai, non gli è mai piaciuto, troppo preso dai libri e dai massimi sistemi economici per far godere sua moglie. A volte dalla voglia che mi portavo dentro se vedevo due babbuini, o due scimpanzé che si accoppiavano, e lo sai quanti safari ho fatto per lavoro, mi bagnavo le mutandine, sperando di essere quella femmina di scimmia. Lo capisci questo, la mia sessualità inaridita, dimenticata, oltraggiata. Sai come siete nati voi? Tutto in 15 minuti: entrato, ingravidata, uscito, lavato e via nello studio a leggere, che ancora avevo le gambe aperte mezza vestita. Hai 35 anni, sei incinta di cinque mesi, ti scopa bene il tuo Leonardo, ti fa sentire viva, ti dà quel brivido la notte? Ti mangia tra le gambe fino a che il cuore ti sembra scoppiarti in petto? Altrimenti dai in adozione il nascituro e trovatene un altro, oppure fai come le povere africane, che qui bastardi di uomini, se così possiamo chiamarli le infibulano per non provare più piacere. Con Franco mi sono sentita viva, ero la persona più felice del mondo, dargli un figlio... ma poi... vattene da qui e non permetterti mai più di giudicarmi, brutta ipocrita e bacchettona. Per anni ho sopportato le messe, la parrocchia, tutti i Cristi e le Madonne, ma "per uscire dall'inferno devi ballare con il diavolo" , ed io per un po' ci ho danzato godendo e prendendomi tutto quello che potevo, e posso dire che solo lì ho vissuto. Poi Dio, quell'entità che dovrebbe essere misericordiosa mi ha distrutto, dilapidatomi dell'amore e della speranza. Vattene ora, ti auguro che almeno a te la vita dia quello che a me ha fatto solo annusare.»
Quell'infausto monologo, quel doloroso soliloquio detto, gridato da mia madre, mi ha scavato un solco profondo, lasciandomi basita, rammaricata, spezzata come un vaso di coccio caduto a terra.
Dopo quel sordido sabato di molti anni fa, la vita di mia madre prese la strada dissoluta della perversione e dell'autodistruzione. Al nono mese, il bambino che aveva in grembo, e che già amava con ogni molecola del proprio corpo, è morto subito dopo un parto difficile, dal quale anche mia madre ha rischiato di non uscirne viva. E questo l'ha fatta precipitare un un nero abisso di disperazione, di vuoto, in un'unica certezza che la nefasta morte di quel bimbo fosse dipesa da una punizione divina, per i peccati commessi. Mi madre non si riprese più, Franco non disse mai a sua moglie del suo tradimento, forse lo avrebbe fatto se il bambino avesse vissuto, ma così con Camilla completamente fuori controllo, con la pazzia più dissennata che la vegliava giorno e notte, si è fatto da parte scomparendo dalla sua vita. Quello è stato il colpo di grazia che ha fatto rinchiudere mia madre in un'auto carcerazione: non usciva più di casa, mangiava solo per sopravvivere, gin e vodka erano l'acqua per lei, l'andare avanti non aveva nessunissimo senso. La ricerca di un suicidio lento, sofferto, uno rapido non sarebbe stato abbastanza, sarebbe stata una vigliaccata, solo il patimento, il supplizio, il tormento poteva essere giustificato per colmare le sue pene ed i suoi errori. Dopo 10 anni di un'insana vita, vari ricoveri per disintossicarla, e farle cercare una sorta di nuovo equilibrio, io e Filippo abbiamo dovuto prendere la decisione, dopo il divorzio con mio padre, eravamo noi gli unici familiari, di metterla in una struttura per pazienti gravi e gravissimi, in una sorta di manicomio.
Dato il mio lavoro ero riuscita a trovarne una dove sapevo che le cure ed il personale era attento agli 'ospiti', a casa non era più possibile gestirla, neppure con un'infermiera privata che lei oltraggiava e scherniva ad ogni occasione.
Vedere un paziente, fare passi avanti, aiutarlo a ritrovarsi, a capire il nocciolo del suo dolore e del suo patire, questo mi ha sempre dato la forza di andare avanti, e nuovi stimoli, ma non riuscirci con la propria madre è stata la sconfitta più devastante della mia esistenza. Lei non voleva saperne della mia qualifica, del mio poterla aiutare, visto il mio mestiere che ormai facevo da anni; nei momenti di massima crisi e di delirio non mi riconosceva neppure come figlia.
Dalla perdita del bambino e dall'uscita di scena di Franco, Camilla ha smesso di lavorare, vivendo di risparmi e di una rendita che i suoi genitori, i miei nonni le elargivano puntualmente. A quel tempo mia madre aveva 41 anni, io e mio fratello 16, e la sua bellezza senza tempo, era meravigliosa anche dopo crisi di pianto, o ubriaca da non poter parlare, l'ha trascinata in un vortice di una lussuriosa e frenetica vita sessuale senza freni. Da lì non sono più andata a trovarla. Filippo mi ha raccontato che una sera era entrato trovando la mamma con tre uomini che se la facevano sul divano del salotto, e quando lei si era accorta di lui, gli aveva chiesto di unirsi alla festa. In pratica per noi ha smesso di esistere da quei 16 anni.
Il tempo è trascorso, gli anni son passati, sempre con una spina dolorosa ficcata in un fianco, e dopo il liceo io e Filippo abbiamo cominciato l'università: io Psicologia, lui Giurisprudenza.
Oltre a mia madre, anche le stranezze di Orazio, che sempre faceva parte della mia vita, con visite e lunghe lettere, tutto il mondo che mi circondava, lo 'snobbismo' degli amici aristocratici di papà, tutti quelle persone che mi criticavano alle spalle dopo che era uscito alla luce lo scandalo dei miei, tutto questo 'potpourri' mi ha indicato la via della psicologia, forse più per sanare dentro me quel qualcosa che sentivo non andare, che per un vero senso di dedizione all'altro.
Queste traversie familiari vissute in adolescenza, mi hanno imposto un ruolo ai margini in tutte le relazioni sociali: non avevo amici, aberravo ogni cosa che potesse centrare con l'amore, con il sesso e con tutto quello che dovrebbe ruotare a quell'età. Solo gli studi, erano l'unica cosa che davano valore alla mia esistenza, nulla aveva importanza, e tra quei libri, studiando il pensiero ed i comportamenti umani trovavo soluzioni e spunti per cercare di curarmi dalle angosce che mi affliggevano. Studiare per studiarmi.
A 20 anni, ho passato le feste natalizie in montagna, cercando nella solitudine un po' di rilassamento mentale. In città stavo frequentando un ragazzo, Leonardo, un mio compagno di studi. Una cosa certa che ho avuto in eredità da mia madre è, a detta di tutti, la bellezza: il viso delicato, gli occhi grandi di un blu scuro e acceso, un nasino 'francese', i capelli lisci, lunghi setosi. Anche il mio corpo, sebbene non avessi mai fatto sport, era snello con le sue forme al posto giusto. Una terza, un culetto piccolo e rotondo. Leonardo era estasiato del mio lato esteriore, ma non comprendeva il gomitolo annodato che non riuscivo a dipanare che mi portavo dentro. In 5 mesi ci eravamo baciati, gli permettevo di toccarmi il seno ma la volta che avevo deciso di fare i grande passo, il contatto della mia mano sul suo membro duro e teso, mi aveva portato alla mente la bocca di mia madre che 'danzava' su quello di Franco, e questo aveva spento qualsiasi mia voglia.
La cosa che mi terrorizzava oltremodo era la perdita della verginità, il dover donare a qualcuno di sconosciuto una cosa mia così intima. Anche con Leo su questo mi sentivo talmente imbarazzata e bloccata, che a lui avevo raccontato di un vecchio ragazzo con cui avevo già fatto sesso, un paio di volte. Poi quelle vacanze natalizie.
Mia madre poco prima di quel Natale, aveva 46, e da quanto ci diceva la vicina dava fondo a tutte le sue velleità sessuali, con uomini sconosciuti che usava per una o due notti. Mio padre dopo le continue umiliazioni inflittegli da Camilla anche senza vederla, stava a casa quasi sempre, evitando le facce colme di falsità di amici e conoscenti. Io e Leonardo stagnavamo per colpa mia in un 'nulla da dichiarare' costante e noioso, dovevo cambiare qualcosa, non potevo farmi bastare lo studio.
In montagna nella nostra casa di villeggiatura ero sola, i nonni erano in città da mio padre e mio fratello, e le mie giornate le passavo studiando o con il filosofo dei monti Orazio. Lui aveva scelto, dopo la morte della moglie per un tumore che l'aveva accartocciata e snaturata per lungo tempo, di scappare dal mondo e rinchiudersi in quel borgo dimenticato da Dio. Scriveva romanzi con uno pseudonimo, ed in paese parlava solo per necessità: con la padrona dell'alimentari, con la panettiera, con l'addetto alla posta, ma solo per acquisti e pagamenti. Viveva sempre solo e non sopportava né visite né sorprese. Credeva di aver vissuto nel bene e nel male tutto quello che gli era stato concesso, e nella suo segregazione, con Socrate, il suo pastore maremmano, si bastava.
Io ero un'eccezione, da quando mi aveva condotto a casa, e credo, anche, avendo saputo da mia nonna, le vicissitudini della mia famiglia, mi avesse preso sotto la sua ala protettrice e spesso il suo sapere riempiva le mie serate nelle estati che passavo lassù.
Già quando salivo con l'auto lungo i tornanti sentivo il piacere di staccarmi dal fango che mi inzaccherava in città, e una strana e malata idea ha iniziato a scavarmi dentro. Più mi convincevo, più mi sembrava fattibile, e più quel malsano desiderio mi tentava, mi stuzzicava.
Quando mi ha aperto la porta, Orazio rimasto spiazzato nel vedermi, ma mi sembrava gradisse la mia presenza. Sono passata per casa nostra, ho acceso il fuoco e sistemato le mie cose. Sarei riuscita a sviluppare quello sconsiderato pensiero? O avrei fatto la più brutta figura della mia vita? Però dopo una doccia, già vestendomi sentivo uno strano formicolio, un'inspiegabile ed inaspettato solletico tra le gambe, e guardandomi nuda allo specchio mi sono vista bella, cosa che non mi capitava mai. Avevo invitato per cena Orazio, avrei cucinato alcune leccornie portate dalla città, avevo comprato anche un bel po' di vino ed un pacchetto di sigarette. Mentre affettavo le verdure, il caldo secco del caminetto, mi faceva sudare, e mi sono tolta i jeans, e sono rimasta in slip e maglietta. Era una pazzia ma ero figlia di una psichiatrica dichiarata, e mi sentivo sempre più pronta. Ho stappato una bottiglia di bianco ed ho iniziato a sorseggiare il vino, e subito, non essendo abituata, una suadente vertigine mi ha cullato in quella delicata solitudine. Quando ha bussato, ho aperto quasi dimenticandomi che non ero vestita, ma l'ho fatto entrare lo stesso. Orazio per me era sempre stato, da quella volta a 7 anni, la forma perfetta di uomo, l'uomo con la U maiuscola. Intelligente, introverso, dotato di una profondità sconcertante e bello, bello come un Adone greco, anche se trasandato e sempre malvestito.
Io 20enne, lui 45enne, 25 anni di differenza, ma molte notti nei sogni, dei quali mi vergognavo la mattina, era lui in parte a me, a fare quello che voleva del mio corpo. Abbiamo mangiato, finito il vino, e dopo il caffè ci siamo messi sul divano davanti al caminetto a parlare di filosofia, e di ogni cosa che il mio acerbo cervello voleva indagare, scoprire. I suoi occhi verdi acquamarina luccicavano alle fiamme del fuoco, e i suoi capelli lunghi castani prendevano varie sfumature, facendo da perfetta cornice a quel viso che pareva sempre abbronzato. Aveva portato con se una bottiglia di Zirmol, un liquore fatto da lui, con gli aghi e le pigne del pino Cirmolo. L'aveva lasciato fuori e la temperatura gelata ne faceva assaporare il gusto non facendo percepire l'alta gradazione alcolica. Al secondo bicchierino, mi sono alzata a mettere un po' di legna per ravvivare il fuoco, e piegandomi in avanti il mio culetto si vedeva bene, coperto solo da una strisciolina di cotone del perizoma. Il fatto che mi stesse guardando mi ha dato una vampata di calore e di voglia che mi ha stupito, ma mi stavo eccitando: ora avrei fatto quel passo che già dalla strada stavo programmando, volevo farlo la prima volta con lui, doveva essere Orazio a prendersi la mia verginità..
(continua con il mio ingresso nella follia più pura,da psichiatra a psichiatrica)
Un treno banalmente perso, e nell'attendere quello successivo, ci ha fatto incontrare la persona che ancora ci sta accanto; una banale febbre che ci ha costretto a letto quel capodanno, ed il tuo lui del periodo ti ha tradita, e quindi non hai più voluto vederlo; una tragica rottura di un profilattico, che si è trasformata, dopo i primi disperati momenti in Andrea, o Marco, che ora ha 20 anni ed è felice, ed anche tu lo sei: o l'esatto contrario: ti ha rovinato l'esistenza...
Insomma senza quel treno perso, senza il termometro che ci ha bloccato amareggiati a casa, comprando un altra marca di profilattici, e non sempre quelli più economici, potremmo scrivere pagine completamente diverse di quello che siamo. E nessuno può dire, tranne che in casi eclatanti, se sarebbe stato meglio o peggio. Perché: se al bello c'è il bellissimo, anche al male c'è il malissimo. Nella mia vita, nel girotondi di pensieri e passioni la cosa più costante, che mi ha fatto divenire quella che sono è la malattia mentale.
E di quelle due parole, 15 lettere, tra vocali e consonanti, che terrorizzano i giganti e tutti quelli che si sentono indistruttibili, ne ho fatto una passione ed un mestiere.
Sono una psicologa e una psichiatra: una 'psicopsichiatrica', un po' 'psicosessuologa' e un po' pure 'psicoinfantile', così scherzando mi definiscono i colleghi.
Comunque credo, che rivedendo i perché sono quello che sono, devo dire che non avrei avuto altra possibilità, la pazzia, la demenza mi ha inseguito fin da piccola, il vento di Scirocco a spostato la rotta verso quell'oceano sedato dei disturbi mentali.
Mio padre era un docente di Economia e commercio, mia madre un'Etologa che girava il mondo per studiare il comportamento di animali che da bambina credevo fossero nati dalla fantasia dei fratelli Grimm.
Entrambi provenivano da famiglie dell'alta società, dell'aristocrazia, e di sicuro mio fratello Filippo, che aveva scelto Giurisprudenza, ed ora era un avvocato di successo, aveva fatto contenti molto di più i miei di me, che "avrei fatto una vita di sacrifici su casi umani, spesso con poche o senza speranze", diventando psicologa.
Ma se come dicevo prima c'è un qualcosa che decide il sentiero da percorrere, di sicuro il 'vigile' che per primo mi ha indicato la via è stato Orazio, pazzo filosofo eremita, così lo descrivevano i paesani, che viveva a quattro chilometri verso la cima della montagna dal paesino sperso nelle Alpi, dove passavamo tutte le estati nella casa di villeggiatura a 1543 metri sul mare.
Un pomeriggio nell'andare a passeggio da sola, avevo solo 7 anni, ho imboccato un sentiero che non conoscevo e mi sono persa. In realtà ero a poche centinaia di metri da casa, ma il senso di smarrimento e la paura di non trovare la via del ritorno, non mi avevano impressionato più di tanto. Mi avevano sempre spiegato che se ci si perde, la miglior cosa da fare è semplicemente fermarsi, ed aspettare, spostandosi avrebbe reso le ricerche molto più complicate. E così al bordo di un sentiero mi ero seduta, ero certo un po' spaventata, la sera era incombente; poi un rumore tra uno cespuglio, un grosso cane, enorme, bianco, peloso è uscito dalla vegetazione e mi è arrivato addosso, io ho iniziato a piangere, il cane mi guardava ad un metro, ho abbassato il viso a mi sono coperta con le mani gli occhi e tremavo, singhiozzando, poi un fischio, ho alzato lo sguardo il cane si era accucciato davanti a me, non mi aveva attaccato; e un uomo scuro con la barba stava risalendo il sentiero. Tremavo ancora terrorizzata, la sua barba, il suo bastone, il cane per me era la fine? La sua baritonale voce: «Socrate, vieni qui. Hei piccola cosa ci fai qui? Ti sei persa? Non avere paura, Socrate è più buono di molta gente, stai tranquilla ora ti riporto a casa.» Seduta la prima cosa che ho sentito, e stata la lingua calda e bagnata del cane che mi 'slapazzava' la mano con la quale mi tappavo gli occhi. Mi ha ricondotta a casa, e non ha detto una sola parola sul fatto, accennando alla nonna poche parole di saluto, alla quali lei aveva risposto in maniera imbarazzata, con uno sguardo strano, con gli occhi che pensavano lontano. Nonno Marco a cena, saputo il fatto, mi aveva detto: «Ora sai che è il filosofo matto della montagna, quello ha mollato tutto, ha regalato tutte le sue ricchezze e si è rintanato qhi, sempre solo, o meglio sempre con il cane.»
Lavoro in una struttura ospedaliera pubblica, sono vice direttrice del Servizio Psichiatrico, il lavoro mi piace, anche se spesso le sconfitte sono più che le vittorie in questo campo. Ogni tanto, nei momenti di scoramento penso che se avessi fatto ortopedia, o chirurgia, una volta fatta bene l'operazione del caso, il paziente non lo avrei più visto ed avrei migliorato, se non addirittura salvato, la sua vita; la psichiatria non è così, una persona può sembrarti perfettamente guarita, ed una settimana dopo avere una ricaduta peggiore di quando l'hai presa in cura.
Quando io e mio fratello gemello Filippo avevamo 15 anni, in casa cambiarono molte cose, e da quegli eventi anche la nostra vita seguì inevitabilmente un divenire diverso, una potente traccia di tristezza segnò le nostre esistenze.
Camilla, mia madre, rimase incinta, aveva 40 anni, ed appena apprese questa inattesa notizia ce la disse con un'euforia inimmaginabile, con un calore impensato per una donna fredda che pareva sempre non provare nessuna emozione, e ci fu come una rinascita, uno riscoprire nostra madre una donna diversa: solare, sempre pronta per noi, attiva, piena di voglia di fare quello che fino a prima era tabù ora sembrava divertirla. Mio padre Ludovico, che aveva 45 anni, mal sopportò quel test di gravidanza, richiudendosi in lunghi silenzi, e dal suo studio dopo il lavoro usciva solo per cenare, usando le parole solo lo stretto necessario.
Poi un pomeriggio, scoprì i motivi di questo cambiamento. Loro erano convinti di essere soli nella nostra grande villa, erano certi che io e Filippo fossimo a la scuola, quel giorno la cameriera era malata, ed era lei a pensare a noi, ma io ero tornata prima dalle lezioni e scendendo piano le scale mi imbattei in un discorso tra i due. Mio padre con voce greve aveva iniziato a dire: «Camilla devi essere onesta con me, mi credi stupido, vuoi continuare con il giochetto della Madonna vergine, incinta per volontà del signore, io sono stufo, se vuoi tenere la tua, ribadisco 'tua' creatura, io me ne vado di qui. Non è figlio mio e tu lo sai, mi hai tradito, con chi? Con Franco il tuo collega? E' inutile che ti nascondi, io non accetterò in casa mia un figlio bastardo, nato dalla tua sfrenata lussuria, dal tuo essere una grande... la tua facciata da santa che dai verso il mondo esterno, tutte le tue falsità, cosa credi che sia cieco, che non abbia capito che vai a letto con chi capita da anni, almeno cinque te ne sei 'passati'.. non mentire, se tu porterai avanti la gravidanza farò fare le analisi del dna e come è certo che sia, i risultati non combaceranno con il mio genoma, porterò tutto da un avvocato e ti lascerò senza neppure un paio di scarpe. Ci penserà Franco a mantenerti, e spiegherò tutto ai nostri figli, sono abbastanza grandi da capire che donna sei, ed i tuoi capricci...» Lei piangeva singhiozzando, cercava di controbattere, ma le lettere uscivano sommessamente, quasi balbettate, fino a quando cercò un'ultima difesa: «Ludovico, non c'è nulla tra me e Franco, sei tu il padre di... sei tu, te lo giuro» Un colpo fortissimo vibrò nella casa, mio padre aveva tirato un pugno sul tavolo e gridando aveva attaccato distruggendo ogni possibile parola di mia madre: «Ma che cazzo dici, ti ricordi 4 mesi fa, il disturbo che avevo per quella cistite? Te lo ricordi? Ecco già che c'ero mi sono fatto fare analisi approfondite, e hanno trovato che la mia spermatogenesi, i miei spermatozoi sono troppo pochi per poter fecondare un ovulo. Capisci cosa cazzo, voglio dire? Io fisiologicamente non posso essere il padre del bastardo che sta dentro te, ora cosa mi dirai dell'Arcangelo Gabriele, della volontà del Signore, o di te che sei una grandissima puttana, e la dai da anni a tutti quelli che ti danno un minimo di attenzione. Cosa credi che non avrei potuto farlo anch'io, mai o ho un'etica, una morale, ci sono dei figli da crescere, e non mi regalo alla prima che passa per strada. Concludo, ho l'aborto, tanto sei al primo mese, anche se sembra, da quanto ne parli, che devi partorire domani, oppure te la vedi da sola fuori da questa casa. I ragazzi staranno con me, altrimenti tutta la città saprà le tue pie e caste notti, con le mutande abbassate.»
Io nascosta nel sottoscala non respiravo, sentivo il pianto disperato di mia madre, e dopo alcuni secondi la porta di casa ha sbattuto. Non ci venne spiegato niente, mio padre per un lavoro all'estero sarebbe stato via un mese, la gravidanza proseguiva, ma anche dopo quel mese Ludovico, non fece più ritorno nella nostra casa, comprò un appartamento in centro dove noi per tutti i fine settimana stavamo con lui.
Venerdì, sabato e domenica, erano i giorni in cui stavamo con mio padre, gli altri nella villa con Camilla. Non avevano ancora parlato di divorzio, credo che lasciassero che la gravidanza avvenisse senza aggiungere altro stress, ma Ludovico era stato categorico con noi: «Non so e non voglio sapere, ma il figlio che nascerà non è mio, questo lo dovete sapere, io e vostra madre abbiamo deciso di lasciar passare questi mesi fino alla nascita, e poi prenderemo le decisioni definitive. Ma come potete immaginare la nostra storia è finita. Nessuno ha colpa o ragione, capirete quando sarete più gradi che in un rapporto lungo, non sempre tutto va come dovrebbe, poi vedrete voi con chi preferirete stare, ma per ora è ancora presto. Noi vi ameremo sempre e non vi mancherà nulla, state tranquilli.»
Io e Filippo, 15enni, avevamo da sempre avuto una sorta di timore verso quel padre tutto d'un pezzo e risoluto nel suo modo di parlare e di agire, ed anche il suo importante ruolo di economista, sia all'università che come 'giornalista tecnico' per una importante testata, ci aveva imposto un senso di rigorosa soggezione.
Un sabato, vedendo durante la settimana mia madre molto affranta e demoralizzata, cosa che dopo la lieta notizia non era mai successa, infatti sembrava non interessarle neppure un po' il fatto del trasferimento del marito, sono passata a trovarla. La casa era avvolta nel silenzio, i cani erano chiusi nel loro recinto, sembrava essere vuota. Ma salendo le scale, alcuni rumori hanno incuriosito la mia mente ed arrivando in camera dei miei sono rimasta pietrificata, mia madre nuda aveva il cazzo, di Franco il suo collega, in bocca. Una scena agghiacciante, lui disteso supino, e lei tra le sue gambe andava su e giù con la testa, con uno sguardo di pura estasi negli occhi. Ero giovane e solo il pensiero di mettermi in bocca una cosa da dove usciva la pipì, mi sconcertava e mi dava il voltastomaco. Ma quell'insano gesto, quel modo ritmato, quel leccare lento quella rosa cappella mi attirava, non riuscivo ad andare via dal mio nascondiglio. Quindi aveva ragione mio padre, era solo una facciata la religiosa e casta mamma che per prima varcava il portone della chiesa ogni domenica.
Ho continuato a osservare, e ad ascoltare le loro sconce parole, frasi che mi facevano arrossire di imbarazzo, frasi che uscivano da quelle labbra che mi avevano sempre baciata dolcemente, e detto parole d'amore e di conforto, labbra che ora si stringevano, dissolute e libidinose, avviluppate su un paletto di carne duro e turgido.
Poi Franco aveva fatto mettere mia madre a quattro zampe, io vedevo molto bene tutto dal posto dove ero ferma con il cuore in gola, dicendole: «Cami, sai che non riesco davanti da quando aspetti nostro figlio, te lo metto piano piano dietro, ok?» e dopo un lascivo «Va bene amore, fai quello che vuoi di me...» lui, facendo cadere saliva sul suo culetto e divaricando l'orifizio con le dita, l'ha penetrata, con un sobbalzo di Camilla, ed un lieve rantolo nella voce. Ai primi movimenti lenti, ed alle grida di dolore di mia madre, si sono susseguite spinte più forti, un 'ciac ciac' più rapido delle cosce di lui che sbattevano sui glutei di lei, e le grida sono diventate suoni orgasmici, strani 'vagiti' di puro godimento.
A quel punto imbarazzata e schifata, sono uscita di casa. Da quel giorno ho visto mia madre con altri occhi, per me era una persona diversa, e da quel sabato senza dover nessuna spiegazione ho vissuto sempre con mio padre.
Per la prima volta avevo visto una bocca baciare un pene, ed un pene varcare l'ano dove escono pipì e cacca. Dove gli scarti del nostro organismo uscivano qualcuno trovava il piacere, un piacere immondo, orripilante a mio modo di vedere da 15enne.
Di quel osceno pomeriggio, negli anni ne parlai solo due volte, una con Orazio a 18 anni, ed una con Camilla quando la sua via verso la predizione mentale era avviata e conclamata.
Nella prima, inesperta e per nulla curiosa, volevo parlarne con Orazio, uomo che aveva vissuto la vita, per cercare di capire i perché una donna arrivasse a tanto: ad una infedeltà con gravidanza, a fare sesso sul letto matrimoniale condiviso per anni con il marito, al dimenticarsi dei gemelli 15enni, in un'età di sviluppo e di crescita importante. Cosa poteva portare un così radicale decadimento della morale, se non la pazzia, la follia più pura.
E Orazio, forte del suo sapere e della sua enorme esperienza, mi aveva detto: «Cara Sara, l'amore è un miraggio, una cosa costruita dall'uomo, l'amore e come la religione, ci dà speranza nei momenti bui, e ci abbatte quando ci rendiamo conto delle menzogne a cui dobbiamo assoggettarci per crederlo reale. Nessun animale della terra, neppure i più intelligenti dei mammiferi prova un senso del genere. Pensa se un leone dovesse rimuginare e struggersi per ogni leonessa uccisa dai bracconieri o da un bufalo, sarebbero già estinti. L'amore è la cocaina dei popoli, il sogno irrealizzabile di qualcosa, che dovrebbe unire due corpi e due menti, ma nessuno, e ti dico nessuno può raggiungere tale livello di complicità, solo che ci fa star bene pensarlo. Quando, ormai anni fa, Lucrezia, mia moglie è morta, potevo rifarmi una vita, forse due, ed avrei ambito di trovare nelle nuove donne quello che avevo raggiunto con lei, o avrei voluto di più, cercando di colmare tutte quelle piccole, o grandi cose che mi facevo andar bene di Lucrezia, ma che sotto sotto non sopportavo. Ma anche la solitudine, la quotidianità snervante in certi periodi è difficile da abbandonare, e quindi spesso si resta immobili a subire passivamente, convinti di essere felici; o si salta il fosso, come ha fatto tua madre, ponendosi di fronte però alla gogna della società moralistica, che è sempre pronta a giudicare. Tua madre ha avuto un amante, forse tuo padre non le bastava, ma credo sia rimasta spiazzata della gravidanza, ed ha indugiato non sapendo cosa fare, sperando in un nuovo rifiorire, di poter riprovare la maternità con l'uomo che credeva di amare, cetra di essere contraccambiata.. Poi sappiamo come è andata...»
La seconda volta è stata con mia madre, gli ho spiattellato con tutto l'odio più profondo, cercando di sanare un mio gigantesco problema, non molto diverso da quello che aveva vissuto.
Ma sfogandomi con lei, facendole capire il suo comportamento indegno ed indecente cercavo solo di ripulire la mia di colpa. E quella volta, con mia madre già nel paradiso dei folli, mi aveva risposto in maniera sboccata e vergognosa: «Cara la mi dolce figlia, ora sei grande, ti piace il cazzo? Ti piace sentire le vibrazioni, quello sbrodolamento che ti provoca tra le cosce, ti gusta il sapore dello sperma dopo che le guance ti fanno male dal troppo succhiare? Dimmi, ti piace? O sei una lecca fica, un frigida di quelle: questo no, quello neanche? Rispondimi...» La sua veemenza mi aveva fatto pentire di averla attaccata, ma non riuscivo a rispondere, che lei incalzava a sparare su di me verdetti che erano tatuati dentro il mio essere, sebbene lei non ne sapesse niente. «Il tuo grande padre, il docente tutto d'un pezzo, non mi scopava mai, non gli è mai piaciuto, troppo preso dai libri e dai massimi sistemi economici per far godere sua moglie. A volte dalla voglia che mi portavo dentro se vedevo due babbuini, o due scimpanzé che si accoppiavano, e lo sai quanti safari ho fatto per lavoro, mi bagnavo le mutandine, sperando di essere quella femmina di scimmia. Lo capisci questo, la mia sessualità inaridita, dimenticata, oltraggiata. Sai come siete nati voi? Tutto in 15 minuti: entrato, ingravidata, uscito, lavato e via nello studio a leggere, che ancora avevo le gambe aperte mezza vestita. Hai 35 anni, sei incinta di cinque mesi, ti scopa bene il tuo Leonardo, ti fa sentire viva, ti dà quel brivido la notte? Ti mangia tra le gambe fino a che il cuore ti sembra scoppiarti in petto? Altrimenti dai in adozione il nascituro e trovatene un altro, oppure fai come le povere africane, che qui bastardi di uomini, se così possiamo chiamarli le infibulano per non provare più piacere. Con Franco mi sono sentita viva, ero la persona più felice del mondo, dargli un figlio... ma poi... vattene da qui e non permetterti mai più di giudicarmi, brutta ipocrita e bacchettona. Per anni ho sopportato le messe, la parrocchia, tutti i Cristi e le Madonne, ma "per uscire dall'inferno devi ballare con il diavolo" , ed io per un po' ci ho danzato godendo e prendendomi tutto quello che potevo, e posso dire che solo lì ho vissuto. Poi Dio, quell'entità che dovrebbe essere misericordiosa mi ha distrutto, dilapidatomi dell'amore e della speranza. Vattene ora, ti auguro che almeno a te la vita dia quello che a me ha fatto solo annusare.»
Quell'infausto monologo, quel doloroso soliloquio detto, gridato da mia madre, mi ha scavato un solco profondo, lasciandomi basita, rammaricata, spezzata come un vaso di coccio caduto a terra.
Dopo quel sordido sabato di molti anni fa, la vita di mia madre prese la strada dissoluta della perversione e dell'autodistruzione. Al nono mese, il bambino che aveva in grembo, e che già amava con ogni molecola del proprio corpo, è morto subito dopo un parto difficile, dal quale anche mia madre ha rischiato di non uscirne viva. E questo l'ha fatta precipitare un un nero abisso di disperazione, di vuoto, in un'unica certezza che la nefasta morte di quel bimbo fosse dipesa da una punizione divina, per i peccati commessi. Mi madre non si riprese più, Franco non disse mai a sua moglie del suo tradimento, forse lo avrebbe fatto se il bambino avesse vissuto, ma così con Camilla completamente fuori controllo, con la pazzia più dissennata che la vegliava giorno e notte, si è fatto da parte scomparendo dalla sua vita. Quello è stato il colpo di grazia che ha fatto rinchiudere mia madre in un'auto carcerazione: non usciva più di casa, mangiava solo per sopravvivere, gin e vodka erano l'acqua per lei, l'andare avanti non aveva nessunissimo senso. La ricerca di un suicidio lento, sofferto, uno rapido non sarebbe stato abbastanza, sarebbe stata una vigliaccata, solo il patimento, il supplizio, il tormento poteva essere giustificato per colmare le sue pene ed i suoi errori. Dopo 10 anni di un'insana vita, vari ricoveri per disintossicarla, e farle cercare una sorta di nuovo equilibrio, io e Filippo abbiamo dovuto prendere la decisione, dopo il divorzio con mio padre, eravamo noi gli unici familiari, di metterla in una struttura per pazienti gravi e gravissimi, in una sorta di manicomio.
Dato il mio lavoro ero riuscita a trovarne una dove sapevo che le cure ed il personale era attento agli 'ospiti', a casa non era più possibile gestirla, neppure con un'infermiera privata che lei oltraggiava e scherniva ad ogni occasione.
Vedere un paziente, fare passi avanti, aiutarlo a ritrovarsi, a capire il nocciolo del suo dolore e del suo patire, questo mi ha sempre dato la forza di andare avanti, e nuovi stimoli, ma non riuscirci con la propria madre è stata la sconfitta più devastante della mia esistenza. Lei non voleva saperne della mia qualifica, del mio poterla aiutare, visto il mio mestiere che ormai facevo da anni; nei momenti di massima crisi e di delirio non mi riconosceva neppure come figlia.
Dalla perdita del bambino e dall'uscita di scena di Franco, Camilla ha smesso di lavorare, vivendo di risparmi e di una rendita che i suoi genitori, i miei nonni le elargivano puntualmente. A quel tempo mia madre aveva 41 anni, io e mio fratello 16, e la sua bellezza senza tempo, era meravigliosa anche dopo crisi di pianto, o ubriaca da non poter parlare, l'ha trascinata in un vortice di una lussuriosa e frenetica vita sessuale senza freni. Da lì non sono più andata a trovarla. Filippo mi ha raccontato che una sera era entrato trovando la mamma con tre uomini che se la facevano sul divano del salotto, e quando lei si era accorta di lui, gli aveva chiesto di unirsi alla festa. In pratica per noi ha smesso di esistere da quei 16 anni.
Il tempo è trascorso, gli anni son passati, sempre con una spina dolorosa ficcata in un fianco, e dopo il liceo io e Filippo abbiamo cominciato l'università: io Psicologia, lui Giurisprudenza.
Oltre a mia madre, anche le stranezze di Orazio, che sempre faceva parte della mia vita, con visite e lunghe lettere, tutto il mondo che mi circondava, lo 'snobbismo' degli amici aristocratici di papà, tutti quelle persone che mi criticavano alle spalle dopo che era uscito alla luce lo scandalo dei miei, tutto questo 'potpourri' mi ha indicato la via della psicologia, forse più per sanare dentro me quel qualcosa che sentivo non andare, che per un vero senso di dedizione all'altro.
Queste traversie familiari vissute in adolescenza, mi hanno imposto un ruolo ai margini in tutte le relazioni sociali: non avevo amici, aberravo ogni cosa che potesse centrare con l'amore, con il sesso e con tutto quello che dovrebbe ruotare a quell'età. Solo gli studi, erano l'unica cosa che davano valore alla mia esistenza, nulla aveva importanza, e tra quei libri, studiando il pensiero ed i comportamenti umani trovavo soluzioni e spunti per cercare di curarmi dalle angosce che mi affliggevano. Studiare per studiarmi.
A 20 anni, ho passato le feste natalizie in montagna, cercando nella solitudine un po' di rilassamento mentale. In città stavo frequentando un ragazzo, Leonardo, un mio compagno di studi. Una cosa certa che ho avuto in eredità da mia madre è, a detta di tutti, la bellezza: il viso delicato, gli occhi grandi di un blu scuro e acceso, un nasino 'francese', i capelli lisci, lunghi setosi. Anche il mio corpo, sebbene non avessi mai fatto sport, era snello con le sue forme al posto giusto. Una terza, un culetto piccolo e rotondo. Leonardo era estasiato del mio lato esteriore, ma non comprendeva il gomitolo annodato che non riuscivo a dipanare che mi portavo dentro. In 5 mesi ci eravamo baciati, gli permettevo di toccarmi il seno ma la volta che avevo deciso di fare i grande passo, il contatto della mia mano sul suo membro duro e teso, mi aveva portato alla mente la bocca di mia madre che 'danzava' su quello di Franco, e questo aveva spento qualsiasi mia voglia.
La cosa che mi terrorizzava oltremodo era la perdita della verginità, il dover donare a qualcuno di sconosciuto una cosa mia così intima. Anche con Leo su questo mi sentivo talmente imbarazzata e bloccata, che a lui avevo raccontato di un vecchio ragazzo con cui avevo già fatto sesso, un paio di volte. Poi quelle vacanze natalizie.
Mia madre poco prima di quel Natale, aveva 46, e da quanto ci diceva la vicina dava fondo a tutte le sue velleità sessuali, con uomini sconosciuti che usava per una o due notti. Mio padre dopo le continue umiliazioni inflittegli da Camilla anche senza vederla, stava a casa quasi sempre, evitando le facce colme di falsità di amici e conoscenti. Io e Leonardo stagnavamo per colpa mia in un 'nulla da dichiarare' costante e noioso, dovevo cambiare qualcosa, non potevo farmi bastare lo studio.
In montagna nella nostra casa di villeggiatura ero sola, i nonni erano in città da mio padre e mio fratello, e le mie giornate le passavo studiando o con il filosofo dei monti Orazio. Lui aveva scelto, dopo la morte della moglie per un tumore che l'aveva accartocciata e snaturata per lungo tempo, di scappare dal mondo e rinchiudersi in quel borgo dimenticato da Dio. Scriveva romanzi con uno pseudonimo, ed in paese parlava solo per necessità: con la padrona dell'alimentari, con la panettiera, con l'addetto alla posta, ma solo per acquisti e pagamenti. Viveva sempre solo e non sopportava né visite né sorprese. Credeva di aver vissuto nel bene e nel male tutto quello che gli era stato concesso, e nella suo segregazione, con Socrate, il suo pastore maremmano, si bastava.
Io ero un'eccezione, da quando mi aveva condotto a casa, e credo, anche, avendo saputo da mia nonna, le vicissitudini della mia famiglia, mi avesse preso sotto la sua ala protettrice e spesso il suo sapere riempiva le mie serate nelle estati che passavo lassù.
Già quando salivo con l'auto lungo i tornanti sentivo il piacere di staccarmi dal fango che mi inzaccherava in città, e una strana e malata idea ha iniziato a scavarmi dentro. Più mi convincevo, più mi sembrava fattibile, e più quel malsano desiderio mi tentava, mi stuzzicava.
Quando mi ha aperto la porta, Orazio rimasto spiazzato nel vedermi, ma mi sembrava gradisse la mia presenza. Sono passata per casa nostra, ho acceso il fuoco e sistemato le mie cose. Sarei riuscita a sviluppare quello sconsiderato pensiero? O avrei fatto la più brutta figura della mia vita? Però dopo una doccia, già vestendomi sentivo uno strano formicolio, un'inspiegabile ed inaspettato solletico tra le gambe, e guardandomi nuda allo specchio mi sono vista bella, cosa che non mi capitava mai. Avevo invitato per cena Orazio, avrei cucinato alcune leccornie portate dalla città, avevo comprato anche un bel po' di vino ed un pacchetto di sigarette. Mentre affettavo le verdure, il caldo secco del caminetto, mi faceva sudare, e mi sono tolta i jeans, e sono rimasta in slip e maglietta. Era una pazzia ma ero figlia di una psichiatrica dichiarata, e mi sentivo sempre più pronta. Ho stappato una bottiglia di bianco ed ho iniziato a sorseggiare il vino, e subito, non essendo abituata, una suadente vertigine mi ha cullato in quella delicata solitudine. Quando ha bussato, ho aperto quasi dimenticandomi che non ero vestita, ma l'ho fatto entrare lo stesso. Orazio per me era sempre stato, da quella volta a 7 anni, la forma perfetta di uomo, l'uomo con la U maiuscola. Intelligente, introverso, dotato di una profondità sconcertante e bello, bello come un Adone greco, anche se trasandato e sempre malvestito.
Io 20enne, lui 45enne, 25 anni di differenza, ma molte notti nei sogni, dei quali mi vergognavo la mattina, era lui in parte a me, a fare quello che voleva del mio corpo. Abbiamo mangiato, finito il vino, e dopo il caffè ci siamo messi sul divano davanti al caminetto a parlare di filosofia, e di ogni cosa che il mio acerbo cervello voleva indagare, scoprire. I suoi occhi verdi acquamarina luccicavano alle fiamme del fuoco, e i suoi capelli lunghi castani prendevano varie sfumature, facendo da perfetta cornice a quel viso che pareva sempre abbronzato. Aveva portato con se una bottiglia di Zirmol, un liquore fatto da lui, con gli aghi e le pigne del pino Cirmolo. L'aveva lasciato fuori e la temperatura gelata ne faceva assaporare il gusto non facendo percepire l'alta gradazione alcolica. Al secondo bicchierino, mi sono alzata a mettere un po' di legna per ravvivare il fuoco, e piegandomi in avanti il mio culetto si vedeva bene, coperto solo da una strisciolina di cotone del perizoma. Il fatto che mi stesse guardando mi ha dato una vampata di calore e di voglia che mi ha stupito, ma mi stavo eccitando: ora avrei fatto quel passo che già dalla strada stavo programmando, volevo farlo la prima volta con lui, doveva essere Orazio a prendersi la mia verginità..
(continua con il mio ingresso nella follia più pura,da psichiatra a psichiatrica)
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