Una suocera da Adorare

di
genere
dominazione

Non avevo mai osato confessarlo a nessuno. Nemmeno a mia moglie, la donna con cui condividevo ogni aspetto della mia vita. Eppure, quel pensiero mi seguiva come un’ombra discreta ma persistente, tornava a visitarmi in certi momenti di silenzio, quando il mondo taceva e restavo solo con i miei pensieri.

Sua madre.
La suocera.
Una figura austera, sicura di sé, scolpita in un’eleganza d’altri tempi, ma con una modernità feroce nello sguardo. Si muoveva come chi non aveva bisogno di chiedere nulla, perché tutto, in fondo, era già suo.

I suoi occhi, azzurri e glaciali, sembravano leggere dentro. Non c’era bisogno che parlasse per imporsi: bastava un sopracciglio inarcato, un sorriso appena accennato e tutto cambiava intorno a lei. Il silenzio diventava rispetto, la parola diventava ordine.

Aveva sessantacinque anni, ma il tempo con lei aveva giocato in modo strano. Non la definirei giovane — sarebbe riduttivo. Era qualcosa di più complesso, più intrigante. Ogni sua ruga sembrava un tratto d’inchiostro calligrafico su un volto di porcellana. Le mani, curate come opere d’arte, avevano dita affusolate, unghie lunghe, smaltate sempre con colori profondi e impeccabili. Lo stesso valeva per i piedi: erano l’emblema di una donna che conosceva il potere del dettaglio, e lo usava con disinvoltura.

La vidi per la prima volta indossare i Louboutin un giorno qualunque, quando venne a casa nostra per cena. Mia moglie li aveva lasciati lì, vicino all’ingresso, e lei — con quella sua naturalezza disarmante — li provò. “Che peccato che siano un numero in meno… ma guarda come slanciano la gamba,” aveva detto, specchiandosi con una punta di vanità consapevole. Il tacco 13, affilato come una lama, sembrava stato forgiato per lei.

Rimasi paralizzato. La linea della caviglia si tendeva, i polpacci si disegnavano con una grazia crudele, e ogni passo era un colpo al mio autocontrollo. Lo sapeva. Ne sono certo. Mi guardò, con quel mezzo sorriso che non era né benevolo né malizioso — solo dominante. Come se mi avesse colto a pensare l’inevitabile, e lo approvasse tacitamente.

Quel giorno nacque qualcosa. O forse fu solo il momento in cui venne alla luce ciò che era sempre stato lì, in silenzio, ad aspettare.

Dopo quella sera, i Louboutin rimasero nel suo sguardo. Ogni volta che veniva da noi, sembrava cercarli con lo sguardo, come se li aspettasse lì, pronti ad accoglierla. E mia moglie, ignara di quel gioco silenzioso, finiva spesso per lasciarli in bella vista. Una svista innocente. Un invito involontario.

Una domenica pomeriggio, complice un sole tiepido che filtrava dalle tende leggere del salotto, lei arrivò con un vestito color avorio, stretto in vita, e una sciarpa di seta appena appoggiata sulle spalle. Un’immagine talmente composta da risultare quasi crudele. I suoi capelli erano raccolti con cura, lasciando libero il profilo del collo, e le unghie, quel giorno, erano smaltate di un rosso cupo, profondo, quasi scuro. Un colore che parlava da solo.

«Tua moglie non c’è?» chiese, entrando senza esitazione.

«È uscita per un po’. Torna tra un’oretta, credo.»

Annuii, sentendomi più teso del dovuto. Lei si sedette, con lentezza studiata, accavallando le gambe con una grazia naturale. Il vestito si sollevò leggermente, mostrando appena l'inizio della calza, trattenuta da un bordo in pizzo. Non potevo non notarlo, e lei non poteva non accorgersene.

«Quei tacchi... sono ancora lì, vero?»

Feci un cenno, indicando la scarpiera. Lei si alzò, senza fretta. Ogni movimento sembrava orchestrato, lento ma inesorabile, come una danza antica. Li prese con una sicurezza quasi teatrale, poi si sedette sul divano e, con movimenti eleganti e misurati, si sfilò le décolleté che indossava, lasciando che i suoi piedi nudi sfiorassero il tappeto. Aveva caviglie perfette, e i piedi — piccoli, affusolati, le unghie lucide — erano quasi un’opera d’arte.

Mi rimase difficile respirare mentre la osservavo calzare quei Louboutin. Il piede scivolava dentro come se fosse tornato a casa. Il contrasto tra la pelle chiara e la vernice nera lucida era ipnotico. Si alzò in piedi. Il suono secco del tacco 13 contro il parquet sembrava scandire il tempo.

Poi si voltò verso di me. «Che effetto ti fanno addosso, questi tacchi?» chiese con voce bassa, quasi un sussurro, ma carico di una potenza difficile da descrivere.

Non risposi. Non serviva. Il mio sguardo la tradiva già abbastanza.
Lei fece due passi verso di me, lenti, calibrati. Ogni battito del suo tacco sul pavimento era come un richiamo, un comando che il mio corpo non poteva ignorare.

«È curioso,» continuò, «come certi dettagli possano rivelare chi siamo veramente. Tu, per esempio… non sei affatto un uomo debole. Ma davanti a me, davanti a queste scarpe… sembri disposto a tutto.»

In quel momento, non ero più certo di chi fossi. Tutto ciò che sapevo è che la desideravo. Non come si desidera una donna. La desideravo come si adora una dea: con rispetto, con timore, con devozione.

Si sedette di nuovo, stavolta più vicina. Sollevò la gamba e me la porse, il piede sospeso nell’aria, elegante e fermo. «Allora? Sei in grado di dimostrarmi quanto li apprezzi, questi tacchi?»

Non ci fu bisogno di altre parole. Le mie mani si avvicinarono tremanti, quasi timorose, come se stessi toccando qualcosa di sacro. Le accarezzai prima il collo del piede, poi le dita, baciando piano ogni articolazione, ogni unghia smaltata. Il tacco brillava sotto la luce. Il rosso vivo della suola sembrava vibrare.

Lei osservava in silenzio, il volto impassibile, ma negli occhi c’era un fuoco trattenuto. Una fierezza, una consapevolezza assoluta del suo potere.

In quel momento avrei fatto qualunque cosa per lei. E credo che lo sapesse.

Le mie labbra sfioravano appena la vernice nera e lucida delle sue Louboutin, seguendo la curvatura del tacco, salendo fino al tallone, mentre le mie mani tremavano appena contro la sua caviglia sottile. Lei non diceva nulla. Non aveva bisogno di farlo. Il silenzio era la sua lingua più eloquente, e io ormai ne conoscevo ogni sfumatura.

«Più lentamente,» disse alla fine, con un tono che non era un ordine… ma nemmeno una richiesta. Era semplicemente legge.

Obbedii.

Il profumo leggero della sua pelle, un misto di crema costosa e qualcosa di più intimo, più personale, mi inebriava. Ogni volta che il mio viso si avvicinava al bordo del piede, sentivo crescere dentro una tensione che non avevo mai provato con nessun’altra donna. Con lei non era eccitazione. Era un abbandono consapevole. Una resa lucida e desiderata.

«Ti piace questo ruolo, vero?» chiese, inclinando appena la testa mentre i suoi occhi azzurri mi scrutavano con la calma di chi ha già vinto. «Essere lì, in ginocchio, mentre io ti guardo dall’alto. Un uomo svelato, che si nutre del dettaglio, dell’estremità. Che capisce dove si annida il vero potere.»

Non potevo che annuire, anche se le parole mi si bloccavano in gola. Era come se il suo sguardo sapesse leggere ogni pensiero prima ancora che potessi formularlo.

«La maggior parte degli uomini ha paura di riconoscerlo. Tu no. Questo ti rende… interessante.»

Scivolò indietro, lasciandosi andare contro lo schienale del divano, le gambe ancora accavallate, una delle scarpe oscillante sulla punta del piede. Un gesto tanto semplice quanto devastante.

Poi fece qualcosa che non dimenticherò mai.

Sollevò lentamente la gonna, pochi centimetri appena, fino a scoprire il bordo della calza. Il pizzo nero sembrava una promessa non detta, un confine tra ciò che potevo toccare e ciò che restava proibito. Con due dita affusolate accarezzò la pelle sopra la giarrettiera, poi riportò la mano al bracciolo, come se nulla fosse.

«Sai cosa mi piace di te?» disse dopo un momento, mentre la scarpa tornava a battere ritmicamente contro il tallone, «che non chiedi. Osservi, intuisci. E soprattutto… adori.»

Era vero. In quel momento l’unico mio desiderio era restare lì, inginocchiato, continuare a baciarle i piedi, a perdermi nella linea del tacco, nella curva del suo polpaccio, nel suono lento e ipnotico dei movimenti calcolati.

«La vera devozione non si chiede, si riconosce. E io la vedo, tutta, lì nei tuoi occhi.»

Chiuse le gambe con un movimento secco e improvviso, e con lo stesso gesto si alzò in piedi. Rimasi fermo, in ginocchio, il cuore che martellava nel petto. Si avvicinò, facendo risuonare i tacchi nel silenzio che era calato attorno a noi, poi mi passò accanto, sfiorando appena la mia spalla con la punta delle dita.

«Non è finita qui,» sussurrò. «Ma per oggi… è abbastanza.»

E se ne andò, lasciando dietro di sé una scia di profumo, di silenzio e di promesse non dette.

Rimasi lì, in ginocchio, con la testa ancora piena del suono dei suoi passi, dell’eco del suo sguardo. E sapevo una cosa sola: lei aveva visto tutto di me. E l’aveva accettato.
O forse, semplicemente, l’aveva preteso.

Passarono giorni, forse una settimana intera. Un tempo sospeso, durante il quale ogni dettaglio di quella scena — i suoi piedi, il suono dei tacchi, il modo in cui mi aveva guardato — si ripresentava a ondate, disturbando la quiete quotidiana come un sussurro nella mente.

Mia moglie era fuori città per lavoro, tre giorni in un’altra regione per un congresso. Fu lei, la suocera, a proporsi di passare per cena. “Non ti farai mica una pizza da solo come un ragazzino, vero?” aveva detto al telefono, con quel tono tra il sarcastico e il protettivo che ormai conoscevo bene. Aveva già deciso prima ancora che rispondessi.

Alle otto in punto bussò alla porta. Questa volta non era elegante. Era oltre.
Indossava un tailleur pantalone nero, tagliato su misura, la camicia bianca sbottonata appena quanto basta da suggerire, non mostrare. I capelli raccolti, gli orecchini perlacei, le labbra color vino. Ma furono i piedi a colpirmi più di tutto.

Le Louboutin. Le stesse.
Le aveva portate lei, le aveva indossate prima di uscire. Non erano un dettaglio, erano un messaggio.

Entrò come se fosse casa sua. Appoggiò la borsa con cura, si guardò attorno come per misurare il tempo e lo spazio, poi si voltò verso di me.

«Sei solo, stavolta,» disse, liberandosi della giacca. «Nessuna distrazione.»

Il tono era neutro, ma la carica sottesa in quelle parole era densa come l’aria prima di un temporale.

Cenammo parlando del più e del meno, ma ogni frase era una danza di sottintesi. Ogni gesto — il modo in cui sollevava il bicchiere, il modo in cui accavallava le gambe — era calibrato con la precisione di chi sa di avere il controllo della scena.

Dopo cena, si sedette sul divano senza chiedere. Prese una sigaretta elettronica dalla borsa, la portò alle labbra e aspirò lentamente. Il rosso delle suole brillava sotto la luce soffusa del salotto.

«Vieni qui,» disse. Non come un invito. Come un richiamo.

Mi avvicinai, e senza che lo chiedesse, mi inginocchiai.
Lei non sorrise. Non ne aveva bisogno.

Sollevò lentamente la gamba e me la poggiò sulla spalla. La scarpa era perfetta, intatta, lucida. Il suo piede, dentro, sembrava più sicuro di qualsiasi parola.

«Hai pensato a me?» chiese, soffiando il fumo con lentezza.

«Ogni giorno.»

Fece scivolare la punta della scarpa lungo il mio petto, sfiorando il collo della mia camicia, poi più giù, sulla clavicola.
«Dimostralo.»

Le mie mani si mossero istintivamente, accarezzando la caviglia, risalendo con lentezza lungo il polpaccio teso. Baciavo il cuoio, il tacco, il dorso del piede come un uomo assetato in un deserto. Ogni bacio era un atto di resa. Ogni carezza un giuramento silenzioso.

«Oggi non mi fermo a metà,» disse piano. «Oggi voglio sapere fino a che punto arrivi.»

Mi fece stendere ai suoi piedi. Lei, seduta, regale, si tolse lentamente una delle scarpe. Poi la seconda. Rimase a piedi nudi, le dita perfette, lo smalto che brillava come una promessa carnale. Posò un piede sulla mia guancia, poi sulle labbra. Non ci fu volgarità. Solo un rituale. Sacro. Lento. Inebriante.

«Sai cos’è la vera adorazione?» sussurrò, chinandosi appena verso di me. «È sapere che non comandi più. Che tutto ciò che sei si misura in questo momento. Nei miei occhi, nella mia pelle. Nel mio piede.»

Rimasi in silenzio. L’unico suono era il mio respiro, che si spezzava ogni volta che lei muoveva anche solo un dito. Le sue dita si insinuarono nei miei capelli, e per un istante credetti che avrebbe accarezzato… invece mi tirò indietro leggermente, alzandomi il viso. Lo sguardo che mi rivolse era puro acciaio.

«Non finirà qui, sai? Questo è solo l’inizio.»

E sorrise. Finalmente. Un sorriso lento, tagliente, femminile in un modo che toglieva il fiato.

In quel momento capii che non avevo più scelta.
Ma la verità?
Non ne volevo.

La notte era scesa da un pezzo. Il silenzio avvolgeva la casa come una coperta troppo pesante. Lei era ancora lì, seduta, gambe accavallate, con uno dei piedi nudi che riposava mollemente sul mio petto, mentre l’altro dondolava nell’aria con una lentezza studiata.

«Sai cosa mi eccita, a quest’età?» disse, accarezzandosi distrattamente la clavicola con la punta delle dita. Quelle mani… Dio. Venose, vissute, ma curate come una reliquia. Portava almeno tre anelli: uno all’indice, uno al medio, uno all’anulare. Tutti in oro, di stili diversi, ognuno con una propria voce, ma insieme raccontavano la stessa cosa: autorità, gusto, possesso.

«Mi eccita vedere un uomo piegarsi. Ma non per debolezza. Per scelta.» Fece scorrere la pianta del piede sul mio collo, poi lungo il petto. Ogni movimento era lento, perfettamente calibrato.

«E tu…» continuò, sbottonando il primo bottone della camicia con una lentezza esasperante, «sei disposto a piegarti, vero? Non solo a me, ma a ciò che rappresento.»

Sapeva di essere altro. Più di una donna, più di una suocera. Era presenza, dominio, femminilità matura che non cercava conferme. Le conferme ce le aveva addosso, incastonate negli anelli, nella curvatura del seno pieno che la camicetta appena sbottonata lasciava intravedere. Un seno generoso, alto, che sembrava sfidare la gravità e ogni aspettativa. Ogni movimento faceva ondeggiare appena la stoffa, rivelando più che nascondere. Era la sensualità che non chiede il permesso.

«Vieni qui. In piedi.»

Mi alzai, tremando appena. Lei mi osservò salire, lo sguardo in su, ma mai inferiore. Anche seduta, con il petto che si alzava e abbassava lentamente, dominava tutto. Sollevò le mani e, con le dita — quelle mani decorate, venose, nobili — mi slacciò la cintura con una lentezza che mi fece trattenere il respiro.

Ogni gesto era accompagnato dal suono leggero degli anelli che si toccavano, tintinnando come campanelli d’oro.
«Non parlare,» ordinò. «Solo ascolta.»

Mi fece sedere accanto a lei, ma più basso. Mi posizionò dove voleva lei. Le sue mani si posarono sulle mie cosce, forti e calde. I suoi polsi portavano il segno di una donna che aveva vissuto, toccato, comandato. Ogni vena raccontava storie che avrei voluto conoscere una ad una.

Si avvicinò con lentezza, fino a sfiorarmi il viso con i capelli sciolti. Il profumo era più intenso, ora: fiori bianchi, spezie e qualcosa di più animale, più umano.
Poi, senza fretta, mi prese la mano e la posò sul proprio petto. Sul seno. Nudo, pieno, vivo sotto la seta ormai aperta della camicetta.

«Questo… non lo do. Lo concedo. Quando voglio. A chi voglio.»

E in quel momento capii. Non si trattava di piacere. Si trattava di potere.
Di offrirsi senza essere posseduta. Di guidare anche nella resa.

La notte scivolò come un rito. Non fu fretta, non fu urgenza. Fu un susseguirsi di gesti misurati, baci lenti, respiri condivisi. Le sue mani, forti, salivano e scendevano sulla mia pelle come una preghiera pagana. Il seno — morbido, pesante, perfetto — era un luogo dove il tempo si fermava. Ogni dettaglio del suo corpo sembrava dire: “Guarda cosa posso ancora fare. Guarda cosa ancora sei disposto a darmi.”

E io davo. Tutto.
Tempo, attenzione, venerazione.

Verso l’alba, eravamo distesi sul divano, lei appoggiata a me, le Louboutin sul pavimento. Le dita dei piedi dipinte di un rosso profondo facevano capolino da sotto la coperta. La luce tenue del mattino filtrava dalle tende, disegnando ombre sul suo seno scoperto, che si sollevava a ogni respiro lento e profondo.

Non parlava. Non serviva.

Aveva già detto tutto.
Col corpo. Con i tacchi.
Con quelle mani d’oro.





scritto il
2025-04-19
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