In Panne (2)
di
sabine19
genere
incesti
In qualche modo ci arrivammo, al podere degli zii. Un'ora di viaggio verso il sole all'orizzonte, lungo un rettilineo infinito. Ero rannicchiata sul sedile, accoccolata sui persistenti odori che mi si erano appiccicati alla pelle. La mente era assente; l'anima era addormentata sul languore del corpo, su piccoli crampi e sensazioni intime, che volevo trattenere il più a lungo possibile stringendo le ginocchia al petto. Fingevo di dormire, con la testa reclinata contro il finestrino semiaperto; in realtà inspiravo intensamente l'aria di quella terra al tramonto, un poco più fresca ma con ancora la memoria di quel pomeriggio opprimente, di quelle ore di deliquio. Andrea guidava assorto, negli occhi la diciottenne dalle cosce lunghe e la bella sorellina, nuda fra le gambe di tutti. La musica dei Doors ci accompagnava smarrendoci.
Una svolta a sinistra e ci apparve la fattoria, sopra il colle; ci stavano aspettando fuori, non essendo state sufficienti dieci telefonate per calmarli. “Eccoci arrivati.” Disse il fratellino con la voce di un condannato all'ergastolo. In effetti quel viaggio era stata la nostra condanna; c'era in ballo un matrimonio, i nostri genitori non potevano muoversi, ed era toccato a noi due.
Scesi dall'auto solo dopo essermi preparata mentalmente ai saluti, quando Andrea era ormai sparito nel primo assalto di abbracci. Furono carini, esageratamente affettuosi con noi che non ci facevamo vedere da sei anni. Dopo l'ultimo bacio e complimento ci separammo disponendoci in cerchio e l'imbarazzo fu totale. Ci osservavano col sorriso bloccato a metà: i nostri parenti erano eleganti, riposati e con la pelle fresca, noi due, dopo il viaggio nell'utilitaria e l'orgia nella polvere, eravamo un disastro e puzzavamo spudoratamente. L'attenzione più morbosa era per me, con indosso solo un top smunto su calzoncini elasticizzati azzurri, aderenti come una seconda pelle sul monte di venere in rilievo. Mai sentita tanto nuda, ma grazie agli occhiali da sole affrontavo spavalda gli sguardi di tutti. La zia (la sorella di nostra madre) risolse la situazione spedendoci subito a lavarci e cambiarci.
La cena, all'aperto sotto gli ulivi, fu simpaticissima. Le cugine s'erano messe a barriera fra me ed i loro mariti e compagni; chiacchieravo addirittura eccitata con quelle curiose, divertendomi a lanciare oltre loro piccoli segnali di seduzione: tenevo le labbra semiaperte mentre ascoltavo, mi stiracchiavo le spalle per mostrare il petto, sistemano un braccialetto e giocavo col piercing all'ombelico. Ogni volta incocciavo nel sorriso di qualcuno od in un cenno di brindisi.
Il resto della tavolata era silenzioso. Avrei voluto saltare il tavolo e correre in soccorso d'Andrea, assediato da due 'zie'. Avrei voluto accucciarmi in braccio a mio fratello, dargli un bacione ed accarezzargli i capelli.
Ancora una volta la zia prese in mano la situazione e ci interrogò dall'altro capo del tavolo; dovevamo raccontare tutto, dopo tutti questi anni. Dissi di me solo quel che si poteva, certo non quello che interessava ai maschietti muti.
Lo zione, dopo il caffè, ci volle far vedere la tenuta sotto la luna: stalle, granaio, frantoio... M'innamorai di quel posto. Camminavo nella luce incerta a braccetto di Andrea ed ero sinceramente affascinata dalle spiegazioni dello zio; ingenuamente mi appoggiai a lui mentre m'indicava la sua collina coperta di ulivi. Si scostò: “E no!, Sabina, non sei più la ragazzina di sei anni fa.” Risi nervosa: “Ma cosa c'entra...? lo faccio anche con mio fratello.”
Continuammo il giro, ma i miei pensieri erano per quell'uomo dal fisico forte, la guancia ruvida e le mani come pale. Era lo zio che prima mi salutava appena ed ora mi avrebbe voluta sola: era uno coi piedi per terra, ma così ingenuo da non rendersi conto che mi stava facendo la corte. Gonfiavo come un'oca il petto sotto la camicetta e sculettavo nella gonnella mentre camminavo sulla punta dei piedi per non sporcarmi le scarpe, ma ora mi reggevo solo al suo braccio. Ci raggiunsero i parenti, allegri e vocianti: la voce dello zio si fece tagliente.
“Li hai stesi tutti.” Mi disse Andrea quando fummo finalmente soli sullo scalone che portava alle nostra camere. Ridemmo come pazzi, abbracciandoci. Ma le sue non erano mani da fratello. “No, non si può.” Mi staccai da lui. Mi carezzò la guancia: “E adesso da chi vado per farmi fare un pompino?” Scivolai nella sua camera: indiavolata lo spogliai con la bocca e caddi in una pace smisurata quando la chiusi in un bacio attorno al suo glande. Ero felice, colma di gratitudine, pervasa da odori e sapori animali, incapace di scollarmi, insaziabile, nuovamente sudata; leccavo la saliva che colava, stringevo con entrambe le mani, gli cullavo i coglioni, desideravo non venisse mai, aspettavo solo quello. Gioivo quando lacrimavo strozzata, dimenavo il bacino cercata dalle sue dita: lo sapeva, solo così poteva con sua sorella.
Aprii le persiane e fui investita da un'ondata di caldo e luce. Mi aveva svegliata un trattore; a fatica emersi dal sonno pesante in cui avevo nuovamente lottato con Pietro e mio fratello. Nemmeno l'acqua fredda della doccia, sotto la quale mi sfregavo intirizzita, mi scollò da quei ricordi. M'asciugai all'aria della finestra.
Era tardi, quasi mezzogiorno, ed erano tutti in città per acquisti, si erano portati dietro anche Andrea; almeno io interpretai così le parole di una prozia. Non avevo fame, dissi all'allibita parente, ed uscii.
C'era lo zio, che puliva il praticello davanti a casa. Ciao, dormito bene, sì benissimo, sei sempre al lavoro, per forza, che bello qui, oggi farà ancora caldo... Ero con lui, svestita come mi piace. All'improvviso, non so perché, dissi che non ero riuscita a chiudere la persiana in camera. “Vengo, ma prima devo ritirare il rastrello.” E si diresse verso il retro.
Risalii in camera rispondendo con un 'sì sì ' alla domanda incomprensibile della vecchietta. Dalla finestra lo vidi rientrare per la porta posteriore.
Mi finsi imbarazzata ad averlo in camera; lo zio lo era veramente. Chiuse la persiana senza difficoltà e ci trovammo in penombra: grazie, dissi con un bacetto sulla guancia dura. La mano mi carezzo timorosa il sedere. Una vampata mi riscaldò l'inguine: glielo offrii ancora. Questa volta la mano fu decisa; mi abbrancò la natica. Da qui in poi fu un uragano. Delle mani mi stringevano i seni, volai letteralmente sul letto, un corpo pesante s'insinuò fra le cosce obbligandomi ad allargarle, la t-shirt mi risalì sul collo, i seni non potevano sottrarsi a baci e morsi, mani callose mi graffiavano le natiche, ottanta chili mi soffocavano sul materasso. Mi tappava la bocca con una mano, con l'altra puntava l'arnese, che intuivo largo e cattivo. Inarcò il bacino sul mio, comprimendomi alle spalle, e mi ci conficcò di peso. Al mio gemito gemette parole d'orrore. Mi coprì il viso con la maglietta, non poteva guardarmi, e cominciò a pompare con disperazione. Diventava sempre più cattivo: non mi scopava, voleva sprofondarmi nel materasso, cancellarmi. Sopravvissi come potei a quella furia; dovevo rilassarmi, cedere alla sua brutalità, agevolare al massimo quel piccone allargando le gambe ed offrendogli i fianchi. Anche così mi faceva male: i denti sbattevano sotto i suoi colpi. Mi morsi la lingua. Il pelo duro del torace mi graffiava i seni. Lo abbracciai alle spalle. Il cinghiale si chetò; ora cercava seni, fianchi e cosce. Mi baciò in bocca attraverso la maglia. Lo allontanai, ci girammo, sempre inchiodati. Mi afferrai alla cieca alle sue spalle, mentre venivo sbalzata in aria da cozzi formidabili; ogni volta ricadevo con una fitta sul palo. Poi il maschio s'irrigidì sotto me, due secondi forse, e schizzò in ripetuti fiotti, che sentivo scorrere nel membro stretto nella mia figa. Il liquido calore dentro me scatenò l'orgasmo.
Ero voltata verso la parete, lui alla finestra, preoccupato dalla presenza in cortile di due lavoranti: non poteva scendere senza essere visto. “Prendi la pillola, vero?” Lo rassicurai senza girarmi. “Lo sapevo. Una troietta come te la prende di sicuro.” Ma era agitato. “Zitta, mi raccomando. Questo non doveva succedere... se parli con qualcuno...” Tuffai il viso nel cuscino: “No, sta' tranquillo.” Allora mi minacciò da dietro: “Non fare la stronza, se no t'ammazzo!”
“Fidati.” Scostai il lenzuolo dalla schiena, puntando i gomiti, raccolsi le ginocchia sotto di me, offrendogli come garanzia il mio culetto.
Una svolta a sinistra e ci apparve la fattoria, sopra il colle; ci stavano aspettando fuori, non essendo state sufficienti dieci telefonate per calmarli. “Eccoci arrivati.” Disse il fratellino con la voce di un condannato all'ergastolo. In effetti quel viaggio era stata la nostra condanna; c'era in ballo un matrimonio, i nostri genitori non potevano muoversi, ed era toccato a noi due.
Scesi dall'auto solo dopo essermi preparata mentalmente ai saluti, quando Andrea era ormai sparito nel primo assalto di abbracci. Furono carini, esageratamente affettuosi con noi che non ci facevamo vedere da sei anni. Dopo l'ultimo bacio e complimento ci separammo disponendoci in cerchio e l'imbarazzo fu totale. Ci osservavano col sorriso bloccato a metà: i nostri parenti erano eleganti, riposati e con la pelle fresca, noi due, dopo il viaggio nell'utilitaria e l'orgia nella polvere, eravamo un disastro e puzzavamo spudoratamente. L'attenzione più morbosa era per me, con indosso solo un top smunto su calzoncini elasticizzati azzurri, aderenti come una seconda pelle sul monte di venere in rilievo. Mai sentita tanto nuda, ma grazie agli occhiali da sole affrontavo spavalda gli sguardi di tutti. La zia (la sorella di nostra madre) risolse la situazione spedendoci subito a lavarci e cambiarci.
La cena, all'aperto sotto gli ulivi, fu simpaticissima. Le cugine s'erano messe a barriera fra me ed i loro mariti e compagni; chiacchieravo addirittura eccitata con quelle curiose, divertendomi a lanciare oltre loro piccoli segnali di seduzione: tenevo le labbra semiaperte mentre ascoltavo, mi stiracchiavo le spalle per mostrare il petto, sistemano un braccialetto e giocavo col piercing all'ombelico. Ogni volta incocciavo nel sorriso di qualcuno od in un cenno di brindisi.
Il resto della tavolata era silenzioso. Avrei voluto saltare il tavolo e correre in soccorso d'Andrea, assediato da due 'zie'. Avrei voluto accucciarmi in braccio a mio fratello, dargli un bacione ed accarezzargli i capelli.
Ancora una volta la zia prese in mano la situazione e ci interrogò dall'altro capo del tavolo; dovevamo raccontare tutto, dopo tutti questi anni. Dissi di me solo quel che si poteva, certo non quello che interessava ai maschietti muti.
Lo zione, dopo il caffè, ci volle far vedere la tenuta sotto la luna: stalle, granaio, frantoio... M'innamorai di quel posto. Camminavo nella luce incerta a braccetto di Andrea ed ero sinceramente affascinata dalle spiegazioni dello zio; ingenuamente mi appoggiai a lui mentre m'indicava la sua collina coperta di ulivi. Si scostò: “E no!, Sabina, non sei più la ragazzina di sei anni fa.” Risi nervosa: “Ma cosa c'entra...? lo faccio anche con mio fratello.”
Continuammo il giro, ma i miei pensieri erano per quell'uomo dal fisico forte, la guancia ruvida e le mani come pale. Era lo zio che prima mi salutava appena ed ora mi avrebbe voluta sola: era uno coi piedi per terra, ma così ingenuo da non rendersi conto che mi stava facendo la corte. Gonfiavo come un'oca il petto sotto la camicetta e sculettavo nella gonnella mentre camminavo sulla punta dei piedi per non sporcarmi le scarpe, ma ora mi reggevo solo al suo braccio. Ci raggiunsero i parenti, allegri e vocianti: la voce dello zio si fece tagliente.
“Li hai stesi tutti.” Mi disse Andrea quando fummo finalmente soli sullo scalone che portava alle nostra camere. Ridemmo come pazzi, abbracciandoci. Ma le sue non erano mani da fratello. “No, non si può.” Mi staccai da lui. Mi carezzò la guancia: “E adesso da chi vado per farmi fare un pompino?” Scivolai nella sua camera: indiavolata lo spogliai con la bocca e caddi in una pace smisurata quando la chiusi in un bacio attorno al suo glande. Ero felice, colma di gratitudine, pervasa da odori e sapori animali, incapace di scollarmi, insaziabile, nuovamente sudata; leccavo la saliva che colava, stringevo con entrambe le mani, gli cullavo i coglioni, desideravo non venisse mai, aspettavo solo quello. Gioivo quando lacrimavo strozzata, dimenavo il bacino cercata dalle sue dita: lo sapeva, solo così poteva con sua sorella.
Aprii le persiane e fui investita da un'ondata di caldo e luce. Mi aveva svegliata un trattore; a fatica emersi dal sonno pesante in cui avevo nuovamente lottato con Pietro e mio fratello. Nemmeno l'acqua fredda della doccia, sotto la quale mi sfregavo intirizzita, mi scollò da quei ricordi. M'asciugai all'aria della finestra.
Era tardi, quasi mezzogiorno, ed erano tutti in città per acquisti, si erano portati dietro anche Andrea; almeno io interpretai così le parole di una prozia. Non avevo fame, dissi all'allibita parente, ed uscii.
C'era lo zio, che puliva il praticello davanti a casa. Ciao, dormito bene, sì benissimo, sei sempre al lavoro, per forza, che bello qui, oggi farà ancora caldo... Ero con lui, svestita come mi piace. All'improvviso, non so perché, dissi che non ero riuscita a chiudere la persiana in camera. “Vengo, ma prima devo ritirare il rastrello.” E si diresse verso il retro.
Risalii in camera rispondendo con un 'sì sì ' alla domanda incomprensibile della vecchietta. Dalla finestra lo vidi rientrare per la porta posteriore.
Mi finsi imbarazzata ad averlo in camera; lo zio lo era veramente. Chiuse la persiana senza difficoltà e ci trovammo in penombra: grazie, dissi con un bacetto sulla guancia dura. La mano mi carezzo timorosa il sedere. Una vampata mi riscaldò l'inguine: glielo offrii ancora. Questa volta la mano fu decisa; mi abbrancò la natica. Da qui in poi fu un uragano. Delle mani mi stringevano i seni, volai letteralmente sul letto, un corpo pesante s'insinuò fra le cosce obbligandomi ad allargarle, la t-shirt mi risalì sul collo, i seni non potevano sottrarsi a baci e morsi, mani callose mi graffiavano le natiche, ottanta chili mi soffocavano sul materasso. Mi tappava la bocca con una mano, con l'altra puntava l'arnese, che intuivo largo e cattivo. Inarcò il bacino sul mio, comprimendomi alle spalle, e mi ci conficcò di peso. Al mio gemito gemette parole d'orrore. Mi coprì il viso con la maglietta, non poteva guardarmi, e cominciò a pompare con disperazione. Diventava sempre più cattivo: non mi scopava, voleva sprofondarmi nel materasso, cancellarmi. Sopravvissi come potei a quella furia; dovevo rilassarmi, cedere alla sua brutalità, agevolare al massimo quel piccone allargando le gambe ed offrendogli i fianchi. Anche così mi faceva male: i denti sbattevano sotto i suoi colpi. Mi morsi la lingua. Il pelo duro del torace mi graffiava i seni. Lo abbracciai alle spalle. Il cinghiale si chetò; ora cercava seni, fianchi e cosce. Mi baciò in bocca attraverso la maglia. Lo allontanai, ci girammo, sempre inchiodati. Mi afferrai alla cieca alle sue spalle, mentre venivo sbalzata in aria da cozzi formidabili; ogni volta ricadevo con una fitta sul palo. Poi il maschio s'irrigidì sotto me, due secondi forse, e schizzò in ripetuti fiotti, che sentivo scorrere nel membro stretto nella mia figa. Il liquido calore dentro me scatenò l'orgasmo.
Ero voltata verso la parete, lui alla finestra, preoccupato dalla presenza in cortile di due lavoranti: non poteva scendere senza essere visto. “Prendi la pillola, vero?” Lo rassicurai senza girarmi. “Lo sapevo. Una troietta come te la prende di sicuro.” Ma era agitato. “Zitta, mi raccomando. Questo non doveva succedere... se parli con qualcuno...” Tuffai il viso nel cuscino: “No, sta' tranquillo.” Allora mi minacciò da dietro: “Non fare la stronza, se no t'ammazzo!”
“Fidati.” Scostai il lenzuolo dalla schiena, puntando i gomiti, raccolsi le ginocchia sotto di me, offrendogli come garanzia il mio culetto.
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