Il girasole con le spine - il sogno

di
genere
dominazione

***

Introduzione: questo testo è il mio primo passo nel mondo della scrittura erotica. Qualsiasi commento o critica al fine di migliorare le mie capacità di scrittore saranno ampiamente apprezzati.

***

Il sottile raggio di sole che filtrava dalla finestra colpiva Dana proprio in faccia, facendola mugugnare nel dormiveglia. Dopo qualche minuto di fastidio, riuscì a trovare le forze per tentare di distogliere la faccia dal fascio luminoso.
Tuttavia qualcosa le impediva il movimento, ma lei non voleva aprire gli occhi: una sensazione di soffocamento attanagliava la sua gola facendola tossire e svegliandola definitivamente.
Aprì gli occhi e fece il gesto di proteggersi la faccia dalla luce mattutina: le sue dita accarezzarono un oggetto metallico che tintinnò lievemente dandole un brivido che percorse per intero il suo corpo nudo.
Abbassò lo sguardo sulla catena che correva sul suo petto come un fiume serpenteggia in una valle di montagna. Ne seguì distrattamente il corso accarezzando con le dita i freddi anelli metallici che formavano anse e bacini, prima di gettarsi oltre il bordo.
La sua mano raggiunse la base del collo dove la catena terminava in un lucchetto. Pur senza abbassare lo sguardo sapeva a cosa era legato e il motivo del leggero senso di soffocamento che provava. Le sue dita afferrarono lo spesso collare in cuoio, indugiando sulla fibbia e sulle piccole punte in metallo che ne ornavano la superficie.
Ricordava molto bene quanto aveva odiato quel collare e il simbolo che esso rappresentava. Quanto aveva cercato di strapparselo di dosso e il male che si era procurata nel tentare di spezzare inutilmente la catena che la teneva legata ad un grosso anello nel muro scrostato del seminterrato.
Ora, supina e con lo sguardo fisso al soffitto, Dana giaceva inerme legata come un animale e privata, oltre che della sua dignità, anche della forza di volontà per ribellarsi al suo destino.

Chiuse gli occhi e la sua mente prese a vagare fra i ricordi confusi e distanti dei mesi precedenti, quando la catastrofe si era presentata in tutta la sua mostruosità.
Ricordava l'ufficio contabile per il quale lavorava, la sua collega che le aveva passato il giornale sul quale capeggiava a caratteri cubitali la notizia di un virus altamente virale che stava consumando i paesi dell'est Europa. Al tempo aveva pensato all'ennesimo allarme pandemia con il semplice scopo di vendere vaccini, probabilmente messo in piedi dalle case farmaceutiche per far quadrare i bilanci miliardari.
Aveva letto di come le volpi venivano abbattute in massa in quanto vettore di una forma particolarmente insolita di Rabbia, molto virale e soprattutto devastante per l'organismo umano.
Al tempo aveva inarcato le sopracciglia e ridacchiato all'apocalittico nome che gli esperti usavano per definire questa malattia: la chiamavano "sindrome del senza-morte".
Il virus colpiva il cervello e le terminazioni nervose, uccidendo l'essere umano e lasciando il corpo praticamente intatto. Dopo alcuni giorni di morte celebrale, dalla poltiglia della materia grigia emergevano delle sinapsi, probabilmente provenienti dalle parti più interne, che rimettevano in funzione l'organismo, almeno per le sue funzioni basilari.
I polmoni tornavano a pompare aria, il cuore a battere e gli occhi a vedere il mondo. Ma la parvenza di vita di cui sembravano infusi era solo un'aberrazione del concetto di "vitalità". Essi infatti mostravano segni di deperimento fisico, come putrefazione delle ferite, degrado delle articolazioni e dei muscoli. Un Senza-morte poteva sopravvivere giorni, anche mesi prima di sfaldarsi completamente.
nel mentre l'essere tornava ad aggirarsi per il mondo dando sfogo ai suoi istinti più primitivi quali il cibarsi.
Ben presto la pandemia raggiunse proporzioni mondiali, colpendo indiscriminatamente tutte le popolazioni e trasformando gran parte dell'umanità in un'orda di appestati vaganti. Intere città furono prese d'assalto da creature claudicanti e dallo sguardo spento, pronte a nutrirsi della prima forma di vita che fosse capitato loro a tiro.
Dana ricordava perfettamente di come una notte aveva visto il suo ragazzo passare dallo stato comatoso, disteso nel suo letto, ad un essere immondo pronto a strapparle di dosso la carne ancora calda. Era riuscita a darsela a gambe approfittando delle lenzuola che avevano ostacolato i movimenti del mostro che poco prima aveva chiamato "amore".

Un suono metallico la fece ripiombare nella vita reale e si alzò di scatto a sedere.
La porta si aprì cigolando e la luce del giorno inondò la stanza. Il primo ad entrare fu Dakan, un grosso cane simile ad un lupo ma completamente nero. Nonostante l'aspetto feroce Dana gli voleva bene come un fratello. Più di una volta l'animale l'aveva protetta dagli assalti al rifugio dei Senza-morte e la aveva scaldata quando gli spifferi sferzavano il suo corpo nudo e la logora coperta non bastava a scacciarli.
Dakan attraversò la stanza e si mise a bere dalla ciotola di Dana le poche dita d'acqua che ancora vi restavano. Lei lo lasciò fare: da tempo aveva perso il tratto schizzinoso che l'aveva caratterizzata durante l'adolescenza. Ora condivideva con lui cibo, acqua e persino la toilette.
Riportò lo sguardo sulla figura in piedi sulla porta, circondata di luce come un angelo: le braccia incrociate sul petto, le gambe possenti divaricate e la testa leggermente inclinata mentre la esaminava.
Dana sentì un brivido correrle nuovamente lungo il corpo mentre i suoi occhi la trapassavano da parte a parte, esplorando avidamente il suo corpo nudo e i suoi capelli neri come l'inchiostro. sentì un soffio profondo uscire dalle sue narici, come quello di un toro che si prepara a caricare, ma non avvenne nulla. Lui rimase immobile a fissarla per diversi istanti e l'unico suono udibile era il lappare del cane alle sue spalle.
Poi la magia si ruppe e lui entrò nella stanza chiudendosi la porta alle spalle con un colpo secco.
"Buongiorno Padrone".
Si affrettò a dire lei. Lui le passò accanto senza dire nulla, appoggiando lo zaino su di una sedia al centro della stanza. Gli guardò la schiena possente; le braccia che fuoriuscivano dal gilé consunto erano bruciate dal sole, ma mettevano in bella vista i muscoli tonici.
Non sapeva che lavoro facesse prima dell'Apocalisse - così la chiamava - ma evidentemente si trattava di un impiego all'esterno e di fatica.
Ma quello che la colpiva di più dell'uomo che la teneva in pugno erano gli occhi: neri come il carbone, profondi come un abisso oceanico e intensi come lo sguardo del lupo che segue una preda di soppiatto.
Senza voltarsi lui disse:
"I senza-morte del paese qui sotto si sono spostati durante la notte, probabilmente alla ricerca di cibo. Sono riuscito a procurare qualcosa da mettere sotto i denti e un paio di bende pulite".
"Pensi se ne siano andati, Padrone?" chiese lei timidamente. Fare delle domande implicava spesso che lui reagisse in modo brusco, a volte colpendola al volto con uno schiaffo. Tuttavia la caccia fruttuosa doveva averlo messo di buon umore, perché si limitò a dire.
"Non credo, probabilmente torneranno a breve. Per questo non ci siamo fermati a lungo".
Terminò di riporre quello che aveva trovato poi aggiunse:
"Alzati, usciamo".
Andò al muro, sganciò la catena dall'anello e senza nemmeno controllare se Dana si fosse alzata, si diresse verso la porta. Lei lo seguì senza aprir bocca e facendo attenzione a dove metteva i piedi.
La casa era una piccola costruzione sulla cima di una collina. Il seminterrato portava, attraverso una scala, su di una brughiera che scendeva per almeno un chilometro e mezzo verso un bosco di pini.
Dakan li precedette correndo e annusando qua e là come se fosse la prima volta che usciva dopo mesi. Dana procedeva a testa bassa, strattonata dalla catena al collo che lui tirava di tanto in tanto per tenerla al passo.
Ad un certo punto il cane si fermò davanti ad un cespuglio e, infischiandosene completamente del pubblico, si acquattò ed iniziò a defecare. Mentre stava ancora raspando il terreno con le zampe posteriori, lui la spinse in quella direzione. Mordendosi la lingua Dana si avvicinò al punto dove poco prima Dakan aveva espletato i suoi bisogni e si accovacciò, evitando di alzare lo sguardo.
Dopo qualche istante un rivolo di urina iniziò a percorrere il terreno fangoso e, a poca distanza, iniziò a defecare. Era così mortificante per una donna come lei. Tenuta al guinzaglio, completamente nuda e pure osservata da un estraneo e dal suo cane, mentre compiva un'azione che reputava così intima come quella di andare di corpo. Arrossì violentemente e cercò di concentrarsi solo su non sporcarsi con i suoi stessi escrementi.
Finito che ebbe rimase per qualche momento a fissare il panorama che la circondava, quando uno strattone deciso la fece alzare in piedi e voltare nello stesso momento. Il suo sguardo incrociò quello di lui e per un attimo vi lesse qualcosa di più del semplice divertimento. Una punta di sadismo, quasi innaturale. Come se la visione di lei a quattro zampe mentre andava di corpo completamente nuda fosse stato uno spettacolo entusiasmante. Poi la luce si spense, lui si voltò e iniziò a risalire la china.
La condusse sul retro del rifugio dove c'era uno spiazzo in cemento che aveva adibito a lavanderia. Spingendola senza tanti complimenti contro al muro le aprì l'acqua di una doccia rudimentale costruita con un innaffiatoio e una botte per l'acqua piovana installati sopra ad un ripiano rialzato.
L'acqua era poco più che gelata e lei rabbrividì sotto al getto incostante, ma non disse nulla. Per un po'cercò di lavarsi con le proprie mani, dando le spalle all'uomo che nel mentre se ne era rimasto in disparte.
Ma dopo un minuto lo sentì avvicinarsi e avvertì la sua mano calda su una natica. Il calore in sé non le dispiacque, ma intuendo le sue intenzioni si morse il labbro inferiore e chiuse gli occhi.
La sua mano le accarezzò delicatamente il fondo-schiena per qualche breve istante. Poi sentì le sue dita insinuarsi nella fessura fra le sue cosce. Avvertì distintamente le dita sfiorarle le labbra con movimenti lenti e ritmici, a tratti insinuandosi leggermente all'interno per poi ritrarsi di scatto come il muso di un topo nella sua tana.
Poi la mano risalì e sentì distintamente il dito indice sfiorarle lo sfintere con movimenti circolari: avvertì chiaramente la leggera pressione e per un attimo temette che volesse inserirlo per saggiarne la resistenza. Poi, così come era arrivata, la mano sparì e lei rimase in piedi nuda e tremante, ancora una volta la sua femminilità era stata calpestata da quell'essere apparentemente senza un'anima.

Il pomeriggio trascorse lento: dopo averla riportata all'interno e dopo aver fissato la catena al muro, lui uscì e richiuse la porta. Dana lo sentì trafficare con la legna nel magazzino e nel bosco lì vicino.
Perse la cognizione del tempo: a volte la lasciava incatenata a casa e lavorava all'esterno. Altre volte la portava con sé, avendo cura di vestirla lo stretto indispensabile perché i rami del sottobosco non la graffiassero e perché non prendesse freddo.
Si perse nei meandri dei pensieri chiedendosi in quale altro animalesco modo l'avrebbe umiliata nei prossimi giorni, quando sentì un verso orribile provenire dall'esterno. tutt'ad un tratto si rese conto che i rumori di legna erano cessati e ora si avvertivano dei passi strascicati lungo tutto il perimetro della casa.
Alzò tremante lo sguardo verso le finestre a soffitto del seminterrato e vide dei piedi avvolti in logore scarpe muoversi strascicati sul terreno circostante. Poi sentì un gran fracasso provenire dalla porta alle sue spalle.
Fece appena in tempo per voltarsi e vedere una di quelle orribili creature balzarle addosso, la faccia scheletrica distorta in un ghigno, la bocca con i denti marci aperta pronta per morderla.
L'urlo che le uscì di bocca fu sufficiente per farla svegliare. Si guardò attorno, ma non vide nessun Senza-morte. la porta era perfettamente chiusa e Dakan la stava guardando attonito, la testa reclinata di lato in quel modo che solo i cani hanno per chiederti "va tutto bene?".
"Hai fatto un brutto sogno".
La voce dell'uomo proveniva dalla dispensa, un piccolo sgabuzzino con dei ripiani polverosi che insieme avevano riempito di cibarie.
Per un attimo Dana si chiese se la stesse prendendo in giro, ma non trovò traccia di scherno nel suo sguardo. Se ne stava lì, con una scatola di piselli e carote, a fissarla.
Quel breve attimo passò e lui tornò al tavolo dove stava preparando la cena.
"Padrone, mi dispiace, io..." - iniziò lei, ma lui la interruppe con un cenno della mano.
"Ho visto che dormivi e ho pensato di non svegliarti. Vieni è pronta la cena".
Dana si avvicinò al tavolo sul quale c'erano alcune lattine, un bidoncino bianco con dell'acqua e una scatola di biscotti di riso soffiato. C'era una sola sedia, mentre una ciotola era posizionata sul pavimento di fianco ad essa.
La catena non le consentiva di arrivarci nemmeno mettendosi a quattro zampe e lui la osservò inginocchiarsi per terra, lo sguardo basso, le mani appoggiate sulle cosce nude.
Le rovesciò il contenuto di una lattina di piselli e carote nella ciotola metallica e lei notò che c'erano ancora i resti di un pasto: la cena di Dakan, che si stava ancora leccando i baffi. Col tempo aveva imparato a farsi andare bene anche quel genere di trattamento, anche se le prime volte avrebbe tanto voluto vomitare. Ma quando l'unico pasto disponibile nel raggio di 100 km era sotto al suo naso, aveva smesso quasi subito di fare la schizzinosa.
Lui le appoggiò la ciotola davanti, lei ringraziò senza staccare lo sguardo da terra, si chinò in avanti e iniziò a mangiare. Le aveva proibito di usare le mani per portarsi il cibo alla bocca per cui la sua faccia sprofondava dentro la ciotola. Il lucchetto tintinnava contro il bordo metallico, ma non ci faceva caso. Voleva solo finire di mangiare il più in fretta possibile.
Mentre il sole tramontava fuori dalle finestre e il cielo si colorava prima di rosso e poi di viola, lui terminò di mangiare. Dopo averle buttato alcuni pezzi di biscotto di riso per terra e dopo che lei li ebbe raccolti con la bocca, le toccò dapprima lavare piatti e ciotola, ed infine preparare il letto del suo padrone.

Impegnata a piegare le lenzuola non si accorse che lui intanto si era svestito. Avvertì il contatto del suo corpo caldo e di un forte braccio avvolgerle la vita.
Lui la afferrò per il collare e la strinse a sé, rovesciandole la testa all'indietro. Avvertì il suo respiro profondo mentre il braccio libero le accarezzava con movimenti lenti la pancia, per poi spostarsi ai seni. Le afferrò un capezzolo e lo strinse delicatamente.
Lei mugolò di fastidio e piacere al tempo stesso. Chiuse gli occhi e sperò che smettesse di dedicarle quelle sgradite attenzioni. Ma sapeva che si sbagliava se pensasse che l'avrebbe lasciata andare: sentiva infatti il suo pene premerle contro le natiche con movimenti ritmici e lo sentiva indurirsi di attimo in attimo.
Con un sussurro carico di desiderio lui le chiese:
"Sei nel periodo fertile?"
Per un istante il tempo si congelò e lei rifletté sulla possibilità di scampare al suo destino. Esaminò le varie possibilità a sua disposizione e alla fine decise di scommettere sul cavallo più malandato.
"Sì Padrone, mi dispiace."
Lui rimase interdetto per un istante e lei pensò di averla scampata. Poi si rese conto del suo sbaglio e si maledisse.
Si sentì spingere e si ritrovò carponi sul letto. Sentì le sue labbra percorrerle la schiena, lasciando qualche bacio qua e là come un amante desideroso. La sua bocca indugiò sul suo bacino mentre le sue mani accarezzavano le sue cosce.
Dana udì sé stessa sussurrare "no ti prego, no" quando sentì le sue mani calde e forti allargare le sue natiche, mettendo in bella vista la sua vagina e il suo ano. Percepì le sue labbra baciarle sofficemente il coccige, mentre la sua bocca scendeva.
Sentì le sue labbra posarsi sul suo sfintere, la lingua sfiorarle l'anello con lentezza quasi innaturale. Artigliò le lenzuola e chiuse gli occhi mentre l'avvertiva fare capolino attraverso il suo buco. La sentiva accarezzarle le sue parti interne e, nonostante avesse un certo che di erotico, sapeva esattamente che era solo il preludio di qualcosa di molto doloroso.
Anni prima aveva avuto qualche rapporto anale con il suo ragazzo, ma era stato diverso: prima di tutto non era incatenata, né segregata come una schiava. Inoltre lui era stato dolce e si era premurato di fare in modo che lei non provasse dolore. ora invece sapeva che quel rozzo animale le avrebbe infilato il suo membro fremente nel culo senza nessun ritegno e come minimo l'avrebbe fatta sanguinare.
Lui la leccò e le salivò all'interno per un tempo infinitamente lungo. Dana strinse i denti quando lo sentì rialzarsi e accarezzarsi il pene. Aprì gli occhi e cercò nella stanza la presenza tranquillizzante di Dakan. Lo vide sdraiato sotto al tavolo che li osservava con la testa fra le zampe.
Sentì la punta del suo membro sfiorarle lo sfintere e si preparò all'imminente ordalia. Tentennò qualche istante, massaggiandole l'entrata del tunnel con movimenti circolari. Poi lo sentì impugnare la catena e avvertì contemporaneamente una leggera trazione del collare e della pressione all'entrata del suo ano. Con esasperante lentezza avvertì il suo membro penetrare dentro di lei, allargandola senza difficoltà.
Nonostante il desiderio il rapporto fu perlopiù lento ed intenso. Dopo un primo momento di fastidio dovuta alla presenza del pene di lui nel suo retto, Dana iniziò a provare piacere. Ma avrebbe sempre negato a sé stessa di provarlo. Mai si sarebbe umiliata a tal punto: lei, una donna libera ed indipendente, messa a quattro zampe e sodomizzata come una puttana di bassa categoria. E le piaceva pure! No, piuttosto avrebbe dato la colpa all'astinenza, che la spingeva a provare piacere nonostante la brutta situazione.
Eppure, nonostante una parte della sua mente tentasse ancora di ribellarsi, una regione sempre più vasta stava accettando l'idea che essere una Cosa, un Oggetto, fosse perlomeno eccitante. Odiava sé stessa per questo ma sentiva che cominciava a piacerle. In effetti si era sempre lamentata con le sue amiche che nella vita aveva sempre avuto sfortuna con gli uomini: mucchi informi di muscoli senza spina dorsale. nessuno che fosse mai stato in grado di prenderla seriamente, né fuori né tanto-meno a letto. Una volta era pure andata su un sito di video porno per cercare video di sesso violento, per vedere fino a che punto un uomo potesse spingersi nello scopare selvaggiamente una donna. Ma era rimasta delusa perché la tizia, ammanettata ad un calorifero, gridava come una bestia agonizzante e più che erotico era uno spettacolo grottesco, con lui che finiva per lo zampillarle in faccia un paio di stitici schizzi di sperma.
Ora invece eccola lì, a quattro zampe, sodomizzata e umiliata da un uomo che l'aveva costretta in schiavitù e dalla quale dipendeva completamente in fatto di protezione e sostentamento. E a proposito, cominciava ad avvertire un certo bruciore in mezzo alle gambe, segno che il "lubrificante" stava iniziando ad asciugarsi.
Mentre era assorta in questi pensieri avvertì la sua mano infilarsi nella cinghia al collo, afferrandola saldamente. D'un tratto si ritrovò impennata a mezz'aria, impalata sul suo pene completamente eretto, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata su un silenzioso "OH".
Con la testa reclinata sentì il suo fiato sfiorarle la guancia, le sue labbra a meno di un centimetro dal suo orecchio destro: in quella posizione lui le sussurrò con voce tremante di desiderio:
"Dimmi che sei mia".
Lei non rispose, non sapendo cosa dire. Sentì la presa farsi più energica e il collare iniziò a stringersi, facendole mancare l'aria.
"P...Padrone....io..."
"Dimmi che sei mia, schiava!" Le disse lui con voce calma ma decisa.
"S...sono tua...sono la tua schiava..." disse lei con voce strozzata. La presa si allentò leggermente
"Cos'hai al collo schiava?"
"Un collare...Padrone"
"E cosa rappresenta?"
Dana ci pensò un momento di troppo. Ma lui non la strattonò; si limitò a respirare calmo contro il suo orecchio, una mano saldamente avvinghiata alla sua pancia, il suo membro sempre eretto dentro di lei.
"Rappresenta il tuo totale controllo su di me, Padrone". Dana non riuscì a credere che quelle parole erano uscite dalla sua bocca. Si sentiva al tempo stesso umiliata ed eccitata. Sentiva di aver commesso un passo in più verso la sua sottomissione, ma nonostante tutto un desiderio malato cominciava a farsi breccia nelle tenebre del suo cervello.
Lui rimase in silenzio, forse assaporando le parole che aveva appena pronunciato. Poi lei aggiunse timorosa.
"Sono tua, sono la tua cagna, Padrone".
Con un grugnito lui la sbatté con violenza sul letto, la faccia sprofondata nel cuscino che aveva il suo odore. Sentì la sua mascolinità mentre avvertiva la sua pancia adagiarsi sulla sua schiena.
Dopo un istante riprese a martellarla da dietro, la mano ancora stretta sul suo collare. La strattonava contro di sé facendole mancare l'aria.
Dana iniziò a boccheggiare per la mancanza di ossigeno mentre lui la sbatteva con selvaggia violenza contro di sé. Avvertiva il fondo-schiena esploderle di piacere. Un piacere intenso, perverso, procurato dal suo cazzo che affondava fino nelle sue parti più remote, toccandole punti che generavano nel suo cervello scintille di piacere estatico come fuochi d'artificio durante una notte nera.
Gli schiaffi secchi dell'impatto dei due corpi furono ben presto accompagnati da gemiti di lei e da grugniti di lui.
Il ritmo si intensificò mentre il suo pugnale usciva e ripiombava dentro di lei senza trovare più nessuna resistenza.
Ad un tratto le crollò addosso sdraiandola a pelle di leone sul letto. Sentì distintamente il suo membro contorcersi come una biscia trafitta a morte da uno spiedo mentre aspettava l'inevitabile. Poi lo avvertì: un getto caldo le invase le sue parti più interne e intime, inondandole il retto con la sua viscosa liquidità.
Lui gemeva di piacere con la faccia affondata nei suoi capelli, la mano saldamente ancorata al suo collo.
Avvertì sette, forse otto schizzi del suo caldo seme, poi tutto divenne nero e lei rimase ad occhi chiusi sotto di lui, ansimante.
Restò immobile per alcuni minuti finché, con uno *SLURP* non sentì il suo pene fuoriuscire dal suo ano deformato. Avvertì la carne ormai morbida scivolarle fra le natiche e lungo la coscia,, e lasciando dietro di sé una scia umida che Dana sentì seccarsi a contatto con l'aria.
Lui rimase dov'era giocherellando con una ciocca di capelli, il respiro lento e profondo come quello di un orso ormai caduto in letargo.

Era ormai buio quando lui la scostò e si coricò. Con disappunto di Dana, venne "gentilmente" accompagnata al bordo del letto, dove fu scaraventata senza troppo riguardo sul pavimento. La catena tintinnò metallica mentre raggiungeva gattonando la sua coperta.
Non si era aspettata di poter passare la notte con lui, ma perlomeno di non essere scaricata come un sacco dell'immondizia.
Ora invece se ne stava lì, accoccolata per terra in una coperta logora, le gambe strette per non sentire il suo seme colarle fra le cosce fuoriuscendo da un buco che per un po' non avrebbe trattenuto più nulla.
Ma nonostante tutto questo per un istante prima di addormentarsi, Dana si sentì bene: l'uomo che la nutriva dormiva a due passi da lei, e poteva sentire l'odore del pelo del cane che la proteggeva.
questo cocktail di sensazioni, miste alle emozioni che turbinavano nella sua testa le procuravano una sorta di pace interiore.
Come l'esploratore dell'artico che, sorpreso da una tormenta di neve e dopo aver lottato per giorni si abbandona esausto nella neve, così ora Dana si stava lasciando andare nel sonno cullata dal respiro dei due maschi che avrebbero vegliato su di lei.
scritto il
2017-07-22
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