Mio padre, il mostro

di
genere
pulp

- - - - - per ricordarci di cosa è veramente l'incesto... - - - - -

Stavo lentamente riprendendo coscienza di me. Ormai sapevo cosa mi stava accadendo. Prima, lentamente ritorna l'udito, e sentivo il suono rauco di un uomo che sta facendo un qualche tipo di sforzo. Poi il senso del tatto, e mi sentivo schiacciare da un corpo pesante che mi opprimeva il petto, impedendomi quasi di respirare. Infine la vista. E allora, quando aprivo gli occhi, vedevo il suo volto.
Il volto di mio padre.
Mi aveva legato al letto, ancora. Lo aveva fatto quando ero svenuta. Lo faceva sempre. Mi legava mani e piedi ai pilastrini del letto, con le braccia e le gambe spalancate. Così era più facile per lui fare quello che preferiva.
Ormai sapevo che aveva quasi terminato di violentarmi per l'ennesima volta. Avevo dimenticato quante volte lo aveva già fatto.
Adesso sono perfettamente sveglia e volto lo sguardo dall'altra parte, per non guardare quei suoi bellissimi occhi verdi, socchiusi per il godimento.
Solo il suo, però. Io non contavo niente. Ero solo una troia, dopotutto. Lo diceva ogni volta.
I suoi occhi erano la parte più bella di mio padre. Penetranti occhi verdi, del colore dei prati in primavera.
Lui e la mamma sono separati da tempo. E questo era il suo turno per le vacanze estive. Ero grande a sufficienza per viaggiare da sola e avevo preso il treno per andare da lui. All'arrivo mi aspettava alla stazione. Appena lo vidi gli corsi incontro e lo abbracciai forte. Non era ancora il mostro.
Mi ero messa un bel vestitino colorato proprio per lui. Gli volevo ancora bene perciò mi ero fatta bella. Mi ero persino messa un push-up per gonfiare un po' il seno, per fargli vedere quanto ero cresciuta dall'ultima volta che ci eravamo visti.
Beh… lo aveva apprezzato, dopotutto. Non smise mai di farmi complimenti per tutto il tragitto fino a casa. Abitava in un villino alla periferia del paese, piuttosto isolato.
Quando arrivammo, prese la valigia dal baule dell'auto ed entrammo in casa.
Appena la porta fu chiusa, si voltò verso di me e all'improvviso mi diede un violento ceffone in viso.
— Ti pare il modo di andare in giro? Con questi vestiti sembri una troia! Vai a cambiarti! Subito! E levati anche il trucco! — mi urlò in faccia.
Stavo per rispondergli che anche le mie amiche si vestivano così, che me ne diede un altro.
— Cosa stai aspettando! Muoviti!
Presi la valigia e andai in camera, tenendo una mano sulla guancia dolorante.
Mi tolsi il vestitino e mi misi un paio di jeans e una maglietta. Poi andai in bagno a struccarmi. Finito di fare quello che papà mi aveva ordinato, ritornai in soggiorno.
Mi scusai e lui emise un grugnito di difficile interpretazione.
— Scusami anche tu, tesoro. Non avrei dovuto picchiarti. Mi dispiace.
— Fa nulla, papà. Va bene vestita così? — gli chiesi con un sussurro.
Emise di nuovo quel grugnito.
Visto che era quasi ora di cena, si mise ai fornelli e quando cercai di dargli una mano, mi rispose che non era necessario, che ormai era abituato a prepararsi da mangiare da solo.
Allora mi misi sul divano, col cellulare in mano. Ero nel bel mezzo di una conversazione fatta a messaggini, quando lui si mise sulla porta della cucina.
— Spegnilo immediatamente. Ti rende il cervello in pappa se continui così.
— Sì, papà. Rispondo ad una mia amica e poi lo spengo subito.
Papà si voltò e ritornò in cucina ed io ritornai a messaggiare. Dopo neanche due minuti, papà arrivò a passo di marcia, mi strappò il cellulare dalle mani, lo buttò a terra e lo calpestò, rompendolo.
— Papà! Cosa fai! Mi è costato 300 euro!
Per tutta risposta mi diede un altro ceffone. E poi un altro. E ancora, ancora, ancora.
— Non devi rispondermi a questo modo! Sono tuo padre! Adesso raccogli i pezzi e buttali nella spazzatura.
Andai in cucina a prendere paletta e scopino, con le lacrime agli occhi.
Senza farmi vedere da lui, riuscii a recuperare la sim card e micro sd con tutti i dati salvati, e li misi in tasca.
Non si era mai comportato in questo modo, e cominciai ad avere paura.
Quando tutto fu pronto, mise i piatti in tavola e ci sedemmo a mangiare.
Ma a me faceva male a masticare, per cui ingoiavo la pasta quasi intera. Quando ebbi finito la pasta, dissi a mio padre che non avevo più fame. Non avevo il coraggio di dirgli che mi faceva male dove mi aveva colpito.
Quando anche lui finì di mangiare, lavai i piatti e poi me ne andai a letto.
Questa vacanza si stava trasformando in un incubo.
Quando mi svegliai la mattina, preparai la colazione anche per lui. Non volevo dargli ancora un motivo per picchiarmi di nuovo.
Avevo fatto male i miei conti. Quando mi vide il pigiama che indossavo, una leggera canottiera, senza reggiseno e un paio di shorts sgambati, mi urlò di nuovo.
— Troia! Sei proprio una troia! Lo fai apposta, eh?
Mi si avvicinò e mi diede ancora un ceffone. Anzi altri quattro. Più altri colpi sulla testa. Mi prese per un braccio e mi trascinò in camera.
— Adesso mi fai vedere che razza di vestiti ti sei portata!
Mezza intontita dalle botte, presi ogni singolo indumento per volta e glielo mostrai. Non aprì bocca neanche una volta.
— Adesso l'intimo!
Erano già diversi anni che portavo l'intimo di pizzo e non osavo farglieli vedere.
— Papà, per favore… — lo supplicai.
Fece cenno di no con la testa.
Aprii il cassetto e li deposi sul letto.
— Avevo ragione. Sei proprio una troia. Solo le puttane si mettono queste cose!
E mi arrivò un'altra sberla sulla testa.
— Quest'oggi te li compro io dei vestiti da indossare!
Si voltò e uscì di casa. Mi vestii con le stesse cose di ieri, visto che gli andavano bene.
Cercai il telefono, per avvisare la mamma che ero arrivata e che preferivo tornare a casa. Non lo trovai in nessuna stanza. Quando feci per uscire dalla porta, mi accorsi che ero chiusa dentro. Non potevo nemmeno uscire da una finestra perché c'erano le sbarre. Ero imprigionata nella casa di mio padre.
Lui tornò dopo mezz'ora, con una borsa di vestiti. Me la lanciò attraverso il soggiorno.
— Mettiti questi! Subito!
Andai in camera per cambiarmi. Aprii la borsa e vi trovai dei grembiuloni come quelli che portava la mia bisnonna e ruvide mutande di cotone, e neanche della mia misura.
Per tutto il tempo che ci impiegai a cambiarmi, piansi. Andai in bagno a lavarmi la faccia e poi tornai in soggiorno.
Sembrava che si fosse calmato un po'. Allora tornai in camera e presi libri e quaderni per i compiti delle vacanze. Senza cellulare, mi restava solo quello da fare.
— Prepara il pranzo per le 12.30. Io ho da fare.
Papà uscì di nuovo e mi chiuse in casa. Lasciai i libri sul tavolo della sala e andai in camera. Misi nella valigia i miei vestiti. Non volevo dargli altre opportunità, poi mi spogliai, mi buttai sul letto e piansi ancora.
Dovevo essermi addormentata perché quando rientrò e vide che il pranzo non era pronto, venne a cercarmi.
Era letteralmente infuriato.
— Non sei neanche capace di fare una cosa semplice come preparare il pranzo, eh, troia? Sei inutile! Esattamente come tua madre! Un'inutile troia!
E mi picchiò di nuovo. Quel giorno fu anche la prima volta che persi i sensi e mi lasciò sanguinante sul tappeto. Avevo lacerazioni sul labbro e sangue che gocciolava dal naso.
Mi alzai e andai in bagno a lavarmi e lavare il tappeto. Ormai ero terrorizzata da lui. Doveva per forza essergli successo qualcosa per rendere il padre affettuoso che conoscevo nel mostro che ora avevo davanti.
Mi sistemai un po' e poi andai in cucina. Lui non c'era. Sul tavolo c'era una busta vuota di prosciutto sottovuoto e le briciole di un panino. Guardai la sveglia.
Erano già le due. Mi versai un bicchiere di latte e lo bevvi lentamente, facendo attenzione alle ferite. Pulii il tavolo e poi lavai i piatti che c'erano in giro.
Avevo mal di testa per tutte le volte che mi aveva colpito. Non riuscivo nemmeno a studiare. Presi una pastiglia, per cercare di lenire i dolori.
Verso le cinque mi alzai dal divano, con l'intenzione di preparare qualcosa per cena. Nel frigo non granché, qualche uovo, prosciutto, latte, formaggio, salsa di pomodoro. Negli altri armadietti non c'era di meglio. Una scatola di pasta, una di riso, un vasetto di sottaceti, una dozzina di scatolette di tonno.
Potevo fare la pasta con sugo di tonno e una frittata al prosciutto.
E se poi non voleva che preparassi la cena? Mi avrebbe picchiato.
“Stupida” dissi a me stessa. “Ti picchierà in ogni caso. Se lo vuole. Tanto vale farlo a pancia piena. Sono comunque cose che posso preparare in meno di mezz'ora. Conviene che aspetto quando torna” conclusi quel monologo nella mia testa.
Andai in bagno a controllare il tappeto. Era quasi asciutto ed era pulito.
Alle sei e trenta rientrò papà. Quando mi vide si bloccò stupito.
— Scusami tesoro. Non volevo picchiarti. Mi dispiace. Ti fa male?
— Non tanto, papà. Non preoccuparti.
Lui annuì.
— Per stasera, ti va bene se ti preparo la pasta con sugo di tonno e una frittata al prosciutto?
Fece spallucce e andò in bagno. Io andai in cucina e cominciai a preparare la cena.
Quando tutto fu pronto, andai in camera a chiamarlo, per dirgli che era pronta la cena.
Quando aprii la porta, vidi che era nudo e stava facendo le flessioni.
— Nessuno ti ha insegnato che si bussa prima di entrare in una camera chiusa, eh? — urlò di nuovo.
Mi immobilizzai.
— Scusa papà. Volevo solo dirti che è pronta la cena.
E feci per andarmene.
— Torna indietro! Vieni qui!
Ero sempre più spaventata e il fatto che era nudo non migliorava la situazione.
A piccoli passi entrai e mi misi davanti a lui guardando il pavimento.
— Troia! — e mi diede un ceffone.
Poi prese l'orlo del grembiulone che indossavo e me lo strappò di dosso.
— Adesso te la insegno io l'educazione!
Prendendomi per un braccio mi spinse sul letto.
— Sei una puttana, vero? Guardati! Ma che razza di puttana sei, se non hai neanche un filo di tette! Sei piatta come una tavola di biliardo!
Poi con degli strattoni mi tolse le mutande.
— E lì? Guardati! Depilata come una puttana!
Mi diede un altro ceffone.
Cercai di coprirmi e nello stesso tempo di ripararmi dalla sue sberle. Avevo gli occhi chiusi per la paura.
Sentii che saliva sul letto e aveva il respiro accelerato. Socchiusi gli occhi per cercare di capire cosa aspettarmi. E vidi che si stava smanettando.
Oddio! Voleva violentarmi! Ero proprio terrorizzata, ora.
— No, papà… non farlo… ti prego… non lo fare… ti supplico… — lo implorai.
E per tutta risposta.
— Zitta troia! Adesso te lo metto dentro e guai a te se urli!
— Ti prego papà… non lo fare… — lo implorai di nuovo.
— Togliti le mani di dosso e stenditi.
Invece io cercai di alzarmi dal letto e scappare dalla camera. Arrivai solo alla porta. Mi afferrò e mi ributtò sul letto. Si mise a cavalcioni sopra di me.
Io cercavo di respingerlo con le mani e piegando le ginocchia, ma non riuscivo a fare più di tanto.
Poi mi aprì le gambe con la forza e con un unico movimento mise il suo cazzo dentro di me.
Un rivolo di sangue sporcò il letto.
Il suo cazzo entrò tutto dentro con forza. Sentivo che stava mi stava allargando le pareti della vagina. La cappella strusciava con vigore ed il movimento di mio padre, dentro e fuori dalla mia fica, mi stava facendo male perché non ero bagnata. Piansi e urlai, per buona parte dell'amplesso. Ma lui era molto più forte di me e non riuscii ad impedirgli di fare quello che voleva.
Alla fine mi diedi per vinta e lo lasciai fare. Restai immobile fino a lui ebbe finito. Mi venne dentro.
Dopo essersi soddisfatto per la seconda o terza volta, si alzò. Ritornò quasi subito con quattro corde in mano e fece dei lacci ad una delle estremità di ogni corda.
— Dammi le mani — mi ordinò.
Allungai entrambi i polsi verso di lui, ma ne afferrò uno solo, legando la mano ad un pilastrino del letto. Fece la stessa cosa con l'altra e con i piedi, lasciando un po' più di libertà di movimento. Adesso ero bloccata e non potevo più muovermi.
— Così non potrai graffiarmi! Hai visto cosa mi hai fatto! Guarda che graffi!
Era ancora arrabbiato.
Uscì dalla camera e sentii che andava in cucina. Riscaldò il cibo nel microonde.
Dopo un bel po' tornò da me con un piatto in mano e la forchetta nell'altro. Mi imboccò con la pasta. Poi tornò in cucina e ritornò con la frittata.
— Almeno così non abbiamo sprecato quello che hai preparato.
Posò il piatto su comodino, poi ricominciò a smanettarsi. Solo allora notò il sangue sul letto.
— Sai, una troia vergine non l'avevo mai vista. Ma noi due non abbiamo ancora finito — disse sogghignando.
Quella notte andò avanti a scoparmi per ore, tanto ormai io non reagivo più nemmeno.
Solo al mattino, prima che uscisse di casa, mi liberò dai lacci. Avevo le braccia e le gambe intorpidite per la lunga immobilità.
Prima di andarsene mi disse di preparargli da mangiare per le 12.30 e di scusarlo per quello che mi aveva fatto.
Io rimasi sul letto a piangere per delle ore, poi mi feci due o tre docce. Ma comunque feci quello che mi chiese. Il pranzo era pronto quando lui rientrò.
Si mise subito a tavola, senza dire una parola.
Poi gli squillò il cellulare. Guardò lo schermo e poi me.
— Tua madre. Guai a te se dici una parola sbagliata. Le conosci le conseguenze.
Annuii e lui rispose.
— Grazia! Ma che sorpresa!
Io non sentivo quello che mamma diceva, ma riuscivo ad intuirlo dalle risposte che dava.
— No, no, sta bene. E che gliel'ho confiscato. Stava sempre col telefono in mano!
Ora parlava mamma.
— Certo è qui. Te la passo.
Papà mise il vivavoce e lo posò sul tavolo.
— Pronto, Anna? Perché non mi hai chiamato, tesoro? Ero preoccupata… e tanto.
— Scusa mamma, ma come ti ha detto papà non ho più il telefono, e nel frattempo si sarà scaricato. Non preoccuparti, però. Sto bene.
Mi veniva da piangere.
— Ah, bene. Meglio così.
Continuammo a parlare del più e del meno per un po' e poi riattaccò.
— Brava bambina — disse papà, compiaciuto. — Adesso prepara il caffè.
Feci quello che mi chiese senza discutere. Se lo bevve in tutta calma.
Poi…
— Adesso vai in camera mia e spogliati.
Non mi muovevo, terrorizzata.
— Beh? Che aspetti? Un invito scritto? La signoria vostra è pregata, eccetera eccetera? Muoviti!
Annuii e mi avviai in camera sua. Mi spogliai e mi stesi sul letto ad aspettare.
Arrivò già nudo e con il cazzo mezzo eretto. Prese le corde e mi legò di nuovo al letto. Quando ebbe terminato, si sedette sul bordo del letto a smanettarsi. Quando fu pronto mi salì sopra e infilò di nuovo il cazzo dentro di me. Mi scopò per tutto il pomeriggio. Quando si ritenne soddisfatto, mi liberò e se ne andò.
Non persi nemmeno tempo a piangere. Ormai ero rassegnata. Mi alzai e andai a lavarmi.

Andò avanti per tutta l'estate a picchiarmi e a violentarmi tutti i giorni e per diverse volte al giorno.
Un giorno però lasciò incautamente il cellulare in giro e colsi l'occasione al volo. Mandai un messaggio alla mamma “SOS. PAPÀ MI HA VIOLENTATO. SONO PRIGIONIERA IN CASA. SOS” e poi lo cancellai subito. Fortunatamente mamma non mi rispose, ma chiamò i carabinieri.
Arrivarono neanche mezz'ora dopo e mi liberarono. Lo arrestarono per sequestro di persona e violenza carnale.
Ma il danno era già stato fatto. Ero incinta di papà e non potevo più abortire perché avevo superato il termine stabilito dalla legge.
scritto il
2018-08-12
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