Doppelganger. O di come inizia la pesca.
di
Sybelle.
genere
masturbazione
Alcuni l'hanno definito un lago.
Altri, l'hanno identificato come la Luna.
Io non saprei neppure come descriverlo, il luogo dal quale pesco le storie.
Perché si, son fermamente convinta che le storie non vengano inventate, ma scoperte.
Alcune si possono condividere, raccontandole con trasporto la notte, attorno al fuoco.
I risultati, poi, dipendono da chi suona, non dalla melodia.
Solitamente, quelle, son le storie che si possono trovare in riva.
Affascinanti, a volte belle.
Da condividere, appunto.
Si, la metafora della pesca rende bene l'idea. Mi piace.
Devo rimaner concentrata, però. Non voglio perdere il filo.
Dicevo, le storie che si possono tirar su dalle acque basse, dalla riva.
Le storie innocue.
Basta evitar di andar al largo, in cerca d'altro.
Smettendo di giocar in casa, su un terreno sicuro, si ha la sensazione di poter trovare qualcosa di grosso.
Qualcosa di sensazionale.
Ora, io non so nuotare, ma con ogni probabilità è così che mi sentirei, a nuotare al largo, dove non si vede più il fondale.
Prima di percepire l'inquietudine, prima di riprender a nuotare in direzione della riva, tenendo gli occhi ben chiusi.
Perché lo so.
Alcune cose che si possono trovare, in quel posto, hanno i denti.
Sono le storie da evitare, quelle che alcune e alcuni raccontano con un filo di voce, tenendo il capo coperto, per paura di esser sentiti da dio.
In un altro racconto, su un'altra piattaforma, in un'altra vita, mi son paragonata ad Achab, in quei momenti.
Avverto l'urgenza, no, non l'urgenza, il bisogno di afferrarla, di farmi esca, per quel mostro.
Anche se, a pensarci bene, non è un'idea saggia, sperare di riuscire a pescar qualcosa, fungendo al tempo stesso come esca.
Non mi sarei paragonata a quello squilibrato, altrimenti.
Fin dalle prime sortite in acque profonde, mi son resa conto della sua presenza.
Una macchia nera.
A volte l'ho definita una lupa.
Altre, un grosso cane nero.
Sono, entrambe, definizioni sia giuste che completamente errate.
I più cervelloni parlerebbero di archetipo o cose simili.
Perché non la sentono, mentre si aggira irrequieta la notte, facendo schioccare le mandibole.
Avete presente quel suono, no?
Clack.
Clack.
Il suono di denti che picchiano contro altri denti.
Il suono dell'ossessione.
So benissimo che lo fa perché vuole che mi renda conto della sua presenza.
Che mi renda conto che non è mai andata via.
Col tempo ho imparato a gestirla, non a imbrigliarla con l'astuzia o incatenarla con la forza, ma a gestirla.
Quelle cose non funzionano.
Provate a chiedere a Odino e i suoi amici, come è andata a finire, quando ci hanno provato.
Devo gestirla, se un giorno voglio riuscire a raccontare la sua storia.
Temo quel giorno, e al tempo stesso lo attendo con ansia.
Fin da quando me la porto dietro, cerca di far lo stesso con me.
Cerca di tirarmi giù, di portarmi a fondo.
È lei che, in barba a tutti i giuramenti fatti per lavoro, quando mi ritrovo qualcosa di indifeso tra le mani mi fa sentire l'impulso di stringer con forza le dita per il semplice, blasfemo piacere di far del male.
Non lo faccio, sia chiaro.
Ma è faticoso.
L'idea di unghie, denti che affondano, è buffo da dire, è sbagliato, ma mi assilla.
Non è nella mia natura, ma mi assilla.
Mi assilla.
Rileggo le mail, cerco di aggrapparmi a qualcosa, qualsiasi cosa per ignorare quel suono.
Schioccare sgraziato di denti, ticchettio di unghie lunghe sul pavimento.
Necessità di divorare il mondo. Di autodistruzione.
Rileggo quella bozza, fissando il display dello smartphone per non cercarla con lo sguardo.
Sussulto, quando sento le mie stesse dita pinzare, con forza, la stoffa della t-shirt usata come pigiama, imprigionando il capezzolo in una morsa dolorosa.
Non è sano, non è sano e lo so.
Ma funziona.
Affondo i denti nel labbro inferiore, strozzando il sospiro, il lamento.
Potrei, non avendo ospiti in casa, ma certe abitudini son dure a morire.
Oppure, inconsciamente, non voglio darle la soddisfazione di sentirmi.
Continuo la lettura, cercando di prestare tutta la mia attenzione a quella mail e non alla chiazza scura che mi convinco di vedere, con la coda dell'occhio.
Dita che allentano la stretta, per poi accentuarla, torcendo al tempo stesso.
Sapore di ferro in bocca.
Scalcio via il lenzuolo, lasciando scoperte le gambe mentre sento scorrer le dita sul ventre, sfiorando la pelle con i polpastrelli.
Brividi di tensione. Di piacere.
Superata la resistenza dell'elastico delle mutandine, percepisco l'accenno di ricrescita prima, l'umido tepore della mia intimità poi.
Tengo gli occhi chiusi, il telefono ormai abbandonato sul materasso, mentre mi sfioro, come a cercare contrasto con quanto fatto in precedenza.
Artiglio il lenzuolo con la mano libera, non riuscendo a trattenere un mugolio di piacere.
Dita che esplorano, carezzano, affondano.
La sento schioccare le fauci ancora un'ultima volta, poco prima che il piacere mi colga, improvviso, violento.
Urlo.
Stesa sul letto, vedo i primi timidi raggi di sole filtrare tra le tapparelle, resi rosati dal tessuto delle tende.
Anche questa notte è andata.
Posso gestirla.
Posso riuscirci, a tirarla su.
Posso.
Altri, l'hanno identificato come la Luna.
Io non saprei neppure come descriverlo, il luogo dal quale pesco le storie.
Perché si, son fermamente convinta che le storie non vengano inventate, ma scoperte.
Alcune si possono condividere, raccontandole con trasporto la notte, attorno al fuoco.
I risultati, poi, dipendono da chi suona, non dalla melodia.
Solitamente, quelle, son le storie che si possono trovare in riva.
Affascinanti, a volte belle.
Da condividere, appunto.
Si, la metafora della pesca rende bene l'idea. Mi piace.
Devo rimaner concentrata, però. Non voglio perdere il filo.
Dicevo, le storie che si possono tirar su dalle acque basse, dalla riva.
Le storie innocue.
Basta evitar di andar al largo, in cerca d'altro.
Smettendo di giocar in casa, su un terreno sicuro, si ha la sensazione di poter trovare qualcosa di grosso.
Qualcosa di sensazionale.
Ora, io non so nuotare, ma con ogni probabilità è così che mi sentirei, a nuotare al largo, dove non si vede più il fondale.
Prima di percepire l'inquietudine, prima di riprender a nuotare in direzione della riva, tenendo gli occhi ben chiusi.
Perché lo so.
Alcune cose che si possono trovare, in quel posto, hanno i denti.
Sono le storie da evitare, quelle che alcune e alcuni raccontano con un filo di voce, tenendo il capo coperto, per paura di esser sentiti da dio.
In un altro racconto, su un'altra piattaforma, in un'altra vita, mi son paragonata ad Achab, in quei momenti.
Avverto l'urgenza, no, non l'urgenza, il bisogno di afferrarla, di farmi esca, per quel mostro.
Anche se, a pensarci bene, non è un'idea saggia, sperare di riuscire a pescar qualcosa, fungendo al tempo stesso come esca.
Non mi sarei paragonata a quello squilibrato, altrimenti.
Fin dalle prime sortite in acque profonde, mi son resa conto della sua presenza.
Una macchia nera.
A volte l'ho definita una lupa.
Altre, un grosso cane nero.
Sono, entrambe, definizioni sia giuste che completamente errate.
I più cervelloni parlerebbero di archetipo o cose simili.
Perché non la sentono, mentre si aggira irrequieta la notte, facendo schioccare le mandibole.
Avete presente quel suono, no?
Clack.
Clack.
Il suono di denti che picchiano contro altri denti.
Il suono dell'ossessione.
So benissimo che lo fa perché vuole che mi renda conto della sua presenza.
Che mi renda conto che non è mai andata via.
Col tempo ho imparato a gestirla, non a imbrigliarla con l'astuzia o incatenarla con la forza, ma a gestirla.
Quelle cose non funzionano.
Provate a chiedere a Odino e i suoi amici, come è andata a finire, quando ci hanno provato.
Devo gestirla, se un giorno voglio riuscire a raccontare la sua storia.
Temo quel giorno, e al tempo stesso lo attendo con ansia.
Fin da quando me la porto dietro, cerca di far lo stesso con me.
Cerca di tirarmi giù, di portarmi a fondo.
È lei che, in barba a tutti i giuramenti fatti per lavoro, quando mi ritrovo qualcosa di indifeso tra le mani mi fa sentire l'impulso di stringer con forza le dita per il semplice, blasfemo piacere di far del male.
Non lo faccio, sia chiaro.
Ma è faticoso.
L'idea di unghie, denti che affondano, è buffo da dire, è sbagliato, ma mi assilla.
Non è nella mia natura, ma mi assilla.
Mi assilla.
Rileggo le mail, cerco di aggrapparmi a qualcosa, qualsiasi cosa per ignorare quel suono.
Schioccare sgraziato di denti, ticchettio di unghie lunghe sul pavimento.
Necessità di divorare il mondo. Di autodistruzione.
Rileggo quella bozza, fissando il display dello smartphone per non cercarla con lo sguardo.
Sussulto, quando sento le mie stesse dita pinzare, con forza, la stoffa della t-shirt usata come pigiama, imprigionando il capezzolo in una morsa dolorosa.
Non è sano, non è sano e lo so.
Ma funziona.
Affondo i denti nel labbro inferiore, strozzando il sospiro, il lamento.
Potrei, non avendo ospiti in casa, ma certe abitudini son dure a morire.
Oppure, inconsciamente, non voglio darle la soddisfazione di sentirmi.
Continuo la lettura, cercando di prestare tutta la mia attenzione a quella mail e non alla chiazza scura che mi convinco di vedere, con la coda dell'occhio.
Dita che allentano la stretta, per poi accentuarla, torcendo al tempo stesso.
Sapore di ferro in bocca.
Scalcio via il lenzuolo, lasciando scoperte le gambe mentre sento scorrer le dita sul ventre, sfiorando la pelle con i polpastrelli.
Brividi di tensione. Di piacere.
Superata la resistenza dell'elastico delle mutandine, percepisco l'accenno di ricrescita prima, l'umido tepore della mia intimità poi.
Tengo gli occhi chiusi, il telefono ormai abbandonato sul materasso, mentre mi sfioro, come a cercare contrasto con quanto fatto in precedenza.
Artiglio il lenzuolo con la mano libera, non riuscendo a trattenere un mugolio di piacere.
Dita che esplorano, carezzano, affondano.
La sento schioccare le fauci ancora un'ultima volta, poco prima che il piacere mi colga, improvviso, violento.
Urlo.
Stesa sul letto, vedo i primi timidi raggi di sole filtrare tra le tapparelle, resi rosati dal tessuto delle tende.
Anche questa notte è andata.
Posso gestirla.
Posso riuscirci, a tirarla su.
Posso.
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