Come parlarne? - Capitolo VI
di
VB1977
genere
feticismo
Ero pienamente consapevole di avere molti complessi mentali. In un certo senso il termine “sfigato”, con cui ero cresciuto, mi si addiceva.
Da un lato, c’era la mia famiglia. Essendosi fondata su obblighi e doveri, io venivo giudicato esclusivamente in funzione di come li espletavo. Mio padre a volte si presentava sul mio posto di lavoro, a mia insaputa, al solo scopo di chiedere cosa io facessi di sbagliato. Non era importante se, in generale, io fossi un valido dipendente. Per lui contava che io non facessi mai errori. Ed essendo sicuro che io ne commettessi, veniva a cercare scuse per rimproverarmi. E se anche non ne commettevo, non era abbastanza comunque, in quanto non raggiungevo la perfezione. C’era sempre qualche motivo valido che le persone avrebbero usato per parlare male di me con lui, come se davvero la gente andasse da lui a parlargli male di me. Tutte le sue critiche e i suoi giudizi su di me, tuttavia, avevano fatto sì che io sentissi un costante senso di insicurezza e avessi nei miei stessi confronti uno spirito di autocritica intollerante, che devastava la mia autostima. Mi ritrovavo a cercare costantemente dei difetti in tutto ciò che facevo, per correggerli e arrivare ad una perfezione che rimaneva comunque impossibile da raggiungere.
Dall’altro lato c’erano i ragazzi del nostro quartiere, i quali mi avevano preso di mira fin da subito in quanto “straniero”, per poi sfruttare le mie debolezze ed infierire regolarmente, con prese in giro e scherzi di ogni tipo, che diminuirono, ma non cessarono del tutto, solo negli anni dell’adolescenza.
Al centro invece c’era lei.
In un mare in tempesta, con onde alte e forti venti, lei era il faro che mi dava sicurezza.
Dipendevo da lei e questo era chiarissimo anche per lei, ma soprattutto lo era per me. Non riuscivo ad immaginare il mio mondo senza di lei.
Ma era proprio la consapevolezza di questa dipendenza a tormentarmi. Come potevo pensare di essere innamorato di lei, se sapevo di voler stare con lei perché ne ero dipendente?
Tutto era per me molto confuso. E confuso voleva dire non perfetto. E io volevo essere perfetto.
Lei meritava un ragazzo perfetto, uno che fosse innamorato perso, non un ragazzo preda di dubbi e confusione.
A volte ricordavo le parole che mi aveva detto, cioè che io non conoscevo l’amore, perché la mia famiglia non mi aveva mai amato. Ma allora come poteva essere sicura del mio amore?
Eravamo seduti sul prato del parco, come facevamo da bambini e la vidi reagire con un sorriso quando le posi questa domanda. “Tesorino, il fatto che tu non conosca cosa sia l’amore,” rispose, “non vuol dire che non lo metti in atto. Quando mi mandi messaggini, quando mi dici che mi ami, quando mi guardi in certi modi, quando hai certe attenzioni, quando mi pensi, quando mi desideri, quando vuoi vedermi sorridere, quando vuoi vedermi felice, non sono segni del tuo amore per me?”
Riflettei alla sua risposta.
“E se fosse solo paura di perderti?”
“Anche la paura di perdermi è un sintomo d’amore. Però fai questa paura più grande di quello che dovrebbe essere. Se non avessi costantemente paura, a quest’ora staresti volando come sto volando io. Voglio farti una domanda semplice. La tua voglia di vedermi felice, dipende dalla paura che hai di perdermi, o è innata?”
Riflettei nuovamente, ed iniziai a capire dove volesse arrivare.
“Io voglio solo che tu sia felice. Con me o senza di me.”risposi. “Solo che se tu fossi felice senza di me, ci starei male da morire.”
“Ci staresti male perché sentiresti che il tuo amore non è corrisposto. Ma la cosa importante ora è sapere che la tua voglia di vedermi felice è innata… Non è così?”
“Sì”
“Questo perché mi ami davvero. Solo una persona davvero innamorata è disposta a vedere la persona amata felice con un altro piuttosto che infelice con lei. E tutto il resto delle tue preoccupazioni, non sono altro che preoccupazioni ingiustificate. Io ti amo. Se tu fossi solo un pochino egoista, ti importerebbe solo di questo. Vorresti solo essere amato. Mi useresti e basta. Invece sei sempre preoccupato di amarmi e farmi sentire amata, di donarti, eppure neanche questo ti basta. Vorresti amarmi più di quanto già fai e non ti dai pace per questo. Pensi che non sia mai abbastanza. Ma non pensi che anche io vorrei vederti felice allo stesso modo?”
“Ho la costante paura di perderti, e non so come fare per superarla. È un tormento. Perché so che non dipende solo da me. Tu potresti svegliarti una mattina e dire basta. Per questo cerco di darti il più possibile. Perché tu possa pensare che stai abbastanza bene con me, da non prendere quella decisione.”
Debora mi guardò con i suoi profondi occhi scuri. Erano lucidi.
Tra noi c’era qualcosa di molto radicato, ma lo aveva afferrato solo lei. D’altronde la mia idea di amore era quella di una famiglia dove, tutto sommato, le persone andassero d’accordo. Insomma dove ci fosse, a grandi linee, pace. Ma non necessariamente amore. Mi sarebbe bastato anche solo il volersi bene.
Invece lei non si sarebbe accontentata di qualcosa di pallido e blando. Aveva avuto proprio in casa sua la dimostrazione di cosa fosse il vero amore. Non semplicemente un sentimento, ma qualcosa che aveva un vero e proprio corpo, una manifestazione con atti concreti che richiedevano anche sacrificio. I suoi si erano sposati per amore ed erano innamorati ancora. Era così evidente da essere innegabile anche a me. Debora era stata immersa fin da bambina in questo tipo di relazioni famigliari e aveva una tale quantità di nozioni a riguardo, da poterci scrivere un libro.
E cercava quanto più possibile di mostrarmi lo stesso tipo di amore che c’era tra i suoi genitori.
Con azioni, non solo a parole. E soprattutto, cercando di capirmi.
Il suo sguardo era sempre penetrante, come se volesse leggere i miei pensieri più reconditi. Oltre a questo, mi sentivo sempre soggiogato dalla sua bellezza. Nonostante la conoscessi da anni, mi sentivo di derubarla quando la guardavo al solo scopo di gustare la perfezione dei suoi lineamenti, la deliziosa linea delle sue labbra, la sintonia con cui il suo naso si inseriva nella complessità del suo viso e soprattutto quegli occhi. Quella luce che emanavano, quella vita che avevano, quell’amore che trasmettevano.
Non potevo che sentirmi indegno di lei.
Ed anche quando mi sentivo così, come se non fosse già abbastanza, riusciva a mostrarmi una nuova fetta del suo amore per me.
“Cosa pensi che sia la felicità?” domandò. Lì per lì, la domanda mi parse fuori luogo.
Risposi quasi immediatamente, senza neanche pensarci troppo: “Per me la felicità è quella sensazione che provi in certi momenti, quando stai così bene, che dimentichi per un po’ i problemi e sei concentrato su ciò che hai in quel momento… Un po’ come quando sono con te. Mi fai dimenticare i problemi… Forse in realtà sei tu la felicità.”
Rise.
“Ma perché ridi?” domandai. “Non può essere una persona la felicità?”
Continuò a ridere. “Quando voglio fare un discorso serio riesci a farmi ridere, e alla fine il mio discorso finisce dritto dritto nella cloaca maxima.”
“Ma…”
“Sai cos’è la felicità per me?” domandò, rientrando in sé. “La felicità è una proiezione. La proiezione del passato e del presente, nel futuro.”
La guardai impassibile per qualche istante, tornando a riflettere. Quindi annuii, con convinzione: “Non ho capito una mazza!”
Sorrise: “Io sono felice. E credimi, intendo davvero. Sai perché?”
“Mi piacerebbe pensare che è perché sei qui con me… Ma dai tuoi discorsi credo che non sia questo il motivo, no?”
“E invece ti sbagli, perché il motivo è proprio questo…”
“Ma allora anche per te la felicità sono io” esclamai interrompendola. “Anche per te la felicità è una persona.”
“Non è proprio così, cioè, lo è, ma non è solo questo. Questo è solo uno dei motivi. Uno dei motivi del presente. Tu sei qui con me adesso, no? Però anche quando non sei con me fisicamente, perché sei altrove, o a casa, o al lavoro, tu sei con me. So che mi ami e so che vuoi stare con me. Quindi so che sei con me. Capisci? Io proietto su me stessa nel presente la tua volontà di stare con me. E questo crea un dato nella formula che ti ho detto.”
“La formula? Quale formula? Mi sfugge qualcosa mi sa...”. La mia confusione era evidente.
“Te la pongo in un modo diverso.” La vidi pensare. “Io e te stiamo insieme, e questo mi fa stare bene. Ok?”
“Ok, ci sono.”
“Questo è il presente, giusto?”
“Sì”
“Da quanto ci conosciamo?”
“Quasi undici anni, se non sbaglio”
“Perciò posso dire di conoscerti bene. Cioè, abbiamo costruito un rapporto stabile, anche quando non stavamo insieme, un rapporto onesto, sincero, giusto?”
“Certo”
“Questo nel passato.”
Sì.” Riflettei: “Credo di arrivare a capire quello che dici.”
“Cosa dico, quindi?”
“Tu dici che guardando ciò che è successo nel passato e guardando ciò che succede nel presente, hai delle basi per sapere come sarà il futuro. Perciò se sai che il passato ti ha portato ad essere felice nel presente, sai che sarai felice anche nel futuro. E questo pensiero riguardo al futuro, ti fa essere felice anche nel presente. Incasinato, ma comprensibile. Una bella teoria.”
Mi prese la testa tra le mani e mi schioccò un enorme bacio sulla bocca. “Devi essere felice, non ansioso. Se oggi sei ansioso, domani come sarai? Non c’è nulla che posso fare per aiutarti?”
La guardai, riflettendo. Poi scossi le spalle: “Non ne ho idea”.
Nei giorni successivi riflettei sul fatto che Debora aveva ragione. Era lei a scegliere di stare con me e aveva già fatto la sua scelta praticamente da sempre. Tra l’altro anche ora, come già succedeva in passato, parlavamo molto. Avevamo intesa, intense comunicazioni e condividevamo tutto. Se avesse avuto dei motivi per chiudere con me, sicuramente mi avrebbe prima dato dei segnali. Questo pensiero mi tranquillizzò un po’. Ma la mia paura di perderla non era poi così ingiustificata. Aveva un sostegno nel fatto che, sebbene avessi sempre provato un desiderio forte, non avevo mai creduto di poter vivere veramente una storia d’amore reale con una ragazza. Non avevo quindi mai neanche pensato alle basi su cui si sarebbe dovuta fondare. Ed il fatto di essere considerato uno sfigato non aveva fatto altro che accentuare e radicare nel mio inconscio la convinzione che non avrei mai trovato una ragazza, con la conseguenza che, quando invece l’avevo trovata, non ero pronto a vivere una relazione. Tutto pareva un’incognita. Vedevo davanti a me scelte da fare e, nonostante il terrore di sbagliare, sentivo l’ansia di dover fare in fretta e bene tutto e subito, per non perdere l’unica ragazza a cui sembravo interessare.
Invece Debora di fretta non ne aveva proprio, anzi, al contrario, era tranquilla e paziente con me, sopportava bene tutti i miei complessi e cercava di aiutarmi a superarli con una calma zen che Dalai Lama levati.
Riconoscevo pienamente le qualità di Debora. La ammiravo ed ero pienamente conscio di volere essere come lei. Forte e intelligente, sempre pronta nelle difficoltà. Rappresentava le mie aspirazioni.
Eppure lei mi diceva che non dovevo cercare di essere come lei, che mi sarebbe bastato sviluppare la parte migliore di me e demolire le mie insicurezze. Erano soprattutto queste a frenarmi. Ed erano soprattutto queste a venir fuori al primo impatto con le persone. Per questo la gente mi sottovalutava.
Perciò decise di lavorare con me affinché almeno alcune sparissero.
Ma io lo seppi solo quando arrivai da lei, quel sabato.
Arrivato a casa sua, salutai i suoi genitori, che ogni tanto si concedevano una pausa dal lavoro e dai viaggi in Inghilterra, e mi fermai a chiacchierare un po’ con loro. Domandai di Barbara, di come andassero le cose in Inghilterra. A volte la sentivo, ma non tanto spesso, però la consideravo quasi una sorella maggiore, quindi cercavo di tenermi informato. Mi diedero buone notizie e ne fui contento.
Aggiunsero inoltre che pure Debora, nonostante avesse sempre avuto buoni voti, negli ultimi mesi era addirittura migliorata. “Non riusciamo proprio a capire cosa le sia successo” dissero. Tuttavia la loro espressione era quella di chi sapeva perfettamente di cosa stesse parlando. Io però non lo capii.
Poi salii da lei.
Bussai e mi invitò ad entrare.
“Stiamo insieme da quasi quattro mesi, senza contare gli anni passati da amici, e ancora bussi alla mia stanza…” commentò.
“Appunto, è la tua stanza. Perché non dovrei rispettare la tua privacy? Se apro subito poi come fai a nascondere l’amante, non so…”
Mi venne incontro e mi abbracciò. “Ho pensato ad una cosa.”
“Dimmi, sono tutt’orecchi. Anzi, considerami un unico enorme orecchio, pronto ad ascoltare ogni tua parola, se non fosse per un piccolo problema. La sordità.”
“Smettila!” esclamò sorridendo, devo parlarti seriamente.
“Ma sono serio! Guarda la mia espressione seria! Guardala!” ed immediatamente aggrottai le sopracciglia e strinsi le labbra più che potei.
Sospirò disperata, ma divertita. “Sembri in forma oggi.”
“Io direi informe. Informe è la parola giusta.”
“Mettiti nudo.”
Improvvisamente divenni serio davvero.
“Cosa?” domandai incredulo. “Era questo che avevi pensato?”
“Non ridi più ora?” Il suo viso mostrò un’espressione soddisfatta e compiaciuta.
“Non capisco se scherzi…”
“Dici sempre che faresti qualsiasi cosa per me… Mettiti nudo allora.”
La guardai, ancora non convinto che lo volesse davvero. Ma lei annuì, confermando le proprie parole. Chiusi la porta dietro di me. A chiave. “Ci sono i tuoi…”
“Non preoccuparti di questo, credi non gli sia venuto in mente che facciamo certe cose?”
Avrei preferito non saperlo. In un attimo mi tolsi la maglietta, rimanendo a torso nudo. Lei fece qualche passo indietro e si sedette sul letto, accavallando le gambe, per gustarsi la scena.
Indossava ancora la maglietta rosa e i jeans che aveva a scuola. Ai piedi invece le infradito bianche che ultimamente usava in casa. Le unghie erano blu elettrico, decorate con stelline argento. Mi venne in mente quando mi aveva detto che voleva che fossi io a metterle lo smalto. Non sarei stato così bravo.
“Rimetti la maglietta e toglila di nuovo,” disse “ma più lentamente.”
A quanto pareva, voleva uno spogliarello. Cercai di esaudirla nel migliore dei modi, nonostante mi sentissi goffo. Presi il mio tempo e cercai con il cellulare la canzone che sentivo più adatta al momento. In pochi istanti partirono le note di “Truly, madly, deeply” dei Savage Garden ed io iniziai il mio show. Il suo sguardo si perse. Forse non si aspettava che la prendessi così seriamente. Mi tolsi lentamente la maglia, al ritmo della musica. Contrariamente al mio modo di fare, fissai quanto più possibile i miei occhi nei suoi, cercando di trasmetterle quanto sentissi mie le parole della canzone. Tolta la maglia, la feci girare in aria un paio di volte, quindi la lanciai sulla poltroncina nell’angolo. Feci due passi in avanti, quindi scesi, roteando i fianchi e il busto, piegando le ginocchia, finché non fui a terra a gambe aperte e mani dietro la nuca, davanti a lei. Continuai a guardarla e a muovere il ventre, danzando. Non mi preoccupai di quanto potessi essere ridicolo. Lei era il mio pubblico e non mi sarei mai reso ridicolo abbastanza.
Quando arrivò il ritornello, mi chinai in avanti. La guardai ancora negli occhi, poi con la mano destra avvicinai a me il suo piede penzolante e lo baciai appassionatamente. Lo baciai più volte, mantenendo fissi i miei occhi nei suoi, per tutto il tempo del ritornello. Debora mostrò di gradire quel gesto.
Ripresi quindi la mia danza, armeggiando con la cintura. La sganciai, e sganciai i pantaloni. Feci leva su piedi e gambe e mi tirai su, cercando nel contempo di far scendere i pantaloni. Riuscendoci, mi sentii un campione di danza erotica. Ma avevo dimenticato le scarpe. Scesi di nuovo. Cercai di slacciare le stringhe. Nel farlo, non solo persi il ritmo, ma per un attimo, anche l’equilibrio. Riuscii ad evitare di cadere e, con un enorme sforzo, finalmente mi liberai dalle scarpe e dai pantaloni, lanciandoli sopra la maglia. Debora applaudì per la mia impresa. Mi tolsi rapidamente i calzini, invece dedicai più tempo ai boxer. Infilai i pollici tra i miei fianchi ed il tessuto e muovendoli su e giù, giocai, mostrando appena e non mostrando le mie parti intime. Sia davanti che dietro. Fino a quando la canzone non terminò. Allora, lasciai che i boxer cadessero in terra e misi le mani ai fianchi.
Debora applaudì, divertita e soddisfatta.
Io invece cominciai a sentirmi un po’ a disagio. Nudo, di fronte a lei mi sentivo ancora più in soggezione rispetto al solito.
“Sei stato bravo per essere la prima volta, davvero!” disse. “E pensa che c’è chi paga per avere spettacoli come questo.”
Intimidito, notai cambiare la sua espressione. Passò la lingua sulle labbra, diventando seria, come una pantera affamata. Poi, si alzò in piedi e in un attimo fu di fronte a me, tenendo le mani sui fianchi. Il suo sguardo passò su tutto il mio corpo, con desiderio. “Ti voglio” disse. “Ti voglio davvero. Ma sento che hai bisogno che io sia passiva.”
La guardai incerto.
“Voglio che mi baci e mi tocchi senza pensare di dovermi dare piacere. Voglio che pensi solo al tuo piacere, al tuo godimento.”
Istintivamente, non riuscii ad accettare le sue parole. “Debora, io non…”
“Lo so che non lo vuoi. Ma devi imparare a prendere. Lo meriti.”
Allungò le braccia e cinse i miei polsi con le sue mani. Poi guidò le mie sul suo seno. Sentii un fremito quando lo toccai. Sotto i miei polpastrelli sentivo la presenza della maglia e del reggiseno, ma anche della sua pelle morbida. Continuò a penetrarmi con i suoi occhi. Tentai di ritrarmi, ma lei me lo impedì stringendomi i polsi.
“Non aver paura” disse, cercando di incoraggiarmi.
“Non è paura” risposi.
“E allora cos’è?”
“Sei l’ultima persona che merita di essere usata come un oggetto”
“Ma tu non mi stai usando come un oggetto. Mi stai mostrando quanto mi desideri.”
Non potei replicare alle sue parole.
Lasciai scorrere le mie mani sul suo seno, poi lungo i fianchi. Poi salii di nuovo sul seno. Le mie dita gustarono quei momenti, ed il mio corpo mostrò la propria approvazione con chiari segnali nel basso ventre. Ero nudo, ma non ci facevo più caso. Le mani di Debora ripresero i miei polsi e li guidarono verso il basso, poi sotto la maglia, a contatto con la pelle. Fremetti. Ed anche di più, quando tornai sul seno. Palpai avidamente la sua pelle morbida. Avevo la bocca secca dal desiderio. Il cuore batteva rapidamente. Non era la prima volta che toccavo Debora, ma era la prima con quello spirito, con la consapevolezza che non l’avrei persa anche se fossi stato troppo egoista.
Si tolse la maglia. Lasciai i miei occhi indugiare sulla bellezza del suo seno. Rimasi quasi bloccato nel silenzio. Si sentiva solo il mio respiro affannoso. Per un attimo fui nuovamente preso dal timore di non avere il diritto di poter godere in quel modo del suo corpo. Ma scacciai quel pensiero e portai le mie mani sulla sua schiena, alla ricerca del gancio. Armeggiai un po’. Finalmente il reggiseno si sganciò. Debora mi aiutò e lo fece finire sopra ai miei vestiti sulla poltroncina d’angolo. Timidamente sfiorai con le labbra le sue mammelle. Non contenevo più l’eccitazione, che si ergeva senza freni. Nuovamente la mia bocca si poggiò sui suoi seni, diverse volte. Quindi scesi più in basso, e continuando a baciare la sua pelle, lentamente, mi inginocchiai. Allora staccai le mie labbra da lei, per slacciarle i jeans. Di nuovo collaborò e, dopo essersi liberata delle infradito, anche i jeans finirono nel mucchio.
Guardai verso l’alto. Aveva gli occhi chiusi in attesa che riprendessi a baciarla. Ma li riaprì quando vide che i miei baci non arrivavano più.
“Gli slip toccano a te” dissi. “Un minimo di strip tease concedimelo.”
Mostrò di gradire la richiesta.
Fece mezzo passo indietro, infilando i pollici sotto il tessuto degli slip per poi percorrere avanti e indietro tutta la circonferenza dell’elastico per fermarsi attorno ai fianchi. Nel frattempo, il bacino cominciò a ruotare al ritmo di una musica che solo noi potevamo sentire. Non si può descrivere a parole la bellezza di una diciottenne come Debora, che balla solo per te, che ti trasmette in modo così diretto il suo desiderio di piacerti e farsi godere in modo così puro e spontaneo. La vidi girare su sé stessa con eleganza, per poi fermarsi, dandomi le spalle. I suoi lunghi capelli si mossero lungo la schiena, appena inarcata all’indietro. Alzai i miei occhi ed incontrai i suoi, fissi su di me. Certa di avere la mia attenzione, passò sensualmente la punta della lingua sulle labbra e se le morse in modo molto erotico. Il suo sguardo mi abbandonò, e cominciò a sporgersi in avanti, spingendo appena all’infuori il sedere. A quel punto i pollici cominciarono a far scendere l’elastico che percorse dolcemente le natiche di Debora, la quale con studiata lentezza, ma continuando la sua danza, si piegava apposta in avanti, mano a mano che l’elastico scendeva, per spingere il più possibile il suo sedere verso il mio viso. Era oramai a pochi centimetri da me quando gli slip terminarono il loro percorso, fermandosi appena sotto la linea delle natiche.
Sulle quali posai le mie dita, tastandone la morbidezza.
Allora vi avvicinai il viso e le baciai, prima l’una, poi l’altra, dolcemente. Nel frattempo gli slip scesero a terra, dove i piedi di Debora si liberarono dal sottile indumento. Le sue mani invece si posarono sulle mie, ed esercitarono una lieve pressione che portò le natiche ad aprirsi, rivelando l’ano. Lo osservai, cercando di cogliere ogni più sottile linea di quel fiore carnoso. Infine lo baciai con passione. E lo leccai avidamente, tentando di infilarvi dentro la lingua. Ne trassi un leggero sapore amarognolo che, se fosse stato più intenso, mi avrebbe disgustato. Ciononostante proseguii nel mio intento e mentre il sapore svaniva, la mia lingua non frenava i suoi tentativi di penetrazione, anche se furono vani.
Debora intanto iniziò ad ansimare.
Ed anch’io ne traevo grande godimento.
Ma lei fece poi due passi in avanti, lasciandomi lì, in ginocchio, a cercare di capire perché mi avesse tolto quella fonte di un così grande piacere.
Si appoggiò con il busto e le braccia al letto, allargando le gambe, tese, e sporgendo nuovamente all’infuori il sedere, per poi voltarsi verso di me, mostrandosi quindi in attesa che io mi avvicinassi e continuassi. Era piuttosto colorita in viso e sembrava già affannata.
Avvicinandomi, notai che la sua vagina era umida. Desiderai leccarla. Ma mi piacque pensare che non avessi il permesso di farlo. Nella mia mente si formò un pensiero, che vedeva Debora non come la mia ragazza, ma come la mia padrona. Una padrona che, dopo avermi ordinato di leccarle l’ano, attendeva che eseguissi l’ordine. Questo pensiero mi travolse, eccitandomi tremendamente. Debora non era la mia padrona, ma pensare che lo fosse, o anche solo immaginare che giocasse ad interpretarne il ruolo, mi mandò fuori di testa.
Mi avvicinai carponi al suo sedere. A pochi centimetri da esso mi fermai: “Debora, posso chiederti una cosa?”
“Proprio adesso?” mugolò. “Cosa?”
“Vorrei che me lo ordinassi...”
Mi guardò, seria, sollevando un sopracciglio. Poi apparve un leggero sorriso compiaciuto.
“Ti prego…” insistetti.
Tornò seria. “Leccami il sedere” ordinò poi perentoria. “Lecca bene il buchetto del mio sedere. Leccalo bene. Fammi sentire chiaramente il piacere che provi nel farlo. E sentiti onorato del privilegio che ti concedo.”
Le sue parole penetrarono la mia mente con intensità. Appoggiai nuovamente le labbra sul suo sfintere. Lo baciai. Poi lo leccai lentamente. Ansimando. Passai la lingua ripetutamente sul suo buco, avendo nella testa il suono della voce di Debora e quelle parole, quegli ordini emessi da vera padrona. Vivevo ogni singolo passaggio della mia lingua come un atto di obbedienza e mi sentivo intensamente umiliato nei suoi confronti, come se lei fosse una padrona da compiacere. Eppure era proprio quel sentimento di sottomissione ed umiliazione a trasmettermi un enorme piacere, così intenso da farmi sentire sopraffatto. Ogni sua parola nella mia mente mi dava piacere. Ogni leccata che davo al suo fiore carnoso, mi dava piacere. E tutto mi spingeva a proseguire, con maggiore intensità, per continuare a provare quel senso di umiliazione, e ricevere ancora più piacere. In quel momento non realizzavo nemmeno quanto la mia indole sottomessa si stesse manifestando. Non me ne accorsi subito ma a posteriori fu evidente che non ero un feticista puro. Nelle mie fantasie mi soffermavo sui piedi, ma Debora si faceva esplorare, mi portava ad esplorare, mi provocava, mi stimolava, mi apriva la mente.
Improvvisamente si allontanò ancora, e salì con le ginocchia sul letto, togliendomi di nuovo il centro dei miei pensieri. Ma questa volta, prontamente, ne seguii i movimenti. La mia bocca e la mia lingua ripresero velocemente la loro opera. Cercai ancora di inserire la lingua nello sfintere, ma nuovamente senza successo. Debora intanto gemeva e mugolava. E lo fece anche più intensamente quando infilò due dita nella vagina per muoverle ritmicamente dentro e fuori. A quel punto allungai le mie leccate, iniziando dalla parte inferiore delle labbra, appena sotto le sue dita e proseguendo fino all’ano. Andai avanti a leccare, insistendo con impegno, mentre il suo corpo cominciava a muoversi avanti e indietro. Ad un tratto ebbi l’impressione che Debora si avvicinasse all’orgasmo. Gemeva, ansimava, provava piacere. Il suo corpo fremeva e a tratti tremava. La sua vagina, sollecitata dal movimento sempre più intenso della mano, gorgogliava, mentre del liquido colava tra le sue cosce. Sentirla emettere quei suoni, mi eccitava ancora di più. Se qualcuno avesse stimolato le mie parti basse, sarei sicuramente venuto subito. Nuovamente fui sopraffatto dall’idea che lei non fosse solo la mia ragazza, ma la mia padrona. Che leccarle il sedere fosse un dovere, un privilegio. E godevo al pensiero di essere solo uno schiavo al servizio del suo piacere, solo un oggetto che aveva una piccola parte nel processo che la stava portando all’orgasmo. Non volevo fermarmi prima che avesse goduto pienamente. Dalla posizione in cui ero, potevo vedere la sua schiena inarcarsi avanti e indietro, mentre si masturbava.
Poi le sue dita si agitarono dentro e fuori la vagina in modo oltremodo frenetico. Leccai quanto più rapidamente potei il buchino del suo sedere, cercando di mantenere il suo stesso ritmo.
Infine venne.
Senza più muoversi ritmicamente, spinse il bacino in avanti, gridando e gemendo, mentre sentiva montarle, come un vulcano in eruzione, il godimento. Io continuavo intanto a titillarle lo sfintere che, una volta sopraggiunto l’orgasmo, si aprì ed espulse del gas. Il rumore della fuoriuscita fu attutito dalla mia lingua, ma l’odore penetrò immediatamente nelle mie narici, provocandomi, all’interno di esse, un leggero bruciore, mentre invece nel basso ventre un’intensa scarica di piacere. Nella mia mente risuonarono ancora i suoi ordini. Leccalo bene, fammi sentire il piacere che provi. Mi immaginai legato a quel sedere, mentre espelleva gas, in balìa della volontà della mia padrona. L’ondata di stimoli di piacere fu così improvvisa e intensa, che quasi mi stordì.
Invece con voce rotta dallo sforzo “Scusa!” proferì Debora, sommersa dal piacere. “Non volevo!”. Mi riportò alla realtà e tornai a leccarla con maggior vigore che in precedenza.
Lei allora si lasciò andare, sottolineando con mugolii, ansimi e grida quanto godesse del suo orgasmo.
Ma non si fermò al primo. Andammo avanti fino alla sua piena soddisfazione. Fino a quando decise di fermarsi, stanca, sudata e affannata. La mia lingua era ormai gonfia, come le labbra. La mia mente era stravolta ed era sempre più chiaro ai miei occhi il mio ruolo nella nostra coppia. Ma in quel momento non tirai fuori l’argomento. Ne avremmo parlato più in là.
Era bellissima, distesa nuda sul letto, mentre si riprendeva dalla fatica.
Disteso accanto a lei cominciai nuovamente a baciarla, prima sulla bocca, poi sul collo, per scendere infine lentamente lungo tutto il suo corpo. Assaporai la sua pelle con le labbra e la lingua. Godetti del suo odore naturale, e dell’odore del suo sudore. Con la lingua ne saggiai il sapore. Scesi fino alla vita, senza soffermarmi sui seni. Non avevo lo scopo di stimolare i suoi sensi, piuttosto mi ero lasciato andare ad uno strano istinto, quasi animalesco e mai provato prima, come se volessi pulire la sua pelle, come se volessi lavarla dalle sue fatiche.
Debora mi lasciò fare, silenziosa, accarezzandomi i capelli per tutto il tempo. Baciai e leccai anche le sue mani, indugiando su quella che era stata nella sua vagina, soprattutto sulle sue dita. Muovendomi su di lei per compiere la mia opera, mi ritrovai inginocchiato accanto al letto, dalla sua parte. Giunsi così alla zona inguinale, dove in precedenza avevo visto colare i suoi umori. Le sue cosce erano ancora umide e odorose. Non ebbi fretta e mi gustai ogni odore, ogni sapore e ogni momento. Anche le mie mani carezzarono la sua pelle, deliziandomi per la sua morbidezza. Passai poi alle natiche. Debora mi accompagnò con il suo movimento, mettendomi in condizione di poter raggiungere facilmente i punti che volevo toccare. Voltandosi e mettendosi prona, abbracciò uno dei due cuscini del letto matrimoniale, poggiandovi la testa e rilassandosi. Allora baciai le natiche diverse volte, per poi palparle mentre mi dirigevo al centro, tra di esse, esattamente nel punto che per tutto l’amplesso era stato a contatto con la mia bocca. Dedicai al suo ano diversi baci, vivendoli non come gesti erotici, ma come atti di sottomissione. Come se volessi trasmetterle che avrei baciato il suo sedere ogniqualvolta lo avesse concesso, desiderato, chiesto o preteso. Sarei stato ai suoi ordini e alla sua volontà. Non compii quel gesto allo scopo di eccitarmi, eppure accadde. Segnali chiari vennero dal mio basso ventre, la cui asta tornò ad ergersi.
Perciò mi spostai, ritornando alle cosce. Rimasi su di esse a lungo, cercando di saziare la mia bocca e la mia lingua, fino a quando non capii che non mi sarei mai saziato di Debora. Non avrei mai avuto abbastanza di lei. Un nuovo brivido percorse la mia schiena, quando si rifece viva l’idea che mi avrebbe potuto lasciare. Avevo così bisogno di lei. Scacciai quel pensiero. Non volevo mi rovinasse il momento.
Voltai il mio sguardo lungo il suo corpo, lasciando che i miei occhi gustassero la bellezza della sua nudità, di ogni sua curva, quella delle natiche, dei fianchi, della schiena, del suo seno, appena visibile, schiacciato sotto il suo corpo. E diedi spazio ai miei occhi affinché gustassero anche la bellezza dei suoi capelli rilassati lungo la schiena e cadenti suoi fianchi. Al contrario di quanto lei pensava di sé stessa, per me era bellissima.
Tornai con le mie labbra a percorrere le sue gambe. Mi ritrovai sui polpacci e li trovai splendidi. Mi fermai apposta per osservarli. Presi mentalmente nota di regalarle una cavigliera. Infine quando mi trovai in ginocchio di fronte ai suoi piedi, non potei trattenere l’eccitazione. Non riuscii nemmeno a pensare di poterli sfiorare senza sentirmi coinvolto eroticamente. Semplicemente guardarli, mi trasmetteva intense scariche pulsanti di piacere ed ero preda di un’attrazione fisica violenta, irresistibile, come se fossi calamitato verso di essi. Anche le dita, e i movimenti che lei faceva inconsapevolmente, mi eccitavano. Ero avvinto da quei piedi, che, come due bellissime e sensuali sirene, con voce soave, cantavano, ipnotizzandomi, stordendomi, ubriacandomi, per costringermi a naufragare sui loro scogli, in balìa della loro volontà, e farmi obbedire ad ogni loro desiderio, come se fossi sotto un incantesimo. Tentai di resistere, tentai di non cedere. Tentai di rimanere fermo nel mio intento di non lasciarmi andare all’eccitazione, ma fu inutile. Arrivò tutta insieme, con la potenza di un’ondata che si infrange su una costa rocciosa, come la scossa elettrica di un fulmine, e pervase ogni angolo della mia mente e del mio corpo, ogni mia cellula, continuando a premere tra le mie cosce con forza, con la minaccia che sarei impazzito se non le avessi dato sfogo.
Debora si voltò su un fianco appoggiando la testa sulla mano, per guardarmi, forse rendendosi conto che non stavo dando più cenni di vita nei confronti del suo corpo. Restituii lo sguardo, in un’espressione supplice, in una silenziosa richiesta d’aiuto, sperando che mi liberasse da quella situazione per me così difficile.
Ma lei sollevò il piede e dolcemente ne poggiò la pianta sulle mie labbra. “È così difficile?” domandò. “Non è la parte che preferisci?”
Sembrava che per lei fosse tutto normale. Ma come poteva esserlo? Come riusciva ad accettare un ragazzo che si eccitava a baciarle i piedi? Che di fronte ad essi perdeva il controllo e non riusciva a resistere al proprio istinto animalesco? Eppure la calma e la serenità con cui mi guardava erano la dimostrazione che mi accettava per quello che ero. Forse era giunto il momento che mi accettassi anche io.
Con una mano premetti dolcemente il piede sulla mia bocca, baciandolo con passione, ad occhi chiusi, cercando, in quel bacio, di trasmetterle tutto l’amore che provavo per lei. Ma non riuscii più a contenermi. Provavo un’eccitazione smisurata, incontenibile, mi sentivo in estasi. In pochi istanti i baci appassionati si trasformarono in leccate. La mia lingua iniziò a percorrere la pianta, dal tallone fino alla cima. Ripetutamente, senza freni, cercando di non tralasciare alcuno spazio. Alle mie narici non arrivarono odori particolarmente intensi, anzi, quasi impercettibili. Apprezzavo che Debora fosse una ragazza pulita, ma mi eccitai ulteriormente al pensiero che i suoi piedi fossero sporchi e che io li dovessi ripulire con la mia lingua. Forse lei non aveva realizzato pienamente quanto potessi essere depravato e quanto in basso potessero arrivare le mie perverse fantasie. Al contrario di lei, io ne ero pienamente cosciente. E capii che avrei dovuto dirle tutto, prima che lo scoprisse da sola. Se questa cosa l’avesse infastidita al punto da non potermi più accettare, sarebbe comunque stato un bene che gliel’avessi detta io. Ma non era quello il momento.
Cominciai a leccarle le dita. Nuovamente ne apprezzai lo smalto blu decorato. La mia lingua lambì dolcemente i polpastrelli, diverse volte. Tra le mie cosce era evidente quanto mi piacesse. Dalle leccatine, passai ai baci. Dall’alluce al mellino. E dal mellino all’alluce. Ripetutamente. Dai baci passai poi a succhiarle le dita. Debora però mi fermò, ritraendo il piede. La guardai con aria interrogativa. Per tutta risposta si spostò, mettendosi a sedere davanti a me, allungando una gamba fino ad appoggiarla sulle mie cosce e porgendomi nuovamente il piede che tanto bramavo. Poi vidi una cosa inaspettata. La sua mano si mosse fino al centro delle sue cosce e le sue dita cominciarono a titillare il clitoride e a stimolarlo nelle parti esterne.
“Credevo avessi già dato…” commentai.
Si fermò per un attimo, fingendosi stizzita, ma trattenendo faticosamente un accenno di sorriso. Sollevò quindi il mento e le sopracciglia, con alterezza. Quindi spinse il piede nella mia bocca: “Tesorino, cerca di tenere la lingua occupata con i fatti e non con parole inutili. Sei ai miei piedi, non è così? Non ti ho dato il permesso di parlare. Il tuo compito è quello di leccare. Capito? Leccare. Ora fai vedere alla tua dea come ti impegni!”
La mia eccitazione si infiammò oltremisura. Leccai, baciai, succhiai le dita e il piede senza ritegno e senza freni. Per un certo periodo fui incapace di controllarmi. La mia foga era tale da farmi sbavare. Temetti di raggiungere l’orgasmo in modo spontaneo. Poi finalmente ritornai in me e ripresi a dedicarmi a lei con metodo. Sulle mie cosce, sentii il suo piede avvicinarsi al mio pene. Una nuova idea per tenermi sottouna costante pressione. Tornai a succhiare le dita, intensamente. Prima singolarmente, poi due alla volta.
Debora intanto, continuava a stimolarsi e mi parve di vedere delle gocce inumidire le labbra della vagina.
Continuando a tenere le dita in bocca, passavo a più riprese la lingua tra di esse, succhiandole. Passai di dito in dito, assicurandomi di leccare bene tra l’uno e l’altro. Godevo da morire sentire gli anfratti della pelle tra le sue dita.
Debora intanto aumentò il suo ritmo.
Mi sentivo stordito dall’intensità del piacere che provavo e la collaborazione di Debora non faceva che stimolarmi. Vederla masturbarsi, sentire le sue dita muoversi nella mia bocca, sentire la presenza dell’altro piede sulla mia coscia, udire le sue parole nella mia mente, era più di quanto le mie fantasie avessero potuto mai darmi. Un’esperienza così fortemente visiva e tattile, che non si può provare con la sola masturbazione, io la vivevo in quel momento. Ne ero sopraffatto e fui costretto a chiudere gli occhi, incapace di sopportarne l’intensità. Li riaprii poco dopo e vidi la mano di Debora agitarsi freneticamente mentre sul suo viso era comparsa una smorfia di piacere, mista a dolore. Sembrava in dirittura d’arrivo. Il suo piede lasciò la mia coscia per incominciare ad accarezzare il mio pene, da sotto. Sentii le dita sotto i testicoli, mentre il collo si appoggiò alla base della canna. Poi lentamente ed inesorabilmente salì, deliziandomi con un movimento morbido, ma deciso.
Muggii.
Sbavai.
Chiusi gli occhi.
Feci tutto ciò che potei per resistere il più a lungo possibile. Ma era una battaglia già persa in partenza. Ero già pronto da tempo ad arrivare e bastarono poche carezze perché l’orgasmo montasse.
Venni, tra ansimi e muggiti, schizzando tutto sul suo piede e per terra.
Anche lei, mentre ancora eiaculavo, ansimò e gemette sommessamente, per poi raggiungere il piacere, sottolineandolo con un gemito leggero ed un respiro affannoso.
Mi lasciai andare, senza neanche la forza di togliere il suo piede dalla bocca, appoggiando la testa alla base del letto. Rimasi così, ad osservare quella ragazza, uscita fuori da un mondo fatato, cercare anche lei di riprendersi. Ci guardammo silenziosi, sorridendo. La sua mano accarezzò la mia testa. Poi il suo piede abbandonò la mia bocca.
Da un lato, c’era la mia famiglia. Essendosi fondata su obblighi e doveri, io venivo giudicato esclusivamente in funzione di come li espletavo. Mio padre a volte si presentava sul mio posto di lavoro, a mia insaputa, al solo scopo di chiedere cosa io facessi di sbagliato. Non era importante se, in generale, io fossi un valido dipendente. Per lui contava che io non facessi mai errori. Ed essendo sicuro che io ne commettessi, veniva a cercare scuse per rimproverarmi. E se anche non ne commettevo, non era abbastanza comunque, in quanto non raggiungevo la perfezione. C’era sempre qualche motivo valido che le persone avrebbero usato per parlare male di me con lui, come se davvero la gente andasse da lui a parlargli male di me. Tutte le sue critiche e i suoi giudizi su di me, tuttavia, avevano fatto sì che io sentissi un costante senso di insicurezza e avessi nei miei stessi confronti uno spirito di autocritica intollerante, che devastava la mia autostima. Mi ritrovavo a cercare costantemente dei difetti in tutto ciò che facevo, per correggerli e arrivare ad una perfezione che rimaneva comunque impossibile da raggiungere.
Dall’altro lato c’erano i ragazzi del nostro quartiere, i quali mi avevano preso di mira fin da subito in quanto “straniero”, per poi sfruttare le mie debolezze ed infierire regolarmente, con prese in giro e scherzi di ogni tipo, che diminuirono, ma non cessarono del tutto, solo negli anni dell’adolescenza.
Al centro invece c’era lei.
In un mare in tempesta, con onde alte e forti venti, lei era il faro che mi dava sicurezza.
Dipendevo da lei e questo era chiarissimo anche per lei, ma soprattutto lo era per me. Non riuscivo ad immaginare il mio mondo senza di lei.
Ma era proprio la consapevolezza di questa dipendenza a tormentarmi. Come potevo pensare di essere innamorato di lei, se sapevo di voler stare con lei perché ne ero dipendente?
Tutto era per me molto confuso. E confuso voleva dire non perfetto. E io volevo essere perfetto.
Lei meritava un ragazzo perfetto, uno che fosse innamorato perso, non un ragazzo preda di dubbi e confusione.
A volte ricordavo le parole che mi aveva detto, cioè che io non conoscevo l’amore, perché la mia famiglia non mi aveva mai amato. Ma allora come poteva essere sicura del mio amore?
Eravamo seduti sul prato del parco, come facevamo da bambini e la vidi reagire con un sorriso quando le posi questa domanda. “Tesorino, il fatto che tu non conosca cosa sia l’amore,” rispose, “non vuol dire che non lo metti in atto. Quando mi mandi messaggini, quando mi dici che mi ami, quando mi guardi in certi modi, quando hai certe attenzioni, quando mi pensi, quando mi desideri, quando vuoi vedermi sorridere, quando vuoi vedermi felice, non sono segni del tuo amore per me?”
Riflettei alla sua risposta.
“E se fosse solo paura di perderti?”
“Anche la paura di perdermi è un sintomo d’amore. Però fai questa paura più grande di quello che dovrebbe essere. Se non avessi costantemente paura, a quest’ora staresti volando come sto volando io. Voglio farti una domanda semplice. La tua voglia di vedermi felice, dipende dalla paura che hai di perdermi, o è innata?”
Riflettei nuovamente, ed iniziai a capire dove volesse arrivare.
“Io voglio solo che tu sia felice. Con me o senza di me.”risposi. “Solo che se tu fossi felice senza di me, ci starei male da morire.”
“Ci staresti male perché sentiresti che il tuo amore non è corrisposto. Ma la cosa importante ora è sapere che la tua voglia di vedermi felice è innata… Non è così?”
“Sì”
“Questo perché mi ami davvero. Solo una persona davvero innamorata è disposta a vedere la persona amata felice con un altro piuttosto che infelice con lei. E tutto il resto delle tue preoccupazioni, non sono altro che preoccupazioni ingiustificate. Io ti amo. Se tu fossi solo un pochino egoista, ti importerebbe solo di questo. Vorresti solo essere amato. Mi useresti e basta. Invece sei sempre preoccupato di amarmi e farmi sentire amata, di donarti, eppure neanche questo ti basta. Vorresti amarmi più di quanto già fai e non ti dai pace per questo. Pensi che non sia mai abbastanza. Ma non pensi che anche io vorrei vederti felice allo stesso modo?”
“Ho la costante paura di perderti, e non so come fare per superarla. È un tormento. Perché so che non dipende solo da me. Tu potresti svegliarti una mattina e dire basta. Per questo cerco di darti il più possibile. Perché tu possa pensare che stai abbastanza bene con me, da non prendere quella decisione.”
Debora mi guardò con i suoi profondi occhi scuri. Erano lucidi.
Tra noi c’era qualcosa di molto radicato, ma lo aveva afferrato solo lei. D’altronde la mia idea di amore era quella di una famiglia dove, tutto sommato, le persone andassero d’accordo. Insomma dove ci fosse, a grandi linee, pace. Ma non necessariamente amore. Mi sarebbe bastato anche solo il volersi bene.
Invece lei non si sarebbe accontentata di qualcosa di pallido e blando. Aveva avuto proprio in casa sua la dimostrazione di cosa fosse il vero amore. Non semplicemente un sentimento, ma qualcosa che aveva un vero e proprio corpo, una manifestazione con atti concreti che richiedevano anche sacrificio. I suoi si erano sposati per amore ed erano innamorati ancora. Era così evidente da essere innegabile anche a me. Debora era stata immersa fin da bambina in questo tipo di relazioni famigliari e aveva una tale quantità di nozioni a riguardo, da poterci scrivere un libro.
E cercava quanto più possibile di mostrarmi lo stesso tipo di amore che c’era tra i suoi genitori.
Con azioni, non solo a parole. E soprattutto, cercando di capirmi.
Il suo sguardo era sempre penetrante, come se volesse leggere i miei pensieri più reconditi. Oltre a questo, mi sentivo sempre soggiogato dalla sua bellezza. Nonostante la conoscessi da anni, mi sentivo di derubarla quando la guardavo al solo scopo di gustare la perfezione dei suoi lineamenti, la deliziosa linea delle sue labbra, la sintonia con cui il suo naso si inseriva nella complessità del suo viso e soprattutto quegli occhi. Quella luce che emanavano, quella vita che avevano, quell’amore che trasmettevano.
Non potevo che sentirmi indegno di lei.
Ed anche quando mi sentivo così, come se non fosse già abbastanza, riusciva a mostrarmi una nuova fetta del suo amore per me.
“Cosa pensi che sia la felicità?” domandò. Lì per lì, la domanda mi parse fuori luogo.
Risposi quasi immediatamente, senza neanche pensarci troppo: “Per me la felicità è quella sensazione che provi in certi momenti, quando stai così bene, che dimentichi per un po’ i problemi e sei concentrato su ciò che hai in quel momento… Un po’ come quando sono con te. Mi fai dimenticare i problemi… Forse in realtà sei tu la felicità.”
Rise.
“Ma perché ridi?” domandai. “Non può essere una persona la felicità?”
Continuò a ridere. “Quando voglio fare un discorso serio riesci a farmi ridere, e alla fine il mio discorso finisce dritto dritto nella cloaca maxima.”
“Ma…”
“Sai cos’è la felicità per me?” domandò, rientrando in sé. “La felicità è una proiezione. La proiezione del passato e del presente, nel futuro.”
La guardai impassibile per qualche istante, tornando a riflettere. Quindi annuii, con convinzione: “Non ho capito una mazza!”
Sorrise: “Io sono felice. E credimi, intendo davvero. Sai perché?”
“Mi piacerebbe pensare che è perché sei qui con me… Ma dai tuoi discorsi credo che non sia questo il motivo, no?”
“E invece ti sbagli, perché il motivo è proprio questo…”
“Ma allora anche per te la felicità sono io” esclamai interrompendola. “Anche per te la felicità è una persona.”
“Non è proprio così, cioè, lo è, ma non è solo questo. Questo è solo uno dei motivi. Uno dei motivi del presente. Tu sei qui con me adesso, no? Però anche quando non sei con me fisicamente, perché sei altrove, o a casa, o al lavoro, tu sei con me. So che mi ami e so che vuoi stare con me. Quindi so che sei con me. Capisci? Io proietto su me stessa nel presente la tua volontà di stare con me. E questo crea un dato nella formula che ti ho detto.”
“La formula? Quale formula? Mi sfugge qualcosa mi sa...”. La mia confusione era evidente.
“Te la pongo in un modo diverso.” La vidi pensare. “Io e te stiamo insieme, e questo mi fa stare bene. Ok?”
“Ok, ci sono.”
“Questo è il presente, giusto?”
“Sì”
“Da quanto ci conosciamo?”
“Quasi undici anni, se non sbaglio”
“Perciò posso dire di conoscerti bene. Cioè, abbiamo costruito un rapporto stabile, anche quando non stavamo insieme, un rapporto onesto, sincero, giusto?”
“Certo”
“Questo nel passato.”
Sì.” Riflettei: “Credo di arrivare a capire quello che dici.”
“Cosa dico, quindi?”
“Tu dici che guardando ciò che è successo nel passato e guardando ciò che succede nel presente, hai delle basi per sapere come sarà il futuro. Perciò se sai che il passato ti ha portato ad essere felice nel presente, sai che sarai felice anche nel futuro. E questo pensiero riguardo al futuro, ti fa essere felice anche nel presente. Incasinato, ma comprensibile. Una bella teoria.”
Mi prese la testa tra le mani e mi schioccò un enorme bacio sulla bocca. “Devi essere felice, non ansioso. Se oggi sei ansioso, domani come sarai? Non c’è nulla che posso fare per aiutarti?”
La guardai, riflettendo. Poi scossi le spalle: “Non ne ho idea”.
Nei giorni successivi riflettei sul fatto che Debora aveva ragione. Era lei a scegliere di stare con me e aveva già fatto la sua scelta praticamente da sempre. Tra l’altro anche ora, come già succedeva in passato, parlavamo molto. Avevamo intesa, intense comunicazioni e condividevamo tutto. Se avesse avuto dei motivi per chiudere con me, sicuramente mi avrebbe prima dato dei segnali. Questo pensiero mi tranquillizzò un po’. Ma la mia paura di perderla non era poi così ingiustificata. Aveva un sostegno nel fatto che, sebbene avessi sempre provato un desiderio forte, non avevo mai creduto di poter vivere veramente una storia d’amore reale con una ragazza. Non avevo quindi mai neanche pensato alle basi su cui si sarebbe dovuta fondare. Ed il fatto di essere considerato uno sfigato non aveva fatto altro che accentuare e radicare nel mio inconscio la convinzione che non avrei mai trovato una ragazza, con la conseguenza che, quando invece l’avevo trovata, non ero pronto a vivere una relazione. Tutto pareva un’incognita. Vedevo davanti a me scelte da fare e, nonostante il terrore di sbagliare, sentivo l’ansia di dover fare in fretta e bene tutto e subito, per non perdere l’unica ragazza a cui sembravo interessare.
Invece Debora di fretta non ne aveva proprio, anzi, al contrario, era tranquilla e paziente con me, sopportava bene tutti i miei complessi e cercava di aiutarmi a superarli con una calma zen che Dalai Lama levati.
Riconoscevo pienamente le qualità di Debora. La ammiravo ed ero pienamente conscio di volere essere come lei. Forte e intelligente, sempre pronta nelle difficoltà. Rappresentava le mie aspirazioni.
Eppure lei mi diceva che non dovevo cercare di essere come lei, che mi sarebbe bastato sviluppare la parte migliore di me e demolire le mie insicurezze. Erano soprattutto queste a frenarmi. Ed erano soprattutto queste a venir fuori al primo impatto con le persone. Per questo la gente mi sottovalutava.
Perciò decise di lavorare con me affinché almeno alcune sparissero.
Ma io lo seppi solo quando arrivai da lei, quel sabato.
Arrivato a casa sua, salutai i suoi genitori, che ogni tanto si concedevano una pausa dal lavoro e dai viaggi in Inghilterra, e mi fermai a chiacchierare un po’ con loro. Domandai di Barbara, di come andassero le cose in Inghilterra. A volte la sentivo, ma non tanto spesso, però la consideravo quasi una sorella maggiore, quindi cercavo di tenermi informato. Mi diedero buone notizie e ne fui contento.
Aggiunsero inoltre che pure Debora, nonostante avesse sempre avuto buoni voti, negli ultimi mesi era addirittura migliorata. “Non riusciamo proprio a capire cosa le sia successo” dissero. Tuttavia la loro espressione era quella di chi sapeva perfettamente di cosa stesse parlando. Io però non lo capii.
Poi salii da lei.
Bussai e mi invitò ad entrare.
“Stiamo insieme da quasi quattro mesi, senza contare gli anni passati da amici, e ancora bussi alla mia stanza…” commentò.
“Appunto, è la tua stanza. Perché non dovrei rispettare la tua privacy? Se apro subito poi come fai a nascondere l’amante, non so…”
Mi venne incontro e mi abbracciò. “Ho pensato ad una cosa.”
“Dimmi, sono tutt’orecchi. Anzi, considerami un unico enorme orecchio, pronto ad ascoltare ogni tua parola, se non fosse per un piccolo problema. La sordità.”
“Smettila!” esclamò sorridendo, devo parlarti seriamente.
“Ma sono serio! Guarda la mia espressione seria! Guardala!” ed immediatamente aggrottai le sopracciglia e strinsi le labbra più che potei.
Sospirò disperata, ma divertita. “Sembri in forma oggi.”
“Io direi informe. Informe è la parola giusta.”
“Mettiti nudo.”
Improvvisamente divenni serio davvero.
“Cosa?” domandai incredulo. “Era questo che avevi pensato?”
“Non ridi più ora?” Il suo viso mostrò un’espressione soddisfatta e compiaciuta.
“Non capisco se scherzi…”
“Dici sempre che faresti qualsiasi cosa per me… Mettiti nudo allora.”
La guardai, ancora non convinto che lo volesse davvero. Ma lei annuì, confermando le proprie parole. Chiusi la porta dietro di me. A chiave. “Ci sono i tuoi…”
“Non preoccuparti di questo, credi non gli sia venuto in mente che facciamo certe cose?”
Avrei preferito non saperlo. In un attimo mi tolsi la maglietta, rimanendo a torso nudo. Lei fece qualche passo indietro e si sedette sul letto, accavallando le gambe, per gustarsi la scena.
Indossava ancora la maglietta rosa e i jeans che aveva a scuola. Ai piedi invece le infradito bianche che ultimamente usava in casa. Le unghie erano blu elettrico, decorate con stelline argento. Mi venne in mente quando mi aveva detto che voleva che fossi io a metterle lo smalto. Non sarei stato così bravo.
“Rimetti la maglietta e toglila di nuovo,” disse “ma più lentamente.”
A quanto pareva, voleva uno spogliarello. Cercai di esaudirla nel migliore dei modi, nonostante mi sentissi goffo. Presi il mio tempo e cercai con il cellulare la canzone che sentivo più adatta al momento. In pochi istanti partirono le note di “Truly, madly, deeply” dei Savage Garden ed io iniziai il mio show. Il suo sguardo si perse. Forse non si aspettava che la prendessi così seriamente. Mi tolsi lentamente la maglia, al ritmo della musica. Contrariamente al mio modo di fare, fissai quanto più possibile i miei occhi nei suoi, cercando di trasmetterle quanto sentissi mie le parole della canzone. Tolta la maglia, la feci girare in aria un paio di volte, quindi la lanciai sulla poltroncina nell’angolo. Feci due passi in avanti, quindi scesi, roteando i fianchi e il busto, piegando le ginocchia, finché non fui a terra a gambe aperte e mani dietro la nuca, davanti a lei. Continuai a guardarla e a muovere il ventre, danzando. Non mi preoccupai di quanto potessi essere ridicolo. Lei era il mio pubblico e non mi sarei mai reso ridicolo abbastanza.
Quando arrivò il ritornello, mi chinai in avanti. La guardai ancora negli occhi, poi con la mano destra avvicinai a me il suo piede penzolante e lo baciai appassionatamente. Lo baciai più volte, mantenendo fissi i miei occhi nei suoi, per tutto il tempo del ritornello. Debora mostrò di gradire quel gesto.
Ripresi quindi la mia danza, armeggiando con la cintura. La sganciai, e sganciai i pantaloni. Feci leva su piedi e gambe e mi tirai su, cercando nel contempo di far scendere i pantaloni. Riuscendoci, mi sentii un campione di danza erotica. Ma avevo dimenticato le scarpe. Scesi di nuovo. Cercai di slacciare le stringhe. Nel farlo, non solo persi il ritmo, ma per un attimo, anche l’equilibrio. Riuscii ad evitare di cadere e, con un enorme sforzo, finalmente mi liberai dalle scarpe e dai pantaloni, lanciandoli sopra la maglia. Debora applaudì per la mia impresa. Mi tolsi rapidamente i calzini, invece dedicai più tempo ai boxer. Infilai i pollici tra i miei fianchi ed il tessuto e muovendoli su e giù, giocai, mostrando appena e non mostrando le mie parti intime. Sia davanti che dietro. Fino a quando la canzone non terminò. Allora, lasciai che i boxer cadessero in terra e misi le mani ai fianchi.
Debora applaudì, divertita e soddisfatta.
Io invece cominciai a sentirmi un po’ a disagio. Nudo, di fronte a lei mi sentivo ancora più in soggezione rispetto al solito.
“Sei stato bravo per essere la prima volta, davvero!” disse. “E pensa che c’è chi paga per avere spettacoli come questo.”
Intimidito, notai cambiare la sua espressione. Passò la lingua sulle labbra, diventando seria, come una pantera affamata. Poi, si alzò in piedi e in un attimo fu di fronte a me, tenendo le mani sui fianchi. Il suo sguardo passò su tutto il mio corpo, con desiderio. “Ti voglio” disse. “Ti voglio davvero. Ma sento che hai bisogno che io sia passiva.”
La guardai incerto.
“Voglio che mi baci e mi tocchi senza pensare di dovermi dare piacere. Voglio che pensi solo al tuo piacere, al tuo godimento.”
Istintivamente, non riuscii ad accettare le sue parole. “Debora, io non…”
“Lo so che non lo vuoi. Ma devi imparare a prendere. Lo meriti.”
Allungò le braccia e cinse i miei polsi con le sue mani. Poi guidò le mie sul suo seno. Sentii un fremito quando lo toccai. Sotto i miei polpastrelli sentivo la presenza della maglia e del reggiseno, ma anche della sua pelle morbida. Continuò a penetrarmi con i suoi occhi. Tentai di ritrarmi, ma lei me lo impedì stringendomi i polsi.
“Non aver paura” disse, cercando di incoraggiarmi.
“Non è paura” risposi.
“E allora cos’è?”
“Sei l’ultima persona che merita di essere usata come un oggetto”
“Ma tu non mi stai usando come un oggetto. Mi stai mostrando quanto mi desideri.”
Non potei replicare alle sue parole.
Lasciai scorrere le mie mani sul suo seno, poi lungo i fianchi. Poi salii di nuovo sul seno. Le mie dita gustarono quei momenti, ed il mio corpo mostrò la propria approvazione con chiari segnali nel basso ventre. Ero nudo, ma non ci facevo più caso. Le mani di Debora ripresero i miei polsi e li guidarono verso il basso, poi sotto la maglia, a contatto con la pelle. Fremetti. Ed anche di più, quando tornai sul seno. Palpai avidamente la sua pelle morbida. Avevo la bocca secca dal desiderio. Il cuore batteva rapidamente. Non era la prima volta che toccavo Debora, ma era la prima con quello spirito, con la consapevolezza che non l’avrei persa anche se fossi stato troppo egoista.
Si tolse la maglia. Lasciai i miei occhi indugiare sulla bellezza del suo seno. Rimasi quasi bloccato nel silenzio. Si sentiva solo il mio respiro affannoso. Per un attimo fui nuovamente preso dal timore di non avere il diritto di poter godere in quel modo del suo corpo. Ma scacciai quel pensiero e portai le mie mani sulla sua schiena, alla ricerca del gancio. Armeggiai un po’. Finalmente il reggiseno si sganciò. Debora mi aiutò e lo fece finire sopra ai miei vestiti sulla poltroncina d’angolo. Timidamente sfiorai con le labbra le sue mammelle. Non contenevo più l’eccitazione, che si ergeva senza freni. Nuovamente la mia bocca si poggiò sui suoi seni, diverse volte. Quindi scesi più in basso, e continuando a baciare la sua pelle, lentamente, mi inginocchiai. Allora staccai le mie labbra da lei, per slacciarle i jeans. Di nuovo collaborò e, dopo essersi liberata delle infradito, anche i jeans finirono nel mucchio.
Guardai verso l’alto. Aveva gli occhi chiusi in attesa che riprendessi a baciarla. Ma li riaprì quando vide che i miei baci non arrivavano più.
“Gli slip toccano a te” dissi. “Un minimo di strip tease concedimelo.”
Mostrò di gradire la richiesta.
Fece mezzo passo indietro, infilando i pollici sotto il tessuto degli slip per poi percorrere avanti e indietro tutta la circonferenza dell’elastico per fermarsi attorno ai fianchi. Nel frattempo, il bacino cominciò a ruotare al ritmo di una musica che solo noi potevamo sentire. Non si può descrivere a parole la bellezza di una diciottenne come Debora, che balla solo per te, che ti trasmette in modo così diretto il suo desiderio di piacerti e farsi godere in modo così puro e spontaneo. La vidi girare su sé stessa con eleganza, per poi fermarsi, dandomi le spalle. I suoi lunghi capelli si mossero lungo la schiena, appena inarcata all’indietro. Alzai i miei occhi ed incontrai i suoi, fissi su di me. Certa di avere la mia attenzione, passò sensualmente la punta della lingua sulle labbra e se le morse in modo molto erotico. Il suo sguardo mi abbandonò, e cominciò a sporgersi in avanti, spingendo appena all’infuori il sedere. A quel punto i pollici cominciarono a far scendere l’elastico che percorse dolcemente le natiche di Debora, la quale con studiata lentezza, ma continuando la sua danza, si piegava apposta in avanti, mano a mano che l’elastico scendeva, per spingere il più possibile il suo sedere verso il mio viso. Era oramai a pochi centimetri da me quando gli slip terminarono il loro percorso, fermandosi appena sotto la linea delle natiche.
Sulle quali posai le mie dita, tastandone la morbidezza.
Allora vi avvicinai il viso e le baciai, prima l’una, poi l’altra, dolcemente. Nel frattempo gli slip scesero a terra, dove i piedi di Debora si liberarono dal sottile indumento. Le sue mani invece si posarono sulle mie, ed esercitarono una lieve pressione che portò le natiche ad aprirsi, rivelando l’ano. Lo osservai, cercando di cogliere ogni più sottile linea di quel fiore carnoso. Infine lo baciai con passione. E lo leccai avidamente, tentando di infilarvi dentro la lingua. Ne trassi un leggero sapore amarognolo che, se fosse stato più intenso, mi avrebbe disgustato. Ciononostante proseguii nel mio intento e mentre il sapore svaniva, la mia lingua non frenava i suoi tentativi di penetrazione, anche se furono vani.
Debora intanto iniziò ad ansimare.
Ed anch’io ne traevo grande godimento.
Ma lei fece poi due passi in avanti, lasciandomi lì, in ginocchio, a cercare di capire perché mi avesse tolto quella fonte di un così grande piacere.
Si appoggiò con il busto e le braccia al letto, allargando le gambe, tese, e sporgendo nuovamente all’infuori il sedere, per poi voltarsi verso di me, mostrandosi quindi in attesa che io mi avvicinassi e continuassi. Era piuttosto colorita in viso e sembrava già affannata.
Avvicinandomi, notai che la sua vagina era umida. Desiderai leccarla. Ma mi piacque pensare che non avessi il permesso di farlo. Nella mia mente si formò un pensiero, che vedeva Debora non come la mia ragazza, ma come la mia padrona. Una padrona che, dopo avermi ordinato di leccarle l’ano, attendeva che eseguissi l’ordine. Questo pensiero mi travolse, eccitandomi tremendamente. Debora non era la mia padrona, ma pensare che lo fosse, o anche solo immaginare che giocasse ad interpretarne il ruolo, mi mandò fuori di testa.
Mi avvicinai carponi al suo sedere. A pochi centimetri da esso mi fermai: “Debora, posso chiederti una cosa?”
“Proprio adesso?” mugolò. “Cosa?”
“Vorrei che me lo ordinassi...”
Mi guardò, seria, sollevando un sopracciglio. Poi apparve un leggero sorriso compiaciuto.
“Ti prego…” insistetti.
Tornò seria. “Leccami il sedere” ordinò poi perentoria. “Lecca bene il buchetto del mio sedere. Leccalo bene. Fammi sentire chiaramente il piacere che provi nel farlo. E sentiti onorato del privilegio che ti concedo.”
Le sue parole penetrarono la mia mente con intensità. Appoggiai nuovamente le labbra sul suo sfintere. Lo baciai. Poi lo leccai lentamente. Ansimando. Passai la lingua ripetutamente sul suo buco, avendo nella testa il suono della voce di Debora e quelle parole, quegli ordini emessi da vera padrona. Vivevo ogni singolo passaggio della mia lingua come un atto di obbedienza e mi sentivo intensamente umiliato nei suoi confronti, come se lei fosse una padrona da compiacere. Eppure era proprio quel sentimento di sottomissione ed umiliazione a trasmettermi un enorme piacere, così intenso da farmi sentire sopraffatto. Ogni sua parola nella mia mente mi dava piacere. Ogni leccata che davo al suo fiore carnoso, mi dava piacere. E tutto mi spingeva a proseguire, con maggiore intensità, per continuare a provare quel senso di umiliazione, e ricevere ancora più piacere. In quel momento non realizzavo nemmeno quanto la mia indole sottomessa si stesse manifestando. Non me ne accorsi subito ma a posteriori fu evidente che non ero un feticista puro. Nelle mie fantasie mi soffermavo sui piedi, ma Debora si faceva esplorare, mi portava ad esplorare, mi provocava, mi stimolava, mi apriva la mente.
Improvvisamente si allontanò ancora, e salì con le ginocchia sul letto, togliendomi di nuovo il centro dei miei pensieri. Ma questa volta, prontamente, ne seguii i movimenti. La mia bocca e la mia lingua ripresero velocemente la loro opera. Cercai ancora di inserire la lingua nello sfintere, ma nuovamente senza successo. Debora intanto gemeva e mugolava. E lo fece anche più intensamente quando infilò due dita nella vagina per muoverle ritmicamente dentro e fuori. A quel punto allungai le mie leccate, iniziando dalla parte inferiore delle labbra, appena sotto le sue dita e proseguendo fino all’ano. Andai avanti a leccare, insistendo con impegno, mentre il suo corpo cominciava a muoversi avanti e indietro. Ad un tratto ebbi l’impressione che Debora si avvicinasse all’orgasmo. Gemeva, ansimava, provava piacere. Il suo corpo fremeva e a tratti tremava. La sua vagina, sollecitata dal movimento sempre più intenso della mano, gorgogliava, mentre del liquido colava tra le sue cosce. Sentirla emettere quei suoni, mi eccitava ancora di più. Se qualcuno avesse stimolato le mie parti basse, sarei sicuramente venuto subito. Nuovamente fui sopraffatto dall’idea che lei non fosse solo la mia ragazza, ma la mia padrona. Che leccarle il sedere fosse un dovere, un privilegio. E godevo al pensiero di essere solo uno schiavo al servizio del suo piacere, solo un oggetto che aveva una piccola parte nel processo che la stava portando all’orgasmo. Non volevo fermarmi prima che avesse goduto pienamente. Dalla posizione in cui ero, potevo vedere la sua schiena inarcarsi avanti e indietro, mentre si masturbava.
Poi le sue dita si agitarono dentro e fuori la vagina in modo oltremodo frenetico. Leccai quanto più rapidamente potei il buchino del suo sedere, cercando di mantenere il suo stesso ritmo.
Infine venne.
Senza più muoversi ritmicamente, spinse il bacino in avanti, gridando e gemendo, mentre sentiva montarle, come un vulcano in eruzione, il godimento. Io continuavo intanto a titillarle lo sfintere che, una volta sopraggiunto l’orgasmo, si aprì ed espulse del gas. Il rumore della fuoriuscita fu attutito dalla mia lingua, ma l’odore penetrò immediatamente nelle mie narici, provocandomi, all’interno di esse, un leggero bruciore, mentre invece nel basso ventre un’intensa scarica di piacere. Nella mia mente risuonarono ancora i suoi ordini. Leccalo bene, fammi sentire il piacere che provi. Mi immaginai legato a quel sedere, mentre espelleva gas, in balìa della volontà della mia padrona. L’ondata di stimoli di piacere fu così improvvisa e intensa, che quasi mi stordì.
Invece con voce rotta dallo sforzo “Scusa!” proferì Debora, sommersa dal piacere. “Non volevo!”. Mi riportò alla realtà e tornai a leccarla con maggior vigore che in precedenza.
Lei allora si lasciò andare, sottolineando con mugolii, ansimi e grida quanto godesse del suo orgasmo.
Ma non si fermò al primo. Andammo avanti fino alla sua piena soddisfazione. Fino a quando decise di fermarsi, stanca, sudata e affannata. La mia lingua era ormai gonfia, come le labbra. La mia mente era stravolta ed era sempre più chiaro ai miei occhi il mio ruolo nella nostra coppia. Ma in quel momento non tirai fuori l’argomento. Ne avremmo parlato più in là.
Era bellissima, distesa nuda sul letto, mentre si riprendeva dalla fatica.
Disteso accanto a lei cominciai nuovamente a baciarla, prima sulla bocca, poi sul collo, per scendere infine lentamente lungo tutto il suo corpo. Assaporai la sua pelle con le labbra e la lingua. Godetti del suo odore naturale, e dell’odore del suo sudore. Con la lingua ne saggiai il sapore. Scesi fino alla vita, senza soffermarmi sui seni. Non avevo lo scopo di stimolare i suoi sensi, piuttosto mi ero lasciato andare ad uno strano istinto, quasi animalesco e mai provato prima, come se volessi pulire la sua pelle, come se volessi lavarla dalle sue fatiche.
Debora mi lasciò fare, silenziosa, accarezzandomi i capelli per tutto il tempo. Baciai e leccai anche le sue mani, indugiando su quella che era stata nella sua vagina, soprattutto sulle sue dita. Muovendomi su di lei per compiere la mia opera, mi ritrovai inginocchiato accanto al letto, dalla sua parte. Giunsi così alla zona inguinale, dove in precedenza avevo visto colare i suoi umori. Le sue cosce erano ancora umide e odorose. Non ebbi fretta e mi gustai ogni odore, ogni sapore e ogni momento. Anche le mie mani carezzarono la sua pelle, deliziandomi per la sua morbidezza. Passai poi alle natiche. Debora mi accompagnò con il suo movimento, mettendomi in condizione di poter raggiungere facilmente i punti che volevo toccare. Voltandosi e mettendosi prona, abbracciò uno dei due cuscini del letto matrimoniale, poggiandovi la testa e rilassandosi. Allora baciai le natiche diverse volte, per poi palparle mentre mi dirigevo al centro, tra di esse, esattamente nel punto che per tutto l’amplesso era stato a contatto con la mia bocca. Dedicai al suo ano diversi baci, vivendoli non come gesti erotici, ma come atti di sottomissione. Come se volessi trasmetterle che avrei baciato il suo sedere ogniqualvolta lo avesse concesso, desiderato, chiesto o preteso. Sarei stato ai suoi ordini e alla sua volontà. Non compii quel gesto allo scopo di eccitarmi, eppure accadde. Segnali chiari vennero dal mio basso ventre, la cui asta tornò ad ergersi.
Perciò mi spostai, ritornando alle cosce. Rimasi su di esse a lungo, cercando di saziare la mia bocca e la mia lingua, fino a quando non capii che non mi sarei mai saziato di Debora. Non avrei mai avuto abbastanza di lei. Un nuovo brivido percorse la mia schiena, quando si rifece viva l’idea che mi avrebbe potuto lasciare. Avevo così bisogno di lei. Scacciai quel pensiero. Non volevo mi rovinasse il momento.
Voltai il mio sguardo lungo il suo corpo, lasciando che i miei occhi gustassero la bellezza della sua nudità, di ogni sua curva, quella delle natiche, dei fianchi, della schiena, del suo seno, appena visibile, schiacciato sotto il suo corpo. E diedi spazio ai miei occhi affinché gustassero anche la bellezza dei suoi capelli rilassati lungo la schiena e cadenti suoi fianchi. Al contrario di quanto lei pensava di sé stessa, per me era bellissima.
Tornai con le mie labbra a percorrere le sue gambe. Mi ritrovai sui polpacci e li trovai splendidi. Mi fermai apposta per osservarli. Presi mentalmente nota di regalarle una cavigliera. Infine quando mi trovai in ginocchio di fronte ai suoi piedi, non potei trattenere l’eccitazione. Non riuscii nemmeno a pensare di poterli sfiorare senza sentirmi coinvolto eroticamente. Semplicemente guardarli, mi trasmetteva intense scariche pulsanti di piacere ed ero preda di un’attrazione fisica violenta, irresistibile, come se fossi calamitato verso di essi. Anche le dita, e i movimenti che lei faceva inconsapevolmente, mi eccitavano. Ero avvinto da quei piedi, che, come due bellissime e sensuali sirene, con voce soave, cantavano, ipnotizzandomi, stordendomi, ubriacandomi, per costringermi a naufragare sui loro scogli, in balìa della loro volontà, e farmi obbedire ad ogni loro desiderio, come se fossi sotto un incantesimo. Tentai di resistere, tentai di non cedere. Tentai di rimanere fermo nel mio intento di non lasciarmi andare all’eccitazione, ma fu inutile. Arrivò tutta insieme, con la potenza di un’ondata che si infrange su una costa rocciosa, come la scossa elettrica di un fulmine, e pervase ogni angolo della mia mente e del mio corpo, ogni mia cellula, continuando a premere tra le mie cosce con forza, con la minaccia che sarei impazzito se non le avessi dato sfogo.
Debora si voltò su un fianco appoggiando la testa sulla mano, per guardarmi, forse rendendosi conto che non stavo dando più cenni di vita nei confronti del suo corpo. Restituii lo sguardo, in un’espressione supplice, in una silenziosa richiesta d’aiuto, sperando che mi liberasse da quella situazione per me così difficile.
Ma lei sollevò il piede e dolcemente ne poggiò la pianta sulle mie labbra. “È così difficile?” domandò. “Non è la parte che preferisci?”
Sembrava che per lei fosse tutto normale. Ma come poteva esserlo? Come riusciva ad accettare un ragazzo che si eccitava a baciarle i piedi? Che di fronte ad essi perdeva il controllo e non riusciva a resistere al proprio istinto animalesco? Eppure la calma e la serenità con cui mi guardava erano la dimostrazione che mi accettava per quello che ero. Forse era giunto il momento che mi accettassi anche io.
Con una mano premetti dolcemente il piede sulla mia bocca, baciandolo con passione, ad occhi chiusi, cercando, in quel bacio, di trasmetterle tutto l’amore che provavo per lei. Ma non riuscii più a contenermi. Provavo un’eccitazione smisurata, incontenibile, mi sentivo in estasi. In pochi istanti i baci appassionati si trasformarono in leccate. La mia lingua iniziò a percorrere la pianta, dal tallone fino alla cima. Ripetutamente, senza freni, cercando di non tralasciare alcuno spazio. Alle mie narici non arrivarono odori particolarmente intensi, anzi, quasi impercettibili. Apprezzavo che Debora fosse una ragazza pulita, ma mi eccitai ulteriormente al pensiero che i suoi piedi fossero sporchi e che io li dovessi ripulire con la mia lingua. Forse lei non aveva realizzato pienamente quanto potessi essere depravato e quanto in basso potessero arrivare le mie perverse fantasie. Al contrario di lei, io ne ero pienamente cosciente. E capii che avrei dovuto dirle tutto, prima che lo scoprisse da sola. Se questa cosa l’avesse infastidita al punto da non potermi più accettare, sarebbe comunque stato un bene che gliel’avessi detta io. Ma non era quello il momento.
Cominciai a leccarle le dita. Nuovamente ne apprezzai lo smalto blu decorato. La mia lingua lambì dolcemente i polpastrelli, diverse volte. Tra le mie cosce era evidente quanto mi piacesse. Dalle leccatine, passai ai baci. Dall’alluce al mellino. E dal mellino all’alluce. Ripetutamente. Dai baci passai poi a succhiarle le dita. Debora però mi fermò, ritraendo il piede. La guardai con aria interrogativa. Per tutta risposta si spostò, mettendosi a sedere davanti a me, allungando una gamba fino ad appoggiarla sulle mie cosce e porgendomi nuovamente il piede che tanto bramavo. Poi vidi una cosa inaspettata. La sua mano si mosse fino al centro delle sue cosce e le sue dita cominciarono a titillare il clitoride e a stimolarlo nelle parti esterne.
“Credevo avessi già dato…” commentai.
Si fermò per un attimo, fingendosi stizzita, ma trattenendo faticosamente un accenno di sorriso. Sollevò quindi il mento e le sopracciglia, con alterezza. Quindi spinse il piede nella mia bocca: “Tesorino, cerca di tenere la lingua occupata con i fatti e non con parole inutili. Sei ai miei piedi, non è così? Non ti ho dato il permesso di parlare. Il tuo compito è quello di leccare. Capito? Leccare. Ora fai vedere alla tua dea come ti impegni!”
La mia eccitazione si infiammò oltremisura. Leccai, baciai, succhiai le dita e il piede senza ritegno e senza freni. Per un certo periodo fui incapace di controllarmi. La mia foga era tale da farmi sbavare. Temetti di raggiungere l’orgasmo in modo spontaneo. Poi finalmente ritornai in me e ripresi a dedicarmi a lei con metodo. Sulle mie cosce, sentii il suo piede avvicinarsi al mio pene. Una nuova idea per tenermi sottouna costante pressione. Tornai a succhiare le dita, intensamente. Prima singolarmente, poi due alla volta.
Debora intanto, continuava a stimolarsi e mi parve di vedere delle gocce inumidire le labbra della vagina.
Continuando a tenere le dita in bocca, passavo a più riprese la lingua tra di esse, succhiandole. Passai di dito in dito, assicurandomi di leccare bene tra l’uno e l’altro. Godevo da morire sentire gli anfratti della pelle tra le sue dita.
Debora intanto aumentò il suo ritmo.
Mi sentivo stordito dall’intensità del piacere che provavo e la collaborazione di Debora non faceva che stimolarmi. Vederla masturbarsi, sentire le sue dita muoversi nella mia bocca, sentire la presenza dell’altro piede sulla mia coscia, udire le sue parole nella mia mente, era più di quanto le mie fantasie avessero potuto mai darmi. Un’esperienza così fortemente visiva e tattile, che non si può provare con la sola masturbazione, io la vivevo in quel momento. Ne ero sopraffatto e fui costretto a chiudere gli occhi, incapace di sopportarne l’intensità. Li riaprii poco dopo e vidi la mano di Debora agitarsi freneticamente mentre sul suo viso era comparsa una smorfia di piacere, mista a dolore. Sembrava in dirittura d’arrivo. Il suo piede lasciò la mia coscia per incominciare ad accarezzare il mio pene, da sotto. Sentii le dita sotto i testicoli, mentre il collo si appoggiò alla base della canna. Poi lentamente ed inesorabilmente salì, deliziandomi con un movimento morbido, ma deciso.
Muggii.
Sbavai.
Chiusi gli occhi.
Feci tutto ciò che potei per resistere il più a lungo possibile. Ma era una battaglia già persa in partenza. Ero già pronto da tempo ad arrivare e bastarono poche carezze perché l’orgasmo montasse.
Venni, tra ansimi e muggiti, schizzando tutto sul suo piede e per terra.
Anche lei, mentre ancora eiaculavo, ansimò e gemette sommessamente, per poi raggiungere il piacere, sottolineandolo con un gemito leggero ed un respiro affannoso.
Mi lasciai andare, senza neanche la forza di togliere il suo piede dalla bocca, appoggiando la testa alla base del letto. Rimasi così, ad osservare quella ragazza, uscita fuori da un mondo fatato, cercare anche lei di riprendersi. Ci guardammo silenziosi, sorridendo. La sua mano accarezzò la mia testa. Poi il suo piede abbandonò la mia bocca.
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