Come parlarne? - Capitolo V
di
VB1977
genere
feticismo
Quando rimasi solo, iniziai a cercare una posizione comoda in cui stare, ma fu impossibile. La corda girava un paio di volte intorno alla parte alta delle decorazioni centrali in ferro battuto della testiera del letto, cosicché le braccia dovevano stare obbligatoriamente in una posizione di circa trenta gradi rispetto alla linea orizzontale del materasso. La corda poi legava i miei polsi stretti al ferro bloccandoli in modo tale da rendere impossibile alle mie dita di raggiungere i nodi della corda, posti alla base dei polsi, ma anche togliendomi la possibilità di girarmi prono, senza il rischio di lussarmi una spalla . I legami non erano così stretti da creare problemi di afflusso sanguigno, ma abbastanza da impedirmi di liberarmi sfilando o tirando le mani. Ciò che più mi impressionò però, fu rendermi conto che questi legami non erano l’opera di una persona che la mattina si sveglia e decide di fare un gioco. Qui c’era lo studio di una mente subdola, che voleva ottenere uno scopo: rendere la posizione fastidiosa. Non c’era una vera e propria crudeltà. Non c’era dolore fisico. Solo la costrizione di un legame che obbliga a rimanere svegli, a continuare a cercare una posizione migliore senza riuscire a trovarla. Non ci si può distendere completamente perché le spalle iniziano a dolere. Non ci si può sedere per lo stesso motivo. Sotto di me avevo un copriletto di raso, o seta. Non conosco bene le stoffe, ma una cosa la imparai. Quella stoffa mi faceva scivolare giù, così come le sabbie mobili fanno affondare. Più mi muovevo, più scivolavo verso il centro del letto. Per poi ritrovarmi a dover tornare in posizione facendo leva con i piedi. Non c’era una posizione comoda che potessi mantenere.
Debora lo sapeva. Capii pienamente le parole che aveva detto. Mi fermo, ti penso e godo del potere che ho su di te. Posso scegliere di tornare, ma per capriccio decido di non farlo. Sapeva che stare in questa situazione mi avrebbe presto portato a pregare che tornasse. Evidentemente le dava piacere giocare come il gatto con il topo. Era un suo lato che non conoscevo. O forse lo metteva in atto in modo più blando quando ci sfidavamo di fronte ai videogiochi? Ora però non c’era più una situazione preimpostata da qualche programmatore, stavolta era stata lei a crearla, a decidere le condizioni del gioco, quindi sicuramente ne avrebbe tratto più piacere. Ma dove aveva imparato a creare questi nodi? Non è una cosa che puoi fare senza una certa pratica. Non sopportavo più quella situazione. Che ore erano? Voltai lo sguardo verso la sveglia sul comodino. Erano le… Era girata. Non potevo vedere il quadrante. Ruggii di frustrazione, gridando “ti supplico, torna!”. Ma non accadde nulla.
Arrivò quindi un pensiero. E se lo raccontasse alle sue amiche? Poi un altro. E se invece non fosse con le sue amiche? Poi un altro ancora. E se non fosse davvero felice con me, se tutte le mie paranoie la allontanassero?
Iniziai a battere i piedi sul letto a causa del nervoso. Ottenendo come risultato di finire al centro del letto e sentirmi tirare le braccia. Mi sentii all’interno di un incubo.
Debora dove sei?
Il tempo passava, ma quanto ne passava? Tutto quel movimento mi mise sete. Una nuova tortura. Quando non hai nulla da fare, ti accorgi subito delle tue necessità. Diventano un problema da risolvere in fretta, perché catturano la tua attenzione e ti costringono a chiederti costantemente “Come faccio? Come lo risolvo?”.
Mi agitai ulteriormente. Iniziai a tirare le mani più che potevo, tentando di liberarmi, ottenendo solo di farmi del male. Gridai di rabbia. Poi presi un respiro profondo. E un altro.
Quindi mi calmai.
Realizzai che nulla sarebbe cambiato continuando ad agitarmi e arrabbiarmi. Avrei solo avuto più sete e avrei passato un brutto pomeriggio.
Cercai di trasportare i miei pensieri su acque più tranquille.
Intanto misi nella lista delle cose da fare che mi sarei dovuto sistemare sul letto regolarmente. Facendolo in modo costante e a scadenza regolare, avrei potuto ottenere che diventasse quasi un gesto spontaneo e naturale, ottenendo di non doverci pensare più troppo.
Il problema della sete non potevo risolverlo, ma avrei potuto limitarlo rimanendo calmo.
D’altronde dovevo accettare di essere prigioniero di Debora e fino a quel momento non lo avevo fatto. Per un attimo Immaginai che lei pretendesse un tributo prima di liberarmi. Che le baciassi i piedi e mostrassi con la lingua la mia sottomissione e la mia accettazione del suo potere. Mi piacque pensarlo, anche se non vedevo quel comportamento nel suo carattere.
Quando mi aveva legato avevo voluto prenderla come se fosse un gioco, e che come tale, mi sarei divertito. Invece non era un gioco divertente. Era una situazione nella quale una persona gode nell’esercitare il proprio potere su un’altra. Un po’ come nelle mie fantasie quando la datrice di lavoro provava piacere nel costringermi a leccarle i piedi per non perdere il lavoro. Anche lei esercitava il proprio potere, godendone. Eppure era una fantasia in quel caso, tutto andava come io volevo, lei non esisteva e non c’era alcuna mia sofferenza vera.
Ma questo ragionamento mi portò ad immaginare di nuovo Debora, così come l’avevo descritta in un discorso fatto proprio con lei. Vestita in pelle, stivali alti, rossetto nero, aggressiva. Una pantera pronta a prendere e trasmettere piacere.
E mi piacque. L’idea mi fece impazzire.
Anche se avrei messo la mano sul fuoco sul fatto che Debora non fosse una persona aggressiva.
Anzi, quel pomeriggio, senza di lei, affrontai tra me le questioni che più mi pesavano, creando delle basi che mi permisero di dare finalmente a Debora una fiducia che, ingiustamente, non le stavo dando.
Mi convinsi che fosse uscita con le ragazze e mi avesse detto la verità. Non aveva proprio senso che le coinvolgesse affinché loro mi mentissero per coprirla, allo scopo di avere del tempo da passare con qualcun altro. Dovevo credere che aveva studiato quei nodi così precisi solo per sostenere la parte? Questa non era Debora. Se si fosse innamorata di un altro, piuttosto che edificare tutto quel teatro, mi avrebbe detto la verità, se non altro per mantenere la fiducia che avevamo costruito insieme nel nostro rapporto nel corso dei dieci anni passati. Fiducia che non le avrei dato se fosse stata una persona falsa. Avrei potuto accettare invece tutta quella messa in scena solo se avesse voluto farmi una sorpresa, o tenermi sulle spine. Un po’ come in quel tragico weekend nel quale lei cambiava look e io capivo quanto la sua assenza nella mia vita mi uccidesse.
Avrebbe detto alle sue amiche del modo in cui stavamo iniziando a vivere il nostro rapporto?
Sì, avrebbe potuto farlo. Ma avrebbero dovuto mostrare di essere degne di una fiducia tale da garantire di non raccontarlo a nessuno nemmeno in caso di rottura definitiva dell’amicizia. In una situazione quindi, nella quale nemmeno il desiderio di vendetta avrebbe superato il valore attribuito alla loro vecchia amicizia o al rispetto normalmente dovuto alle persone. Cosa che tra donne è molto rara. Questo mi dava una ragionevole sicurezza che non lo avrebbe raccontato. Oltre al fatto che lei stessa mi aveva detto che pensarmi legato sarebbe stato qualcosa di suo personale.
Ma questi pensieri erano poca cosa rispetto al vero problema che era la fonte di tutte le mie preoccupazioni. Ovvero come renderla felice. Avrei potuto dare tutto e non renderla felice. Avrebbe potuto essere felice con un altro ragazzo che la trattava male. Avrei potuto riversare su di lei un oceano d’amore e lei avrebbe potuto rifiutarlo per decidere di preferire le poche gocce di acqua sporca che le avrebbe dato il figlio del fioraio. Il solo pensiero era devastante. Avrei potuto farci qualcosa? La risposta a questa domanda, stranamente, mi diede pace. E la risposta era un no. Non avrei potuto farci nulla, proprio perché non dipendeva da me. Dipendeva esclusivamente da lei. Allora ritornò alla mente un’altra domanda, domanda che mi ero già posto in passato, ma di cui non avevo ancora una chiara risposta. Cos’avevo io in più degli altri? Perché io? Lei diceva che mi amava, che le piacevo per diversi motivi, ma queste erano risposte che avrebbe potuto dare da un momento all’altro per qualsiasi altro ragazzo, o addirittura per i vari attori famosi di film romantici, che tanto amava. Allora cosa la spingeva a stare con me?
Sentii il bisogno di andare in bagno. Ma sopportai. Cercai invano una risposta al problema. Guardai fuori dalla finestra, per cercare di capire che ora potesse essere. Ma vedevo solo una striscia di cielo, la quale non fece altro che ricordarmi la mia condizione di prigioniero.
Ritornai a pensare a Debora, che godeva per la mia condizione. Poi la ripensai vestita in nero. Decisi di soffermarmi su quell’immagine, sui suoi stivali lunghi, sul suo portamento sicuro, sul suo fisico esaltato dal corpetto, sui suoi capelli a coda alta, da dominatrice, sul suo sguardo attraente, sulla sensualità. Immaginai di leccare quegli stivali e di guardarla negli occhi mentre lo facevo…
Sentii forte il desiderio erotico che provavo nei suoi confronti e mi eccitai.
Ma mi frenai immediatamente, rimproverando me stesso. Come potevo affibbiare alla dea Debora un’immagine spudoratamente erotica e legata al sesso? Volevo amare lei o usarla per il mio piacere? Volevo dedicarmi a far godere lei o me stesso?
Guardai nuovamente verso la finestra, desiderando che Debora fosse lì con me.
Quanto sarebbe durata ancora la mia prigionia?
Passò del tempo, durante il quale i miei pensieri vagarono per i fatti loro. Sentii più intensamente la necessità di bere e di andare in bagno. Ma non mi importò, almeno finché non sentii la pressione e il dolore al basso ventre.
Sentii dei rumori, ma non riuscii a capire da dove provenissero. La porta della camera si aprì improvvisamente.
Debora entrò, le mani piene di sacchi, sacchetti e sacchettini. Li buttò a terra in un angolo. Poi si fermò un attimo, godendosi la visione del suo prigioniero.
“Ciao ciao” disse, per poi uscire dalla stanza.
I miei richiami furono inutili. Non rientrò. Ebbi il terrore che se ne fosse andata di nuovo e di dover aspettare ancora a lungo prima di rivederla.
Pochi istanti e la porta si riaprì nuovamente.
Stavolta aveva in mano dei sacchetti più piccoli, su cui campeggiava una scritta in cinese e una grossa testa di drago.
“Stella d’oriente!” esclamò eccitata. “Lo hanno aperto due settimane fa. Come avrai capito, stasera cinese. O meglio, italo cinese.”
“Debora, ho bisogno del bagno…”
“Italo cinese perché quando prendi i ravioli, ti dicono che sono cinesi, ma sono italiani” proseguì, poggiando sul comodino le vaschette. Nel farlo, spostò la sveglia, che indicava le sei e mezza passate. Tre ore e mezza legato nella stessa posizione!
“Debora, devo fare pipì.”
“Solo perché li fanno al vapore, non vuol dire nulla. Per me sono dei copioni.”
“Debora, ti prego… Mi ascolti?”
“Ti ho sentito” rispose, sfoderando un sorriso divertito. “Hai bisogno del bagno.”
“Mi liberi?”
“Quanto ne hai bisogno?”
“Ma che domanda è?”
“Voglio farti un esempio…” disse, per poi prendere tra le mani una vaschetta d’alluminio e venire a sedersi, agile come una cavallerizza, sopra il mio ventre, cosa che mi causò dolore e mi costrinse ad un gemito.
“Se faccio così senti di non poter resistere?” domandò, dondolandosi, come se non fosse nulla. Se da un lato non riuscivo più a stare in quella posizione, dall’altro mi faceva piacere che Debora dedicasse tempo per divertirsi un po’ con me. In effetti, erano attenzioni del tutto assenti nella mia famiglia.
Il vero problema però, stava nella resistenza della mia vescica, ormai prossima a cedere.
Si sporse in avanti, tenendo la vaschetta sospesa sopra di noi.
Quel movimento mi diede ulteriore dolore. Strinsi i denti e chiusi gli occhi, cercando di reggere ancora un po’.
Mi diede un bacio sulla bocca.
Non potei ricambiare il bacio. “Debora ti amo, ma ti supplico…” dissi gemendo.
“Ripetilo” disse, tirandosi su e poggiando nel contempo la vaschetta sul comodino.
La vescica implorò pietà.
“Cosa?”
Rise. “Ti supplico, no?. Ripetilo”
Pensai che scherzasse. “Ti amo! Ti amo! Ti amo quante volte vuoi!”
Rise a piena voce. “Ti supplico! Ho detto ti supplico! Ripetilo!” ordinò la torturatrice, picchiettando crudelmente le mani sul mio ventre.
Sono convinto che avrebbe fatto la stessa cosa anche se avessi detto “Ti supplico”, anziché “Ti amo”.
Così la implorai: “Ti supplico Debora, ti supplico, fammi andare in bagno, se no la faccio qua! Ti supplico!”
Ridendo fino alle lacrime, si sporse nuovamente in avanti, e, finalmente, mi liberò dai miei legami.
Attesi poi che si spostasse da me, ma non lo fece. Rise un po’, gustandosi un ultimo sguardo terrorizzato sul mio volto. Dopodiché mi liberò definitivamente, scendendo dal letto.
“Lavati bene dopo aver fatto tutto!” gridò.
Tornai indietro per essere sicuro di aver capito bene.
Nonostante il sorriso per il divertimento di prima, capii che parlava seriamente: “Lavati bene là in basso.”
Corsi in bagno con gioia.
Quando ne uscii, stava spiluccando patatine di gambero.
“Vieni,” disse, “che ti devo legare di nuovo.”
“Ancora?”
Sbatté le palpebre più volte, sorridendo maliziosamente, mentre con tono dolce, ma al contempo provocatorio: “Non lo faresti per me?” domandò.
“Debora, abbiamo un problema” dissi, serio.
“Quale?”
“Non riesco a dirti di no, anche quando dovrei.”
“Allora non abbiamo un problema” concluse soddisfatta. “Ce l’hai solo tu, tesorino. E finché non riuscirai a risolverlo, io ne approfitterò, sappilo.”
“Ti piace essere sadica, eh? Tenermi costantemente in ansia? Dove mi farai arrivare?”
“Sì, mi piace” rispose, “ma non ti preoccupare. Non ho intenzione di essere egoista. Siamo in due in questo viaggio. Ora vieni qui che ti lego, così poi ceniamo.”
Detto questo mi legò di nuovo al letto.
Involtini Primavera, ravioli di carne e di pesce, patatine di gamberi, dette anche nuvole di drago, pane cotto al vapore, bocconcini di pollo fritto. Tutti cibi che potevano essere mangiati come stuzzichini.
Cibi che usò per imboccarmi. Cibi che mostrarono quanto le piacesse quella situazione. I suoi occhi si illuminavano quando le sue dita si avvicinavano alla mia bocca, permettendomi di mordere un pezzo di cibo. Poi a volte indugiava con le dita unte nella mia bocca, in modo che le succhiassi e le leccassi . Mi stava accanto, il suo viso era vicino al mio e non voleva perdersi nulla. Una volta ero io a mordere, una volta era lei. E quando toccava a lei, lo faceva lentamente, lasciando che mi godessi la scena e gustandosi il sapore degli involtini, o dei ravioli. Dopo aver inghiottito, qualche volta lasciava la sua lingua passare sensualmente sulle labbra, per ripulirle e mostrare il suo desiderio nei miei confronti. Verso la fine, quando eravamo quasi sazi, prese una nuvola di drago e la infilò in bocca, tenendone metà fuori. Poi salì a cavalcioni su di me. Avvicinò le sue labbra alle mie. Io aprii la bocca, lasciando che la patatina vi entrasse. Quando arrivò a destinazione, ci trovammo a baciarci. Rimanemmo così finché con la saliva la nuvola si sciolse, quindi, a breve distanza e continuando a guadarci negli occhi, entrambi la inghiottimmo contemporaneamente.
A quel punto allungai il viso verso di lei per baciarla.
Ma lei, d’istinto si ritrasse.
Tutto si svolse in silenzio.
Piegai la testa di lato sospirando. Bramavo baciarla. Tentai di allungarmi di più.
Debora si gustò la scena, godendo del mio desiderio nei suoi confronti e vedendo che non riuscivo ad avvicinarmi più di così.
Di nuovo la guardai, implorante.
Si avvicinò, appena, con i suoi occhi nei miei. Assaporava un cibo differente, ma altrettanto gustoso, il cibo dell’erotismo.
Sentii di aver quasi raggiunto le sue labbra e tentai con tutte le mie forze di colmare il vuoto tra di noi.
Si ritrasse nuovamente, soddisfatta del proprio gioco. Poi finalmente si avvicinò.
Ma non fu ancora abbastanza.
Appena sufficiente a farsi sfiorare le labbra.
E gliele sfiorai, non potendo fare altro. Lei non rispose, ma mi lasciò fare, godendo anche di quel momento. Non mi tenevo dalla voglia di baciarla pienamente. E a lei piaceva guardarmi in quelle condizioni. Come i polmoni cercano l’aria, le mie labbra cercavano disperatamente quelle di Debora. A volte riuscivano a trovarle, a volte invece andavano a vuoto. A volte ancora riuscivo a sfiorarla soltanto con la lingua. Avevo sete della sua acqua, come un assetato nel deserto. Debora giocava, concedendomene solo qualche goccia, mentre io desideravo bere e assaporare le sue labbra senza freno alcuno e dissetarmi completamente.
Ma ad un certo punto, inaspettatamente, le mani di Debora mi spinsero giù e si gettò su di me, per poi baciarmi voluttuosamente fino ad ansimare. Le nostre lingue si incontrarono, si toccarono, danzarono insieme, si lasciarono per incontrarsi nuovamente e ci portarono ad emettere i primi gemiti insieme. Mi sentii come se non ne avessi mai abbastanza. Il respiro era ormai affannoso ed il desiderio reciproco era intenso. In quell’istante provai, come se fosse vitale, la necessità di essere slegato, tanta era la voglia di toccarla, abbracciarla, e stringerla a me.
Tuttavia ero rapito dai baci che mi dava, e che ci scambiavamo. Non potendo darmi da fare con le mani, feci tutto ciò che potevo con la bocca. Avevo gli occhi chiusi e mi lasciavo trasportare dall’intensità della nostra passione. Non mi resi neanche conto quando le sue mani non furono più sul mio petto.
Solo quando la sua bocca si allontanò appena dalla mia, mi accorsi di non sentire più il peso del suo corpo su di me. Rimasi ugualmente con i miei occhi nei suoi, domandandomi perché non volesse più le mie labbra. Le sentii muovere le ginocchia accanto al mio ventre e nel contempo il suo viso si allontanò dal mio. Quindi Debora guardò in basso. Per cui lo feci anch’io.
Allora vidi il suo seno prorompere dalle coppe in pizzo nero.
Le sue mani, lontano dal mio petto, l’avevano liberata dalla camicia ormai da chissà quanto. Ancora oggi non capisco come abbia fatto a non accorgermene. Vidi le sue braccia agitarsi dietro la sua schiena.
La guardai negli occhi, timoroso. Mi restituì uno sguardo risoluto.
Ci volle un attimo, poi il reggiseno si sganciò silenziosamente. Ma lei lo trattenne un momento. Debora continuò a guardarmi negli occhi, serena, come se volesse accompagnarmi in questo momento.
Quando liberò i suoi seni dai propri indumenti rimasi senza fiato e mi sentii indegno di lei.
Di nuovo tornò la stessa sensazione di inferiorità che mi causava problemi nel rapporto con Debora.
Ma di fronte a quel seno, si sarebbe sentito così chiunque.
Tornai con i miei occhi nei suoi, cercando conferme.
Per tutta risposta, si aggrappò alla testiera del letto, sporgendosi in avanti, finché le mammelle non si posarono sul mio viso.
Le baciai e le ribaciai, per poi leccarle, avido. Per quanto potei vi affondai il viso. Mi sentii nuovamente travolgere dal desiderio e dall’eccitazione, causati dalla bellezza e dalla sensualità di un corpo così ben fatto, che si donava a me. In mezzo alle mie gambe tutto era fuori controllo. Mi domandavo se, come succedeva nei sogni, mi sarei bagnato spontaneamente.
Con una mano, Debora guidò un seno verso la mia bocca. Ne sentii entrare il suo capezzolo turgido, che fu subito preda della mia lingua vogliosa.
Lo leccai avidamente, gemendo dal piacere. Sentii che la cosa le piacque, perché mugolò.
“Succhialo e mordicchialo” pretese Debora. Obbedii, provando piacere nel sentirmi un suo oggetto sessuale. Avrebbe potuto chiedermi qualunque cosa e l’avrei fatta. Inspirava ed espirava sommessamente, emettendo gemiti di goduria. Anche l’altro seno ricevette lo stesso piacevole trattamento, poi li alternò alcune volte. Debora mi sembrava una locomotiva a vapore che lentamente, ma inesorabilmente, prende velocità per arrivare a raggiungere quella massima.
Le sue mani sparirono nuovamente mentre la parte superiore del suo corpo, senza più alcun sostegno, si appoggiò di peso sul mio viso, ed il suo seno premette sulla mia bocca e sul mio naso, al punto che iniziai a respirare a fatica. Tuttavia, con sacrificio, cercai di continuare la mia stimolazione verso il suo capezzolo, pensando che se fossi morto per asfissia, lì tra i suoi seni, sarebbe stata comunque una morte dolce. Ma non morii.
Lei si mosse un po’ di qua e un po’ di là, in una strana danza, facendo leva un paio di volte prima su un ginocchio e poi sull’altro, cosa che mi diede respiro. Ora ero un po’ più comodo e avrei potuto concentrarmi meglio su quello splendido e meraviglioso affarino. All’improvviso però il capezzolo scappò fuori dalla mia bocca e, ancora una volta, mi trovai a bramare qualcosa che sembrava essere diventato irraggiungibile.
La mia vista era impegnata a contemplare la bellezza di quello spettacolare universo di fronte a me, mentre i suoi seni, imperiosi, da una posizione più elevata, sembravano oramai guardare altrove, incuranti di me, come se ciò che c’era stato tra noi non contasse più. Mi sentivo ferito dal desiderio che provavo per loro.
“Ti prego,” sospirai, posando i miei occhi in quelli di Debora, “fammi continuare!”
“No,” rispose ansimando, “Hai altro da fare…”.
Le sue ginocchia decisero di muoversi ancora. Debora fece leva con le mani sulla testiera e fu lesta a risalire a cavalcioni il mio corpo. Le spalle mi fecero malissimo, quando il suo peso fu sopra il mio. Chiusi gli occhi per un attimo dal dolore e fui confuso dai suoi movimenti, per cui non riuscii a capire immediatamente cosa stesse accadendo.
Quando riaprii gli occhi, guardando in alto il suo viso era quasi scomparso, coperto dal suo seno.
Le ginocchia presero posizione accanto al mio viso, ed i suoi piedi poggiarono sul mio petto.
A pochi centimetri dalla mia bocca, la sua vagina.
Umida, pulsante, fremente.
Il mio cuore si fermò. Il mio basso ventre no.
Debora si tirò indietro, sporgendo il viso in avanti per guardarmi. Poi si appoggiò solo con una mano alla testiera.
L’altra invece scese in basso e dicendo “inizia a leccare da qui”, con un dito fece un movimento sulle grandi labbra, imitando ciò che la mia lingua avrebbe dovuto fare. Non so spiegare quanto erotismo mi trasmise quella visione.
“Cosa devo fare?” domandai malizioso.
Mi guardò sorniona. Poi con voce roca e tono studiatamente lento ripeté: “Leccare.”
Tirai fuori la lingua e lei non si fece pregare.
Per la prima volta provai il sapore della sua vagina, leggermente dolce, ma soprattutto acidulo. Con movimenti sinuosi Debora accompagnava la mia lingua, traendone un piacere che mostrava gemendo e ansimando senza freni. Un paio di volte colpì involontariamente la punta del mio naso, cosa che dovette piacerle, perché decise di sfruttarlo.
A quel punto la persi.
Il suo basso ventre si mosse ad un ritmo decisamente più elevato, premendosi su di me, senza riguardo per il mio viso.
Tentai di leccare come mi aveva detto, ma inutilmente. Non vi riuscii a causa dei suoi movimenti rapidi e del peso che appoggiava su di me. Le spalle gridarono pietà. Tenni la lingua quanto più fuori dalla bocca potessi e Debora si lasciò andare ad una cavalcata frenetica, a causa della quale la mia bocca iniziò a riempirsi dei suoi umori. Regolarmente ritraevo la lingua e ingoiavo. Poi riprendevo la posizione. Il naso mi doleva e temevo si sarebbe rotto. La mandibola invece mostrava segni di indolenzimento. Eppure vedere Debora così eccitata, così libera, così padrona mi dava una costante scarica di piacere, che mi spingeva a rimanere nella posizione il più a lungo possibile per servirla, come uno schiavo devoto la sua padrona. Ciononostante, non sembrava arrivare al godimento completo. Persi la nozione del tempo ma mi resi conto che al suo posto, con una stimolazione così intensa, io non avrei potuto resistere oltre. Invece sembrava che a Debora servisse ancora tempo. Le mie spalle doloranti domandarono quanto. Vidi le sue dita penetrare nella parte alta della vagina e stimolarsi con frenesia. Il suo seno puntava così in avanti da non permettermi di vedere il suo viso. All’improvviso inspirò violentemente e si inarcò, bloccandosi in un momento. La vagina premette poderosamente sulla mia bocca. Una narice fu occupata e potevo respirare solo da un lato. Fummo congelati in quella posizione per istanti che mi parvero ore. Quindi un liquido caldo fiottò dalla vulva, spargendosi nella mia bocca e scendendo lentamente verso la gola. Gemette intensamente. Non scorderò mai la prima volta in cui raggiunse l’orgasmo. Inghiottii il suo piacere avidamente. Attesi che Debora si spostasse, ma non lo fece. Anzi, riprese a stimolarsi e muoversi su di me. Non aveva goduto? Come poteva volerne ancora? Continuando la sua cavalcata, qualche istante dopo raggiunse un altro orgasmo. Altro orgasmo, altro liquido nella mia bocca, altro ingoio. E poi ancora. Dopo il terzo iniziai a domandarmi quanti orgasmi potesse raggiungere una ragazza. O se fosse solo lei così. Forse sarei rimasto lì fino a tarda notte. Forse mi sarei lussato le spalle. Raggiunse un quarto orgasmo. E questo confermò le mie peggiori paure. Invece questa volta si fermò e si spostò. Si sollevò facendo leva sul ginocchio destro. Finalmente riuscii a guardarla negli occhi. Non avevo mai visto quell’espressione sul suo viso, sembrava in estasi. Si pose di fianco a me, appoggiata sulle ginocchia. Le mie spalle ringraziarono. Poi le sue mani si adoperarono per slacciarmi i pantaloni. Me li tolse e mi tolse anche i boxer. Ebbe un’espressione di compiacimento nel guardare la mia eccitazione.
“Pensa a tuo padre” disse.
“Cosa?”. Quelle parole fecero dolere la mandibola indolenzita. Era l’ultima cosa che mi sarei aspettato dicesse. “Perché? Ma che dici?”
“Tra poco me lo metterò dentro. Non vorrai mica godere? Devi farmi divertire ancora…Pensa a tuo padre, alla guerra, ai film horror, a qualsiasi cosa ti smonti a sufficienza da non farti godere finché io sono sopra di te. Ti prometto che poi mi dedico a te senza riserve.”
“Ma quante volte puoi raggiungere…?”
Rise per la mia incapacità di usare certi termini.
“Non c’è un numero. Dipende da quanto si irrita. E dal dolore. Perché andando avanti poi si irrita e fa male là in basso. Quando fa troppo male devo smettere.”
Si mise a cavalcioni su di me. Poggiò le mani sul mio petto. Poi una accompagnò il mio pene al suo interno. Sentii qualcosa resistere ed il suo sguardo mostrò un’espressione di dolore e sofferenza per qualche istante.
Poi fu piacere all’estrema potenza.
Dovetti pensare a mio padre. Ma ci furono anche mille paure ad aiutarmi. Quelle di un ragazzo vergine che si domanda se le misure vanno bene, se a lei piace, se vede difetti… Arrivarono tutte in quell’attimo.
Ma fu ugualmente difficile non lasciarmi andare. Fu un’esperienza di estasi e di piacere così intensa da esularmi dal mondo attorno a me. Debora faceva avanti e indietro con profonda sensualità ed i suoi seni mi gridavano di toccarli, palparli e strizzarne i capezzoli. Le sue dita sembravano volermi strappare il petto. I suoi occhi chiusi, i suoi ansimi, i suoi gemiti, le sue gote arrossate, il calore del suo corpo, la possanza della sua vagina che mi imponeva il piacere assoluto come un’imperatrice in una lotta impari, nella quale ogni andirivieni mi faceva desiderare di abbandonarmi al piacere, mi costringeva al godimento, quando invece dovevo cercare di resistere con tutte le forze. Ed il ritmo aumentava a dismisura.
Raggiunse un nuovo orgasmo. Sentii il mio pene stritolato, schiacciato da ogni parte, mentre il suo corpo invece tremava. Strozzò un lungo gemito, fermando il suo movimento. Poi emise un sospiro di godimento, come se fosse liberata da una prigionia. Ansimò e ansimò. Riprese di nuovo a muoversi rapidamente, per arrivare quasi immediatamente ad un altro orgasmo. Sentivo di stare per scoppiare dal piacere. Non c’erano immagini mentali che potessero farmi reggere alla mole di stimoli e impulsi che raggiungevano il cervello e il pene. La realtà, rispetto alle immagini della fantasia, o a quelle del computer, a cui ero abituato, era tutta un’altra cosa. Il contatto con la pelle, gli odori, l’intensità del rapporto, la sensazione di appartenenza all’altra persona, i sentimenti e il desiderio di dare e ricevere piacere… Tutta un’altra cosa. Ero vergine e mi trovavo con una ragazza che sembrava sapere il fatto suo al contrario di me e che non aveva remore a lasciarsi andare completamente.
“Debora basta…” dissi, ansimando “Non resisto…”
Rallentò, permettendomi di riprendermi. Ma non si fermò. La sua mano si spostò dal mio petto alla parte superiore della vagina, cominciando un movimento che mi parse rotatorio. Andò avanti con un ritmo lento, poi pian piano, aumentò. Ci volle qualche minuto, ma riuscii a resistere. Alla fine, il ritmo fu frenetico. Rischiai seriamente di raggiungere il piacere, ma prima che accadesse, Debora si bloccò. Tranne la sua mano, che continuò a stimolarla. Il mio pene fu chiuso in una morsa. Il suo viso divenne paonazzo, la bocca aperta, incapace di emettere suono. Il suo corpo tremò a tal punto che temetti stesse per avere un infarto. Furono istanti lunghissimi. Poi esplose. Gridò di piacere, ma si interruppe quasi subito. Poi gridò ancora. E ancora si interruppe. Chiuse gli occhi sporgendosi in avanti come se non riuscisse più a reggere l’intensità del godimento che provava. Infine gridò di nuovo. Senza interruzioni questa volta. Le sue dita sembrarono penetrare nel mio petto dalla violenza con cui si aggrappò a me. Godette tremendamente. Fu bellissimo vederla così. Ansimò e gemette per il piacere che provò. Poi si lasciò andare abbracciandomi e sdraiandosi su di me, spossata.
Non disse nulla per un po’ e io neanche.
Ci rilassammo in silenzio. Stavo già così bene che pensai che se anche non si fosse dedicata a me, sarebbe andato bene lo stesso.
Ma lei sollevò il capo e mi accarezzò i capelli, guardandomi: “Mi è piaciuto un sacco…”
“Anche a me…”
“A te ci pensiamo ora, ok?”
Si tirò su, si diede una guardata, poi sparì in bagno, di fretta. Sentii quindi l’acqua scorrere e capii che si stava lavando. Infine tornò con della carta igienica e una domanda: “Hai visto nulla?”
“Che cosa avrei dovuto vedere?”
Si mise sopra di me, dandomi le spalle e nascondendomi la parte bassa del mio corpo. Poi la sentii usare la carta igienica sul mio pene e in zone limitrofe.
“Allora non hai visto nulla. Meglio così…”
“Di che parli, Debora?”
“Non lo hai capito? Mi hai tolto la verginità.”
Rimasi scioccato. Nella foga del rapporto, non ci avevo proprio pensato.
“Scusami” dissi.
Rise, e tanto. “Ma che dici? Come pensi di poter avere un rapporto con una ragazza vergine senza toglierle la verginità?”
“Io non sapevo che eri vergine… Non ci ho pensato”.
“Ti piacciono i miei piedi?”
“Che c’entra ora questo?”
“Non me lo hai mai detto. E visto che sto per metterteli in faccia, sarebbe bene saperlo.”
Provai un moto di eccitazione ed il mio pene, che si era abbassato, sembrò risvegliarsi. “Ovviamente mi piacciono. Tu mi piaci tutta, sei un sogno.”
“E tu sei esagerato. Ma visto che sembri davvero innamorato, darò la colpa alla tua cecità”
Detto questo buttò per terra la carta igienica ed iniziò a stimolare il mio pene con le dita. Colto di sorpresa, gemetti.
Si tirò su, per poi sedersi sul mio petto, lasciando stare il pene. Sollevò poi un piede e lo poggiò sulla mia bocca. Questa volta, al contrario del pomeriggio, ne sentii l’odore. Era stato nella scarpa, aveva camminato, si era preparato per me. Inspirai intensamente lasciando che l’odore penetrasse attraverso le narici, fino ad arrivare al cervello. Il mio pene si mise sull’attenti. Espirai con la bocca e nuovamente inspirai. Di nuovo piacere. E poi ancora. L’unica aria che respiravo era l’odore del suo piede.
Debora si spostò di lato e mi si sdraiò accanto, in posizione contraria alla mia. Allungò le gambe poggiando entrambi i piedi sulla mia faccia. Gli stimoli e gli impulsi aumentarono a dismisura. La mia lingua iniziò a leccare ciò che trovava, il mio naso non poteva che respirare l’odore intenso. I miei occhi non vedevano altro che le sue dita muoversi sul mio viso.
Poi Debora tornò a stimolare il mio pene con le mani. Lentamente, senza fretta, mi lasciò godere il momento. Si stava donando. Muoveva la mano dall’alto verso il basso e viceversa con delicatezza, senza pretendere di raggiungere alcun obiettivo. Solo per darmi piacere.
Incrociò quindi i piedi, tenendone sempre al centro il mio naso. Decise quindi di passare la pianta del piede destro sopra la mia bocca, facendomela leccare diverse volte, dal tallone fino alle dita. Ero eccitatissimo e nonostante la lentezza con cui stimolava il mio basso ventre, sentii che presto sarei arrivato al culmine.
“Debora, potrei arrivare presto…”
“Vieni quando vuoi…”
Cambiò piede lasciandosi leccare anche l’altro. Sentii una nuova scarica di piacere pervadere tutto il mio corpo. Il piede che non era sulla mia bocca era appoggiato sui miei occhi. Ero stimolato da più parti contemporaneamente. Continuavo ad ansimare e a gemere per l’intensità delle sensazioni che Debora mi trasmetteva.
La sentii muoversi ancora, senza però riuscire a vedere cosa facesse. Dopodiché fui pervaso da un’ondata di estremo e intenso piacere, che partiva dal basso ventre. Debora aveva deciso di prendermelo in bocca.
Non potei più reggere. Fu come se tutti i centri del mio piacere fossero stimolati al massimo nello stesso momento. Fu un piacere violento e obbligato, come se venissi spremuto. Persi il controllo.
“Debora… spostati…” gemetti.
Ma non mi sentì.
“Debora!” non riuscii a dire altro.
Sentii che il mio pene era pronto e la base iniziò a premere. Tutto accadde istintivamente. Mi inarcai, inspirando intensamente l’odore dei piedi di Debora, cosa che produsse ulteriori stimoli.
Rimasi bloccato in quella posizione per qualche istante. Per qualche ragione, nonostante la pressione non partì nulla al momento giusto. Il mio respiro rimase bloccato.
Poi là in basso qualcosa partì.
Ma troppo lentamente.
Tentai di trattenermi, ricordando che Debora lo aveva in bocca. Non volevo farglielo ingoiare.
Rimasi inarcato, senza respiro. Non riuscivo ad espirare, né ad inspirare. Iniziai a temere di soffocare.
Piano piano qualcosa salì lungo la canna.
Debora, togli la bocca, pensai.
Giunse alle mie orecchie un grido, roco, sofferente. Lo sentii ovattato, come fosse lontano. Ma era il mio.
Ci provai, ma mi fu impossibile resistere.
Il piacere che Debora mi diede con la bocca fu proprio quello che mi costringeva inesorabilmente all’orgasmo.
Schizzai.
Il mio pene esplose il suo liquido ed io mi sentii sommerso dalla goduria.
Sentii il mio grido di intenso piacere a piene orecchie. Poi, finalmente, inspirai profondamente e tornai a dare aria ai polmoni.
Mi ci volle qualche istante per riprendermi, ma ero in pena per aver schizzato in bocca a Debora.
“Debora, non mi hai sentito prima?” domandai, mentre riprendevo il controllo, ancora ansimante.
Usò la carta igienica per aiutarsi a sputare il mio sperma.
“Sì,” rispose, una volta pulita, “ti ho sentito benissimo.”
“Dico quando stavo arrivando…”
“Ho capito” continuò, “non preoccuparti. Lo volevo.”
La guardai sorpreso. Lo aveva fatto per me, o le piaceva?
Ma fu invece lei a domandarmelo: “Ti è piaciuto?”
“Oh sì!” dissi affannato ed esausto, ma entusiasta. “Non me lo scorderò mai!” sospirai.
Ed infatti non me lo potrò mai scordare. Non mi è più capitato un orgasmo così intenso. Lo capii poi con il tempo. Fu il passaggio dalla personale stimolazione manuale ad una stimolazione esterna. Il mio corpo non era pronto ad essere eccitato da Debora e lo mostrò sbagliando i tempi delle meccaniche che mi dovevano portare all’esplosione dell’orgasmo, lasciandomi bloccato senza fiato in attesa di una eiaculazione che sembrava non arrivare più. La mancanza di respiro e di ossigenazione al cervello, probabilmente intensificò il piacere finale che ne trassi.
Ma in quel momento non ebbi tutta questa lucidità per capire cosa fosse successo. In quel momento mi sentii solo vincere dalla fatica.
Debora usò ancora della carta igienica per pulirmi.
Io invece crollai nel sonno.
Debora lo sapeva. Capii pienamente le parole che aveva detto. Mi fermo, ti penso e godo del potere che ho su di te. Posso scegliere di tornare, ma per capriccio decido di non farlo. Sapeva che stare in questa situazione mi avrebbe presto portato a pregare che tornasse. Evidentemente le dava piacere giocare come il gatto con il topo. Era un suo lato che non conoscevo. O forse lo metteva in atto in modo più blando quando ci sfidavamo di fronte ai videogiochi? Ora però non c’era più una situazione preimpostata da qualche programmatore, stavolta era stata lei a crearla, a decidere le condizioni del gioco, quindi sicuramente ne avrebbe tratto più piacere. Ma dove aveva imparato a creare questi nodi? Non è una cosa che puoi fare senza una certa pratica. Non sopportavo più quella situazione. Che ore erano? Voltai lo sguardo verso la sveglia sul comodino. Erano le… Era girata. Non potevo vedere il quadrante. Ruggii di frustrazione, gridando “ti supplico, torna!”. Ma non accadde nulla.
Arrivò quindi un pensiero. E se lo raccontasse alle sue amiche? Poi un altro. E se invece non fosse con le sue amiche? Poi un altro ancora. E se non fosse davvero felice con me, se tutte le mie paranoie la allontanassero?
Iniziai a battere i piedi sul letto a causa del nervoso. Ottenendo come risultato di finire al centro del letto e sentirmi tirare le braccia. Mi sentii all’interno di un incubo.
Debora dove sei?
Il tempo passava, ma quanto ne passava? Tutto quel movimento mi mise sete. Una nuova tortura. Quando non hai nulla da fare, ti accorgi subito delle tue necessità. Diventano un problema da risolvere in fretta, perché catturano la tua attenzione e ti costringono a chiederti costantemente “Come faccio? Come lo risolvo?”.
Mi agitai ulteriormente. Iniziai a tirare le mani più che potevo, tentando di liberarmi, ottenendo solo di farmi del male. Gridai di rabbia. Poi presi un respiro profondo. E un altro.
Quindi mi calmai.
Realizzai che nulla sarebbe cambiato continuando ad agitarmi e arrabbiarmi. Avrei solo avuto più sete e avrei passato un brutto pomeriggio.
Cercai di trasportare i miei pensieri su acque più tranquille.
Intanto misi nella lista delle cose da fare che mi sarei dovuto sistemare sul letto regolarmente. Facendolo in modo costante e a scadenza regolare, avrei potuto ottenere che diventasse quasi un gesto spontaneo e naturale, ottenendo di non doverci pensare più troppo.
Il problema della sete non potevo risolverlo, ma avrei potuto limitarlo rimanendo calmo.
D’altronde dovevo accettare di essere prigioniero di Debora e fino a quel momento non lo avevo fatto. Per un attimo Immaginai che lei pretendesse un tributo prima di liberarmi. Che le baciassi i piedi e mostrassi con la lingua la mia sottomissione e la mia accettazione del suo potere. Mi piacque pensarlo, anche se non vedevo quel comportamento nel suo carattere.
Quando mi aveva legato avevo voluto prenderla come se fosse un gioco, e che come tale, mi sarei divertito. Invece non era un gioco divertente. Era una situazione nella quale una persona gode nell’esercitare il proprio potere su un’altra. Un po’ come nelle mie fantasie quando la datrice di lavoro provava piacere nel costringermi a leccarle i piedi per non perdere il lavoro. Anche lei esercitava il proprio potere, godendone. Eppure era una fantasia in quel caso, tutto andava come io volevo, lei non esisteva e non c’era alcuna mia sofferenza vera.
Ma questo ragionamento mi portò ad immaginare di nuovo Debora, così come l’avevo descritta in un discorso fatto proprio con lei. Vestita in pelle, stivali alti, rossetto nero, aggressiva. Una pantera pronta a prendere e trasmettere piacere.
E mi piacque. L’idea mi fece impazzire.
Anche se avrei messo la mano sul fuoco sul fatto che Debora non fosse una persona aggressiva.
Anzi, quel pomeriggio, senza di lei, affrontai tra me le questioni che più mi pesavano, creando delle basi che mi permisero di dare finalmente a Debora una fiducia che, ingiustamente, non le stavo dando.
Mi convinsi che fosse uscita con le ragazze e mi avesse detto la verità. Non aveva proprio senso che le coinvolgesse affinché loro mi mentissero per coprirla, allo scopo di avere del tempo da passare con qualcun altro. Dovevo credere che aveva studiato quei nodi così precisi solo per sostenere la parte? Questa non era Debora. Se si fosse innamorata di un altro, piuttosto che edificare tutto quel teatro, mi avrebbe detto la verità, se non altro per mantenere la fiducia che avevamo costruito insieme nel nostro rapporto nel corso dei dieci anni passati. Fiducia che non le avrei dato se fosse stata una persona falsa. Avrei potuto accettare invece tutta quella messa in scena solo se avesse voluto farmi una sorpresa, o tenermi sulle spine. Un po’ come in quel tragico weekend nel quale lei cambiava look e io capivo quanto la sua assenza nella mia vita mi uccidesse.
Avrebbe detto alle sue amiche del modo in cui stavamo iniziando a vivere il nostro rapporto?
Sì, avrebbe potuto farlo. Ma avrebbero dovuto mostrare di essere degne di una fiducia tale da garantire di non raccontarlo a nessuno nemmeno in caso di rottura definitiva dell’amicizia. In una situazione quindi, nella quale nemmeno il desiderio di vendetta avrebbe superato il valore attribuito alla loro vecchia amicizia o al rispetto normalmente dovuto alle persone. Cosa che tra donne è molto rara. Questo mi dava una ragionevole sicurezza che non lo avrebbe raccontato. Oltre al fatto che lei stessa mi aveva detto che pensarmi legato sarebbe stato qualcosa di suo personale.
Ma questi pensieri erano poca cosa rispetto al vero problema che era la fonte di tutte le mie preoccupazioni. Ovvero come renderla felice. Avrei potuto dare tutto e non renderla felice. Avrebbe potuto essere felice con un altro ragazzo che la trattava male. Avrei potuto riversare su di lei un oceano d’amore e lei avrebbe potuto rifiutarlo per decidere di preferire le poche gocce di acqua sporca che le avrebbe dato il figlio del fioraio. Il solo pensiero era devastante. Avrei potuto farci qualcosa? La risposta a questa domanda, stranamente, mi diede pace. E la risposta era un no. Non avrei potuto farci nulla, proprio perché non dipendeva da me. Dipendeva esclusivamente da lei. Allora ritornò alla mente un’altra domanda, domanda che mi ero già posto in passato, ma di cui non avevo ancora una chiara risposta. Cos’avevo io in più degli altri? Perché io? Lei diceva che mi amava, che le piacevo per diversi motivi, ma queste erano risposte che avrebbe potuto dare da un momento all’altro per qualsiasi altro ragazzo, o addirittura per i vari attori famosi di film romantici, che tanto amava. Allora cosa la spingeva a stare con me?
Sentii il bisogno di andare in bagno. Ma sopportai. Cercai invano una risposta al problema. Guardai fuori dalla finestra, per cercare di capire che ora potesse essere. Ma vedevo solo una striscia di cielo, la quale non fece altro che ricordarmi la mia condizione di prigioniero.
Ritornai a pensare a Debora, che godeva per la mia condizione. Poi la ripensai vestita in nero. Decisi di soffermarmi su quell’immagine, sui suoi stivali lunghi, sul suo portamento sicuro, sul suo fisico esaltato dal corpetto, sui suoi capelli a coda alta, da dominatrice, sul suo sguardo attraente, sulla sensualità. Immaginai di leccare quegli stivali e di guardarla negli occhi mentre lo facevo…
Sentii forte il desiderio erotico che provavo nei suoi confronti e mi eccitai.
Ma mi frenai immediatamente, rimproverando me stesso. Come potevo affibbiare alla dea Debora un’immagine spudoratamente erotica e legata al sesso? Volevo amare lei o usarla per il mio piacere? Volevo dedicarmi a far godere lei o me stesso?
Guardai nuovamente verso la finestra, desiderando che Debora fosse lì con me.
Quanto sarebbe durata ancora la mia prigionia?
Passò del tempo, durante il quale i miei pensieri vagarono per i fatti loro. Sentii più intensamente la necessità di bere e di andare in bagno. Ma non mi importò, almeno finché non sentii la pressione e il dolore al basso ventre.
Sentii dei rumori, ma non riuscii a capire da dove provenissero. La porta della camera si aprì improvvisamente.
Debora entrò, le mani piene di sacchi, sacchetti e sacchettini. Li buttò a terra in un angolo. Poi si fermò un attimo, godendosi la visione del suo prigioniero.
“Ciao ciao” disse, per poi uscire dalla stanza.
I miei richiami furono inutili. Non rientrò. Ebbi il terrore che se ne fosse andata di nuovo e di dover aspettare ancora a lungo prima di rivederla.
Pochi istanti e la porta si riaprì nuovamente.
Stavolta aveva in mano dei sacchetti più piccoli, su cui campeggiava una scritta in cinese e una grossa testa di drago.
“Stella d’oriente!” esclamò eccitata. “Lo hanno aperto due settimane fa. Come avrai capito, stasera cinese. O meglio, italo cinese.”
“Debora, ho bisogno del bagno…”
“Italo cinese perché quando prendi i ravioli, ti dicono che sono cinesi, ma sono italiani” proseguì, poggiando sul comodino le vaschette. Nel farlo, spostò la sveglia, che indicava le sei e mezza passate. Tre ore e mezza legato nella stessa posizione!
“Debora, devo fare pipì.”
“Solo perché li fanno al vapore, non vuol dire nulla. Per me sono dei copioni.”
“Debora, ti prego… Mi ascolti?”
“Ti ho sentito” rispose, sfoderando un sorriso divertito. “Hai bisogno del bagno.”
“Mi liberi?”
“Quanto ne hai bisogno?”
“Ma che domanda è?”
“Voglio farti un esempio…” disse, per poi prendere tra le mani una vaschetta d’alluminio e venire a sedersi, agile come una cavallerizza, sopra il mio ventre, cosa che mi causò dolore e mi costrinse ad un gemito.
“Se faccio così senti di non poter resistere?” domandò, dondolandosi, come se non fosse nulla. Se da un lato non riuscivo più a stare in quella posizione, dall’altro mi faceva piacere che Debora dedicasse tempo per divertirsi un po’ con me. In effetti, erano attenzioni del tutto assenti nella mia famiglia.
Il vero problema però, stava nella resistenza della mia vescica, ormai prossima a cedere.
Si sporse in avanti, tenendo la vaschetta sospesa sopra di noi.
Quel movimento mi diede ulteriore dolore. Strinsi i denti e chiusi gli occhi, cercando di reggere ancora un po’.
Mi diede un bacio sulla bocca.
Non potei ricambiare il bacio. “Debora ti amo, ma ti supplico…” dissi gemendo.
“Ripetilo” disse, tirandosi su e poggiando nel contempo la vaschetta sul comodino.
La vescica implorò pietà.
“Cosa?”
Rise. “Ti supplico, no?. Ripetilo”
Pensai che scherzasse. “Ti amo! Ti amo! Ti amo quante volte vuoi!”
Rise a piena voce. “Ti supplico! Ho detto ti supplico! Ripetilo!” ordinò la torturatrice, picchiettando crudelmente le mani sul mio ventre.
Sono convinto che avrebbe fatto la stessa cosa anche se avessi detto “Ti supplico”, anziché “Ti amo”.
Così la implorai: “Ti supplico Debora, ti supplico, fammi andare in bagno, se no la faccio qua! Ti supplico!”
Ridendo fino alle lacrime, si sporse nuovamente in avanti, e, finalmente, mi liberò dai miei legami.
Attesi poi che si spostasse da me, ma non lo fece. Rise un po’, gustandosi un ultimo sguardo terrorizzato sul mio volto. Dopodiché mi liberò definitivamente, scendendo dal letto.
“Lavati bene dopo aver fatto tutto!” gridò.
Tornai indietro per essere sicuro di aver capito bene.
Nonostante il sorriso per il divertimento di prima, capii che parlava seriamente: “Lavati bene là in basso.”
Corsi in bagno con gioia.
Quando ne uscii, stava spiluccando patatine di gambero.
“Vieni,” disse, “che ti devo legare di nuovo.”
“Ancora?”
Sbatté le palpebre più volte, sorridendo maliziosamente, mentre con tono dolce, ma al contempo provocatorio: “Non lo faresti per me?” domandò.
“Debora, abbiamo un problema” dissi, serio.
“Quale?”
“Non riesco a dirti di no, anche quando dovrei.”
“Allora non abbiamo un problema” concluse soddisfatta. “Ce l’hai solo tu, tesorino. E finché non riuscirai a risolverlo, io ne approfitterò, sappilo.”
“Ti piace essere sadica, eh? Tenermi costantemente in ansia? Dove mi farai arrivare?”
“Sì, mi piace” rispose, “ma non ti preoccupare. Non ho intenzione di essere egoista. Siamo in due in questo viaggio. Ora vieni qui che ti lego, così poi ceniamo.”
Detto questo mi legò di nuovo al letto.
Involtini Primavera, ravioli di carne e di pesce, patatine di gamberi, dette anche nuvole di drago, pane cotto al vapore, bocconcini di pollo fritto. Tutti cibi che potevano essere mangiati come stuzzichini.
Cibi che usò per imboccarmi. Cibi che mostrarono quanto le piacesse quella situazione. I suoi occhi si illuminavano quando le sue dita si avvicinavano alla mia bocca, permettendomi di mordere un pezzo di cibo. Poi a volte indugiava con le dita unte nella mia bocca, in modo che le succhiassi e le leccassi . Mi stava accanto, il suo viso era vicino al mio e non voleva perdersi nulla. Una volta ero io a mordere, una volta era lei. E quando toccava a lei, lo faceva lentamente, lasciando che mi godessi la scena e gustandosi il sapore degli involtini, o dei ravioli. Dopo aver inghiottito, qualche volta lasciava la sua lingua passare sensualmente sulle labbra, per ripulirle e mostrare il suo desiderio nei miei confronti. Verso la fine, quando eravamo quasi sazi, prese una nuvola di drago e la infilò in bocca, tenendone metà fuori. Poi salì a cavalcioni su di me. Avvicinò le sue labbra alle mie. Io aprii la bocca, lasciando che la patatina vi entrasse. Quando arrivò a destinazione, ci trovammo a baciarci. Rimanemmo così finché con la saliva la nuvola si sciolse, quindi, a breve distanza e continuando a guadarci negli occhi, entrambi la inghiottimmo contemporaneamente.
A quel punto allungai il viso verso di lei per baciarla.
Ma lei, d’istinto si ritrasse.
Tutto si svolse in silenzio.
Piegai la testa di lato sospirando. Bramavo baciarla. Tentai di allungarmi di più.
Debora si gustò la scena, godendo del mio desiderio nei suoi confronti e vedendo che non riuscivo ad avvicinarmi più di così.
Di nuovo la guardai, implorante.
Si avvicinò, appena, con i suoi occhi nei miei. Assaporava un cibo differente, ma altrettanto gustoso, il cibo dell’erotismo.
Sentii di aver quasi raggiunto le sue labbra e tentai con tutte le mie forze di colmare il vuoto tra di noi.
Si ritrasse nuovamente, soddisfatta del proprio gioco. Poi finalmente si avvicinò.
Ma non fu ancora abbastanza.
Appena sufficiente a farsi sfiorare le labbra.
E gliele sfiorai, non potendo fare altro. Lei non rispose, ma mi lasciò fare, godendo anche di quel momento. Non mi tenevo dalla voglia di baciarla pienamente. E a lei piaceva guardarmi in quelle condizioni. Come i polmoni cercano l’aria, le mie labbra cercavano disperatamente quelle di Debora. A volte riuscivano a trovarle, a volte invece andavano a vuoto. A volte ancora riuscivo a sfiorarla soltanto con la lingua. Avevo sete della sua acqua, come un assetato nel deserto. Debora giocava, concedendomene solo qualche goccia, mentre io desideravo bere e assaporare le sue labbra senza freno alcuno e dissetarmi completamente.
Ma ad un certo punto, inaspettatamente, le mani di Debora mi spinsero giù e si gettò su di me, per poi baciarmi voluttuosamente fino ad ansimare. Le nostre lingue si incontrarono, si toccarono, danzarono insieme, si lasciarono per incontrarsi nuovamente e ci portarono ad emettere i primi gemiti insieme. Mi sentii come se non ne avessi mai abbastanza. Il respiro era ormai affannoso ed il desiderio reciproco era intenso. In quell’istante provai, come se fosse vitale, la necessità di essere slegato, tanta era la voglia di toccarla, abbracciarla, e stringerla a me.
Tuttavia ero rapito dai baci che mi dava, e che ci scambiavamo. Non potendo darmi da fare con le mani, feci tutto ciò che potevo con la bocca. Avevo gli occhi chiusi e mi lasciavo trasportare dall’intensità della nostra passione. Non mi resi neanche conto quando le sue mani non furono più sul mio petto.
Solo quando la sua bocca si allontanò appena dalla mia, mi accorsi di non sentire più il peso del suo corpo su di me. Rimasi ugualmente con i miei occhi nei suoi, domandandomi perché non volesse più le mie labbra. Le sentii muovere le ginocchia accanto al mio ventre e nel contempo il suo viso si allontanò dal mio. Quindi Debora guardò in basso. Per cui lo feci anch’io.
Allora vidi il suo seno prorompere dalle coppe in pizzo nero.
Le sue mani, lontano dal mio petto, l’avevano liberata dalla camicia ormai da chissà quanto. Ancora oggi non capisco come abbia fatto a non accorgermene. Vidi le sue braccia agitarsi dietro la sua schiena.
La guardai negli occhi, timoroso. Mi restituì uno sguardo risoluto.
Ci volle un attimo, poi il reggiseno si sganciò silenziosamente. Ma lei lo trattenne un momento. Debora continuò a guardarmi negli occhi, serena, come se volesse accompagnarmi in questo momento.
Quando liberò i suoi seni dai propri indumenti rimasi senza fiato e mi sentii indegno di lei.
Di nuovo tornò la stessa sensazione di inferiorità che mi causava problemi nel rapporto con Debora.
Ma di fronte a quel seno, si sarebbe sentito così chiunque.
Tornai con i miei occhi nei suoi, cercando conferme.
Per tutta risposta, si aggrappò alla testiera del letto, sporgendosi in avanti, finché le mammelle non si posarono sul mio viso.
Le baciai e le ribaciai, per poi leccarle, avido. Per quanto potei vi affondai il viso. Mi sentii nuovamente travolgere dal desiderio e dall’eccitazione, causati dalla bellezza e dalla sensualità di un corpo così ben fatto, che si donava a me. In mezzo alle mie gambe tutto era fuori controllo. Mi domandavo se, come succedeva nei sogni, mi sarei bagnato spontaneamente.
Con una mano, Debora guidò un seno verso la mia bocca. Ne sentii entrare il suo capezzolo turgido, che fu subito preda della mia lingua vogliosa.
Lo leccai avidamente, gemendo dal piacere. Sentii che la cosa le piacque, perché mugolò.
“Succhialo e mordicchialo” pretese Debora. Obbedii, provando piacere nel sentirmi un suo oggetto sessuale. Avrebbe potuto chiedermi qualunque cosa e l’avrei fatta. Inspirava ed espirava sommessamente, emettendo gemiti di goduria. Anche l’altro seno ricevette lo stesso piacevole trattamento, poi li alternò alcune volte. Debora mi sembrava una locomotiva a vapore che lentamente, ma inesorabilmente, prende velocità per arrivare a raggiungere quella massima.
Le sue mani sparirono nuovamente mentre la parte superiore del suo corpo, senza più alcun sostegno, si appoggiò di peso sul mio viso, ed il suo seno premette sulla mia bocca e sul mio naso, al punto che iniziai a respirare a fatica. Tuttavia, con sacrificio, cercai di continuare la mia stimolazione verso il suo capezzolo, pensando che se fossi morto per asfissia, lì tra i suoi seni, sarebbe stata comunque una morte dolce. Ma non morii.
Lei si mosse un po’ di qua e un po’ di là, in una strana danza, facendo leva un paio di volte prima su un ginocchio e poi sull’altro, cosa che mi diede respiro. Ora ero un po’ più comodo e avrei potuto concentrarmi meglio su quello splendido e meraviglioso affarino. All’improvviso però il capezzolo scappò fuori dalla mia bocca e, ancora una volta, mi trovai a bramare qualcosa che sembrava essere diventato irraggiungibile.
La mia vista era impegnata a contemplare la bellezza di quello spettacolare universo di fronte a me, mentre i suoi seni, imperiosi, da una posizione più elevata, sembravano oramai guardare altrove, incuranti di me, come se ciò che c’era stato tra noi non contasse più. Mi sentivo ferito dal desiderio che provavo per loro.
“Ti prego,” sospirai, posando i miei occhi in quelli di Debora, “fammi continuare!”
“No,” rispose ansimando, “Hai altro da fare…”.
Le sue ginocchia decisero di muoversi ancora. Debora fece leva con le mani sulla testiera e fu lesta a risalire a cavalcioni il mio corpo. Le spalle mi fecero malissimo, quando il suo peso fu sopra il mio. Chiusi gli occhi per un attimo dal dolore e fui confuso dai suoi movimenti, per cui non riuscii a capire immediatamente cosa stesse accadendo.
Quando riaprii gli occhi, guardando in alto il suo viso era quasi scomparso, coperto dal suo seno.
Le ginocchia presero posizione accanto al mio viso, ed i suoi piedi poggiarono sul mio petto.
A pochi centimetri dalla mia bocca, la sua vagina.
Umida, pulsante, fremente.
Il mio cuore si fermò. Il mio basso ventre no.
Debora si tirò indietro, sporgendo il viso in avanti per guardarmi. Poi si appoggiò solo con una mano alla testiera.
L’altra invece scese in basso e dicendo “inizia a leccare da qui”, con un dito fece un movimento sulle grandi labbra, imitando ciò che la mia lingua avrebbe dovuto fare. Non so spiegare quanto erotismo mi trasmise quella visione.
“Cosa devo fare?” domandai malizioso.
Mi guardò sorniona. Poi con voce roca e tono studiatamente lento ripeté: “Leccare.”
Tirai fuori la lingua e lei non si fece pregare.
Per la prima volta provai il sapore della sua vagina, leggermente dolce, ma soprattutto acidulo. Con movimenti sinuosi Debora accompagnava la mia lingua, traendone un piacere che mostrava gemendo e ansimando senza freni. Un paio di volte colpì involontariamente la punta del mio naso, cosa che dovette piacerle, perché decise di sfruttarlo.
A quel punto la persi.
Il suo basso ventre si mosse ad un ritmo decisamente più elevato, premendosi su di me, senza riguardo per il mio viso.
Tentai di leccare come mi aveva detto, ma inutilmente. Non vi riuscii a causa dei suoi movimenti rapidi e del peso che appoggiava su di me. Le spalle gridarono pietà. Tenni la lingua quanto più fuori dalla bocca potessi e Debora si lasciò andare ad una cavalcata frenetica, a causa della quale la mia bocca iniziò a riempirsi dei suoi umori. Regolarmente ritraevo la lingua e ingoiavo. Poi riprendevo la posizione. Il naso mi doleva e temevo si sarebbe rotto. La mandibola invece mostrava segni di indolenzimento. Eppure vedere Debora così eccitata, così libera, così padrona mi dava una costante scarica di piacere, che mi spingeva a rimanere nella posizione il più a lungo possibile per servirla, come uno schiavo devoto la sua padrona. Ciononostante, non sembrava arrivare al godimento completo. Persi la nozione del tempo ma mi resi conto che al suo posto, con una stimolazione così intensa, io non avrei potuto resistere oltre. Invece sembrava che a Debora servisse ancora tempo. Le mie spalle doloranti domandarono quanto. Vidi le sue dita penetrare nella parte alta della vagina e stimolarsi con frenesia. Il suo seno puntava così in avanti da non permettermi di vedere il suo viso. All’improvviso inspirò violentemente e si inarcò, bloccandosi in un momento. La vagina premette poderosamente sulla mia bocca. Una narice fu occupata e potevo respirare solo da un lato. Fummo congelati in quella posizione per istanti che mi parvero ore. Quindi un liquido caldo fiottò dalla vulva, spargendosi nella mia bocca e scendendo lentamente verso la gola. Gemette intensamente. Non scorderò mai la prima volta in cui raggiunse l’orgasmo. Inghiottii il suo piacere avidamente. Attesi che Debora si spostasse, ma non lo fece. Anzi, riprese a stimolarsi e muoversi su di me. Non aveva goduto? Come poteva volerne ancora? Continuando la sua cavalcata, qualche istante dopo raggiunse un altro orgasmo. Altro orgasmo, altro liquido nella mia bocca, altro ingoio. E poi ancora. Dopo il terzo iniziai a domandarmi quanti orgasmi potesse raggiungere una ragazza. O se fosse solo lei così. Forse sarei rimasto lì fino a tarda notte. Forse mi sarei lussato le spalle. Raggiunse un quarto orgasmo. E questo confermò le mie peggiori paure. Invece questa volta si fermò e si spostò. Si sollevò facendo leva sul ginocchio destro. Finalmente riuscii a guardarla negli occhi. Non avevo mai visto quell’espressione sul suo viso, sembrava in estasi. Si pose di fianco a me, appoggiata sulle ginocchia. Le mie spalle ringraziarono. Poi le sue mani si adoperarono per slacciarmi i pantaloni. Me li tolse e mi tolse anche i boxer. Ebbe un’espressione di compiacimento nel guardare la mia eccitazione.
“Pensa a tuo padre” disse.
“Cosa?”. Quelle parole fecero dolere la mandibola indolenzita. Era l’ultima cosa che mi sarei aspettato dicesse. “Perché? Ma che dici?”
“Tra poco me lo metterò dentro. Non vorrai mica godere? Devi farmi divertire ancora…Pensa a tuo padre, alla guerra, ai film horror, a qualsiasi cosa ti smonti a sufficienza da non farti godere finché io sono sopra di te. Ti prometto che poi mi dedico a te senza riserve.”
“Ma quante volte puoi raggiungere…?”
Rise per la mia incapacità di usare certi termini.
“Non c’è un numero. Dipende da quanto si irrita. E dal dolore. Perché andando avanti poi si irrita e fa male là in basso. Quando fa troppo male devo smettere.”
Si mise a cavalcioni su di me. Poggiò le mani sul mio petto. Poi una accompagnò il mio pene al suo interno. Sentii qualcosa resistere ed il suo sguardo mostrò un’espressione di dolore e sofferenza per qualche istante.
Poi fu piacere all’estrema potenza.
Dovetti pensare a mio padre. Ma ci furono anche mille paure ad aiutarmi. Quelle di un ragazzo vergine che si domanda se le misure vanno bene, se a lei piace, se vede difetti… Arrivarono tutte in quell’attimo.
Ma fu ugualmente difficile non lasciarmi andare. Fu un’esperienza di estasi e di piacere così intensa da esularmi dal mondo attorno a me. Debora faceva avanti e indietro con profonda sensualità ed i suoi seni mi gridavano di toccarli, palparli e strizzarne i capezzoli. Le sue dita sembravano volermi strappare il petto. I suoi occhi chiusi, i suoi ansimi, i suoi gemiti, le sue gote arrossate, il calore del suo corpo, la possanza della sua vagina che mi imponeva il piacere assoluto come un’imperatrice in una lotta impari, nella quale ogni andirivieni mi faceva desiderare di abbandonarmi al piacere, mi costringeva al godimento, quando invece dovevo cercare di resistere con tutte le forze. Ed il ritmo aumentava a dismisura.
Raggiunse un nuovo orgasmo. Sentii il mio pene stritolato, schiacciato da ogni parte, mentre il suo corpo invece tremava. Strozzò un lungo gemito, fermando il suo movimento. Poi emise un sospiro di godimento, come se fosse liberata da una prigionia. Ansimò e ansimò. Riprese di nuovo a muoversi rapidamente, per arrivare quasi immediatamente ad un altro orgasmo. Sentivo di stare per scoppiare dal piacere. Non c’erano immagini mentali che potessero farmi reggere alla mole di stimoli e impulsi che raggiungevano il cervello e il pene. La realtà, rispetto alle immagini della fantasia, o a quelle del computer, a cui ero abituato, era tutta un’altra cosa. Il contatto con la pelle, gli odori, l’intensità del rapporto, la sensazione di appartenenza all’altra persona, i sentimenti e il desiderio di dare e ricevere piacere… Tutta un’altra cosa. Ero vergine e mi trovavo con una ragazza che sembrava sapere il fatto suo al contrario di me e che non aveva remore a lasciarsi andare completamente.
“Debora basta…” dissi, ansimando “Non resisto…”
Rallentò, permettendomi di riprendermi. Ma non si fermò. La sua mano si spostò dal mio petto alla parte superiore della vagina, cominciando un movimento che mi parse rotatorio. Andò avanti con un ritmo lento, poi pian piano, aumentò. Ci volle qualche minuto, ma riuscii a resistere. Alla fine, il ritmo fu frenetico. Rischiai seriamente di raggiungere il piacere, ma prima che accadesse, Debora si bloccò. Tranne la sua mano, che continuò a stimolarla. Il mio pene fu chiuso in una morsa. Il suo viso divenne paonazzo, la bocca aperta, incapace di emettere suono. Il suo corpo tremò a tal punto che temetti stesse per avere un infarto. Furono istanti lunghissimi. Poi esplose. Gridò di piacere, ma si interruppe quasi subito. Poi gridò ancora. E ancora si interruppe. Chiuse gli occhi sporgendosi in avanti come se non riuscisse più a reggere l’intensità del godimento che provava. Infine gridò di nuovo. Senza interruzioni questa volta. Le sue dita sembrarono penetrare nel mio petto dalla violenza con cui si aggrappò a me. Godette tremendamente. Fu bellissimo vederla così. Ansimò e gemette per il piacere che provò. Poi si lasciò andare abbracciandomi e sdraiandosi su di me, spossata.
Non disse nulla per un po’ e io neanche.
Ci rilassammo in silenzio. Stavo già così bene che pensai che se anche non si fosse dedicata a me, sarebbe andato bene lo stesso.
Ma lei sollevò il capo e mi accarezzò i capelli, guardandomi: “Mi è piaciuto un sacco…”
“Anche a me…”
“A te ci pensiamo ora, ok?”
Si tirò su, si diede una guardata, poi sparì in bagno, di fretta. Sentii quindi l’acqua scorrere e capii che si stava lavando. Infine tornò con della carta igienica e una domanda: “Hai visto nulla?”
“Che cosa avrei dovuto vedere?”
Si mise sopra di me, dandomi le spalle e nascondendomi la parte bassa del mio corpo. Poi la sentii usare la carta igienica sul mio pene e in zone limitrofe.
“Allora non hai visto nulla. Meglio così…”
“Di che parli, Debora?”
“Non lo hai capito? Mi hai tolto la verginità.”
Rimasi scioccato. Nella foga del rapporto, non ci avevo proprio pensato.
“Scusami” dissi.
Rise, e tanto. “Ma che dici? Come pensi di poter avere un rapporto con una ragazza vergine senza toglierle la verginità?”
“Io non sapevo che eri vergine… Non ci ho pensato”.
“Ti piacciono i miei piedi?”
“Che c’entra ora questo?”
“Non me lo hai mai detto. E visto che sto per metterteli in faccia, sarebbe bene saperlo.”
Provai un moto di eccitazione ed il mio pene, che si era abbassato, sembrò risvegliarsi. “Ovviamente mi piacciono. Tu mi piaci tutta, sei un sogno.”
“E tu sei esagerato. Ma visto che sembri davvero innamorato, darò la colpa alla tua cecità”
Detto questo buttò per terra la carta igienica ed iniziò a stimolare il mio pene con le dita. Colto di sorpresa, gemetti.
Si tirò su, per poi sedersi sul mio petto, lasciando stare il pene. Sollevò poi un piede e lo poggiò sulla mia bocca. Questa volta, al contrario del pomeriggio, ne sentii l’odore. Era stato nella scarpa, aveva camminato, si era preparato per me. Inspirai intensamente lasciando che l’odore penetrasse attraverso le narici, fino ad arrivare al cervello. Il mio pene si mise sull’attenti. Espirai con la bocca e nuovamente inspirai. Di nuovo piacere. E poi ancora. L’unica aria che respiravo era l’odore del suo piede.
Debora si spostò di lato e mi si sdraiò accanto, in posizione contraria alla mia. Allungò le gambe poggiando entrambi i piedi sulla mia faccia. Gli stimoli e gli impulsi aumentarono a dismisura. La mia lingua iniziò a leccare ciò che trovava, il mio naso non poteva che respirare l’odore intenso. I miei occhi non vedevano altro che le sue dita muoversi sul mio viso.
Poi Debora tornò a stimolare il mio pene con le mani. Lentamente, senza fretta, mi lasciò godere il momento. Si stava donando. Muoveva la mano dall’alto verso il basso e viceversa con delicatezza, senza pretendere di raggiungere alcun obiettivo. Solo per darmi piacere.
Incrociò quindi i piedi, tenendone sempre al centro il mio naso. Decise quindi di passare la pianta del piede destro sopra la mia bocca, facendomela leccare diverse volte, dal tallone fino alle dita. Ero eccitatissimo e nonostante la lentezza con cui stimolava il mio basso ventre, sentii che presto sarei arrivato al culmine.
“Debora, potrei arrivare presto…”
“Vieni quando vuoi…”
Cambiò piede lasciandosi leccare anche l’altro. Sentii una nuova scarica di piacere pervadere tutto il mio corpo. Il piede che non era sulla mia bocca era appoggiato sui miei occhi. Ero stimolato da più parti contemporaneamente. Continuavo ad ansimare e a gemere per l’intensità delle sensazioni che Debora mi trasmetteva.
La sentii muoversi ancora, senza però riuscire a vedere cosa facesse. Dopodiché fui pervaso da un’ondata di estremo e intenso piacere, che partiva dal basso ventre. Debora aveva deciso di prendermelo in bocca.
Non potei più reggere. Fu come se tutti i centri del mio piacere fossero stimolati al massimo nello stesso momento. Fu un piacere violento e obbligato, come se venissi spremuto. Persi il controllo.
“Debora… spostati…” gemetti.
Ma non mi sentì.
“Debora!” non riuscii a dire altro.
Sentii che il mio pene era pronto e la base iniziò a premere. Tutto accadde istintivamente. Mi inarcai, inspirando intensamente l’odore dei piedi di Debora, cosa che produsse ulteriori stimoli.
Rimasi bloccato in quella posizione per qualche istante. Per qualche ragione, nonostante la pressione non partì nulla al momento giusto. Il mio respiro rimase bloccato.
Poi là in basso qualcosa partì.
Ma troppo lentamente.
Tentai di trattenermi, ricordando che Debora lo aveva in bocca. Non volevo farglielo ingoiare.
Rimasi inarcato, senza respiro. Non riuscivo ad espirare, né ad inspirare. Iniziai a temere di soffocare.
Piano piano qualcosa salì lungo la canna.
Debora, togli la bocca, pensai.
Giunse alle mie orecchie un grido, roco, sofferente. Lo sentii ovattato, come fosse lontano. Ma era il mio.
Ci provai, ma mi fu impossibile resistere.
Il piacere che Debora mi diede con la bocca fu proprio quello che mi costringeva inesorabilmente all’orgasmo.
Schizzai.
Il mio pene esplose il suo liquido ed io mi sentii sommerso dalla goduria.
Sentii il mio grido di intenso piacere a piene orecchie. Poi, finalmente, inspirai profondamente e tornai a dare aria ai polmoni.
Mi ci volle qualche istante per riprendermi, ma ero in pena per aver schizzato in bocca a Debora.
“Debora, non mi hai sentito prima?” domandai, mentre riprendevo il controllo, ancora ansimante.
Usò la carta igienica per aiutarsi a sputare il mio sperma.
“Sì,” rispose, una volta pulita, “ti ho sentito benissimo.”
“Dico quando stavo arrivando…”
“Ho capito” continuò, “non preoccuparti. Lo volevo.”
La guardai sorpreso. Lo aveva fatto per me, o le piaceva?
Ma fu invece lei a domandarmelo: “Ti è piaciuto?”
“Oh sì!” dissi affannato ed esausto, ma entusiasta. “Non me lo scorderò mai!” sospirai.
Ed infatti non me lo potrò mai scordare. Non mi è più capitato un orgasmo così intenso. Lo capii poi con il tempo. Fu il passaggio dalla personale stimolazione manuale ad una stimolazione esterna. Il mio corpo non era pronto ad essere eccitato da Debora e lo mostrò sbagliando i tempi delle meccaniche che mi dovevano portare all’esplosione dell’orgasmo, lasciandomi bloccato senza fiato in attesa di una eiaculazione che sembrava non arrivare più. La mancanza di respiro e di ossigenazione al cervello, probabilmente intensificò il piacere finale che ne trassi.
Ma in quel momento non ebbi tutta questa lucidità per capire cosa fosse successo. In quel momento mi sentii solo vincere dalla fatica.
Debora usò ancora della carta igienica per pulirmi.
Io invece crollai nel sonno.
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