Come parlarne? - Capitolo III

di
genere
feticismo

Non ci fu tempo per parlare. Il pianto, i singhiozzi e l’incontenibile euforia di Debora trascinarono la sorella Barbara, in camicia da notte e mezza addormentata, fuori dalla sua stanza, domandandosi quale fosse la causa di tutto quel rumore.
Ma non appena ci vide, non ebbe bisogno di spiegazioni. Per trarre le sue conclusioni le bastò guardare le nostre facce.
Sorrise, ma fu impietosa.
Mi afferrò per le spalle e mi trascinò fuori dalla camera, blaterando, senza ammettere repliche, che il giorno dopo avrebbe dovuto prendere un aereo per tornare in Inghilterra e che aveva bisogno di dormire, non certo di sentirci pomiciare.
Con uno stato d’animo alterato, in motorino, percorrevo quelle poche centinaia di metri che mi separavano da casa mia con andatura lenta, per poi, ad un certo punto, accorgermi di avere completamente deviato dal percorso e di essermi fermato di fronte al parco, testimone delle lunghe chiacchierate tra me e Debora.
E mi sovvenne un ricordo di diversi anni prima, quando le avevo domandato come fosse finita poi con quel ragazzo che le piaceva, di cui mi aveva parlato in precedenza. Allora la risposta mi dispiacque. Da amico quale ero desideravo fosse felice ovviamente. Ma ora, a distanza di anni, con quel ragazzo, di cui, a pensarci bene, non ricordavo neanche il nome, o forse addirittura non lo avevo mai saputo, avevo un debito importante. Debora avrebbe potuto costruire una storia con lui, relegando me in un angolo dal quale non avrei saputo uscire. Quel ragazzo, senza saperlo, mi aveva concesso uno spazio vitale di estrema importanza per la mia crescita personale, ma anche per la crescita di una relazione importante con questa meravigliosa ragazza.
Non riesco a ricordare altro di quella sera. Per qualche ragione quel pensiero fu tutto ciò che la mia memoria riuscì a registrare.
Mi svegliai il giorno dopo, nel mio letto, con la sensazione che fosse successo qualcosa di importante. Poi ricordai la sera prima, a casa sua. Presi immediatamente il telefono e trovai un suo messaggio: “Ti amo tanto, sono contenta che ieri sei venuto da me… che mi hai detto quella cosa… Mi hai resa felice…”
In quel momento provai un moto di odio intenso per il mio turno pomeridiano. Tutto sommato però era venerdì. Il giorno dopo avrei lavorato la mattina, mentre lei sarebbe stata a scuola. Avremmo avuto per noi il resto del weekend.
Quella sera però ci incontrammo. Pensai che sarebbe stato un incontro fugace, a causa del freddo. Quando arrivai, mi aspettava fuori dal cancello, divertendosi a far condensare il fiato.
Tolsi il casco, misi il motorino sul cavalletto e poggiai il casco sul sellino. Poi mi voltai verso di lei.
Non perse tempo. Mi abbracciò e mi baciò sulla bocca. Fui inondato dal suo profumo. Continuò a baciarmi e ribaciarmi sulla bocca, prima sul labbro superiore, poi quello inferiore, spostandosi a destra e a sinistra, come se volesse assicurarsi di non aver tralasciato nulla. Io invece non riuscii a reagire. Mi sentii in un attimo come se fossi stato colpito da un incantesimo e bloccato da un’improvvisa e incomprensibile incredulità, che non mi permetteva di accettare la realtà nella quale mi ero venuto a trovare, ovvero l’amore tra me e Debora.
Era troppo bello per essere vero.
Perciò non era vero.
Doveva essere un sogno. Oppure ci doveva essere qualcosa, una cosa qualunque, che obbligava Debora a baciarmi in quel modo. Forse qualcuno la stava ricattando. La mia mente iniziò ad inventare una scusa dietro l’altra, nel tentativo di trovarne almeno una che giustificasse tutto, fuorché un sentimento sincero da parte di Debora nei miei confronti.
Una ragazza bella, spettacolare e piena di buone qualità come lei non poteva essersi davvero innamorata di uno sfigato come me.
Era ovvio che il ragazzo giusto per lei fosse uno migliore di me, uno alto, biondo, palestrato, figlio di papà…
Eppure era brava a recitare, pensai, sembrava innamorata davvero…
Si ritrasse appena.
Ecco, pensai, ora mi dirà la verità. Che ha giocato.
“C’è qualcosa che non va?” domandò invece, aggrottando le sopracciglia. “Mi sembri freddo.” Le sue braccia rimanevano attorno al mio collo, ma i suoi occhi mi fissavano, preoccupati.
“Debora, se non sei sicura di quello che provi per me…”
“Che stai dicendo?” La sua espressione divenne confusa. “A me sembri tu quello insicuro…”
“Voglio solo dire che pensandoci…”
“O RI-pensandoci, vorrai dire.” Adesso pareva innervosita. La voce tremava. “Non mi starai mica scaricando il giorno dopo a quello in cui mi hai detto che sei innamorato di me, vero? Non ci provare proprio…”
“No, no Debora, aspetta...” mi affrettai a dire. “Forse non sono stato chiaro…”
“E allora?” domandò con tono inquisitorio.
“Io sono sicuro dei miei sentimenti” dissi, “perché so quanto tu sia speciale e straordinaria. Io so che bella persona sei. Ma i tuoi sentimenti invece… Che giustificazione hanno? Davvero non capisco come possa essere possibile che una persona come te si sia innamorata di uno… di uno come me. Se stai con me solo per… per… che ne so… ”
“Beneficenza?” intervenne lei.
“Ecco, sì” proseguii, con più sicurezza “se stai con me per beneficenza,vorrei che…”
Arrivò un ceffone, così rapido da non vederlo nemmeno partire, che si stampò sulla mia guancia sinistra, facendomi girare la testa. Seguirono immediatamente dolore e calore intensi. Infine il mio silenzio.
Attonito.
Nei suoi occhi c’era il fuoco della rabbia. Tale da far impallidire qualsiasi eruzione vulcanica.
Oggi posso dire che è stato un bene che in quel momento non potesse lanciarmi palle infuocate con quegli occhi.
“Ora che ho la tua attenzione,” disse, con una certa aggressività, ”vorrei che ti fosse chiaro che non ho atteso che arrivasse il giorno di ieri come se fosse un compleanno, che arriva puntuale tutti gli anni, che vivi con trepidazione fino a quando non ricevi i regali e sei al centro dell’attenzione. Ho atteso quel giorno per quasi sei anni... Hai capito? Sei lunghi anni, domandandomi giorno e notte se ti saresti accorto di quanto io ti amassi, struggendomi con questi pensieri, non sapendo se fosse peggiore l’idea che non te ne fossi accorto, o che te ne fossi accorto e facessi finta di niente perché non mi ricambiavi. Sopportavo la mia solitudine e nascondevo i miei sentimenti dietro l’amicizia, pur di passare più tempo che potevo con te, sapendo che in quel momento era l’unico modo in cui potessi averti, nella speranza che qualcosa cambiasse. Rifiutavo le possibilità che mi venivano offerte da altri ragazzi. Accettavo che tu in realtà avresti potuto non amarmi mai. Ti sono stata accanto sempre. Sempre! Ho pianto con te, ho riso con te, ho sopportato il caldo e il freddo per te, ho addirittura cercato di capire chi ti piacesse per aiutarti a trovare il tuo amore, perché preferivo che tu fossi felice con un’altra, piuttosto che vederti triste da solo! Ho fatto queste e altre cose per amore tuo. Non me lo merito proprio che tu metta in discussione i miei sentimenti…”
Mi sentii un verme. Non avevo idea di ciò che lei avesse provato per me. Non avevo nemmeno immaginato che potesse essere mossa da quei sentimenti.
“Posso anche averti fatto credere che ti stavo facendo beneficenza quando ti ho chiesto di mettermi lo smalto,” proseguì con un tono più dimesso.“Ma mi ero fatta l’idea che ti avrei potuto aiutare a trovare una ragazza… Insomma, poteva essere una scusa per tirare fuori l’argomento piedi e feticismo con un’altra, per capire cosa pensasse…” Agitò la mano in aria, come se volesse lasciare perdere il discorso.
“Aspetta” la interruppi. Mi guardò, aspettandosi probabilmente altri dubbi. “Hai detto che mi ami da quasi sei anni… Ma sei anni fa… avevamo dodici anni… e tu mi hai detto che ti piaceva un ragazzo… Io non capisco, perché a lui lo hai detto e a me non hai mai detto nulla?”
“Ma di che parli?”. Sembrava sinceramente confusa. “A me non è mai piaciuto nessun altro.”
“Ma sei stata tu a dirmelo, tra l’altro ci ripensavo proprio ieri. Pensavo che dicendoti di no, quel ragazzo aveva lasciato uno spazio per me.”
Continuava a non capire.
Cercai di parlare semplice: “C’è stata una volta che mi hai detto che ti piaceva un ragazzo. Non ricordo il nome. La volta dopo mi hai detto invece che lui non era interessato…”
Fece un percorso nella sua memoria, cercando tra i suoi ricordi. Alla fine ci arrivò. E mi guardò sospirando, quasi con fatica: “Eri tu!”
Rimasi allibito.
“Ma che stai dicendo? Non mi hai mai detto…”
Annuiva, quasi ridendo, con espressione ironica. Qualsiasi cosa avessi detto non si sarebbe schiodata.
“Non ti ricordi proprio?” domandò quindi.
Scossi la testa.
“Non ti ricordi cosa ti ho chiesto DOPO che ti ho detto che mi interessava uno?”
Feci anche io un salto nei ricordi. E capii. Iniziai ad annuire anch’io.
“Qualcosa tipo: ‘dimmi chi ti piace’… E io ho risposto ‘nessuna’… È chiaro…”
“Mi hai spezzato il cuore… Ero così certa che mi amassi anche tu…”
“Mi dispiace… Non volevo ferirti…Comunque eri già intelligente anche allora…” commentai. “No, anzi, non intelligente. Subdola. In un attimo hai ottenuto l’informazione che volevi. Io ci ho messo cinque anni per ottenere le mie.”
“Questo perché non hai una sorella più grande che ti dà consigli.” Poi proseguì, ironica: “E comunque grazie per i complimenti…”
A quel punto mi attrasse a sé con le braccia, spingendosi in avanti, verso di me. Il suo tono si fece più basso, e suadente:”Ora, non pensi che dopo tutto questo tempo io mi meriti un bacio come si deve?”
La guardai annuendo: “Ti darò tutti i baci come si deve che vorrai!”
Quando quella sera arrivai a casa, nella solitudine della mia stanza, fui sommerso dall’ansia. Non riuscii a prendere sonno e i miei pensieri si diressero verso quello che credevo fosse il centro delle mie paure e dei miei problemi. Cioè che lei mi lasciasse.
Un ragazzo normale avrebbe camminato due metri sopra al pavimento, avrebbe chiamato amici e parenti per raccontare la novità, ovvero il fatto di essersi messo con una ragazza meravigliosa, di quanto fosse felice, quanto lei fosse bella e quanto lo fosse la vita.
Io invece ero diverso. Non lo avevo detto ai miei, non avevo condiviso la notizia con nessun parente, nemmeno le persone non di sangue che più si avvicinavano alla mia idea di amicizia, gli pseudo amici lo avrebbero saputo da me. Non me ne sarei vantato, non avrei fatto commenti, né lo avrei anche solo accennato. E questo per una ragione che solo uno coi miei problemi mentali poteva avere.
Temevo, e la mia preoccupazione era giustificata in quel posto, che l’avrebbero presa in giro per essersi messa con me.
In fondo, se per me lo stare con lei era un successo sotto ogni punto di vista, per lei stare con me non poteva essere visto come un successo, ma come una sconfitta, una caduta, un’umiliazione. Sei bella, ricca, puoi avere tutti i ragazzi che vuoi e ti metti con lo sfigato del paese.
E questa era solo una delle preoccupazioni che grandinavano nella mia mente, a sostegno del fatto che in breve tempo avrebbe cambiato idea su di me. Sei basso, hai sempre paura, non sei al mio livello sociale, non hai un titolo di studio, mi trasferisco, mi piace un altro, sono stanca di essere presa in giro…
Debora aveva un radar che la informava sui miei stati d’animo. Nonostante i miei tentativi di nasconderli, per lei ero un libro aperto. Si accorse subito di quanto la nuova situazione mi destabilizzasse e fosse fonte di varie preoccupazioni. Ma continuò ad amarmi, nonostante le difficoltà che avevo. Queste si ripercuotevano anche sui desideri fisici che provavo nei suoi confronti. Sebbene la desiderassi, avevo difficoltà a manifestarlo. Mentre lei non aveva problemi a lasciarsi andare completamente quando mi abbracciava, mi baciava, mi accarezzava, mostrando un desiderio, una passione ed un trasporto naturali, reali e tangibili, io ero frenato. Non la stringevo mai forte, non la baciavo con passione, e quando la accarezzavo, evitavo le zone che di solito sono parte dei desideri maschili verso la donna. Spesso era Debora ad accompagnare le mie mani verso tali zone, ma senza accorgermene pochi secondi dopo ritornavano in acque meno impegnate. Inizialmente non capivo cosa mi stesse accadendo. Arrivai a pensare di non amarla davvero. Sembravo freddo, meccanico. Ma grazie anche alla pazienza di Debora e al suo amore, ad un certo punto il vero problema venne fuori. Si manifestò come si era manifestato il paladino nel sogno.
Improvvisamente, una luce nel buio si accese.
E si accese proprio mentre ero con lei, mentre ne parlavamo, nella sua stanza, distesi sul suo letto.
“Quello che non capisco,” diceva, “è che tu sei capace di mostrare i tuoi sentimenti. Addirittura spesso non riesci a nasconderli. Io lo vedo sempre come ti senti. Ogni volta che ci incontriamo, anche se all’inizio stai bene, non appena mi baci, il portone si chiude, il castello diventa inespugnabile, e tu non mi dai più quell’amore che hai per me. Io lo so che mi ami. Eppure tutte le volte che cerco di avvicinarmi, succede. Non voglio forzarti e capisco che è un blocco psicologico, ma devo ammettere che mi fa male da morire.”
“Ti prego Debora” dissi, supplicando “Non mi lasciare, non so cosa mi succede, ma…”
“Non ti lascio, non ti preoccupare!” m’interruppe. “Ti ho aspettato a lungo e quello che ho adesso è certamente più di quello che avevo prima, quando non stavamo insieme. Non ho intenzione di mollarti così”
Mosso dalla frustrazione dissi una cosa che non avrei dovuto dire: “Forse la realtà è che non ti amo davvero… Forse voglio illudermi…”
“Ora non metterti a dire cazzate!” le sue parole furono una rasoiata.
Ci fu un attimo di silenzio.
“È una situazione nuova per me” riflettei, parlando a voce alta. “Non ho mai avuto una ragazza, non so come fare ad amarla davvero, come farla sentire amata.”
Fu proprio a quel punto che il suo viso si illuminò. Fu proprio a quel punto che capì da dove nasceva il mio problema.
“Non puoi sapere come si ama,” disse, convinta, “semplicemente perché sei cresciuto in una famiglia che non ti ha mai amato davvero. Troppi casini, troppi litigi, troppi doveri a casa tua.”
Mi guardava con occhi lucidi, scuotendo la testa.
“Tu non hai difficoltà ad amarmi” proseguì, “hai difficoltà ad essere amato. È questa la situazione nuova. I tuoi hanno fatto un gran casino con te. Ti hanno educato trasmettendoti l’idea che se ami, fai le cose che vanno fatte. Senza sentimenti, senza la presenza di qualcuno accanto, senza incoraggiamenti, senza farti sentire che sarebbero stati sempre dalla tua parte… Non ti hanno mai fatto sentire amato per quello che sei. Nessuno ti ha davvero mai amato per quello che sei prima di me. E ora che succede questo, non sai come reagire, ti chiudi a riccio e non permetti a te stesso di godere del mio amore. Ma io… io voglio dartelo, senza chiederti nulla in cambio. Anzi no, una cosa la vorrei. Vorrei che ti lasciassi amare da me. Vorrei che ricevessi il mio amore, che lo sentissi tuo. Vorrei che tu sentissi il mio cuore battere per te. Vorrei che tu sapessi quanta voglia ho di vederti godere del mio amore e di tutto ciò che ho da darti e che posso darti. Vorrei che tu realizzassi i tuoi sogni, i tuoi desideri e vorrei poterti essere accanto mentre lo fai… vorrei semplicemente che fossi felice.”
Lei aveva le lacrime agli occhi.
Io invece piangevo senza freni.
Nonostante le lacrime, non accadde nulla. I successivi mesi non portarono ad un reale cambiamento. L’unico che avvenne fu il mio diciottesimo compleanno. Che festeggiai con la famiglia di Debora. D’altronde nella mia non era mai stato importante festeggiare i compleanni. Mio padre li vedeva come una spesa inutile. Per qualche strana ragione era convinto che non ci fosse bisogno di essere felici con le piccole cose. Compiere i propri doveri doveva essere sufficiente a garantire tutta la felicità di cui l’uomo ha bisogno.
Io ero condizionato da queste teorie. Un bambino viene sempre condizionato dai propri genitori, nel bene o nel male.
Debora invece amava la vita e cercava la felicità. Il mio problema condizionava più lei che me. La faceva soffrire. E vederla soffrire faceva soffrire me.
Un mese dopo il mio compleanno, a maggio, decise che saremmo usciti insieme. Andammo in una pizzeria a circa una settantina di kilometri dal nostro quartiere. Attraversammo anche la città nella quale ero nato. Non che questa pizzeria fosse particolarmente differente da una qualsiasi altra pizzeria, ma ciò che contava era la distanza e la posizione. Lontano da casa, sopra una piccola collina, riuscivamo a vedere molto distante. Da lì ammirammo il tramonto, i cui colori naturali si mescolavano allo smog cittadino.
Poi la sua voce ruppe il silenzio: “Lo faresti l’amore con me?”
Mi voltai verso di lei, attonito.
“Avresti voglia di fare l’amore con me?”. Ora il suo sguardo era su di me. Mi desiderava. E attendeva una risposta.
Forse può sembrare una domanda semplice a cui rispondere, ma non lo fu per me. Anzi, fu una domanda fondamentale. Fondamentale perché fu la scintilla che portò alla rottura di ogni freno che avevo nei confronti di Debora.
Come lei mi aveva detto, io ero figlio del dovere. I miei non avevano mai dato l’idea di essersi mai innamorati. Ero venuto fuori dalle necessità di apparenza dei miei genitori nei confronti delle loro famiglie. Tutto per loro veniva fatto per mostrare agli altri che la nostra famiglia funzionava. Erano riusciti a tirar fuori un figlio per mostrare che la famiglia funzionava.
Fare l’amore con Debora doveva essere fine a sé stesso. Doveva essere per amore. E io l’amavo.
“Sì,” dissi, senza titubare. “Lo farei con tutto il cuore”.
Mi guardò soddisfatta, con gli occhi luccicanti.
“Debora, devo dirti una cosa che ho capito proprio adesso.”
“Cosa?”
“Ho capito che non posso fare le cose solo e soltanto per dovere.”
Mi guardò confusa.
“Ho paura di provare piacere” proseguii, “e questo perché mio padre e mia madre…”
“Ho capito” disse, interrompendomi. “La felicità va ricercata solo nel compiere il proprio dovere.”
“Già.”
“Cazzate.”

Ci sedemmo al tavolo, un tavolino intimo, in un angolo. Non lessi nemmeno il menù, eravamo lì per una pizza. Intanto ordinammo da bere. Colsi l’occasione per guardare il viso di Debora, alla cui bellezza sembrava che non riuscissi ad abituarmi mai.
Lei sollevò gli occhi per guardarmi. Io chinai lo sguardo sul menù chiuso. Ecco, lo avevo fatto un’altra volta. Mi ero privato del piacere.
“Debora, posso guardarti?”
“Qualcosa non va? Perché me lo domandi?”
Arrivarono le bevande.
Rimasi in silenzio per qualche istante, cercando le parole: “A me piace guardarti. Sei davvero bellissima.”
Sembrò sorpresa.“E quindi? Cosa dovrebbe impedirti di guardarmi? Non riesco a capire stavolta.”
“Ho davvero difficoltà a guardarti solo per il piacere di farlo.”
Versò la cola nel bicchiere e bevve un sorso. “Come ti fa sentire provare piacere? Intendo dire, senza che questo dipenda dal dovere?”
Riflettei. “Indifeso” dissi infine.
Mi guardò, apparentemente riflettendo, ma senza arrivare ad una soluzione. “Ma che casino hanno fatto i tuoi?”
“Non è capire il casino che hanno fatto…” dissi, riflettendo ad alta voce. “È capire come farmene uscire…”
Ci fu un attimo di silenzio.
La sua mano si allungò sulla mia, accarezzandomi.
Il cameriere venne a prendere l’ordinazione per le pizze. Nessun antipasto. Una margherita per me, una quattro stagioni per lei, più una porzione di patatine con maionese.
E se ne andò, lasciandoci nuovamente soli.
Debora mi guardò. Aveva una strana luce negli occhi. Sembrava un po’ ansiosa. Fu il momento nel quale mi sentii accarezzare sotto il tavolo. Guardai e vidi il suo piede destro, scalzo, salire e scendere dolcemente lungo il polpaccio destro. Mi imposi di tornare con lo sguardo su di lei, sul suo viso. In alternativa, non sapevo se avrei potuto resistere all’impulso di gettarmi sotto il tavolo e baciare quel piede. Il pensiero, sfiorandomi, stimolò il mio basso ventre. Dal momento in cui le avevo confessato il mio feticismo, avevo sempre cercato di evitare di guardare i suoi piedi o il contatto con essi. D’altra parte lei era una ragazza attraente ed era sempre difficile per me stare con lei senza dare agio ai miei istinti sessuali. Fino a quel momento il senso del dovere mi aveva sempre frenato, spingendomi a non fermarmi sulle zone del suo corpo che trovavo stimolanti, tuttavia era sempre difficile resistere in quanto trovavo che Debora fosse molto sensuale. In effetti desideravo abbandonarmi al piacere che la sua sensualità mi trasmetteva, ma ero cosciente che le sarei potuto sembrare soltanto un altro ragazzo il cui scopo era portarla a letto e usarla per il proprio divertimento. Invece io volevo amarla, rispettarla, mostrarle che per me lei era più importante del suo corpo e soprattutto costruire una storia che potesse durare quanto più a lungo possibile. Non avevo neanche mire economiche tra l’altro, al contrario di quanto pensasse la gente invidiosa.
Le sorrisi, ammirandola.
Il piede smise di salire e scendere. Salì e basta. Poi la sua lunga gamba lo spinse tra le mie cosce.
Spalancai gli occhi, sorpreso.
Lei sorrise, compiaciuta. Poi, piegando la testa di lato, inspirò. E spinse il piede fino al centro dei miei pensieri.
Rimasi paralizzato. Lo mosse dolcemente, facendomi sentire la sua pressione in mezzo alle gambe. Mi accarezzò. Un brivido di piacere percorse tutto il mio corpo, costringendo la mia parte bassa ad erigersi. Mi accarezzò ripetutamente.
In un attimo di lucidità, decisi di ritrarmi, tirando indietro la sedia.
“Attento” disse, con una voce stranamente roca, “qualcuno potrebbe vedere quello che sto facendo.”
Mi guardai intorno, cercando occhi indiscreti, ma, anche non trovandone, rimasi incapace di reagire. Il suo piede si mosse nuovamente, continuando ad inondarmi di impulsi.
“Ti prego, Debora” supplicai, “basta…”
“Ti piace?” domandò. “Dimmi la verità.”
La guardai. Mi sentivo in balìa della sua volontà e questo non faceva altro che stimolarmi ancora di più, rendendomi impossibile pensare. Prima di allora non aveva mai provato a provocarmi in maniera così spudorata. A settanta kilometri da casa, non avevo la più pallida idea di dove volesse arrivare con quel comportamento.
“Sì…” risposi. “Mi piace molto… ma ora fermati, ti prego. Non riesco a controllarmi.”
Sorrise maliziosamente. “Io non mi fermo. Fermami tu.”
Mi sentii sotto tortura. Una tortura di piacere. Qualsiasi tentativo di uscire da quella situazione, non faceva che farmi godere di più, mentre cercavo di non godere per nulla. Mi vergognavo già molto e se avesse continuato presto mi sarei fatto tutto nei pantaloni. Ma lei sembrava non curarsene. Anzi sembrava gradire che io mi trovassi in quella posizione.
Decisi di allontanare il piede di forza. Ma come poggiai le mani su di esso, non riuscii a spingerlo via. Mi ritrovai invece ad accarezzarlo e massaggiarlo, traendone ulteriore piacere. Per tutta risposta le sue dita diedero ulteriori stimoli al mio basso ventre, continuando spietatamente a massaggiare la parte probabilmente più sensibile del mio corpo. E come se non bastasse, Debora decise addirittura di allungare anche l’altra gamba, poggiando il suo piede sinistro sulle mie mani e accarezzandole. Sorrideva soddisfatta nel vedermi incapace di resisterle.
Oramai ero talmente in balìa del piacere che lei mi trasmetteva, da non desiderare altro che arrivasse al termine. Era stata una lotta impari, che avevo perso miseramente e ne avrei pagato il prezzo macchiando i pantaloni. Non ero neanche più in grado di chiederle che avesse pietà.
Poi, improvvisamente, ritrasse quegli spietati strumenti di piacere.
Mi risvegliai da un bel sogno, intontito.
Accanto a noi, giunse il cameriere a chiedere di chi fossero le pizze. Il suo sguardo si posò poi su di me e mi domandò se stessi bene.
“È solo un po’ di mal di testa” risposi. “È stata una giornata difficile.”
Debora rise.
di
scritto il
2018-08-06
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