Fanculo pioggia
di
Maks
genere
sentimentali
All'uscita da una galleria commerciale, dove ci eravamo riparati dall'improvviso acquazzone, notai lo sguardo di mia moglie imbattersi per un attimo con il suo. Un sorriso spontaneo, improvviso, trattenuto a stento in una smorfia incontrollabile, un "ciao" strozzato in gola e un rossore in viso di un'intensità mai vista prima. Era talmente palese l'imbarazzo di Valeria che non ebbi il coraggio di chiederle nulla, sviando l'attenzione sulla scelta di un locale dove pranzare. Serví a poco, il disagio la accompagnò a lungo, la sua voce rimaneva vittima di un pugno allo stomaco, i suoi occhi distratti si muovevano a vanvera, senza mai posarsi sui miei. Chiaramente scossa, Valeria era assente, persa; le sue mani tremavano tese sulle posate a preparare bocconi senza mai mangiarli, con le lunghe unghie perfettamente decorate di bianco e di nero, come gioielli incastonati su quelle dita slanciate e pallide, arrapanti e eleganti insieme, a cui persino in quel momento avrei affidato la mia erezione, ansioso di profanarle col mio desiderio, come spesso facevo. "Non sto bene, torniamo a casa" spezzò il silenzio.
Un muro, un terrapieno a proteggere la nostra palazzina in periferia; mi fermai lì, come ogni giorno, parcheggiai. Valeria uscì dall'auto, io rallentai sotto la pioggia, neanche fosse piacevole, sbattendo lo sguardo su quel muro odioso e grigio, opprimente. Incrociai quell'incisione sbiadita, sorrisi, la salutai. Lo facevo ogni giorno forse, per qualche periodo la dimenticavo, ma nonostante gli anni quella stupida scritta restava lì, fedele, fredda, incancellabile. Eppure anziché rattristarmi, mi confortava, mi dava forza, nessun rimpianto, nessun dubbio.
Forse semplicemente il destino aveva stabilito così, in ogni caso avrei espresso il mio amore attorno a quel muro, così fu col primo, quello improvviso, inatteso, indomabile, che tanto promette quanto delude, così con l'ultimo, quello necessario, maturato, prevedibile ma finalmente soddisfacente. O forse ero rimasto inconsciamente preda di quella speranza, della remota possibilità di rincontrarla così, casualmente, in uno di quei giorni, o di quegli anni, nei paraggi del nostro quartiere natio. Come se non mi fossi mai perdonato quello scivolone in moto sull'asfalto bagnato, un paio di mesi dopo la sua fredda partenza, dieci anni fa, che non mi consentí di raccogliere il suo disperato quanto inatteso invito ad andarla a trovare nella suo nuovo appartamento all'università. Anziché deprimermi, quel ricordo mi ubriacava d'orgoglio, come se fossi uscito vincitore da una guerra impari. Tornai in me e raggiunsi Valeria a casa, sedetti accanto a lei, sul nostro letto; la nebbia fuori sembrava spingere sulla finestra, spiarci; il silenzio tra noi si appesantiva ad ogni respiro alimentando una forte, inspiegabile tensione erotica. Non una parola, eppure era chiaro che la nostra storia d'improvviso pareva a entrambi una farsa. In realtà eravamo sempre stati due animali solitari in preda a forti istinti di accoppiamento. Sì, sapevo cosa avesse provato mia moglie quel pomeriggio, la stessa sensazione che mi sfiorava ogni volta che parcheggiavo sotto il muro e sbirciavo quello scarabocchio. Non avevo idea di chi fosse ad aver rubato l'anima di Valeria, né quando, ma quell'episodio ci aveva smascherati, denudandoci da ogni parvenza di sentimento. Come se fossimo tornati all'origine del nostro rapporto, d'un tratto cademmo vittime di un'impadroneggiabile attrazione reciproca, puramente fisica. Venne meno ogni inibizione, alimentata da quel silenzio che svelava e confermava l'uno all'altra le proprie intenzioni, le proprie esigenze, comuni e mal celate.
Come dieci anni prima, dopo mesi di solitudine, entrambi esausti di astinenza e delusi dal tradimento dei più puri dei nostri sentimenti, ci incontrammo per la prima volta, rannicchiati in silenzio sui gradini d'ingresso di una qualche casa del centro, al riparo dalla pioggia che aveva prematuramente stroncato la festa intorno: spezzai quel silenzio proponendo alla bella sconosciuta una corsa fino alla mia auto, là, oltre l'isolato. Un attimo di esitazione, uno sguardo al cielo come alla ricerca di una conferma, afferrò la mia mano e scattammo sotto la pioggia, più intensa di quanto sembrasse. Mollò la presa giusto il tempo di fiondarci in auto, poi come vecchi pezzi di ferro arrugginiti che avevano riscoperto le proprie capacità magnetiche, rincrocciammo le nostre dita fredde e bagnate. Non ci lasciammo più.
Come allora, quel giorno ci sentivamo particolarmente soli e sconfitti, quanto dannatamente vivi e ansiosi di riscatto. Come allora, nell'aria grigia attorno, le presi la mano, accarezzandola certo con più decisione, la portai alle labbra e iniziai a respirarla, come in un tribale rito di corteggiamento. Avvicinammo i nostri visi, ansimando come cani, ad occhi aperti, per annusarci il respiro, sfiorarci le labbra, dichiararci tacitamente il desiderio reciproco. La baciai; la mia lingua la esplorava simulando gli atti più osceni che avrei voluto praticarle ovunque sul suo corpo con le mani, le dita, col mio pene eretto. Lei coglieva tutte quelle mie perverse allusioni, che dimostrava di apprezzare col trasporto con cui ricambiava il bacio. Quando la sua bocca straripò di saliva e desiderio, mi alzai, slacciai la zip e le offrii in pasto un'erezione rara per vigore e magnificenza, perfettamente adeguata alla fame di cazzo che ora la dominava. In un lampo Valeria lo avvolse tutto in un abbraccio labiale caldo e morbido, passionale ma pacato, quello di chi vuole godersi a fondo il momento. Piacere e desiderio si rincorrevano in me in una folle corsa senza fine, in una crescente spirale di sensazioni. Volevo sentirla, afferrarla, scuoterla. Le strappai i vestiti di dosso, scopammo come due posseduti, stringendoci, colpendoci, maledicendoci l'un l'altra fino al culmine di un orgasmo violento, esploso nel buio più profondo della sua figa, all'apice del piacere, oltre le nostre capacità muscolari, fino al limite del dolore.
Mi schiantai sul suo corpo sfinito, sbavando esausto sui suoi seni piccoli e fieri, che in un tutt'uno coi capezzoli duri e appuntiti, sembravano implorare per me pietà al cielo incombente ad ogni respiro. "Ti amo". Glielo avevo detto di rado, ma quell'occasione era irripetibile. Mi strinse a sé bisbigliando lo stesso affetto.
Cosa contava il passato se avevamo già noi? Eppure tendiamo a trasfigurare e idealizzare proprio le persone che più nella vita ci hanno fatto male, forse allo scopo di difenderci, di dissimulare la delusione e l'umiliazione a cui ci hanno sottoposto. Idolatrarle per non biasimare sé stessi, desiderarle ancora solo per illudersi di poter essere ricambiati. Come con la fede, inventiamo divinità inesistenti a cui giurare amore incondizionato e dogmatico per poi odiarci e scannarci l'un l'altro tra noi carnali mortali.
O forse era semplicemente stata colpa della pioggia, un'altra volta. Se solo in quei giorni, come oggi, non avesse piovuto... dove sarei ora? La sua pelle d'un tratto torna estranea, sconosciuta.
Ecco ci risono, a rimpiangere il destino. Fanculo pioggia!
Un muro, un terrapieno a proteggere la nostra palazzina in periferia; mi fermai lì, come ogni giorno, parcheggiai. Valeria uscì dall'auto, io rallentai sotto la pioggia, neanche fosse piacevole, sbattendo lo sguardo su quel muro odioso e grigio, opprimente. Incrociai quell'incisione sbiadita, sorrisi, la salutai. Lo facevo ogni giorno forse, per qualche periodo la dimenticavo, ma nonostante gli anni quella stupida scritta restava lì, fedele, fredda, incancellabile. Eppure anziché rattristarmi, mi confortava, mi dava forza, nessun rimpianto, nessun dubbio.
Forse semplicemente il destino aveva stabilito così, in ogni caso avrei espresso il mio amore attorno a quel muro, così fu col primo, quello improvviso, inatteso, indomabile, che tanto promette quanto delude, così con l'ultimo, quello necessario, maturato, prevedibile ma finalmente soddisfacente. O forse ero rimasto inconsciamente preda di quella speranza, della remota possibilità di rincontrarla così, casualmente, in uno di quei giorni, o di quegli anni, nei paraggi del nostro quartiere natio. Come se non mi fossi mai perdonato quello scivolone in moto sull'asfalto bagnato, un paio di mesi dopo la sua fredda partenza, dieci anni fa, che non mi consentí di raccogliere il suo disperato quanto inatteso invito ad andarla a trovare nella suo nuovo appartamento all'università. Anziché deprimermi, quel ricordo mi ubriacava d'orgoglio, come se fossi uscito vincitore da una guerra impari. Tornai in me e raggiunsi Valeria a casa, sedetti accanto a lei, sul nostro letto; la nebbia fuori sembrava spingere sulla finestra, spiarci; il silenzio tra noi si appesantiva ad ogni respiro alimentando una forte, inspiegabile tensione erotica. Non una parola, eppure era chiaro che la nostra storia d'improvviso pareva a entrambi una farsa. In realtà eravamo sempre stati due animali solitari in preda a forti istinti di accoppiamento. Sì, sapevo cosa avesse provato mia moglie quel pomeriggio, la stessa sensazione che mi sfiorava ogni volta che parcheggiavo sotto il muro e sbirciavo quello scarabocchio. Non avevo idea di chi fosse ad aver rubato l'anima di Valeria, né quando, ma quell'episodio ci aveva smascherati, denudandoci da ogni parvenza di sentimento. Come se fossimo tornati all'origine del nostro rapporto, d'un tratto cademmo vittime di un'impadroneggiabile attrazione reciproca, puramente fisica. Venne meno ogni inibizione, alimentata da quel silenzio che svelava e confermava l'uno all'altra le proprie intenzioni, le proprie esigenze, comuni e mal celate.
Come dieci anni prima, dopo mesi di solitudine, entrambi esausti di astinenza e delusi dal tradimento dei più puri dei nostri sentimenti, ci incontrammo per la prima volta, rannicchiati in silenzio sui gradini d'ingresso di una qualche casa del centro, al riparo dalla pioggia che aveva prematuramente stroncato la festa intorno: spezzai quel silenzio proponendo alla bella sconosciuta una corsa fino alla mia auto, là, oltre l'isolato. Un attimo di esitazione, uno sguardo al cielo come alla ricerca di una conferma, afferrò la mia mano e scattammo sotto la pioggia, più intensa di quanto sembrasse. Mollò la presa giusto il tempo di fiondarci in auto, poi come vecchi pezzi di ferro arrugginiti che avevano riscoperto le proprie capacità magnetiche, rincrocciammo le nostre dita fredde e bagnate. Non ci lasciammo più.
Come allora, quel giorno ci sentivamo particolarmente soli e sconfitti, quanto dannatamente vivi e ansiosi di riscatto. Come allora, nell'aria grigia attorno, le presi la mano, accarezzandola certo con più decisione, la portai alle labbra e iniziai a respirarla, come in un tribale rito di corteggiamento. Avvicinammo i nostri visi, ansimando come cani, ad occhi aperti, per annusarci il respiro, sfiorarci le labbra, dichiararci tacitamente il desiderio reciproco. La baciai; la mia lingua la esplorava simulando gli atti più osceni che avrei voluto praticarle ovunque sul suo corpo con le mani, le dita, col mio pene eretto. Lei coglieva tutte quelle mie perverse allusioni, che dimostrava di apprezzare col trasporto con cui ricambiava il bacio. Quando la sua bocca straripò di saliva e desiderio, mi alzai, slacciai la zip e le offrii in pasto un'erezione rara per vigore e magnificenza, perfettamente adeguata alla fame di cazzo che ora la dominava. In un lampo Valeria lo avvolse tutto in un abbraccio labiale caldo e morbido, passionale ma pacato, quello di chi vuole godersi a fondo il momento. Piacere e desiderio si rincorrevano in me in una folle corsa senza fine, in una crescente spirale di sensazioni. Volevo sentirla, afferrarla, scuoterla. Le strappai i vestiti di dosso, scopammo come due posseduti, stringendoci, colpendoci, maledicendoci l'un l'altra fino al culmine di un orgasmo violento, esploso nel buio più profondo della sua figa, all'apice del piacere, oltre le nostre capacità muscolari, fino al limite del dolore.
Mi schiantai sul suo corpo sfinito, sbavando esausto sui suoi seni piccoli e fieri, che in un tutt'uno coi capezzoli duri e appuntiti, sembravano implorare per me pietà al cielo incombente ad ogni respiro. "Ti amo". Glielo avevo detto di rado, ma quell'occasione era irripetibile. Mi strinse a sé bisbigliando lo stesso affetto.
Cosa contava il passato se avevamo già noi? Eppure tendiamo a trasfigurare e idealizzare proprio le persone che più nella vita ci hanno fatto male, forse allo scopo di difenderci, di dissimulare la delusione e l'umiliazione a cui ci hanno sottoposto. Idolatrarle per non biasimare sé stessi, desiderarle ancora solo per illudersi di poter essere ricambiati. Come con la fede, inventiamo divinità inesistenti a cui giurare amore incondizionato e dogmatico per poi odiarci e scannarci l'un l'altro tra noi carnali mortali.
O forse era semplicemente stata colpa della pioggia, un'altra volta. Se solo in quei giorni, come oggi, non avesse piovuto... dove sarei ora? La sua pelle d'un tratto torna estranea, sconosciuta.
Ecco ci risono, a rimpiangere il destino. Fanculo pioggia!
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