Konstantin Sergeevič

di
genere
pulp

Fissava i suoi occhi cercandovi un'emozione che non esisteva, che non era mai esistita. Riusciva a scorgere solo un vuoto immenso e la mancanza di qualsivoglia segno di umanità. Se mai si era chiesta come sarebbe stato fissare un robot con sembianze umane ora ne aveva un’idea molto precisa.
In lui non vedeva più nulla dell’uomo che poche ore prima ne aveva catturato l’attenzione con battute argute e sagaci, che l’aveva fatta ridere e divertire. A ben pensarci qualche segnale c’era stato, alcuni sorrisi che sembravano forzati, delle battute che puzzavano di studiato, però non vi aveva dato peso. E, del resto, chi lo avrebbe fatto? Quando aveva capito era semplicemente troppo tardi. La testa aveva preso a girare, i sensi mandavano segnali contrastanti e tutto intorno a lei aveva perso senso. Ti tengo io, le aveva detto, e per un istante poté vedere che in fondo a quegli occhi neri c’era solo il vuoto.

In quell’attimo di quiete ripercorse le ultime ore. Ricordava di aver ripreso conoscenza ma di essere incapace di muoversi. Poteva sentire il proprio respiro, percepiva una leggera brezza sulla pelle ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a muoversi. Era una sensazione strana, come essere in un sogno e provare a fare qualcosa senza riuscirci. Provò ad urlare ma nemmeno le sue labbra le ubbidirono.
Era solo un incubo, continuava a ripetere a sé stessa, ma questa speranza vacillò quando sentì l’umido calore di una lingua che le lambì il viso, che le bagnò le labbra. Se lui non fosse stato così sinistramente bello ed attraente, avrebbe avuto un conato di disgusto. Invece aveva quasi gioito perché quella sensazione sembrava proprio vera e quindi lei era viva.
Forse, col senno di poi, avrebbe preferito non esserlo.
Senza tradire emozione aveva tagliato gli indumenti fino a lasciarla completamente nuda. Poi era sparito dalla sua vista per ricomparirle alle spalle. Dominandola dall’alto iniziò a toccarle il viso, ad accarezzare le sue morbide curve, ma c’era qualcosa di freddo in quel tocco, quasi freddo ed impersonale. Per quanto volesse dire o fare qualcosa, qualunque cosa, non poté far altro che arrendersi a mani grandi che scesero sul petto, cinsero i seni e strizzarono i capezzoli fino a farla strillare per il dolore. Peccato che quell’urlo risuonò solo nella sua immaginazione.
Tra lo shock e l’incapacità di comprendere appieno costa stesse succedendo, ciò che anelava più di tutto era qualche parola che avesse anche solo la parvenza di una spiegazione di quegli eventi senza senso apparente. Perché era immobile? Perché non riusciva a reagire in alcun modo? Perché lui le stava facendo tutto ciò?
Visto che da lui non riusciva ad avere alcuna risposta, la fantasia prese il sopravvento e invase la sua mente di immagini fra l’indicibile ed il terrificante. Sotto la fredda luce dei led il suo voltò sbiancò ed i suoi occhi si sbarrarono.
Eppure anche la sua fantasia si era sbagliata. In difetto.
Alla fine l’uomo le aveva parlato ma solo per annunciarle cosa le avrebbe fatto di lì a poco. A rendere il tutto ancora più terrificante c’era la sua voce, piatta ed annoiata come quella di uno stanco cameriere che ripete lo stesso menù per la centesima volta nonostante le stesse descrivendo abusi e torture che le avrebbe inflitto.
Per quel poco che poteva il suo viso espresse terrore e sgomento che presto si tramutarono in dolorosa rassegnazione. L’uomo, fedele alla sua parola, iniziò ad abusare di lei e torturarla.
I capezzoli furono stretti da piccoli e dolorosi denti di acciaio mentre il suo sesso fu violato prima da lunghe dita e, poi, da oggetti sempre più voluminosi strappandole ogni residuo di dignità. Meticoloso come un chirurgo, l’uomo alternò strumenti affilati ed acuminati che graffiarono o incisero la sua pelle mentre lei, incapace di reagire, quasi affogò in un bagno di mille dolori tutti diversi.
Calde lacrime salate le rigarono il viso mentre lui, salito sopra di lei, la fece sua. Tutto sommato era la cosa fisicamente meno dolorosa che le aveva fatto sino a quel momento ma quegli occhi freddi e distaccati erano pugnalate nel petto. Per lunghi minuti la violò senza ritegno godendo della sua impotenza fino a sorridere, compiaciuto, per il suo sguardo terrorizzato.
Riversò dentro di lei il suo sporco piacere e, quasi per mostrarle quanto più disprezzo possibile, la ringraziò per la scopata più bella degli ultimi anni.
A quella ne seguirono altre e poi altre ancora in cui lui la prese in ogni modo possibile ed immaginabile. La trattò né più né meno come una di quelle costose bambole di silicone dall’aspetto umano tranne per il fatto che lei era viva. Viva! Eppure proprio questo era forse la cosa di cui lui meno si curava.
Di sicuro non lo fece quando morse la sua carne, quando colpì ripetutamente le sue membra, quando straziò i suoi capezzoli e neppure quando la sodomizzò o quando, con estremo disprezzo, urinò sul suo corpo pieno di graffi. In tutto ciò che lui le fece mai dimostrò di considerarla un essere umano e questa fu la tortura peggiore di tutte, peggiore anche dell’essere costretta a rivivere i precedenti abusi ed immaginare i successivi ogniqualvolta le concedeva qualche minuto. Come poteva restare lucida e non perdere il lume della ragione? A quale plausibile speranza si poteva aggrappare? Altre domande che non avevano risposta.

Tornata al presente, per pochi ma lunghissimi istanti tenne gli occhi serrati nella vana speranza che, se fosse passato abbastanza tempo, li avrebbe riaperti scoprendo di aver vissuto il peggior incubo della sua vita. Ovviamente non fu così e vide solo il medesimo soffitto su cui si muoveva l’ombra dell’uomo.
Il suo tempo era giunto e si stava per consumare l’ultimo atto di quella tragedia annunciata qualche minuto prima dalla solita piatta voce dell’uomo. L’aveva presa, ci si era divertito per diverse ore ma, ormai, era ora di passare oltre e far spazio ad un gioco nuovo. Solo una concessione le aveva fatto o, per lo meno, promesso: la sua sarebbe stata una morte molto dolorosa ma abbastanza veloce. Le avrebbe strappato la vita piantandole un coltello nel cuore un centimetro al minuto. Una decina di minuti di dolorosa agonia prima di una pace serena ed eterna.
Sentì i suoi passi farsi sempre più vicini fino a che ricomparì nel suo campo visivo brandendo ciò che aveva promesso, un lungo ed affilato pugnale dalla punta acuminata. Senza mostrare la benché minima traccia di emozione lo avvicinò al suo petto nudo, pronto a compiere quell’inutile sacrificio.
Poi successe. La sua pelle percepì lo spostamento aria ben prima che il boato e le schegge la raggiungessero. Qualche metro dietro l’uomo una pesante porta di legno venne sbriciolata da un’esplosione che la spalancò con una tale forza che per poco non la scardinò. Meno di un secondo dopo un lampo di luce pervase la stanza, subito seguito da un boato ancora più assordante.
Finalmente anche il viso dell’uomo, sbalzato contro di lei, mostrò l’ombra di un’emozione. Paura e sconcerto si dipinsero sul suo volto mentre si rialzava e iniziava a girarsi verso la porta, ancora brandendo a mezz’aria il pugnale appuntito.
Tre piccoli lampi furono seguiti da altrettanto piccoli sbuffi. La ragazza non ne poteva vedere l’origine ma osservò l’uomo barcollare, lasciar cadere il pugnale e riversarsi su di lei a peso morto.
Un piccolo rigagnolo di sangue gli colò dall'angolo della bocca mentre sul viso seminascosto affiorò un sorriso. Le fece un cenno strizzando un occhio, quindi li chiuse entrambi.

“Stooooop!” era la voce profonda di un uomo emerso da un angolo nascosto “Fermi tutti!”
All’improvviso mille luci si accesero e l’intera stanza si illuminò rivelando quello che era in realtà: quattro pareti finte ed un tetto ancora più posticcio.
“Che interpretazione!” esclamò con tono di giubilo dirigendosi verso il centro della stanza.
“Ditemi che avete ripreso tutto! Se avete perso solo mezza inquadratura giuro che vi metto sul tavolo al posto suo!” e così dicendo indicò la ragazza.
Nel frattempo l’uomo sopra di lei si era rimesso in piedi mentre un altro le aveva allungato un accappatoio con cui coprirsi.
“E tu!” si rivolse proprio a lei “Magnifica! Mai visto trasmettere così tanto restando perfettamente immobile. Tre minuti di autentica perfezione artistica. Assoluta perfezione. Nemmeno Stanislavskij avrebbe potuto pretendere di meglio!”
Lei lo guardò con un misto di stupore e gratitudine. L’aveva istruita a lungo prima di girare quella scena sottolineando innumerevoli volte che tutto dipendeva da lei e da come sarebbe riuscita a trasmettere pathos, dolore, sconforto, disperazione e, in ultimo, stupore senza poter muovere neppure un sopracciglio. Microespressioni, le aveva ribadito, devi lavorare sulle microespressioni e lei lo aveva fatto.
“Lunga vita a Konstantin Sergeevič” rispose la ragazza scatenando l’ilarità generale.
di
scritto il
2019-02-20
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