Capelli biondi
di
Eliseo91
genere
sentimentali
Lei aveva lunghi capelli biondi e il mare tra le dita, quella sera che le chiesi di fermarsi dietro al bar. Amava il mio profumo tra i capelli e il collo e mi toccava, io amavo le sue mani che esploravano di me, avvicinando gli occhi ai miei potevo scrutare fino in fondo all'anima. Mischiava tenerezza e ingenuità con un pizzico di sale, una passione spicciola da consumarsi in un motel. Aveva le mani così piccole che riuscivo a trattenerne due in una, la scaldavo appoggiata al muro come fossi una coperta, avvolgendola sul mio petto per sentirla un po' più mia.
Ci conoscevamo già da un po' eppure ogni volta era come fosse la prima volta, partivamo con accenni di romantica passione per finire un po' più giù. Io le toccavo i seno, lei non voleva lo facessi, spostava il viso di lato respingendomi, ma solo un po', poi accompagnava le mie mani calme di sudore e silenziose, le nascondeva tra le pieghe del maglione addosso a lei. Voleva le stringessi i capezzoli prima piano e poi deciso, lei stringeva le mie mani e si stringeva addosso a me. Chiudeva gli occhi per non guardare poi li riapriva con le lacrime, mi stampava in bocca un bacio e sorrideva d'allegria. La nostra età faceva da contorno a questa vita, i vent'anni nell'attesa di un'amore vissuto nei nascondigli al silenzio, spesso è volentieri appoggiati al muro di un vicolo, nascosto agli occhi della gente. Ci abbracciavamo per minuti intensi e immensi, e questi minuti diventavano le nostre ore. Le sue guance rosse e i suoi capelli prendevano sostanza davanti a me, mi abbracciava come fosse l'ultimo momento prima di andar via. Ci stringevamo senza accorgerci che già stavamo facendo l'amore, incuranti della notte, del freddo, della polizia. Il respiro un po' affannoso si confondeva col silenzio, coi rumori delle automobili, il ronzio di qualche bar. Le nostre mani si cercavano e si trovavano da sole, le dita già facevano l'amore, schiude do un mazzo di rose immaginario carico di passione e nostalgia. Non potevo che commuovermi guardandola negli occhi, sentivo le sue labbra palpitare, il tremolio delle sue palpebre nel burrascoso affanno di raccogliere tutto di me, quella necessità fisica di non perdermi, di non perdere contatto col mio corpo. Sapevamo di essere nel torto, sapevamo quel vicolo rappresentasse la rottura di un maledetto vincolo che avevamo firmato con la vita, con altri occhi, con altre mani, con altre pareti a guardarci, proteggerci e soffocarci. Sapevamo di appartenere ad altri e non solo a noi, eppure il bisogno di stare l'uno dentro l'altra era più forte di ogni sentimento di vergogna e smarrimento, il senso di colpa non poteva farsi breccia tra le nostre braccia. E in quel vicolo nascosto ci amavamo, ci amavamo di freddo e polvere, rischiando l'incriminazione per atti osceni e qualche linea di febbre. Con gli occhi ci eravamo mangiati e spogliati milioni di volte, con gli occhi le avevo già sfiorato i seni e gli angoli nascosti e più intimi miliardi di volte. Lei mi guardava negli occhi, poi spostava lo sguardo, si spingeva addosso alla parete di mattoni per avermi sempre più addosso. Si levava via i capelli dalla faccia, inarcava la schiena e prendeva forza, fiato e vigore per spingersi ancora un po' più in là con le intenzioni. La terra tremava insieme a noi , insieme ai nostri cuori carichi di rabbia e di rimpianti, il muro sembrava voler crollare come squarciato dall'orgasmo passionale di quel terremoto. E poi le mani, quelle mani che nel silenzio andavano sempre più giù, sempre più dove tutto era o terribilmente eccitante o terribilmente sbagliato. Non esistevano più il bianco e il nero, ciò che è giusto o ciò che è sbagliato, esistevano solo due corpi che volevano fondersi in uno, incuranti del tempo e del destino che li aveva scaraventati su pianeti diversi, in vite distanti, in esistenze contigue.
È le mani, le mie diavolo di mani che percorrevano il suo ventre per slacciarle la cintura dei pantaloni e durante il percorso si soffermavano sui fianchi, alla curvatura dei seno, nel canyon misterioso dell'ombelico. E poi le mani ancora più giù superando ogni suo vano tentativo di resistermi, laggiù dove il destino di ogni uomo e di ogni donna si compie come una battaglia di emozioni e pulsazioni, laggiù dove hanno litigato santi, poeti e navigatori, laggiù dove si scannano le religioni, laggiù dove non esistono più mappe e confini definiti. E le sue mani in principio distanti e riottose diventavano confidenti e amiche, invitano le mie al progresso nella discesa. Strusciavano i miei vestiti, si infilavano sotto la maglietta e dentro i jeans, scardinavano ogni resistenza e bottone per arrivare alla metà più ambita, quella che ci avrebbe condannato per l'ennesima volta a fare l'amore senza guardarci alle spalle, senza poterci guardare negli occhi, con l'istinto di chi ama ma non può, con la voglia di chi ci crede e va fino in fondo, fino a rischiare una polmonite, un arresto o di sentirsi la coscienza impiccata ad un lampione. Ma a noi non potevano interessare le conseguenze, non c'era tempi, non c'era testa, non c'era modo. Le conseguenze erano solo le ultime armi che paura ed obblighi morali ci mettevano a baluardo del piacere. E le mani continuavano il percorso senza posa, invitando i nostri corpi a unirsi senza più vestiti, col freddo della notte a colpirci nella pelle e una ruvida parete fredda e polverosa di mattoni a farci da cuscino, lenzuola e sveglia del mattino dopo. E le sue mani mi stringevano i fianchi mentre io con i suoi capelli e i suoi pensieri nel viso assaporavo l'aspro sapore delle sue lacrime che scivolavano fluenti nella mia bocca. E mentre ci immergevamo sinuosi in quel lento movimento ansimando contro un muro i nostri corpi chiedevano perdono a chi non c'era ma le nostre anime al contempo succhiavano ogni goccia di rugiada di quell'amore così bello, così puro eppur così sbagliato. Ci stringevamo così forte, così intensamente che la violenza dei nostri corpi sul muro avrebbe potuto far crollare la volta celeste che spiandoci dall'alto cercava di proteggerci dalla curiosità degli aeroplani, e così facendo di quell'amore un lago di lacrime e sudore ci coricammo innamorati tra i rumori della nostra intima penombra.
Ci conoscevamo già da un po' eppure ogni volta era come fosse la prima volta, partivamo con accenni di romantica passione per finire un po' più giù. Io le toccavo i seno, lei non voleva lo facessi, spostava il viso di lato respingendomi, ma solo un po', poi accompagnava le mie mani calme di sudore e silenziose, le nascondeva tra le pieghe del maglione addosso a lei. Voleva le stringessi i capezzoli prima piano e poi deciso, lei stringeva le mie mani e si stringeva addosso a me. Chiudeva gli occhi per non guardare poi li riapriva con le lacrime, mi stampava in bocca un bacio e sorrideva d'allegria. La nostra età faceva da contorno a questa vita, i vent'anni nell'attesa di un'amore vissuto nei nascondigli al silenzio, spesso è volentieri appoggiati al muro di un vicolo, nascosto agli occhi della gente. Ci abbracciavamo per minuti intensi e immensi, e questi minuti diventavano le nostre ore. Le sue guance rosse e i suoi capelli prendevano sostanza davanti a me, mi abbracciava come fosse l'ultimo momento prima di andar via. Ci stringevamo senza accorgerci che già stavamo facendo l'amore, incuranti della notte, del freddo, della polizia. Il respiro un po' affannoso si confondeva col silenzio, coi rumori delle automobili, il ronzio di qualche bar. Le nostre mani si cercavano e si trovavano da sole, le dita già facevano l'amore, schiude do un mazzo di rose immaginario carico di passione e nostalgia. Non potevo che commuovermi guardandola negli occhi, sentivo le sue labbra palpitare, il tremolio delle sue palpebre nel burrascoso affanno di raccogliere tutto di me, quella necessità fisica di non perdermi, di non perdere contatto col mio corpo. Sapevamo di essere nel torto, sapevamo quel vicolo rappresentasse la rottura di un maledetto vincolo che avevamo firmato con la vita, con altri occhi, con altre mani, con altre pareti a guardarci, proteggerci e soffocarci. Sapevamo di appartenere ad altri e non solo a noi, eppure il bisogno di stare l'uno dentro l'altra era più forte di ogni sentimento di vergogna e smarrimento, il senso di colpa non poteva farsi breccia tra le nostre braccia. E in quel vicolo nascosto ci amavamo, ci amavamo di freddo e polvere, rischiando l'incriminazione per atti osceni e qualche linea di febbre. Con gli occhi ci eravamo mangiati e spogliati milioni di volte, con gli occhi le avevo già sfiorato i seni e gli angoli nascosti e più intimi miliardi di volte. Lei mi guardava negli occhi, poi spostava lo sguardo, si spingeva addosso alla parete di mattoni per avermi sempre più addosso. Si levava via i capelli dalla faccia, inarcava la schiena e prendeva forza, fiato e vigore per spingersi ancora un po' più in là con le intenzioni. La terra tremava insieme a noi , insieme ai nostri cuori carichi di rabbia e di rimpianti, il muro sembrava voler crollare come squarciato dall'orgasmo passionale di quel terremoto. E poi le mani, quelle mani che nel silenzio andavano sempre più giù, sempre più dove tutto era o terribilmente eccitante o terribilmente sbagliato. Non esistevano più il bianco e il nero, ciò che è giusto o ciò che è sbagliato, esistevano solo due corpi che volevano fondersi in uno, incuranti del tempo e del destino che li aveva scaraventati su pianeti diversi, in vite distanti, in esistenze contigue.
È le mani, le mie diavolo di mani che percorrevano il suo ventre per slacciarle la cintura dei pantaloni e durante il percorso si soffermavano sui fianchi, alla curvatura dei seno, nel canyon misterioso dell'ombelico. E poi le mani ancora più giù superando ogni suo vano tentativo di resistermi, laggiù dove il destino di ogni uomo e di ogni donna si compie come una battaglia di emozioni e pulsazioni, laggiù dove hanno litigato santi, poeti e navigatori, laggiù dove si scannano le religioni, laggiù dove non esistono più mappe e confini definiti. E le sue mani in principio distanti e riottose diventavano confidenti e amiche, invitano le mie al progresso nella discesa. Strusciavano i miei vestiti, si infilavano sotto la maglietta e dentro i jeans, scardinavano ogni resistenza e bottone per arrivare alla metà più ambita, quella che ci avrebbe condannato per l'ennesima volta a fare l'amore senza guardarci alle spalle, senza poterci guardare negli occhi, con l'istinto di chi ama ma non può, con la voglia di chi ci crede e va fino in fondo, fino a rischiare una polmonite, un arresto o di sentirsi la coscienza impiccata ad un lampione. Ma a noi non potevano interessare le conseguenze, non c'era tempi, non c'era testa, non c'era modo. Le conseguenze erano solo le ultime armi che paura ed obblighi morali ci mettevano a baluardo del piacere. E le mani continuavano il percorso senza posa, invitando i nostri corpi a unirsi senza più vestiti, col freddo della notte a colpirci nella pelle e una ruvida parete fredda e polverosa di mattoni a farci da cuscino, lenzuola e sveglia del mattino dopo. E le sue mani mi stringevano i fianchi mentre io con i suoi capelli e i suoi pensieri nel viso assaporavo l'aspro sapore delle sue lacrime che scivolavano fluenti nella mia bocca. E mentre ci immergevamo sinuosi in quel lento movimento ansimando contro un muro i nostri corpi chiedevano perdono a chi non c'era ma le nostre anime al contempo succhiavano ogni goccia di rugiada di quell'amore così bello, così puro eppur così sbagliato. Ci stringevamo così forte, così intensamente che la violenza dei nostri corpi sul muro avrebbe potuto far crollare la volta celeste che spiandoci dall'alto cercava di proteggerci dalla curiosità degli aeroplani, e così facendo di quell'amore un lago di lacrime e sudore ci coricammo innamorati tra i rumori della nostra intima penombra.
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