Lo specchio di Vlicha (cap.1 di 3)
di
Diagoras
genere
sentimentali
“L'ultima cosa che mi preoccupa è di essere coerente con me stesso.”
(A. Breton)
Questa è una storia strana.
Decisamente.
Indiscutibilmente.
Ma, per quanto strana possa essere, forse non è nemmeno una storia.
Credo che l’unica strada a mia disposizione, per cercare di capirci qualcosa, sia quella di raccontarvi i fatti: se di fatti possiamo parlare poi, perché nemmeno di questo sono sicuro si tratti.
Comunque di una cosa sono certo: di non essere pazzo.
Assolutamente no.
Potete dirmi di tutto, ma che io sia impazzito è escluso.
Non starei qui a raccontarvi questa storia, se mi avesse dato di volta il cervello.
O magari sì: ve la racconterei convinto che tutto sia accaduto realmente e, quando voi mi direte che sono diventato matto, avrei allora la conferma che i pazzi siate voi e non io.
E mi crogiolerei beato in questa illusione.
L’illusione di essere circondato da una moltitudine di persone con le rotelle del cervello fuori posto, e di essere rimasto l’unico con un briciolo di materia grigia funzionante.
Ma tutte queste chiacchiere sono inutili.
Questa è una storia strana, ve l’ho detto e ve lo ripeto.
Giudicatela voi, senza pregiudizi.
Mi affido alla vostra onestà intellettuale.
“Perché per ogni età c'è un sogno che muore, o uno che viene alla luce.”
(A.O’Shaugnessy)
Il problema a monte è lo Specchio.
Un semplice, normale e maledettissimo specchio.
Lo specchio del bagno di casa mia, per la precisione.
Non quello che si trova nell’anta dell’armadio, e nemmeno quello che sovrasta il mobile nello stretto corridoio.
Anche quelli sono specchi, va bene, ma non sono lo Specchio, quello del bagno, quello così vecchio da avere i bordi anneriti, e capace, in alcuni punti, di distorcere impercettibilmente le immagini che riflette.
Di questo Specchio sto parlando.
Non degli altri.
Il problema è solamente quello Specchio.
A Vlicha io sono nato: un piccolo grumo di case sulla spiaggia, su quest’isola remota e sperduta nell’Egeo.
E a Vlicha sono cresciuto, andato per qualche anno a scuola, iniziato a lavorare, a fare il pescatore, come prima di me mio padre, e ancora prima di lui mio nonno.
Di fatto, da Vlicha non mi sono mai allontanato.
E non ho rimpianti per questo.
Vlicha è stata quella piccola porzione di mondo che ha visto trascorrere la mia esistenza: è stata la mia culla, è la mia casa, e sarà la mia tomba.
Amen.
Era scritto fosse così.
Vivo ancora nella modesta abitazione dei miei genitori, in quelle semplici stanze che mi hanno visto nascere prima, farmi uomo poi e diventare vecchio adesso.
E ci vivo, ormai da molti anni, da solo, dopo la morte dei miei genitori.
Da solo, perché l’unica cosa che non sono riuscito a trovare a Vlicha è stata una donna, una moglie che condividesse con me le gioie ed i dolori della vita.
Ci andai vicino, per la verità, tanti anni fa.
Molto vicino.
La amavo da impazzire: ma non fu sufficiente.
E’ andata così, che ci volete fare.
Ci si fa una ragione per tutto, alla fine.
Ma non divaghiamo.
Il problema, come vi dicevo, si è presentato questa mattina, una mattina esattamente come tutte le altre della mia vita da scapolo quasi ottantenne.
Dunque.
Andiamo con ordine.
Mi sono alzato presto, attorno alle sei, come faccio sempre d’estate.
Mi piace uscire quando l’aria è ancora respirabile e la brezza mi rinfresca e mi tonifica. Mi piace arrivare presto alla taverna del paese e prendermi il primo caffè della giornata, fare due chiacchiere con gli altri vecchi che come sono mattinieri, sentire i commenti dei pescatori che tornano con le barche dopo una notte sul mare.
A Vlicha non è che ci sia molto altro da fare, in effetti.
Una vita monotona e tranquilla, niente di più.
Insomma, mi sono alzato e, come sempre, sono andato in bagno per farmi la barba.
Ho preso il rasoio, appoggiandolo sul bordo del lavandino, e poi la bomboletta della schiuma; con l’acqua calda mi sono bagnato il viso ed ho applicato la morbida schiuma sulle guance e sul mento.
E fin qui, nulla di strano.
Tutto come al solito.
Lo specchio (che ancora non è diventato lo Specchio) mi rimanda l’immagine del mio volto, delle mie rughe, dei miei radi capelli, bianchi come la spuma delle onde.
Mi ricorda che sono vecchio, e che il capolinea è vicino: Lui chiamerà il mio nome e Vlicha avrà un abitante in meno.
Niente di particolare, in definitiva.
Così è sempre andato il mondo.
E così sempre andrà.
Insomma, afferro il bilama e lo faccio scorrere sulla guancia sinistra: inizio sempre dalla sinistra, poi passo alla destra, quindi mi rado il mento e, per ultimi, i baffi.
Qualunque variazione potrebbe rovinarmi la giornata.
Dopo una vita di barbe mattutine, i gesti sono divenuti talmente meccanici da essere ormai quasi un rituale.
Sento il caratteristico rumore dei peli che vengono rasati e penso quanto siano comodi i rasoi di oggi, con i quali non ti tagli praticamente mai.
Ed è in questo preciso momento che lo specchio diventa lo Specchio.
«Essere giovani vuol dire tenere aperto l'oblò della speranza, anche quando il mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro.»
(B. Dylan)
Sulla mia guancia appare un puntino rosso, che diventa subito una goccia.
Mi sono tagliato, cazzo !
Evidentemente mi trema la mano, perché con un bilama è quasi impossibile ferir…
Lo Specchio mi dice che quello che tengo in mano non è un bilama, ma un vecchio rasoio a lama libera, uno di quelli che usavo da giovane, e con il quale mi portavo regolarmente via mezza faccia ad ogni rasatura.
Guardo incuriosito lo strumento che ho in mano, e mi trovo d’accordo con lo Specchio: è proprio il rasoio che usavo cinquant’anni fa.
E da dove è mai spuntato, mi chiedo divertito.
Perplesso, l’occhio mi va al bordo del lavandino e, seconda stranezza, la bomboletta di schiuma non c’è più: ora fa bella mostra di sé un pennello da barba, ancora sporco di sapone.
A parte che anche il pennello non lo uso più da una vita, e tralasciando il fatto che l’ultimo pennello che ho usato lo buttai non mi ricordo più nemmeno quando, immagino capirete il mio sconcerto di fronte a questa situazione.
Accosto il viso allo Specchio per controllare se il sangue si è fermato e… e lo Specchio non è più annerito nei lati e non distorce più le immagini !!
Sembra essere diventato molto più nuovo, essersi scrollato dal groppone qualche decina d’anni.
Ed è a questo punto che inizio a sentirmi malfermo e traballante sulle gambe.
Anche perché ho la sensazione che ci sia qualcosa di ancora più diverso, qualche mutazione ancora più straordinaria, e che non siano solo il rasoio, il pennello e lo Specchio a fare la differenza con pochi istanti prima.
C’è qualche altra cosa che mi sta sfuggendo. ma non so di cosa si tratti.
Mi guardo la guancia ferita.
Almeno il sangue ora non esce più e…
E il cuore mi si ferma.
Non batte più, è andato in vacanza, o forse ha solamente deciso che si è stancato di lavorare per me dopo così tanti anni di onorata carriera.
Ora vedo quel qualcosa che mi sfuggiva, che sapevo esserci ma che non riuscivo ad identificare.
Era talmente evidente che non l’avevo notato.
Lo Specchio mi dice che non sono più io.
Cioè, che sono io, ma non l’io di adesso, con le rughe e la pelle cascante, ma l’io di allora, con i capelli folti e neri, la pelle liscia e giovanile, lo sguardo vivo e penetrante, senza doppio e triplo mento.
E’come guardare una fotografia di quando avevo venticinque anni: solo che il soggetto di una fotografia non si muove, non si sposta, non si scruta.
Mi guardo le mani, convinto di stare ancora a dormire, e di sognare il tempo che fu.
Ma le mani sono larghe e abbronzate, senza calli e senza artrite, e nello Specchio vedo riflesso anche il mio petto, muscoloso ed atletico.
Il cuore, fortunatamente, con qualche difficoltà, accenna a tornare al lavoro.
Per la meraviglia, il rasoio, quel rasoio del passato, mi è caduto in terra.
Con attenzione e molto lentamente mi piego sulle ginocchia artritiche per raccoglierlo.
Ma le ginocchia non mi dolgono e non scricchiolano, come sempre fanno ad ogni mio piegamento: le sento elastiche e flessibili, tanto che mi alzo e mi riabbasso quattro o cinque volte senza alcuno sforzo né dolore.
Sono ginocchia giovani e perfettamente efficienti.
Ora direte che io mi sono bevuto il cervello.
Ed anche con un’unica sorsata.
Ma aspettate a dirlo, perché la storia non è ancora finita.
Per nulla.
- continua -
diagorasrodos@libero.it
(A. Breton)
Questa è una storia strana.
Decisamente.
Indiscutibilmente.
Ma, per quanto strana possa essere, forse non è nemmeno una storia.
Credo che l’unica strada a mia disposizione, per cercare di capirci qualcosa, sia quella di raccontarvi i fatti: se di fatti possiamo parlare poi, perché nemmeno di questo sono sicuro si tratti.
Comunque di una cosa sono certo: di non essere pazzo.
Assolutamente no.
Potete dirmi di tutto, ma che io sia impazzito è escluso.
Non starei qui a raccontarvi questa storia, se mi avesse dato di volta il cervello.
O magari sì: ve la racconterei convinto che tutto sia accaduto realmente e, quando voi mi direte che sono diventato matto, avrei allora la conferma che i pazzi siate voi e non io.
E mi crogiolerei beato in questa illusione.
L’illusione di essere circondato da una moltitudine di persone con le rotelle del cervello fuori posto, e di essere rimasto l’unico con un briciolo di materia grigia funzionante.
Ma tutte queste chiacchiere sono inutili.
Questa è una storia strana, ve l’ho detto e ve lo ripeto.
Giudicatela voi, senza pregiudizi.
Mi affido alla vostra onestà intellettuale.
“Perché per ogni età c'è un sogno che muore, o uno che viene alla luce.”
(A.O’Shaugnessy)
Il problema a monte è lo Specchio.
Un semplice, normale e maledettissimo specchio.
Lo specchio del bagno di casa mia, per la precisione.
Non quello che si trova nell’anta dell’armadio, e nemmeno quello che sovrasta il mobile nello stretto corridoio.
Anche quelli sono specchi, va bene, ma non sono lo Specchio, quello del bagno, quello così vecchio da avere i bordi anneriti, e capace, in alcuni punti, di distorcere impercettibilmente le immagini che riflette.
Di questo Specchio sto parlando.
Non degli altri.
Il problema è solamente quello Specchio.
A Vlicha io sono nato: un piccolo grumo di case sulla spiaggia, su quest’isola remota e sperduta nell’Egeo.
E a Vlicha sono cresciuto, andato per qualche anno a scuola, iniziato a lavorare, a fare il pescatore, come prima di me mio padre, e ancora prima di lui mio nonno.
Di fatto, da Vlicha non mi sono mai allontanato.
E non ho rimpianti per questo.
Vlicha è stata quella piccola porzione di mondo che ha visto trascorrere la mia esistenza: è stata la mia culla, è la mia casa, e sarà la mia tomba.
Amen.
Era scritto fosse così.
Vivo ancora nella modesta abitazione dei miei genitori, in quelle semplici stanze che mi hanno visto nascere prima, farmi uomo poi e diventare vecchio adesso.
E ci vivo, ormai da molti anni, da solo, dopo la morte dei miei genitori.
Da solo, perché l’unica cosa che non sono riuscito a trovare a Vlicha è stata una donna, una moglie che condividesse con me le gioie ed i dolori della vita.
Ci andai vicino, per la verità, tanti anni fa.
Molto vicino.
La amavo da impazzire: ma non fu sufficiente.
E’ andata così, che ci volete fare.
Ci si fa una ragione per tutto, alla fine.
Ma non divaghiamo.
Il problema, come vi dicevo, si è presentato questa mattina, una mattina esattamente come tutte le altre della mia vita da scapolo quasi ottantenne.
Dunque.
Andiamo con ordine.
Mi sono alzato presto, attorno alle sei, come faccio sempre d’estate.
Mi piace uscire quando l’aria è ancora respirabile e la brezza mi rinfresca e mi tonifica. Mi piace arrivare presto alla taverna del paese e prendermi il primo caffè della giornata, fare due chiacchiere con gli altri vecchi che come sono mattinieri, sentire i commenti dei pescatori che tornano con le barche dopo una notte sul mare.
A Vlicha non è che ci sia molto altro da fare, in effetti.
Una vita monotona e tranquilla, niente di più.
Insomma, mi sono alzato e, come sempre, sono andato in bagno per farmi la barba.
Ho preso il rasoio, appoggiandolo sul bordo del lavandino, e poi la bomboletta della schiuma; con l’acqua calda mi sono bagnato il viso ed ho applicato la morbida schiuma sulle guance e sul mento.
E fin qui, nulla di strano.
Tutto come al solito.
Lo specchio (che ancora non è diventato lo Specchio) mi rimanda l’immagine del mio volto, delle mie rughe, dei miei radi capelli, bianchi come la spuma delle onde.
Mi ricorda che sono vecchio, e che il capolinea è vicino: Lui chiamerà il mio nome e Vlicha avrà un abitante in meno.
Niente di particolare, in definitiva.
Così è sempre andato il mondo.
E così sempre andrà.
Insomma, afferro il bilama e lo faccio scorrere sulla guancia sinistra: inizio sempre dalla sinistra, poi passo alla destra, quindi mi rado il mento e, per ultimi, i baffi.
Qualunque variazione potrebbe rovinarmi la giornata.
Dopo una vita di barbe mattutine, i gesti sono divenuti talmente meccanici da essere ormai quasi un rituale.
Sento il caratteristico rumore dei peli che vengono rasati e penso quanto siano comodi i rasoi di oggi, con i quali non ti tagli praticamente mai.
Ed è in questo preciso momento che lo specchio diventa lo Specchio.
«Essere giovani vuol dire tenere aperto l'oblò della speranza, anche quando il mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro.»
(B. Dylan)
Sulla mia guancia appare un puntino rosso, che diventa subito una goccia.
Mi sono tagliato, cazzo !
Evidentemente mi trema la mano, perché con un bilama è quasi impossibile ferir…
Lo Specchio mi dice che quello che tengo in mano non è un bilama, ma un vecchio rasoio a lama libera, uno di quelli che usavo da giovane, e con il quale mi portavo regolarmente via mezza faccia ad ogni rasatura.
Guardo incuriosito lo strumento che ho in mano, e mi trovo d’accordo con lo Specchio: è proprio il rasoio che usavo cinquant’anni fa.
E da dove è mai spuntato, mi chiedo divertito.
Perplesso, l’occhio mi va al bordo del lavandino e, seconda stranezza, la bomboletta di schiuma non c’è più: ora fa bella mostra di sé un pennello da barba, ancora sporco di sapone.
A parte che anche il pennello non lo uso più da una vita, e tralasciando il fatto che l’ultimo pennello che ho usato lo buttai non mi ricordo più nemmeno quando, immagino capirete il mio sconcerto di fronte a questa situazione.
Accosto il viso allo Specchio per controllare se il sangue si è fermato e… e lo Specchio non è più annerito nei lati e non distorce più le immagini !!
Sembra essere diventato molto più nuovo, essersi scrollato dal groppone qualche decina d’anni.
Ed è a questo punto che inizio a sentirmi malfermo e traballante sulle gambe.
Anche perché ho la sensazione che ci sia qualcosa di ancora più diverso, qualche mutazione ancora più straordinaria, e che non siano solo il rasoio, il pennello e lo Specchio a fare la differenza con pochi istanti prima.
C’è qualche altra cosa che mi sta sfuggendo. ma non so di cosa si tratti.
Mi guardo la guancia ferita.
Almeno il sangue ora non esce più e…
E il cuore mi si ferma.
Non batte più, è andato in vacanza, o forse ha solamente deciso che si è stancato di lavorare per me dopo così tanti anni di onorata carriera.
Ora vedo quel qualcosa che mi sfuggiva, che sapevo esserci ma che non riuscivo ad identificare.
Era talmente evidente che non l’avevo notato.
Lo Specchio mi dice che non sono più io.
Cioè, che sono io, ma non l’io di adesso, con le rughe e la pelle cascante, ma l’io di allora, con i capelli folti e neri, la pelle liscia e giovanile, lo sguardo vivo e penetrante, senza doppio e triplo mento.
E’come guardare una fotografia di quando avevo venticinque anni: solo che il soggetto di una fotografia non si muove, non si sposta, non si scruta.
Mi guardo le mani, convinto di stare ancora a dormire, e di sognare il tempo che fu.
Ma le mani sono larghe e abbronzate, senza calli e senza artrite, e nello Specchio vedo riflesso anche il mio petto, muscoloso ed atletico.
Il cuore, fortunatamente, con qualche difficoltà, accenna a tornare al lavoro.
Per la meraviglia, il rasoio, quel rasoio del passato, mi è caduto in terra.
Con attenzione e molto lentamente mi piego sulle ginocchia artritiche per raccoglierlo.
Ma le ginocchia non mi dolgono e non scricchiolano, come sempre fanno ad ogni mio piegamento: le sento elastiche e flessibili, tanto che mi alzo e mi riabbasso quattro o cinque volte senza alcuno sforzo né dolore.
Sono ginocchia giovani e perfettamente efficienti.
Ora direte che io mi sono bevuto il cervello.
Ed anche con un’unica sorsata.
Ma aspettate a dirlo, perché la storia non è ancora finita.
Per nulla.
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