Nei Dettagli si nasconde il Diavolo

di
genere
etero

INTERLUDIO 2

I suoi piedi, nell’aria calda della stanza solo il morbido torpore del vecchio parquet riusciva ad attutire lo scintillio rosso perfetto delle sue unghie, impedendogli di valicare il proprio confine sensoriale per trasformarsi, nelle mie orecchie, in un clangore assordante.


PRELUDIO

32 anni prima.

La mia attenzione venne attirata da quella macchia nera, subito sotto il mio occhio. In un primo momento ebbi difficoltà a distinguerla dal resto della mattonella, sbiadita com’era da migliaia di lavaggi a base di detersivi scadenti. Tuttavia era lì, un frammento di pietra nera impastato con cemento e un caos di altri scarti di cava a dare forma ad una mattonella a buon mercato in graniglia. Al centro di quel lago nero striato di candeggina, un minuscolo frammento di ammonite il cui campo gravitazionale mi catturò precipitandomi, prima lentamente, poi sempre più in fretta nella sua impossibile geometria frattale.

Con le dita morbide da bambino ne sfiorai le spire levigate mentre scivolavo vorticosamente verso un nucleo caotico dal quale, dopo millisecondi lunghi come eoni, ne venivo miseramente risputato fuori.

Il freddo del pavimento contro la mia guancia in una pozzanghera di saliva tiepida, la suola di gomma a carro armato della Timberlad sulla nuca, il rivolto chiaro dei jeans, espediente di una mamma per vestire il quarto figlio che cresceva troppo in fretta in altezza, peso e merdosissima prepotenza.

A nove anni suonati mi ero infine accorto dei dettagli e di quanto potessero diventare importanti quando un energumeno di un metro e quaranta e cinquantacinque chili decide che la lettura dei fumetti è da considerarsi intollerabile atto di insubordinazione.

I dettagli ti catturano e ti offrono un rifugio.

Ora il braccio piegato all’indietro in modo innaturale trasmetteva una sensazione che non era più dolore, ma anche essa un’ammonite, un fossile, un residuo calcificato esposto nella teca di un museo.

Ci girai intorno per osservarne i dettagli. Quel dolore che mi aveva fatto piangere e urlare pietà,osservato da vicino, una volta tagliati via come strisce di grasso, paura e panico, mi appariva per quello che era: una sensazione intensa, genericamente spiacevole, composta da una miscela confusa di compressione, tensione e torsione, che le sinapsi, malevoli, si rimpallavano tra loro, gonfiandole micron dopo micron, fino ad urlare l’inganno al cervello.

La consapevolezza non ne cambiava la natura, ma di certo ne mutava l’urgenza.

Sentì finalmente i muscoli rilassarsi, il respiro placarsi.

Riuscivo ad ascoltare le risate dei bambini che dalle 10:30 alle 10:45 alternavano il piacere del panino olio, pomodoro e origano con la piccola rissa e il sopruso.

Le folte sopracciglia di Salvatore, il perfido portatore di Timberland, fecero una rapida flessione verso il basso, arricciando interrogativamente la pelle sulla fronte. Il suo sguardo esitò per qualche istante sul mio corpo schiantato al suolo, la diagnosi fu che o ero morto o mi ero arreso, in entrambi i casi non ero più divertente.

Abbandonò il braccio, la resilienza di tendini e cartilagini mi donarono un’ultima scossa. Rimasi accasciato ancora alcuni istanti, come per mantecarmi in questo nuovo stato sensoriale. In fine, lentamente mi sollevai e mi misi a sedere.

Rimasi piantato lì, in mezzo al corridoio della mia scuola elementare di provincia. La mia maglietta bianca, macchiata di qualcosa, ostentava al centro il grosso logo dell’Atari, al cinema davano Scarface, Flashdance e Il Ritorno dello Jedi e io avevo appena scoperto che i dettagli possono salvarti la pelle.

Salvatore non avrebbe dato più fastidio a nessuno, non a causa di una mia gloriosa vendetta, ma perché quell’estate tutta la sua famiglia emigrò in Svizzera. Nel dramma della cosa, non nego di aver provato una certo sollievo.

Fu quello l’ultimo episodio di violenza della mia vita. Nessun Salvatore è mai più riuscito a mettermi con la faccia a terra, non ho mai dato un pugno, una spinta o anche solo un ceffone. Non è mai stato necessario.

Intendiamoci, non che avessi acquisito alcun superpotere, si sa, quelle cose succedono solo con i ragni radioattivi o con i frammenti di meteorite e di certo non con le mattonella in graniglia. Mi era semplicemente capitato di scoprire una prospettiva differente dalla quale osservare gli eventi, in apparenza più distaccata, ma nella sostanza molto più intima. Avevo scoperto la passione per i dettagli e il piacere che si prova nel perdersi in quel tiepido oceano sensoriale.

Una scoperta che trasformò la mia infanzia in un immenso parco giochi pieno di novità nascoste letteralmente sotto ogni sasso o dietro ogni muretto a secco.

Con la pubertà arrivò la scoperta del sesso, un ribollire di odori, sapori e colori che sembrava non aver alcun argine. L’orgasmo si era rivelato non una sensazione disordinata, non un machete che tagliava alla rinfusa avido di carne da lacerare, al contrario si era rivelato una lama affilatissima che fendeva l’aria, dilatava la mente, amplificava le sensazioni e vi annegava il cervello.



INTERLUDIO 1

32 anni dopo.

In un caldo pomeriggio di Luglio, ero su un treno Frecciaqualcosa diretto a Bologna.

I treni erano luoghi ideali per le mie scorribande sensoriali, ma a volte ne erano così sovraccarichi da farmi rischiare il cortocircuito.

“Prossima stazione Firenze, il treno arriverà con 15 minuti di ritardo, ci si scusiamo con i viaggiatori per il disagio”

Che senso ha scusarsi per il ritardo? Le scuse presuppongono dispiacere e contrizione e quella voce non lasciava trasparire ne l’uno ne l’altra.

All’arrivo i vagoni asettici dell’alta velocità ricordano il suq di Damasco, brulicanti di corpi e voci che si confondono e si mescolano fino a formare un unico suono sempre identico a se stesso .

Ero seduto in una carrozza di seconda classe, su una di quelle poltroncine blu in gomma ad alta densità, la cui ergonomia ed accoglienza ricorda quella di un lettino da obitorio.

Non so come ma dovevo aver autorizzato la donna davanti a me a parlarmi della sua filosofia sui sistemi di condizionamento domestici.

Mi fissava con piccoli occhi color nocciola, ridotti a fessure dallo sforzo di dare enfasi ad una conversazione che non aveva alcuna ragione di averne.

“Sono gli sbalzi di temperatura sa! … perché vede, alla mia età il condizionatore è un sciagura. E non è che ci sia molto da fare, tocca scegliere se morire per il caldo o per un bronchite. Ha sentito i telegiornali? Ha sentito quanti anziani muoiono in questa stagione? Si è mai chiesto perché?”

Cercai di assumer l’espressione più seria e corrucciata che riuscì a pescare nel mio repertorio, piegai la testa di lato, la fissai per un istante, quindi mi sporsi in avanti circospetto e sussurrai:

“I condizionatori?”

Mi ritrovai il suo dito ossuto puntato contro il viso e, con un tono esultante da tombola parrocchiale, mi accolse nel club dei congiurati della termoidraulica:

“Esatto! I condizionatori!”

La cospiratrice di Trenitalia avrà avuto una settantina d’anni, i capelli di un indefinibile arancio-ruggine, un vestito a fiori blu, le unghie leggermente ricurve smaltate di un rosa perlato, la fede giallo ora all’anulare, la pelle delle mani sottile come carta velina, leggermente raggrinzita sul dorso spolverato da una miriade di piccole macchie scure. Le labbra, ravvivate da un velo di rossetto, erano sottilissime e non riuscivano a coprire un sorriso di un bianco innaturale, nel quale, per qualche istante, ebbi l’impressione di scorgere un numero sospetto di incisivi.

La lasciai alla sua corsa di parole e di ricordi e mi feci rapire dal paesaggio che al di là del vetro scorreva veloce diluendosi nei colori del tramonto. Vi lasciai annegare i miei pensieri che per un istante sembrarono disperdersi tra le colline e i campi coltivati a granturco, ma poi, inevitabilmente, finirono per coagularsi ancora intorno a Lei.

INTERLUDIO 2

Il nodo.

Le piccole unghie smaltate di Mellino, Pondulo, Trillice e Illice, invidiose come sorellastre, erano riluttanti ad annunciare la perfezione rosso fuoco che decorava gli Alluci.

Il ritmo pigro del ventilatore da soffitto si propagava attraverso l’aria torrida della camera da letto, rimbalzava contro i fiori sbiaditi della carta da parati e naufragava tra le lenzuola madide di sudore.

Sotto i Suoi piedi il parquet di rovere, percorso da mille cicatrici, non era ancora riuscito dimenticare il caldo torrido del pomeriggio e ad ogni movimento, il tepore umido delle Sue minuscole dita riusciva a sopravvivere solo per pochi istanti sul legno lucido prima di disperdersi nell’aria satura delle nostre umidità.

Un nodo a gassa d’amante Le bloccava i polsi in una corda di cotone rosso vermiglio da sei millimetri.

Il moschettone fissato sul soffitto tendeva la corda e la corda tendeva il Suo corpo scoprendo le costole sottili contro la pelle.

Una benda di raso rosso intorno agli occhi.

La Ballgag nera in bocca premuta subito dietro i denti a farne risaltare il candore.

Il tanga di pizzo rosso costellato da una miriade di minuscoli fiori ricamati in una trama finissima, che convergeva in una piccola tasca, esattamente all’altezza del clitoride. Al suo interno era alloggiato un piccolo stimolatore elettrico a sua volta snodo per un cavo sottile che percorreva un breve tratto prima di raggiungere un ovetto bianco, comodamente accoccolato in fondo alla Sua vagina.

Questo Intrico di corruzione elettronica era sotto il dispotico governo di un piccolo telecomando rosso.

Un piccolo telecomando rosso che in quel momento era nelle mie mani.

Io.

Nudo, nella penombra, con il culo appiccicato alla plastica della sedia, ero sicuro che nessuna cravatta sarebbe riuscita a rendermi credibile come sofisticato amante miliardario.

Nonostante tutto, ero a mio agio di fronte a Lei, la pelle chiara, vestita solo di un tanga e di una benda rossa, appesa per le mani ad una corda legata al soffitto.

Mi accorciava il fiato osservarla dondolarsi pigramente, il sedere appena sporgente per provocarmi, in una sequenza di fotogrammi perfetti, espressione compiuta di un gioco iniziato mesi prima e costruito pazientemente, insieme, giorno dopo giorno.



E ora eravamo qui, il quadro infine composto.

La luce del pomeriggio filtrava attraverso gli scuri di legno laccati di bianco e proiettava sulla Sua pelle le rose ricamate sulle tende di lino.

Sentivo il suo desiderio tradito dal fremito del respiro.

Nervoso, mi passavo tra le dita quel pezzo di plastica rosso. Sentivo sotto i polpastrelli lo spessore dei quattro tasti: stimolatore clitorideo, ovulo vaginale, regolatore di intensità, selettore d’impulso.

Esercitai una leggera pressione sul primo tasto, il più innocuo secondo il manuale, un ronzio improvviso emerse dal silenzio, il tempo di poche scariche tra le sinapsi e la Sua schiena si inarcò bruscamente.

Un gemito, più di sorpresa che di eccitazione venne soffocato dal silicone della gagball che dai fori da 5 millimetri sfiatò saliva mista a desiderio.

Con un piede scalciò il pavimento.

Ma fu solo un istante.

Poi comprese la sensazione, ne definì l’ampiezza e la lasciò libera di scivolare dentro di se, la tensione dei muscoli lentamente si sciolse e, a tradire l’emozione appena trascorsa, rimase solo il respiro leggermente accelerato.

La fissai negli occhi che nessuna benda poteva nascondermi.

Sentì l’eccitazione divorare gli ultimi brandelli di timore.

Una nuova pressione rese il ronzio più intenso.

Questa volta Lei non si fece cogliere di sorpresa, al contrario, sembrò concentrarsi sulla sensazione, metterla a fuoco. La vidi stringere le mani intorno alla corde, contrarre l’addome e stringere le ginocchia come per contenere e comprimere il piacere nel ventre. I denti affondarono più a fondo sulla superficie morbida della palla.

Con una nuova impennata la vibrazione sembrò lambire il fondo scala.

Il respiro che fino a quel momento aveva ricacciato in fondo all’esofago, straripò oltre l’argine, invadendole la cavità orale e i setti nasali per diventare un sibilo soffocato al di là dell’ingombro di silicone.

I capelli madidi di sudore premuti contro la fronte.

Le contrazioni dell’addome si propagarono per tutto il corpo, seguendo la curva della schiena fino al collo sottile, costringendo la testa ad movimento ondulatorio al ritmo di sospiri simili ad un mantra.

Con un'ultima pressione del polpastrello attivai il secondo bottone, l’ovulo esplose in profondità dentro di Lei, in una asincronia perfetta rispetto al primo. Scoordinate onde sussultorie si dibattevano nella sua intimità, le une contro le altre. Il ronzio della macchina elettrica disperato come il verso di un animale moribondo.

I gemiti diventarono urla che provavano invano ad articolarsi in parole strozzate sul nascere dalla gagball.

Scalciò all’indietro, il ginocchio rivolto verso l’interno, come a trattenere l’orina. Si protese con il busto in avanti lasciando le braccia sollevate, spingendo la testa e il collo verso il pavimento. I piedi scivolavano per terra senza la pretesa di fornire alcun supporto, arrancando ora con la pianta ora con le nocche contro il parquet.

Fu allora che mi alzai, sopraffatto dalle immagini, dall’odore della sua pelle, dai rumori, dal ronzio disperato che Le squassava il clitoride e la fica.

Senza toglierLe gli occhi di dosso, camminai dietro di Lei, afferrai la testa del “gatto” che sporgeva dal cesto a ridosso della parete.

Le contrazioni della schiena si trasmettevano alle natiche che, si muovevano sensualmente l’una contro l’altra spinte dall’urgenza imposta dal mio aguzzino elettronico.

Esitai solo un istante, poi si sentì solo il rumore sferzante delle nove code di cuoio contro la Sua pelle, un rumore sordo e pulitissimo che Le lasciò nove nitidi segni rossi sulla natiche.

Trasalì con tutto il corpo.

“Stai Ferma!”

Le imposi.

Per un attimo non riconobbi la mia voce, non scorgevo alcuna familiarità in quel suono basso e roco che mi rimbombò nella cassa toracica.

Lei, al contrario, come per una risposta ipnotica alla password dell’ipnotista, si placò, improvvisamente disinteressata alla corsa senza fiato dello stimolatore dentro di Lei, allargò leggermente le gambe, puntò i piedi contro il pavimento e sporse oscenamente il sedere all’indietro, un’impudica esortazione che scatenò in me un’impudica reazione.

Colpì nuovamente e poi ancora, intrecciando sulla pelle segni con segni. La sua voce soffocata esplodeva ad ogni mio colpo.

Accostai le mie labbra al suo orecchio sinistro.

“Puttana!”

Le sussurrai

Ricevendo in cambio un suono che aveva l’aria di un tentativo di articolare una conferma.

La cinsi intorno ai fianchi con un braccio, portai le labbra all’orecchio, facendo scivolare la lingua lungo i rigidi percorsi cartilaginei che portavano alla morbidezza del suo piccolo lobo sinistro.

Con la mano sinistra Le afferrai le natiche, saggiandole ed esplorandole nel modo più irriguardoso che riuscì. Affondai le dita. Obbediente Lei inarcò la schiena per assecondare la mia ricerca. Sentì in fine la rosa dello sfintere fradicia di umori. Premetti la punta del dito medio e mi feci strada tra le sue fitte pieghe. Sentì la morsa calda dei suoi muscoli contrarsi e avvolgermi . Percepì la purezza del suo piacere. Ma quel giorno il piacere era destinato a subire la corruzione del dolore. L’anulare affiancò il medio, e un vocalizzo allarmato sputato fuori con la saliva, mi fece capire che avevo preteso il giusto dazio per quel confine.

Scivolai completamente dentro di Lei, senza nessuna dolcezza, premetti il mio viso contro il suo, le passai la lingua sulla nuca imperlata di sudore.

Un morso leggero subito dietro l’orecchio, sulla carne tesa del collo.

Posai le labbra subito sopra il suo mento zuppo della saliva calda e viscosa che la gagball Le impediva di inghiottire.

“Allora? ti piace puttana? Era questo che volevi troia?”

Le morsi il labbro inferiore. La afferrai per i capelli e le tirai indietro la testa. Con le dita feci scattare il fermo che liberò la tensione della palla di silicone che cadde a terra con un rumore sordo. Le sule labbra si tuffarono sulle mie, la Sua saliva mi riempì la bocca.

Le afferrai un seno con una mano mentre con l’altra scivolai in basso, sfiorai il pizzo delle mutandine, mi feci strada fino al clitoride ancora scosso dalle vibrazioni.

“Cosa hai detto puttana?”

“Scopami per favore scopami!”

Le infilai due dita in bocca che lei accolse voracemente leccandone la pelle. Le sentivo scivolare sulla sua lingua mentre lei continuava a succhiare e a muovere le labbra in una fellatio spudorata.

Ricominciai a muovere le dita che avevo lasciato immobili in fondo al culo, Lei mi incitava sfacciatamente

“Sì così! Fottimi fottimi!

Spinsi ancora più in fondo. Le ruotai per avere una presa migliore e Lei ebbe un sussulto.

Attraverso il sottile strato di pelle che lo separava, sfiorai l’ovulo che vibrava impazzito in fondo alla Sua vagina.

La Sua lingua contro la mia, il Suo sudore sulla mia pelle, le scariche dei Suoi orgasmi.

Rallentai dolcemente il ritmo. Le mie dita abbandonarono il Suo corpo in cambio della promessa di qualcosa di nuovo.

Le feci scivolare le mani lungo i fianchi fino ad afferrare il bordo delle mutandine. Il movimento, fluido all’inizio, si arrestò per la riluttanza dell’ovulo ad abbandonare quel lago di tepore.

Sentì i muscoli dell’addome e della schiena contrarsi, la vagina gonfia e fradicia di umori, cominciò a dilatarsi per fare posto all’ovulo che lentamente riempì lo spazio tra le labbra.

Lo afferrai tra le dita, saggiandone la consistenza gommosa, ancora in preda alle vibrazioni e lo lasciai cadere per terra.

Osservai il rosa brillante tra le labbra gonfie della figa. Vi feci scivolare dentro due dita senza sforzo che quindi diventarono tre. Con il pollice, tornai a violarle l’ano.

La sentì tremare.

“Dimmi che cosa vorresti ora”

Sembrò non avermi neanche ascoltato.

“Scopami! Voglio il tuo cazzo!”

“No! voglio che tu mi dica tutto, voglio tu mi dica cosa vorresti”

“ Il cazzo… il cazzo..”

“Voglio sapere quello che faresti per me ora… dimmelo”

“Sì… sbattimi contro il muro, fottimi contro il muro, inculami … inculami…

Voglio leccarti le palle i ginocchio

Voglio che mi lecchi l’ano e voglio leccare il tuo

Infilami un vibratore nella figa mentre mi inculi

Sborra sul parquet, afferrami per i capelli e obbligami a leccare come una cagna”

Era come se stesse volando priva di ogni zavorra, come se i Suoi desideri si stessero fondendo con i miei, senza che avesse più senso dire dove finivo io e cominciava Lei.

“Voglio che mi porti in un parcheggio di un autogrill di notte e mi spogli davanti a tutti

Che mi obblighi a mettermi in ginocchio a prenderlo in bocca da te e da ognuno di loro…

Che permetti a tutti di fottermi, di riempirmi di sborra in bocca e nella figa!”

Sentì il suo addome contrarsi in una serie infinita di orgasmi.

I testicoli mi facevano male da impazzire pronti a scaricare fino all’ultima goccia

Lanciò un urlo quando sfilai nuovamente le dita.

Afferrai il cazzo durissimo e… scivolai dentro di Lei, dilatata come non l’avevo mai sentita, impazzito di eccitazione, riuscì a spingere fino in fondo i testicoli avvolti dalle Sue labbra. La afferrai per i fianchi, la montai, ancora e ancora, con rabbia. In fine, pochi colpi, forti e un’esplosione inesauribile di sborra. La sentì esalare un ultimo respiro, perso nel mio.

Ero liquefatto dentro di lei.

Mi sfilai esausto, il cazzo ricoperto di sperma e altri mille umori.

La Sua testa reclinata in avanti, i capelli Le coprivano la fronte, fradicia. La Benda ancora sul viso bagnata di sudore.

Perfetta, ancora una volta.

La afferrai per i capelli. Le presentai il mio cazzo. Sapevo che adorava farlo. Cominciò a baciarlo, ad accoglierlo tra le Sue labbra, sentivo la dolcezza della Sua lingua avvolgermi la cappella e a ingoiare premurosa la sborra che ancora la bagnava.

Nel quasi-silenzio della stanza solo il rumore della Sua bocca e dello sperma diluito dalla Sua saliva che gocciolava per terra.

Quella notte la passammo a fare l’amore, a baciarci, a ridere e a parlare.

Poco prima dell’alba salimmo in terrazza ad osservare la città che, con la luce del sole, lentamente riacquistava i colori del reale abbandonando quelli della fiaba notturna.

“Alle 10:00 hai il treno”


EPILOGO

Fine corsa.

“… termine corsa, si avvisano i signori passeggeri di abbandonare la vettura”

Il treno prese a rallentare.

Nel finestrino di fronte al mio il riflesso di una donna con lo sguardo di chi pensa all’amore, ma non ha ancora capito dove sia.

La signora del condizionatore improvvisamente placata fissava il vuoto, come se qualcuno avesse premuto il tasto “OFF” .

Il controllore, in piedi al centro del vagone, sorrideva fissando lo schermo del cellulare.

La voce della ragazza dietro di me prese improvvisamente un tono nervoso.

“No, perché il problema è che sono stata sempre considerata quella bella con poco sale in zucca, non sono mai riuscita a vivere un rapporto d’amicizia sereno. Le amiche gelose dei loro uomini e gli amici che prima o poi scopri essere innamorati o più interessati a guardarti la scollatura che ad ascoltare quello che hai da dire!”

Non resistetti alla tentazione, mi voltai, per un istante un riflesso dell’ultimo sole ne confuse i lineamenti, poi finalmente, li osservai riemergere: i capelli castano chiaro, incorniciati in un ampio cerchio verde, si agitavano al ritmo nervoso delle sciagure che confidava al telefono, il viso largo squadrato, il trucco eccessivo, il corpo possente più per ossatura che per sovrappeso, la camicia a quadri sulle spalle larghe allacciata in un improbabile stile country provava invano ad esaltare un decolté al quale i suoi amici probabilmente rivolgevano uno sguardo più di tenerezza che di desiderio. Le mani grandi, le dita tozze, le unghie lunghissime ricamate di ghirigori colorati.

Improvvisamente sembrò accorgersi del mio sguardo, infastidita, come se le potessi rubare l’anima con gli occhi.

Mi accorsi che stavo sorridendo.

Il treno era finalmente fermo, afferrai lo zaino con una mano e mi voltai verso l’uscita.

scritto il
2020-06-05
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