La neve può essere tiepida (cap.2 di 7)

di
genere
sentimentali

I caccia si abbassarono improvvisamente di quota: erano tre, mi pare di ricordare, e come uccelli rapaci sorvolarono a poche decine di metri d’altezza la strada, spazzandola più volte con le mitragliatrici, e così completando il lavoro iniziato dai carri armati.
Ancora sdraiato nella neve, terrorizzato, sapevo di non avere scampo.
Eravamo in trappola.
Volsi il capo e dissi a Marco: " Dai, scappiamo. Tanto ci ammazzano comunque. Proviamo ad arrivare a quel bosco laggiù ! "
Nessuna risposta mi giunse.
Lo guardai, ma lui non si mosse.
Lo scossi.
Urlai il suo nome.
Lo supplicai di rispondermi.
Ma era tutto inutile.
Marco era morto, colpito da un proiettile di mitragliatrice, e la neve, attorno a me, era diventata rossa del suo sangue.

Pazzo di rabbia, di dolore, di terrore, incapace di ragionare, mi alzai e mi misi a correre, barcollando, incespicando, cadendo.
Tra il sibilo dei proiettili e il fragore delle bombe, come una marionetta senza fili, come un animale in fuga da un incendio, cercai una salvezza che sapevo essere impossibile.
Corsi.
A perdifiato.
Fino a farmi scoppiare i polmoni, tagliati in due da quella lama affilata che era l’aria gelida che inspiravo.
Non so come, non so perchè, sicuramente per un capriccio benevolo del destino, ma riuscii a raggiungere incolume quel bosco di betulle che avevo visto in lontananza: e, appiattito dietro una bassa roccia, sepolto nella neve, le lacrime ghiacciate sul viso screpolato, pregai il buon Dio di salvarmi da tutta quella follia che mi circondava.

Rimasi lì, immobile, congelato, come una bestia in trappola, fino a notte inoltrata.
Il gelo mi mordeva le carni e i piedi non li sentivo più ormai da ore; ero senza energie, completamente svuotato, un corpo inerte e abbandonato nella neve.
Dopo che gli aerei e i carri armati ebbero finito il loro atroce lavoro, alcuni uomini, non so se soldati o partigiani russi, erano andati di corpo in corpo e, da lontano, li avevo visti controllare se vi fosse qualche sopravvissuto, qualche ferito che non aveva più la forza di invocare neppure la pietà dei suoi carnefici.
I secchi colpi d’arma da fuoco che, di tanto in tanto, giungevano alle mie orecchie, erano la testimonianza che quegli uomini avevano trovato un corpo ancora in vita, e che una pallottola sparata in testa a bruciapelo rappresentava l’epitaffio finale per quel povero disgraziato.
Non si facevano più prigionieri in quei mesi, non più, nè da una parte nè dall'altra.
La guerra si lasciava alle spalle solo agghiaccianti montagne di cadaveri.

La notte e il ghiaccio erano la stessa cosa.
Il vento fischiava, gli alberi scheletrici oscillavano e scricchiolavano, lugubri presenze di quella terra aliena e sconfinata, ma per il resto ora tutto taceva.
In lontananza, poiché ero ancora nascosto in quel piccolo bosco che aveva rappresentato la mia temporanea salvezza, vidi che la lunga teoria di soldati in ritirata aveva ripreso a scorrere penosamente, subito dopo che i carri e gli aerei si erano allontanati per andare a portare la morte da qualche altra parte.
Ma, alla fine, di certo sarebbero tornati.
Ritornare sulla strada, mischiarsi agli altri soldati in ritirata, avrebbe voluto dire ricominciare ad attendere la morte.
L’alternativa, però, non era la salvezza, ma il morire da solo, congelato nella steppa desolata.
Comunque, sempre meglio che sotto le bombe.

Con un enorme sforzo di volontà mi costrinsi ad alzarmi.
Il bosco, con i bianchi tronchi delle betulle che mi circondavano, era debolmente rischiarato dalla luce di una pallida luna, apparsa tra uno squarcio improvviso tra le nubi.
Non nevicava più, ma il freddo era diventato ancora più insopportabile.
Dovevo allontanarmi da quella strada, dovevo fuggire da quel massacro.
Non avevo alcuna speranza di riuscire a salvarmi.
Desideravo solo morire dignitosamente, acciambellato nella neve candida, non arrossata dal mio stesso sangue.
Mi avviai così barcollando ed incespicando, ostacolato nei movimenti dalla neve alta e soffice.
D’albero in albero, di cespuglio in cespuglio, in quel mare di bianco ostile, lentamente mi allontanai sempre più dalla strada.
Sapevo che il freddo mi avrebbe ucciso presto, che non avrei potuto avanzare per molto; ero debole e sentivo i sintomi del congelamento espandersi dai piedi verso il resto del corpo.
Se mi fossi nuovamente fermato, anche solo per pochi minuti, sarei morto assiderato in breve tempo.

All'improvviso il bosco terminò.
Di fronte a me avevo un largo tratto di steppa completamente scoperto, innevato e battuto da quel vento glaciale che sembrava soffiare dal nulla, e che verso il nulla sembrava correre ululando follemente.
In lontananza, oltre il bianco uniforme della neve, al chiarore della luna intravedevo una sottile linea più scura, con ogni probabilità un altro bosco di betulle.
Davanti a me si apriva soltanto un gelido deserto.
Il nulla e il tutto allo stesso tempo.
Anche le mani, chiuse nei guanti ghiacciati e strappati, mi erano diventate insensibili, malgrado cercassi di riscaldarle battendole l’un l’altra.
Affondando nella neve fin sopra le ginocchia, passo dopo passo, mi mossi in quello spazio infinito, verso il mio destino e verso quella morte che sapevo essere inevitabile e che ora iniziavo sempre più a desiderare.
Lottavo per resistere alla tentazione di sdraiarmi anche solo un pochino, di riposarmi in quel letto soffice e bianco, così invitante e così suadente.
Se lo avessi fatto, avrei cessato di soffrire; il gelo mi avrebbe abbandonato e mi sarei assopito, cullato dal rumore del vento nel morbido ed eterno abbraccio della neve.
" Ancora dieci passi e mi fermo qualche minuto " mi dicevo.
E facevo quei dieci passi: e poi ne facevo altri dieci, e poi altri dieci ancora.
Ma ogni volta era sempre più difficile proseguire in quella marcia senza meta.
La mia forza di volontà vacillava sempre più spesso.

- continua -
scritto il
2012-01-18
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