Racconto triste, nero come la notte
di
andreaeffe
genere
etero
Racconto triste, nero come la notte
Nina respirava a pieni polmoni l’aria profumata di neve, procedendo a passo lento lungo il sentiero che conduceva al bosco. Giunta ad un ponticello si soffermò per guardarsi attorno sfiorando con le dita, nascoste sotto i guanti neri, lo strato di neve che ricopriva la staccionata del ponte. “Sono molto fortunata”, pensò, “chi vive lontano da qui non ha idea di quello che si perde”. L’atmosfera era gelida e immobile, gli unici suoni udibili erano i tonfi della neve che cadeva di tanto in tanto da qualche ramo d’albero. Nina si sentì improvvisamente innamorata, forse dell’inverno, forse della vita stessa. Riprese il passo, decisa a seguire il sentiero fin dentro il bosco. “Non ci sono impronte sulla neve”, sussurrò tra sé e sé, “sembra che io sia la prima a passare di qui”. Ora lei si avvicinava al bosco e il bosco si avvicinava a lei come volesse accoglierla col manto bianco di cui era rivestito. Giunta ai suoi margini, dove il sentiero si confondeva con le forme create a terra dalla neve, respirò a fondo ancora una volta. Si immerse poi tra le piante spoglie e continuò il suo viaggio in quello che ora sembrava un mondo in cui il ghiaccio avesse trionfato su tutto il resto. Non le passò nemmeno lontanamente per la testa l’idea di potersi perdere, eppure era stata più volte messa in guardia sulla pericolosità dei boschi, dove tutti gli alberi sembrano uguali. Ma addentrandosi più del previsto e svoltando di tanto in tanto qua e là accadde proprio questo. Nina non aveva più la benché minima idea di quale direzione prendere per tornare indietro e sapeva bene che quello in cui si trovava non era propriamente un boschetto. Tuttavia, riprese il cammino, guidata da quel senso di innamoramento che provava prima. Non passò molto tempo che comparve ai suoi occhi una casa. Sembrava una di quelle graziose baite di montagna che fino ad allora Nina aveva visto solamente in foto. “Chissà se è abitata”, pensò, ma immediatamente si accorse che alcune finestrelle emanavano luce. “Peccato non conoscere chi ci abita”, disse, e fece marcia indietro. Proprio allora sentì un rumore e voltatasi scorse una persona sulla porta dell’abitazione. Vedendo distintamente che la figura faceva un gesto di saluto si avvicinò. “Temo di essermi persa”, disse a voce alta ridendo. Dalla risata della persona sull’uscio capì che si trattava di una donna. Una bella donna, poté appurare quando fu abbastanza vicina. “Entra pure a prendere un tè caldo, ti starai congelando lì fuori”, disse la donna. “La ringrazio, accetto volentieri”, rispose Nina dopo una brevissima esitazione. L’interno era incantevole, tutto in legno. L’odore di resina si mescolava a quello del fumo che usciva da un caminetto crepitante. “Ma lei vive qui?”, chiese Nina. “Eh si”, rispose la donna, “ti piace?”. “Da impazzire”, continuò lei. Sembrava però che a sua volta la donna impazzisse per lei, la guardava come si può fissare incantati un qualche miracolo della natura. “Perché mi guarda così?”, chiese Nina incuriosita, ma senza paura. “Trovo che tu sia molto bella”, rispose la donna. “La ringrazio”, arrossì la ragazza sorseggiando dalla tazza che aveva ricevuto. “Dammi pure del tu”, sorrise con sguardo trasognato l’altra. Il tè era squisito, Nina non aveva mai sentito una tale miscela di aromi di sottobosco. “Dovrei andare, lei saprebbe… voglio dire, tu sapresti dirmi come uscire dal bosco?”, chiese. “Certo, uscita di qui vai a sinistra e cammina fino a trovare una grande quercia, la riconoscerai di sicuro perché è enorme. Da quel momento gira ancora a sinistra e dopo un centinaio di metri sarai fuori”, la rassicurò la donna. Nina si alzò ringraziandola e le si avvicinò per stringerle la mano. L’imprevedibile signora però le afferrò il viso e la baciò delicatamente sulle labbra. Nina rimase turbata, affascinata. La sua preoccupazione di ritrovare la strada svanì e si sostituì alla voglia di rimanere lì con lei. La donna la abbracciò e lei provò di nuovo quel senso di innamoramento verso la vita e la natura che l’aveva accolta entrando nel bosco, solo che ora era rivolto a quella figura femminile dalle forme rotonde e sensuali. La donna le posò le mani sui fianchi e la tirò a sé. Nina sentì i seni premersi morbidamente contro i suoi e sobbalzò dall’emozione. “Ma chi sei?”, chiese con un filo di voce. “Ha importanza?”, rispose l’altra. Nina si avvicinò alla sua bocca e si fece baciare di nuovo. Non aveva mai baciato una donna, o forse si, al momento la sua mente era offus**ta da ciò che sentiva dentro. Le due si sedettero sul divano, una di fianco all’altra, e qui si sfiorarono il viso reciprocamente con le mani. I polpastrelli di Nina balzarono sui capezzoli dell’altra le cui forme emergevano da sotto la lana. Il divano su cui sedevano dava le spalle a una finestra. Voltandosi la ragazza si rese conto che aveva ripreso a nevicare, ma non le importava, sarebbe potuta rimanere in quella casa per un tempo indefinito. Si stese sul divano e accolse su di sé il corpo caldo della donna, i cui bruni capelli le solleticarono il viso, inducendola a ridere divertita. Una mano dell’altra finì inavvertitamente tra le sue gambe che lentamente si divaricarono per accoglierla. La stessa mano si infilò sotto i pantaloni e si strofinò a lungò sulle mutande, mentre Nina sprofondava tra i morbidi cuscini del divano, avvolta da una vampata di piacere, che aumentò quando la mano della donna si infilò sotto le mutande finendo con lo strofinarsi sulla nuda pelle. La respirazione di Nina aumentò in velocità e frequenza, mentre il viso della sconosciuta si schiacciava tra i suoi seni infuocati. “Cos’hai messo in quel tè per farmi fare questo?”, chiese la ragazza tra un sospiro e l’altro. “Assolutamente niente”, rispose sicura la donna, “stai facendo tutto seguendo unicamente la tua volontà”. Nina chiuse gli occhi e iniziò a gemere sentendo che le dita della misteriosa signora entravano dentro di lei con un savoir- faire che nemmeno lei stessa era mai riuscita ad ottenere. “Hai ragione, sono io a non essere più la stessa”, concluse Nina e si lasciò completamente travolgere dal calore che sentiva sprigionarsi tra le gambe. Strusciando il viso sui suoi seni e la mano nelle sue più intime cavità, la donna la trasportò in un baratro di piacere, dal quale la ragazza avrebbe voluto non risalire. Un ultimo gemito nel toccare il culmine e Nina, nonostante la sua volontà, ritornò alla coscienza. Riaprì gli occhi e si trovò ancora una volta su quel divano, con quella donna sconosciuta eppure così familiare che la abbracciava, mentre fuori silenziosamente continuava a nevicare.
Il piacere dell'attesa
Fuori pioveva a dirotto mentre aspettavo impaziente Gianna. Desideravo vederla ardentemente, toccarla, baciarla, leccarla in tutto il corpo. Avevo sete di lei, ma lei non arrivava. Mi chiesi cosa potessi fare nell’attesa, ma non mi venne in mente altro che rimanere lì immobile a fissare la pioggia che scorreva sui vetri in piccoli ruscelli. Sapevo che quando avesse bussato alla porta l’avrei fatta entrare e trovandola tutta bagnata avrei insistito perché si spogliasse subito, per non ammalarsi al contatto coi vestiti fradici. L’avrei avvolta in un grande asciugamano colorato affinché la sua pelle divenisse al più presto asciutta, per poi bagnarla nuovamente con la mia lingua. Immaginando tutto questo il mio desiderio di lei aumentò a dismisura. Sospirai a fondo e cercai di portare il mio pensiero altrove per non tormentarmi inutilmente. Ma non ci riuscii e tornai a pensare a lei. Gianna aveva due piccoli seni, teneri e appuntiti. Amavo toccarli, stavano perfettamente nei palmi delle mie mani. Non avrei potuto sperare di toccare seni migliori dei suoi. Nel momento in cui fosse arrivata l’avrei probabilmente assalita, tanto era forte ormai il mio desiderio. Dopo averla costretta ad estrarre i seni da sotto gli abiti bagnati, li avrei aggrediti con la mia bocca calda e vorace, per leccarli e tormentarne i capezzoli con la punta della lingua, finché lei esausta mi avrebbe pregato di smettere. La mia eccitazione aumentava sempre più immaginando tutte queste delizie, ma Gianna non arrivava. E io attendevo il suo corpo liscio e slanciato, per trascinarlo nel dolce baratro dell’estasi. Le sue cosce avrebbero tremato sotto l’effetto dei miei morsi a****li. Il suo ventre avrebbe gioito alle indiscrete ispezioni della mia lingua serpentina. Tremavo ormai dal bisogno di Gianna, che continuava a non arrivare. I miei sguardi sulla porta silenziosa erano ormai l’eterna ripetizione del medesimo fotogramma vuoto, riempito dal mio solo desiderio di lei. Non potei più res****re, mi slacciai i pantaloni e con un sospiro quasi di sollievo infilai la mano dentro le mie mutande. Le mie dita vennero a contatto con la pelle umida delle labbra sotto la folta peluria. Iniziai a toccarmi per sedare la mia eccitazione, quasi sperando che Gianna arrivasse trovandomi in quella situazione, ideale preludio alle pratiche sessuali più sfrenate. Ma lei non arrivò e io continuai con me stessa. Dopo aver strofinato le dita a lungo mi decisi a farle entrare e uscire velocemente per alcune volte, ma il mio livello di eccitazione era talmente alto che venni nel giro di un paio di minuti. Ciò che da me avevo ottenuto non mi bastò, così continuai ad infliggermi quel piacere che, se dapprincipio rappresentava un semplice ripiego, ora stava diventando l’unico piacere possibile. Ma dopo il quinto orgasmo tornai a pensare a Gianna. Andai ancora una volta alla finestra a guardare la pioggia. Di lei ancora nessuna traccia. Forse non sarebbe mai arrivata, ma io avrei continuato imperterrita ad aspettarla, desiderando ardentemente il suo corpo, sedando di tanto in tanto il dolore dell’attesa con il piacere della mia mano, sperando che prima o poi Gianna entrasse da quella porta.
Eravamo amiche io e Rebecca
Sola e sconsolata sul mio vecchio divano, aspettavo che Rebecca telefonasse. Mi sentivo fortemente angosciata e il mio rendermi conto che l’ansia che provavo aveva sempre meno a che fare con l’amicizia aumentava ulteriormente l’angoscia. Aveva detto che avrebbe telefonato, ma il mio cellulare era ancora immobile e silenzioso sul tavolino vicino a me. Di tanto in tanto lo fissavo sperando che emettesse qualche suono, ma niente. Improvvisamente sentii suonare il campanello e la mia ossessione per il cellulare mi indusse in un primo momento a credere che fosse questo a squillare. Il campanello suonò una seconda volta, così rendendomene conto mi diressi a malincuore verso la porta, pensando fosse la solita vicina di casa scocciatrice. Aperta la porta mi trovai di fronte Rebecca col viso bagnato di lacrime. Allibita ma felice di vederla, la invitai ad entrare e ad accomodarsi sul divano. Non appena si sedette scoppiò in lacrime senza dire una parola. “Cosa succede”, chiesi timidamente dopo qualche minuto, appoggiandole una mano sulla spalla. Lei continuando a piangere fece cenno con la mano di non volerne parlare. La mia mano prese a carezzarle la spalla su cui poggiava, poi scese lungo il braccio coperto di calda lana. Rebecca singhiozzava, era come avesse qualcosa da dirmi ma non riuscisse in alcun modo a farlo. “Mi vuoi forse parlare di qualcosa?”, chiesi sottovoce. “Si”, rispose a stento dopo alcuni secondi. Ero convinta si trattasse dell’ennesimo sfogo in merito al suo lavoro, anche se mi sembrava evidente che stavolta fosse successo qualcosa di più pesante del solito. Lei invece disse qualcos’altro, una cosa che mi fece sentire decisamente bene. “Non so come dirtelo, ma è inutile che continui a tenermi dentro questa cosa, o la va o la spacca”, esordì, mentre io la fissavo in silenzio. “Io… ti amo”, disse con un filo di voce. Dopo un primo istante di stupore, durante il quale sentii una sorta di brivido lungo la schiena, non potei trattenere una risata di sfogo. La abbracciai continuando a ridere come una pazza mentre lei mi guardava come se effettivamente lo fossi. Infine asciugai le sue lacrime con una mano e le baciai delicatamente le labbra, sotto il suo sguardo instupidito e ormai rasserenato. Abbracciandola sentii il suo corpo abbandonarsi pesantemente sul divano, come se finalmente fosse giunto il momento di un meritato relax. La invitai a stendersi e mi posai delicatamente sul suo corpo caldo. “Ti amo anch’io”, le sussurrai ad un orecchio. Rebecca chiuse gli occhi e mi strinse a sé sospirando. Fu allora che le baciai il collo e glielo leccai con avida voglia di lei, dei suoi sospiri spaventati, di quella pelle ispiratrice di lussuriosi sogni. La baciai nuovamente sapendo che si trattava solamente del primo di una infinita serie di altri baci, che si sarebbero moltiplicati nel tempo. I suoi seni caldi e morbidi mi attendevano sotto il maglione di lana. Ne toccai uno facendo sobbalzare Rebecca dall’inaspettato piacere. Infilai la mano sotto la maglia mentre lei rimaneva immobile ad aspettare che io la trascinassi in un flusso di intenso piacere. E questo io feci, allora per la prima volta e in seguito infinite volte.
Nina respirava a pieni polmoni l’aria profumata di neve, procedendo a passo lento lungo il sentiero che conduceva al bosco. Giunta ad un ponticello si soffermò per guardarsi attorno sfiorando con le dita, nascoste sotto i guanti neri, lo strato di neve che ricopriva la staccionata del ponte. “Sono molto fortunata”, pensò, “chi vive lontano da qui non ha idea di quello che si perde”. L’atmosfera era gelida e immobile, gli unici suoni udibili erano i tonfi della neve che cadeva di tanto in tanto da qualche ramo d’albero. Nina si sentì improvvisamente innamorata, forse dell’inverno, forse della vita stessa. Riprese il passo, decisa a seguire il sentiero fin dentro il bosco. “Non ci sono impronte sulla neve”, sussurrò tra sé e sé, “sembra che io sia la prima a passare di qui”. Ora lei si avvicinava al bosco e il bosco si avvicinava a lei come volesse accoglierla col manto bianco di cui era rivestito. Giunta ai suoi margini, dove il sentiero si confondeva con le forme create a terra dalla neve, respirò a fondo ancora una volta. Si immerse poi tra le piante spoglie e continuò il suo viaggio in quello che ora sembrava un mondo in cui il ghiaccio avesse trionfato su tutto il resto. Non le passò nemmeno lontanamente per la testa l’idea di potersi perdere, eppure era stata più volte messa in guardia sulla pericolosità dei boschi, dove tutti gli alberi sembrano uguali. Ma addentrandosi più del previsto e svoltando di tanto in tanto qua e là accadde proprio questo. Nina non aveva più la benché minima idea di quale direzione prendere per tornare indietro e sapeva bene che quello in cui si trovava non era propriamente un boschetto. Tuttavia, riprese il cammino, guidata da quel senso di innamoramento che provava prima. Non passò molto tempo che comparve ai suoi occhi una casa. Sembrava una di quelle graziose baite di montagna che fino ad allora Nina aveva visto solamente in foto. “Chissà se è abitata”, pensò, ma immediatamente si accorse che alcune finestrelle emanavano luce. “Peccato non conoscere chi ci abita”, disse, e fece marcia indietro. Proprio allora sentì un rumore e voltatasi scorse una persona sulla porta dell’abitazione. Vedendo distintamente che la figura faceva un gesto di saluto si avvicinò. “Temo di essermi persa”, disse a voce alta ridendo. Dalla risata della persona sull’uscio capì che si trattava di una donna. Una bella donna, poté appurare quando fu abbastanza vicina. “Entra pure a prendere un tè caldo, ti starai congelando lì fuori”, disse la donna. “La ringrazio, accetto volentieri”, rispose Nina dopo una brevissima esitazione. L’interno era incantevole, tutto in legno. L’odore di resina si mescolava a quello del fumo che usciva da un caminetto crepitante. “Ma lei vive qui?”, chiese Nina. “Eh si”, rispose la donna, “ti piace?”. “Da impazzire”, continuò lei. Sembrava però che a sua volta la donna impazzisse per lei, la guardava come si può fissare incantati un qualche miracolo della natura. “Perché mi guarda così?”, chiese Nina incuriosita, ma senza paura. “Trovo che tu sia molto bella”, rispose la donna. “La ringrazio”, arrossì la ragazza sorseggiando dalla tazza che aveva ricevuto. “Dammi pure del tu”, sorrise con sguardo trasognato l’altra. Il tè era squisito, Nina non aveva mai sentito una tale miscela di aromi di sottobosco. “Dovrei andare, lei saprebbe… voglio dire, tu sapresti dirmi come uscire dal bosco?”, chiese. “Certo, uscita di qui vai a sinistra e cammina fino a trovare una grande quercia, la riconoscerai di sicuro perché è enorme. Da quel momento gira ancora a sinistra e dopo un centinaio di metri sarai fuori”, la rassicurò la donna. Nina si alzò ringraziandola e le si avvicinò per stringerle la mano. L’imprevedibile signora però le afferrò il viso e la baciò delicatamente sulle labbra. Nina rimase turbata, affascinata. La sua preoccupazione di ritrovare la strada svanì e si sostituì alla voglia di rimanere lì con lei. La donna la abbracciò e lei provò di nuovo quel senso di innamoramento verso la vita e la natura che l’aveva accolta entrando nel bosco, solo che ora era rivolto a quella figura femminile dalle forme rotonde e sensuali. La donna le posò le mani sui fianchi e la tirò a sé. Nina sentì i seni premersi morbidamente contro i suoi e sobbalzò dall’emozione. “Ma chi sei?”, chiese con un filo di voce. “Ha importanza?”, rispose l’altra. Nina si avvicinò alla sua bocca e si fece baciare di nuovo. Non aveva mai baciato una donna, o forse si, al momento la sua mente era offus**ta da ciò che sentiva dentro. Le due si sedettero sul divano, una di fianco all’altra, e qui si sfiorarono il viso reciprocamente con le mani. I polpastrelli di Nina balzarono sui capezzoli dell’altra le cui forme emergevano da sotto la lana. Il divano su cui sedevano dava le spalle a una finestra. Voltandosi la ragazza si rese conto che aveva ripreso a nevicare, ma non le importava, sarebbe potuta rimanere in quella casa per un tempo indefinito. Si stese sul divano e accolse su di sé il corpo caldo della donna, i cui bruni capelli le solleticarono il viso, inducendola a ridere divertita. Una mano dell’altra finì inavvertitamente tra le sue gambe che lentamente si divaricarono per accoglierla. La stessa mano si infilò sotto i pantaloni e si strofinò a lungò sulle mutande, mentre Nina sprofondava tra i morbidi cuscini del divano, avvolta da una vampata di piacere, che aumentò quando la mano della donna si infilò sotto le mutande finendo con lo strofinarsi sulla nuda pelle. La respirazione di Nina aumentò in velocità e frequenza, mentre il viso della sconosciuta si schiacciava tra i suoi seni infuocati. “Cos’hai messo in quel tè per farmi fare questo?”, chiese la ragazza tra un sospiro e l’altro. “Assolutamente niente”, rispose sicura la donna, “stai facendo tutto seguendo unicamente la tua volontà”. Nina chiuse gli occhi e iniziò a gemere sentendo che le dita della misteriosa signora entravano dentro di lei con un savoir- faire che nemmeno lei stessa era mai riuscita ad ottenere. “Hai ragione, sono io a non essere più la stessa”, concluse Nina e si lasciò completamente travolgere dal calore che sentiva sprigionarsi tra le gambe. Strusciando il viso sui suoi seni e la mano nelle sue più intime cavità, la donna la trasportò in un baratro di piacere, dal quale la ragazza avrebbe voluto non risalire. Un ultimo gemito nel toccare il culmine e Nina, nonostante la sua volontà, ritornò alla coscienza. Riaprì gli occhi e si trovò ancora una volta su quel divano, con quella donna sconosciuta eppure così familiare che la abbracciava, mentre fuori silenziosamente continuava a nevicare.
Il piacere dell'attesa
Fuori pioveva a dirotto mentre aspettavo impaziente Gianna. Desideravo vederla ardentemente, toccarla, baciarla, leccarla in tutto il corpo. Avevo sete di lei, ma lei non arrivava. Mi chiesi cosa potessi fare nell’attesa, ma non mi venne in mente altro che rimanere lì immobile a fissare la pioggia che scorreva sui vetri in piccoli ruscelli. Sapevo che quando avesse bussato alla porta l’avrei fatta entrare e trovandola tutta bagnata avrei insistito perché si spogliasse subito, per non ammalarsi al contatto coi vestiti fradici. L’avrei avvolta in un grande asciugamano colorato affinché la sua pelle divenisse al più presto asciutta, per poi bagnarla nuovamente con la mia lingua. Immaginando tutto questo il mio desiderio di lei aumentò a dismisura. Sospirai a fondo e cercai di portare il mio pensiero altrove per non tormentarmi inutilmente. Ma non ci riuscii e tornai a pensare a lei. Gianna aveva due piccoli seni, teneri e appuntiti. Amavo toccarli, stavano perfettamente nei palmi delle mie mani. Non avrei potuto sperare di toccare seni migliori dei suoi. Nel momento in cui fosse arrivata l’avrei probabilmente assalita, tanto era forte ormai il mio desiderio. Dopo averla costretta ad estrarre i seni da sotto gli abiti bagnati, li avrei aggrediti con la mia bocca calda e vorace, per leccarli e tormentarne i capezzoli con la punta della lingua, finché lei esausta mi avrebbe pregato di smettere. La mia eccitazione aumentava sempre più immaginando tutte queste delizie, ma Gianna non arrivava. E io attendevo il suo corpo liscio e slanciato, per trascinarlo nel dolce baratro dell’estasi. Le sue cosce avrebbero tremato sotto l’effetto dei miei morsi a****li. Il suo ventre avrebbe gioito alle indiscrete ispezioni della mia lingua serpentina. Tremavo ormai dal bisogno di Gianna, che continuava a non arrivare. I miei sguardi sulla porta silenziosa erano ormai l’eterna ripetizione del medesimo fotogramma vuoto, riempito dal mio solo desiderio di lei. Non potei più res****re, mi slacciai i pantaloni e con un sospiro quasi di sollievo infilai la mano dentro le mie mutande. Le mie dita vennero a contatto con la pelle umida delle labbra sotto la folta peluria. Iniziai a toccarmi per sedare la mia eccitazione, quasi sperando che Gianna arrivasse trovandomi in quella situazione, ideale preludio alle pratiche sessuali più sfrenate. Ma lei non arrivò e io continuai con me stessa. Dopo aver strofinato le dita a lungo mi decisi a farle entrare e uscire velocemente per alcune volte, ma il mio livello di eccitazione era talmente alto che venni nel giro di un paio di minuti. Ciò che da me avevo ottenuto non mi bastò, così continuai ad infliggermi quel piacere che, se dapprincipio rappresentava un semplice ripiego, ora stava diventando l’unico piacere possibile. Ma dopo il quinto orgasmo tornai a pensare a Gianna. Andai ancora una volta alla finestra a guardare la pioggia. Di lei ancora nessuna traccia. Forse non sarebbe mai arrivata, ma io avrei continuato imperterrita ad aspettarla, desiderando ardentemente il suo corpo, sedando di tanto in tanto il dolore dell’attesa con il piacere della mia mano, sperando che prima o poi Gianna entrasse da quella porta.
Eravamo amiche io e Rebecca
Sola e sconsolata sul mio vecchio divano, aspettavo che Rebecca telefonasse. Mi sentivo fortemente angosciata e il mio rendermi conto che l’ansia che provavo aveva sempre meno a che fare con l’amicizia aumentava ulteriormente l’angoscia. Aveva detto che avrebbe telefonato, ma il mio cellulare era ancora immobile e silenzioso sul tavolino vicino a me. Di tanto in tanto lo fissavo sperando che emettesse qualche suono, ma niente. Improvvisamente sentii suonare il campanello e la mia ossessione per il cellulare mi indusse in un primo momento a credere che fosse questo a squillare. Il campanello suonò una seconda volta, così rendendomene conto mi diressi a malincuore verso la porta, pensando fosse la solita vicina di casa scocciatrice. Aperta la porta mi trovai di fronte Rebecca col viso bagnato di lacrime. Allibita ma felice di vederla, la invitai ad entrare e ad accomodarsi sul divano. Non appena si sedette scoppiò in lacrime senza dire una parola. “Cosa succede”, chiesi timidamente dopo qualche minuto, appoggiandole una mano sulla spalla. Lei continuando a piangere fece cenno con la mano di non volerne parlare. La mia mano prese a carezzarle la spalla su cui poggiava, poi scese lungo il braccio coperto di calda lana. Rebecca singhiozzava, era come avesse qualcosa da dirmi ma non riuscisse in alcun modo a farlo. “Mi vuoi forse parlare di qualcosa?”, chiesi sottovoce. “Si”, rispose a stento dopo alcuni secondi. Ero convinta si trattasse dell’ennesimo sfogo in merito al suo lavoro, anche se mi sembrava evidente che stavolta fosse successo qualcosa di più pesante del solito. Lei invece disse qualcos’altro, una cosa che mi fece sentire decisamente bene. “Non so come dirtelo, ma è inutile che continui a tenermi dentro questa cosa, o la va o la spacca”, esordì, mentre io la fissavo in silenzio. “Io… ti amo”, disse con un filo di voce. Dopo un primo istante di stupore, durante il quale sentii una sorta di brivido lungo la schiena, non potei trattenere una risata di sfogo. La abbracciai continuando a ridere come una pazza mentre lei mi guardava come se effettivamente lo fossi. Infine asciugai le sue lacrime con una mano e le baciai delicatamente le labbra, sotto il suo sguardo instupidito e ormai rasserenato. Abbracciandola sentii il suo corpo abbandonarsi pesantemente sul divano, come se finalmente fosse giunto il momento di un meritato relax. La invitai a stendersi e mi posai delicatamente sul suo corpo caldo. “Ti amo anch’io”, le sussurrai ad un orecchio. Rebecca chiuse gli occhi e mi strinse a sé sospirando. Fu allora che le baciai il collo e glielo leccai con avida voglia di lei, dei suoi sospiri spaventati, di quella pelle ispiratrice di lussuriosi sogni. La baciai nuovamente sapendo che si trattava solamente del primo di una infinita serie di altri baci, che si sarebbero moltiplicati nel tempo. I suoi seni caldi e morbidi mi attendevano sotto il maglione di lana. Ne toccai uno facendo sobbalzare Rebecca dall’inaspettato piacere. Infilai la mano sotto la maglia mentre lei rimaneva immobile ad aspettare che io la trascinassi in un flusso di intenso piacere. E questo io feci, allora per la prima volta e in seguito infinite volte.
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Le vacanze in onore di Saffo
Commenti dei lettori al racconto erotico