L'ultimo cliente

di
genere
etero

Il mio ultimo cliente arrivò quando avevo ancora diciotto anni e da tutti mi facevo chiamare Lalla. Ovviamente Lalla non è mai stato il mio nome, è sempre stato solo un soprannome. Ma nel piccolo paese nel quale sono nata mi hanno sempre chiamato così. Fin da quando ero piccolissima a causa del mio modo di parlare balbettando.

“Lalla tranquilla per il caffè che fai tardi a scuola!” “Lalla ti avevo un caffè tiepido-freddo, non freddo!” “Lalla fai questo… Lalla fai quello”. Mi piaceva quel soprannome, e così avevo scelto di mantenerlo anche nella città dove mi era trasferita lavorando in un bar.

A Termoli vivevo sopra il bar, in una stanza in piazza Duomo. Vivevo da sola, era il destino che aveva scelto per me ed immediatamente mi affezionai a quel nuovo lavoro, forse perché quel lavoro era così distante e diverso da me che, come spesso avviene, gli opposti si attraggono.

Il proprietario. A parte tutti i difetti che aveva, aveva una qualità non comune: era di una generosità senza limiti. E vedendomi sperduta e disgraziata, per qualche strana ragione mi aveva permesso di lavorare da lui in cambio di un tetto dove vivere.

Così, dato che in quel periodo non avevo un soldo, cercavo di lavorare il più possibile per mantenermi con le cose più essenziali. In ogni caso non ero mai in giro, e quando qualche volta ricevevo una paga più generosa, ritornavo in quella stanzetta con regali, vestiti, cibo, libri; tutto il necessario per tirare avanti.

La stanza era piccola, l’avevo riempita di libri di fiabe, gli unici, oltre a quelli di scuola che allora leggevo ed avevo tappezzato le pareti di poster che ritraevano grandi città come Roma, Londra, Berlino, quasi fossero finestre spalancate sul mondo: luoghi dove avrei voluto essere lontana da dove, invece, ero costretta a vivere.

Così provvedevo all’affitto, alle provviste alimentari e le pulizie, nella cifra pagata erano comprese le spese di gas e luce, ma per quanto riguardava quest’ultima, la regola era che non potesse essere rimanere accesa oltre la mezzanotte. Tuttavia per me non procurava alcun problema. Io a quell’ora di solito dormivo.

Il posto si chiamava “La Torre”. E mi pagavano per servire i clienti, ciò che dovevo fare era muovere il mio corpo più velocemente e sorridente che potevo. Fasciata in una divisa che prevedeva scarpe classiche, un pantalone nero lungo dal taglio elegante e una camicia bianca raffinata e tradizionale. Avevo diversi abiti, tutti che mi fasciavano lasciando coperta fin troppa pelle.

Lo spettacolo era ogni sera lo stesso: Muoversi, sorridere, muoversi, sorridere. Pausa, stando dietro al bancone preparando da bere, due chiacchiere con qualcuno, e poi di nuovo fra i tavoli fino a tarda notte. Il lavoro non era male. Mi aiutava molto a superare la mia timidezza. Quello che guadagnavo, invece, mi bastava appena per fare una vita da schifo. Se avessi desiderato avere più soldi, avrei potuto fare come il proprietario, ma ancora non me la sentivo. Ero ancora timida, imbranata, insicura e troppo piccola.

In fondo alla sala c’era un grammofono che riproduceva musica, di solito Jazz e Blues, fra me è il grammofono c’era qualcosa di più di una semplice curiosità. Quasi sempre, durante le piccole pause, mi mettevo vicina restando ammaliata da quel cerchio nero lucido che girava senza mai fermarsi. E poi c’erano i clienti, che parlavano a bassa voce per non sovrastare l’atmosfera che la musica creava.

I clienti non erano male, per quanto tutti erano molto più grandi di me, erano simpatici, mi offrivano sempre da bere, ma io non accettai mai. Dentro quella divisa mi sentivo professionale, e come tale non potevo bere. Li vedevo come degli amici che volevano passare la serata fra una chiacchiera e l’altra, giocando a carte e ridendo.

Le loro offerte non mi interessavano; li vedevo un po’ come dei bimbi che offrivano le noccioline alle scimmie, ed avevano l’illusione di stare nella giungla, ma il Bar non è una giungla. Nella giungla ci sono i veri pericoli, i predatori, i cacciatori, nel Bar ci sono solo persone con la testa piena di sogni. Qualche volta, qualcuno riusciva a portarsi a casa qualche ragazza: Il souvenir della serata ma era come il pesce rosso confezionato nel sacchetto che si riceve al parco divertimenti quando non colpisci la paperella in legno.
No, la giungla era un’altra cosa, non c’era mai stata ma sapevo che la vita nella giungla non poteva essere quella, anche i miei sogni si sarebbero infranti nella banalità di un’esistenza che non volevo che fosse mia…
Di uomini non ne avevo conosciuti molti e a volte avevo l’impressione che, se solo avessi voluto, avrei potuto persino sbranarli, ed io avrei pianto.

Non mi ero ancora immaginata il tipo di uomo per me, magari qualcuno che poteva insegnarmi e guidarmi e allo stesso tempo prendersi cura di me. Ero solo curiosa e avevo sete.

A quel tempo non avevo ancora capito nulla della vita, più che un'amore ero alla ricerca di un maestro. Così quando colsi il suo sguardo in mezzo a decine di altri, immediatamente capii che lui era diverso. Fu strano. Come se il tempo restò fermo per un attimo.
Lo raggiunsi al tavolo e la prima cosa che mi chiese fu il mio nome. Da tutti mi facevo chiamare Lalla, e avrei potuto dirgli quello. Eppure gli rivelai il mio vero nome. Non potevo mentire a quell’uomo dallo sguardo gelido eppure così dolce, benché fosse ben coperto da una scorza di durezza e serietà. Sembrava sussurrarmi:” Di me ti puoi fidare, totalmente, tranquillamente, perché non ti farò mai del male”.

Forse si trattava dell’illusione creata dall’atmosfera del momento, che però sarebbe durata per tutto il tempo che siamo stati insieme. Avevo incontrato un leone.
Disse che gli piaceva il mio nome: “Laura” era gradevole il suono che, detto da lui, sembrava quasi musicale. Poi mi chiese “Cosa vuoi fare dopo, Laura?” e marcò la pronuncia particolarmente sul nome, come a voler comunicare che per lui non sarei stata un pesce rosso, appassionata di fiabe e racconti, sempre assorta nelle sue masturbazioni mentali, ma una donna in grado di affrontare la giungla.

Mi guardai intorno per vedere i vari bambini con i pesci rossi, davanti a me avevo forse la mia unica occasione per scappare dalla mia vecchia vita, abbandonando il mondo dei principi azzurri nel quale vivevo e lasciarmi alle spalle la fanciullezza per andare nella giungla.
I miei occhi verdi titubarono e risposi “Non lo so”.

Fu allora che spuntò l’offerta, senza parlare la scrisse su un foglietto che mi porse facendolo scivolare coperto sul bancone, come una carta da gioco.

Erano tanti soldi, talmente tanti che pensai mi stesse prendendo in giro, un po’ come i bambini che mostrano le noccioline alle scimmiette per eccitarle e poi negarle. Ne fui impaurita. Indietreggiai e corsi via. Avevo le lacrime agli occhi e tornai su, nel mio appartamento sapendo che forse quel gesto, mi sarebbe costato il lavoro.

Non chiusi occhio quella notte. La passai interamente a chiedermi se dovevo accettare quei soldi. Farlo per soldi non era così tremendo…forse… ma per me era la prima volta e solo l’idea di fare quel passo mi spaventava. Sarei stata capace di farmi toccare… da uno sconosciuto?
Solo il denaro era importante, poi lui aveva qualcosa di speciale, non era squallido, anzi era affascinante, simpatico, colto, ricco…mi sarei sentita una puttana?

Erano un sacco di soldi, più di quanti ne avrei guadagnato danzando per un anno in mezzo ai tavoli, e ne avevo un estremo bisogno, volevo qualcosa di più grande che non avrei mai potuto permettermi con il lavoro che avevo.

Era un’occasione che poteva essere una svolta importante nella mia vita ed essere una via d’uscita. Chi era quell’uomo che era riuscito ad ammaliarmi? E sorprendentemente nel suo sguardo avevo scorto sincerità, sempre cercata negli occhi e che mai, avevo trovato.
La cifra mi rimbalzava nella testa. Perché ero fuggita, con gli occhi pieni di lacrime? Scopare non era come muoversi fra i tavoli, non era mostrare la propria nudità, non era come chiedere il drink al tavolo. Quei soldi erano troppi per una come me!
Pensavo e pensavo “Che stupida, Che stupida, Che stupida…” Ne sarei stata capace?
Quell’uomo era stato il mio specchio e la sua offerta scritta su un foglio era la chiave per tutto…



Stavo lì, sul letto, ancora con l’intimo, piangendo e guardandomi attorno, cercando qualcosa di indefinibile che potesse farmi capire qualcosa: i soldi sul comodino, la stanza vuota, la mia pelle ancora pulita, la mia anima ancora intatta, la porta socchiusa, l’orologio che continuava a ticchettare al ritmo del mio battito.
La mente era un vortice di pensieri, domande senza risposte. Aveva forse capito qualcosa che nemmeno io riuscivo a comprendere? Si aspettava un confronto diverso, da me…
La notte trascorse lenta, tra il ticchettio dell’orologio e il fruscio delle pagine dei miei libri di fiabe, aperti. La consapevolezza di un’esperienza che non avevo vissuto, ma che mi aveva cambiata.
La porta rimase socchiusa, come una promessa non mantenuta, un confine non oltrepassato. E quei soldi… forse un dono, forse una risposta a una domanda che non avevo formulato.





Chissà se avessi accettato…
scritto il
2024-09-05
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