Giorgina e la Bestia

di
genere
gay

rano passati da un paio d'anni dall'età del consenso. Ma anche a diciotto anni continuavo a non sapere bene a cosa darlo, il consenso.

Ero carino. Dimostravo molto meno dei miei anni. Sembravo un ragazzino. Un bel ragazzino. Ero magro, di corporatura media, non c'era in me niente che potesse attirare l'attenzione se non il viso, che nonostante tutti i tentativi tardo-adolescenziali di assumere maschere scostanti, da truce o da duro, rimaneva un viso che non aveva ancora perso del tutto la dolcezza e l'innocenza. Così finiva che quando camminavo per strada qualcuno si girava, non sempre ma abbastanza spesso. Tra le donne si giravano solo quelle di una certa età, le coetanee erano perse dietro ai veri uomini, mica ai ragazzini. Tra gli uomini se ne giravano un po' di tutte le età. Avevo pochi muscoli e poca forza. A scuola per me le lezioni di educazione fisica erano un incubo.

Ero timido, naturalmente. Del sesso non sapevo quasi niente. Il sesso del mondo reale, quello che nasce dall'incontro di corpi fatti di carne. Il sesso fantastico, l'unico che mi potessi o volessi permettere, beh, quello era un'altra cosa.

Le seghe che mi tiravo abbastanza spesso erano legate ad un paio di fantasie ricorrenti. Molto private, molto personali. Fantasie che usavo soltanto quando cominciavo a carezzarmi il cazzetto perché mi coglievano strani languori. Per il resto del tempo quelle due fantasie mi facevano sentire un po' in imbarazzo.

Nella prima fantasia ero un essere dai caratteri incerti, di aspetto androgino, come nella realtà, ma a differenza della realtà non me ne dovevo vergognare. Il mondo mi desiderava così, anzi, dirò di più, mi trovava enormemente desiderabile così. Era un mondo dove c'era posto per i ragazzi e le ragazze certo, ma in più c'era posto anche per noi, esseri indefiniti che di tutti e due sessi prendevamo il meglio. Quando ero in preda a quella fantasia spesso mi chiudevo in camera e dopo aver aperto l'anta dell'armadio che conteneva uno specchio a tutta figura, mi spogliavo nudo e assumevo pose provocanti, sognavo che le mie tettine fossero succhiate, le bagnavo con la saliva e titillavo i piccoli capezzoli.

A volte capitava che dall'armadio tirassi fuori un attaccapanni di quelli con due pinzette e poi usassi quelle pinzette sui capezzoli. Mi guardavo allo specchio, non ero io che lo stavo facendo, nella fantasia ero la proprietà di un nobile signore, un sultano orientale con una barba curata, un pizzo intrigante, belle vesti e bei modi. Immaginavo che mio signore indossasse tuniche che si aprivano in maniera strategica, lasciando intravedere le sue gambe pelose, il cazzo nodoso e i coglioni pesanti.

Il mio signore mi applicava le pinzette un po' per farmi soffrire - per ricordarmi che ero cosa sua e che poteva farmi qualsiasi cosa - e un po' per allungare i due capezzoli, per svilupparli, per poterli strizzare meglio tra le sue dita forti. Immaginando che le mie mani fossero quelle di un altro tiravo l'attaccapanni, come fosse una sorta di guinzaglio e mi portavo in giro per la stanza. Più i capezzoli erano tirati più io dovevo tenere la testa alta e non perdere il mio portamento composto o languido a seconda dei momenti.

Mi piaceva immaginare che il mio signore ogni tanto mi ispezionasse. Offrivo le spalle allo specchio poi mi chinavo fino a che il solco tra le natiche non si apriva e lasciava intravedere una zona più scura. Immaginavo comandi che mi imponevano di aprirmi meglio, di mostrarlo bene quel culo da esaminare. Le mie dita diventavano quelle del mio signore, le insalivavo e e poi piano piano le infilavo dentro. Una, poi due, poi tre, giravo e torcevo e scavavo, perché io ero una piccola puttana che ogni tanto tentava di rubare qualcosa al suo padrone.

A volte partivo di casa al mattino dopo essermi infilato in culo piccole cose, avvolte in un preservativo. Le palline di gomma erano le mie preferite. Un po' di saliva, una pressione rapida, lo sfintere che si allarga e la pallina che entra dentro. Più di una, mi piaceva sentirmi pieno. Dovevano essere gesti rapidi. Non importa se gesti così veloci non mi davano piacere. Dovevo essere crudele e stoico. Nella mia fantasia quelle palline erano gioielli, da rubare sveltamente quando il mio signore era voltato, disattento. Ogni tanto durante il giorno il cazzetto mi si induriva pensando a quando la sera il mio signore con le sue dita mi avrebbe esplorato fino ad estrarre quegli oggetti, farmeli leccare e poi punirmi, facendomi stare in piedi e schiaffeggiandomi forte sulle guance, oppure appena più piano sui coglioni, il tanto da renderli indolenziti. A volte erano pugni sul ventre. Pugni che dovevo ricevere rimanendo impassibile e ringraziando. Se ero solo in casa potevo punirmi con una cinghia, direttamente sulle tettine e sulle natiche. Sempre ringraziando dopo ogni colpo.

Una volta esaurita la punizione il mio signore diventava esigente e mi faceva piegare in avanti. Un flacone di deodorante diventava il suo cazzo nodoso. Spingevo anche se provavo dolore. Il mio padrone non poteva certo fermarsi per una cosa insignificante come il mio dolore. Il mio culo andava aperto per bene, il tappo era l'immaginaria cappella che forzava qualcosa dentro di me e lo lacerava. Il mio sfintere cedeva. Una piccola agonia. Piano piano facevo sparire il flacone nel mio retto. Quando era tutto dentro a fondo e allora io potevo cominciare a scoparmi. Da qualche mese cercavo di venire così, senza toccarmi il cazzo, ma con scarso successo, più che qualche goccina salata non riuscivo ad ottenere. Alla fine se volevo venire dovevo segarmi mentre mi inculavo. e quando mi toglievo il flacone dal culo leccavo la punta del flacone, qualsiasi cosa ci fosse attaccato. Ormai il momento della eccitazione, il momento in cui faresti qualsiasi cosa, era passato e io non avevo più voglia di fare porcate, ma proprio lì stava il gioco, nel costringermi a fare una cosa che non volevo, solo perché stavo immaginando che lo chiedesse il mio signore.

La seconda fantasia era abbastanza nuova ed era cominciata quando ero entrato in un cinema dove si proiettava un film vietato che si chiamava "La Bestia". Era un film di una retrospettiva infrasettimanale, dedicata al classico regista polacco con un cognome imbottito di consonanti e conosciuto solo dai cinefili.
Prima dei diciotto anni entrare nei cinema dove si trasmettevano film vietati era una sorta di sfida nella nostra banda di noi ragazzini. Ora c'era la carta di identità che aiutava. Le maschere me la chiedevano sempre, e guardavano la fotografia un paio di volte, per essere sicure che il ragazzino che avevano davanti non li stesse prendendo per il culo. Questa maschera in particolare aggiunse uno sguardo di desiderio che mi fece arrossire.

Una volta dentro la sala dimenticai tutto. Il film riuscì ad ipnotizzarmi completamente. L'aspetto che mi colpì di più era che il protagonista del film era una bestia, una fiera lasciata indistinta, che si intuiva soltanto più che vedersi esplicitamente. La bestia si aggirava per i boschi intorno a un castello cercando sesso. Questo era ciò che mi era rimasto infisso nel cervello. La bestia arrapata che si aggirava nel bosco, pesante, annunciandosi con uno scroscio di rami spezzati, cercando prede da possedere. Una bestia piena di vigore ed energia da sfogare. Pochi dettagli di quella bestia si intuivano: la pelliccia, una zampa, un muso che poteva essere quello di un grosso cane o di un orso. E un qualcosa che forse era sfuggito alla censura, un paio di fotogrammi in cui si vedeva un cazzo enorme, che scoprii tempo dopo essere ispirato a quelli equini. Da quel dettaglio rimasi colpito in maniera incredibile e ricordarlo quel cazzo, cosa che facevo spesso, mi eccitava tantissimo. Cosa di preciso mi eccitava? Molte cose. Quel cazzo bestiale era la forza di una dominazione che si prendeva comunque quello che voleva, una forza a cospetto della quale io immaginavo di essere remissivo, al cospetto della quale io volevo essere remissivo. Un giocattolo, un trastullo. Una preda.

Quel cazzo mi rivelava che non mi sarebbe dispiaciuto, anzi forse che io volevo, essere usato, violato, lasciato a terra lacrimante. Mi eccitava quella forma strana di cazzo e, tempo due o tre seghe, a quella forma sproporzionata nella mia fantasia, di mio, avevo aggiunto un rigonfiamento alla base, come quello dei cani. Una cosa che nelle mie fantasticherie serviva perché il dolore della penetrazione ricominciasse quando ormai il peggio sembrava passato. Perché la penetrazione di quel cazzo doveva essere un viaggio doloroso perché ogni millimetro di quel cazzo doveva aprirti lentamente e a fatica, vista la circonferenza, e doveva metterci minuti ad forzarti tutto, vista la lunghezza. Sì, quel cazzo doveva metterci molti minuti fatti di sensazioni intense, angosciose e crudeli prima che la bestia potesse farti sentire sul culo la pelliccia che le ricopriva i coglioni.

Quel cazzo era la chiave per immaginare corpi massicci, pieni di forza, odorianti di sudore. Era la chiave per immaginare frenesie violente ma naturali, a loro modo innocenti: sporche ma pure. Mi eccitavo a pensare a cosa quei corpi potessero fare guidati dal loro istinto inconsapevole e inarrestabile. E mi eccitavo a pensare a un buco di culo che la coda ogni tanto lasciava offerto alla vista. Da baciare, sottomesso, forse da pulire. Era allora che le sborrate diventavano più dense e gli schizzi più potenti.

Una mattina svoltando l'angolo mentre correvo a scuola sbattei letteralmente contro la maschera del cinema, proprio quella il cui sguardo mi aveva fatto arrossire.
Non voglio farla molto lunga. Ad adescarmi ci mise poco, se anche di adescamento si possa parlare. In realtà fui io a chiedergli se si poteva vedere il cinema fuori dallo spettacolo, che ero attirato da quello spazio vuoto e silenzioso e che mi sarebbe piaciuto vedere cosa c'era dietro lo schermo.
Avrei potuto dire qualsiasi cosa, tanto la maschera era perso a guardarmi e non credeva alla sua fortuna.

Perché lo feci? Era un uomo grosso e rude, forte e non sembrava molto sveglio. Era quanto di più si avvicinava ad alcuni tratti della bestia delle mie fantasie. E lo sguardo che mi aveva lanciato mi diceva che mi desiderava. E lo desideravo anch'io, perché ormai era tempo di viverle quelle fantasie su cui mi masturbavo..
Alla fine forse fu il suo odore muschiato di sudore, intenso ma non spiacevole, a farmi parlare e a farmi dire quelle cose insensate, con una voglia improvvisa di trovarmi solo con lui, in uno spazio dove nessuno potesse disturbarci.

Mi disse che visitare il cinema fuori dallo spettacolo era proibito a chi non facesse parte del personale e mi disse che dietro lo schermo non c'era niente. Se ci tenevo tanto però poteva fare uno strappo alla regola, il cinema era un vecchio teatro riadattato, non c'era una galleria, c'erano alcuni palchetti che di solito non venivano usati, magari avrei potuto trovare interessante vedere quelli. Io ero confuso, un po’ mi vergognavo, un po' sentivo una eccitazione nuova, mai provata. Mentre mi parlava la maschera quasi senza accorgersene si toccava la patta e dopo un po' i suoi pantaloni si tesero in modo molto interessate.
Con aria complice mi invitò per il pomeriggio del giorno seguente. Mi disse che sarei divertito, molto divertito. La mia eccitazione a quelle parole stupì me ma non lui, che sembrava a suo agio in quel gioco di promesse solo accennate.
Prima di salutarmi si presentò porgendomi la sua grossa mano, sorprendentemente morbida. Mi disse di chiamarsi Luigi e mi chiese il mio nome. Gli dissi un nome a caso, Piergiorgio. "Bene - disse lui - e quanti anni hai Giorgina? "Diciotto" risposi. "Sembri più giovane." "Sì, lo so me lo dicono tutti, ma sempre diciotto rimangono."

L'improvviso cambio di genere del nomignolo che mi aveva affibbiato mi colpì e il cuore fece un piccolo balzo. Mi aveva chiamato "Giorgina". Arrossii e velocemente lo salutai, dicendogli che dovevo andare e rassicurandolo che certo che sì, che ci sarei venuto a vedere il cinema vuoto il giorno dopo.
Quella sera il mio signore orientale mi chiamò anche lui Giorgina, pretese che da un cassetto della mamma rubassi una sottoveste e la indossassi per lui. Una sottoveste molto corta che mi lasciava scoperto il cazzetto davanti e il culo di dietro. Non fu l'unica cosa che rubai. Rovistai nel cassetto delle verdure in frigo e mi portai in camera alcune grosse carote.
Quella sera il mio signore immaginario mi disse che voleva dilatarmi come non aveva mai fatto, e io abbassai il capo e risposi solo "Certo Re Luigi mio signore, naturalmente, tutto secondo i vostri desideri."
Il mio signore, che non era più un principe orientale ma un uomo vero di cui conoscevo l'odore muschiato, il mio signore mi prese e giocò con me a lungo con le carote e scoprii quanto era astuto e sagace quando, dopo avermi divaricato le natiche con le sue grosse e morbide mani, infilò la prima dalla parte più grossa e poi usò la punta di una seconda e di una terza come un cuneo, per forzare l'entrata. Era a tratti lancinante, mi imponevo di spingere comunque, e alla fine fu molto appagante. Le carote rimanevano bloccate nel mio sfintere educandolo alla dilatazione e io potevo fare passerella per il mio signore ancheggiando e facendo ondeggiare la sottovestina.
E quando il mio signore me lo chiese estrassi le carote e presentai il pià bel culo aperto che mi fosse mai riuscito di ottenere. E le carote me le mangiai così com'erano, dopo aver leccato con gusto il muco amarognolo di cui erano ricoperte.

A dispetto dell'essere un pretesto inventato lì per lì la visita al cinema vuoto aveva un suo perché.
Lo spazio completamente sgombro di persone e di dimensioni così inconsuete rispetto agli spazi normalmente frequentati, aveva un eco che intimidiva: era come come infilarsi in una caverna che poteva nascondere segreti, oppure visitare uno dei saloni di un palazzo un po' decaduto, che aveva visto giorni migliori, con i suoi sedili di velluto rosso liso e consumato e le lampade con i pendenti di vetro alle pareti.

Luigi mi fece visitare anche il bar e mi mi offrì una coca. La accettai di buon grado, ma la coca aveva un retrogusto strano. Non dissi niente, per educazione ma ne bevvi solo un paio di sorsi e poi mi liberai del resto versandola nel bagno, dove andai con una scusa. Però dopo aver bevuto quei pochi sorsi mi sentii molto strano. Languido e arrendevole. Ho molto pensato a posteriori se la storia della coca non fosse un alibi creato da me stesso per giustificarmi. Mi sentivo remissivo e pronto a tutto, molto diverso dal solito. Adesso credo solo che io volessi essere languido, arrendevole, remissivo e pronto a tutto. Che quelle sensazioni facessero parte del gioco molto eccitante che mi ero inventato. Il gioco della mia prima volta.

Dopo aver visitato la platea e il bar Luigi mi portò a vedere i palchetti. Era incredibile ma nel palchetto centrale c'era addirittura un divanetto. Luigi mi disse che dopo l'ultimo spettacolo lui doveva fare le pulizie e abitando lontano a volte preferiva fermarsi lì. Poi Luigi mi guardò e si accorse che mi stava succedendo qualcosa e fu proprio sul divanetto che mi fece accomodare. "Giorgina, tesoro, appoggiati a me" mi disse. Mi passò il braccio intorno alle spalle e mi attirò a se, mi guardò, mi disse di lasciarlo fare, e mi baciò piano sulla bocca, prima sui lati, e poi sulle mie labbra chiuse. Alla faccia dell'essere tonto.

"Ti piace essere baciato? Sei contenta Giorgina?" Per fargli capire quanto mi era piaciuto passai senza accorgermene un piccolo confine e gli offrii la mia bocca socchiusa. Fui baciato di nuovo, a lungo. La sua lingua cercava e si intrecciava con la mia. E mentre mi baciava mi carezzava con le sue grandi mani, su tutto il corpo.
Dopo qualche piacevole minuto mi prese la mano se la passò sulle braccia e sul torace, facendomi capire che potevo ricambiare le sue carezze. Non me lo feci ripetere. Carezzavo e gemevo piano, estasiato di sentire quel corpo così ampio e solido. Poi mi prese la mano e la portò gentilmente la mia mano sul cavallo dei suoi pantaloni. "Lo senti? È un cazzo che ha bisogno di te."

Prese a svestirmi. Come sotto la mano si ritrovò le mie tettine si staccò dalla mia bocca e prese a baciarmele e a succhiarmi i piccoli capezzoli. Per me era un sogno che si avverava, in mezzo alla mia arrendevolezza sentivo montare una sensazione calda di desiderio. Mi fece alzare e mi chiese di finire di spogliarmi.
Quando fui nudo e vide il piccolo cazzetto mi sorprese perché senza dire niente lo baciò. Poi mi fece girare e si fermò a contemplare il mio culo. "Sei bellissimo, hai un culo da favola."

Poi si svesti anche lui, si sedette e mi fece inginocchiare fra le sue gambe. Davanti a me c'era il suo cazzo, duro e caldo, lungo e grosso. Mi invitò a baciarglielo come lui aveva fatto col mio. Io ero come ubriaco. Lo baciai sulla punta, lui mi invitò ad accarezzargli i coglioni, grossi e pelosi e poi mi invitò ad aprire la bocca. "Fai entrare il mio cazzo, dai Giorgina, fammi vedere quanto ti piace." Io ero ormai perso, quel cazzo duro per il desiderio di me mi sembrava la cosa più bella del mondo.
Baciavo la cappella, infilavo la lingua nella sua fessura, leccavo l'asta avanti e indietro succhiavo i coglioni, infilavo la faccia sotto, avrei voluto che mi offrisse un culo peloso, da assaporare, da odorare, da baciare come una seconda bocca.
Facevo qualcosa che avevo sempre sognato di fare. Ero in ginocchio e stavo servendo il mio signore, gli stavo dando piacere, con la mia pochezza di ragazzo incerto tentavo di soddisfare un uomo.
Tremavo dentro. Alla fine aprii la bocca e lo inghiottii il suo cazzo, mi lo infilai fin dove potevo farlo arrivare, scoprii che con qualche disagio poteva tenerlo fino in fondo alla gola anche se la punta forzava e mi veniva qualche conato. Cercai di rilassarmi. Lui mi aveva preso i lati del viso con le sue gradi mani e mi guidava, scopandomi la faccia. Io era al settimo cielo. "Sei una deliziosa piccola troia Giorgina." Tenendo ferma la testa cominciò a scoparmi sempre più veloce e sempre più a fondo e poi venne, furiosamente, con lunghi schizzi che mi entrarono in gola. Il suo cazzo eruttò a lungo, ma io riuscii a inghiottire tutto. Ero soddisfatta di me, ora ero legittimato a pensare a me come Giorgina e a lui come al mio signore. Mi strinsi felice a lui.

Il riposo e la tenerezza dopo quel primo pompino furono intensi ma durarono poco. Ero sicuro che Luigi volesse altro. E io non avevo intenzione di tirarmi indietro. Stava per succedere, sarei stato inculato e non era più un sogno o una fantasia.
In realtà lui non mi chiese niente. Non ce n'era bisogno. Ero soggiogato e stordito, sentivo il sangue fluire come se fosse un torrente di montagna, il cuore battere forte come non mai. Lo abbracciai stretto stretto e poi presi leccargli di nuovo il cazzo che stava tornando duro. Piccole leccate. Rispettose. Ero un cagnetto, un delizioso piccolo animale domestico che tentava di attirare l'attenzione e la benevolenza del suo padrone.
Gli dissi semplicemente "Inculami!" Poi da brava bestiolina mi misi a quattro zampe sul pavimento, arcuando quanto più possibile il culo e tenendo bassa la testa. Volevo che lui vedesse bene la piccola invitante "o" più scura che lo aspettava tra le mie natiche.
Non ci furono parole o cerimonie inutili, io non gli dissi "Non farmi male è la prima volta." Lui non mi disse "Farò piano". Le bestie selvatiche non si scambiano smancerie. Si prendono. Lui semplicemente tra poco mi avrebbe rotto il culo. Sarebbe entrato a prepotenza dentro di me in un posto segreto che non sarebbe stato mai più come prima, e ogni volta che dal mio ano fosse passato qualcosa per entrare o per uscire io avrei pensato "Questo è il culo che Luigi ha spaccato quando avevo diciott'anni."
A me la cosa stava bene, così, proprio in quei termini. Volevo che succedesse, proprio così come una cerimonia di iniziazione, volevo uscire da quel garage come un vero rottoinculo, che perdeva sborra dal suo buco slabbrato. Tutto quello che chiedevo al mio nuovo signore era che mi rendesse felice e degno di lui, che si impadronisse del mio culo, che mi dilatasse oscenamente e dolorosamente come un bravo cagnetto merita.

Non ci furono dita pietose che sparsero lubrificanti dentro e fuori il mio culo. Molto più semplicemente Luigi si avvicinò, stette un attimo immobile a torreggiare sopra di me in attesa, poi si accucciò, mi afferrò saldamente per le anche, sputò sul mio culo e puntò la sua cappella contro il mio buco.
A entrare fino in fondo ci mise un paio di minuti che io trascorsi con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati, ansimando. Mi assaporai ogni millimetro di quella penetrazione, ogni piccolo strappo che sentivo e che vinceva la mia carne e mi faceva diventare un altro, un servo e un dispensatore di piacere tramite la mia sottomissione al volere di qualcun altro. Luigi era la grossa bestia che poteva stuprami a suo piacimento perché era quello che desideravo. L'avanzare del suo cazzo che stava dando una nuova forma al mio culo mi stava facendo diventare il cazzetto duro come l'acciaio, duro tanto da essere quasi insopportabilmente dolorante. E alla fine li sentii i peli dei suoi coglioni, morbidi, appoggiarsi sulla mia pelle. Era entrato tutto.

Mi disse "Hai il culo stretto, anche se ho visto che te lo sei già aperto da solo, ma il cazzo, quello vero, è un'altra cosa giusto?" "Un'altra e bellissima cosa, Luigi, ora scopami bene, ti prego".
E lui lo fece, prese a scoparmi con colpi improvvisi e duri, fino in fondo, poi cambiò ritmo, rallentò e per un po' andò avanti e indietro lento e metodico per esplodere poi nuovamente con colpi rapidi e affondati fino alla radice, così che io potessi sentire i suoi grossi coglioni sbattermi addosso.
In preda a un piacere sconosciuto mi muovevo andando incontro ai suoi colpi, alternando momenti dove tentavo di stringere il suo cazzo con il mio culo ad altri dove me ne stavo fermo a prendere rassegnato tutto quello che lui voleva darmi.
Lo imploravo con le solite preghiere: che andasse più forte, che andasse più a fondo, che mi facesse più male, che non avesse nessuna pietà di me, che mi inculasse come se fossi uno persona che odiava e che voleva punire.
Lo pregai di sculacciarmi mentre mi inculava, che mi colpisse forte con le sue grandi mani, che rendesse le mie natiche incandescenti tanto da non potermi sedere nei giorni a venire.

E alla fine successe, il mio cazzetto cominciò a secernere una sborra filamentosa che si accumulava in una piccola pozza sotto di me, stavo venendo ed era una cosa completamente diversa da ciò a cui mi ero abituato con le mie seghe, non c'erano spinte, non cerano fiotti, era un piccolo flusso continuo che mi stava sciogliendo dal di dentro. Venne anche Luigi con colpi tremendi e grugniti adatti alla bestia primordiale che lui era per me. Lo sentivo pulsare mentre stava fermo piantato dentro di me, che ero una cosa sua, un accessorio per svuotarsi per bene i coglioni.

Dopo ci fu silenzio. Silenzio e l'odore acre del suo sudore. Mi accorsi che stavo piangendo. Una commozione fatta di molte cose. Certo, anche del dolore che si irradiava dal mio ano. Ma c'era altro, provavo un senso di liberazione e un piccolo senso di gratitudine per Luigi. Poi ci fu il suo cazzo che usciva dal mio culo. Luigi non fece mostra di nessuna tenerezza particolare, un momento prima stava piantato fino in fondo in me, un momento dopo non era più dentro di me e questo era tutto. Io sentivo il mio culo aperto e sapevo che non si sarebbe mai più chiuso del tutto. Almeno non lo avrebbe fatto nella mia testa.

Luigi mi disse "Mi è piaciuto sverginarti. Non sei il primo ragazzino che passa da questo palchetto. Ma tu sei speciale, tu sei raro, tu vuoi che ti si facciano le peggio cose. Mi piacerebbe fartele io quelle cose. Ma so che è meglio per tutti e due che non ci si veda più." Non era tonto, proprio per niente. La gente su di lui si ingannava.
Io gli buttai le braccia al collo, lo baciai ancora e gli chiesi se mi potesse aiutare in un'ultima cosa. Gli chiesi se potesse prendermi un po' di carta igienica dal bagno, quando tornò io ero in piedi davanti al divanetto. Misi la carta per terra poi chiesi a Luigi di tenermi per le mani mentre mi abbassavo con una mossa quasi di minuetto e cagavo fuori dal culo la sua sborra mista a filamenti di sangue. Poi presi la carta, lo fissai negli occhi e gli dissi "Ti ringrazio Luigi. Mi hai rotto il culo in maniera divina."
E poi leccai tutto, avidamente.

Luigi non lo rividi più. Mio padre dopo poche settimane fu trasferito ad altra sede e noi cambiammo città.

E io a Luigi sono rimasto sempre grato, posto che Luigi fosse il suo vero nome. Grato per quel pomeriggio, per avermi svelato cose di me che non osavo confessarmi e per avermi aperto, è il caso di dirlo, nuove strade.
Nell'immediato, nella nuova città Luigi mi mancava. Mi stupravo da solo, quasi ogni sera, ripetutamente, cercando il dolore dei primi colpi e cercando di raggiungere quell'orgasmo così strano che avevo provato solo con la sua inculata, ma non c'era niente da fare.
Il vero cazzo è un'altra cosa, aveva ragione anche in questo il mio Luigi. Il peso di una persona che ti domina e che decide cosa farti è un'altra cosa. Più intensa, più ubriacante. Una sensazione che a me mancava tanto.

Giorgina doveva prendere in mano la situazione e andare a cercarsi qualche bel maschio cui sottomettersi.

Ma queste, come si dice, sono altre storie a venire.
scritto il
2024-10-02
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