Via dei Bardi - 09 Il giorno dopo
di
EssEmmE
genere
confessioni
La luce del mattino era già alta quando Giulia aprì gli occhi.
Un sole caldo, diretto, attraversava le tende leggere della camera di Edo, tagliando il letto in due metà dorate. L’aria profumava di lenzuola stropicciate, birra vecchia, e corpi vissuti.
Si stirò piano. Le gambe nude tra le coperte, il ventre ancora leggermente appiccicoso, i capelli arruffati. Si portò una mano al viso, poi la passò lentamente sul petto, sul ventre, scivolando fino a sfiorare la propria umidità, ancora lì. Non fresca. Ma presente. Come il ricordo di un sogno che non vuole svanire.
Era sola.
Si alzò. I piedi nudi sul parquet freddo la fecero sussultare. Si guardò allo specchio dell’ingresso, riconobbe i segni: il morso leggero sull’interno del braccio, l’arrossamento tra le cosce, il rossore ancora vivo sul petto.
Sorrise.
Poi andò in bagno.
Si spogliò lentamente.
Lasciò cadere la maglietta a terra. Poi gli slip. Salì nella doccia.
Aprì l’acqua. Calda, poi bollente.
Il getto le colpì le spalle, la schiena, scivolò lungo i fianchi, tra le cosce, si infilò nei solchi della notte passata.
Chiuse gli occhi.
Appoggiò le mani al muro.
E cominciò a toccarsi.
Non era come le altre volte. Non era fantasia. Era ricordo puro.
La lingua di Chiara. Il sapore del corpo maschile. Le mani sui seni. Il respiro condiviso.
Ma più di tutto, quel contatto brevissimo: la lingua di Chiara contro la sua.
Sopra un cazzo. Ma pur sempre l’una nell’altra.
Le dita di Giulia scivolarono dentro. Due, poi tre.
Il getto dell’acqua batteva sul clitoride con forza.
Mosse il bacino. Cercò il ritmo.
I muscoli le tremavano. La bocca si aprì in un gemito.
Venire fu rapido.
E profondo.
Un singhiozzo del corpo.
Un collasso dolce.
Rimase lì, sotto l’acqua, qualche minuto.
Poi uscì.
Si avvolse in un asciugamano e andò in cucina.
Sul tavolo c’era un biglietto.
Scritto a penna, su un tovagliolo.
“Giù, noi portiamo Tatiana alla stazione. Hai dormito come una regina. A dopo. — M+E+C”
Sorrise.
Il silenzio era irreale. L’appartamento sembrava un tempio dopo la messa. I bicchieri vuoti, i vestiti sparsi, l’odore del sesso nell’aria.
Raccolse le sue cose. Uscì.
Firenze, fuori, era un’altra città.
I vicoli erano pieni di turisti, cappelli di paglia, gruppi guidati da un ombrellino colorato.
Il caldo era già feroce. L’asfalto bollente. I motorini che rombavano tra i vicoli stretti.
Giulia camminava come staccata da tutto.
In un altro tempo.
Quando arrivò a casa, trovò le tapparelle semi abbassate, il profumo familiare delle piante sul davanzale.
Chiara non c’era.
Tornava anche lei dai suoi genitori, il giorno dopo.
Anche Giulia doveva fare la valigia.
Tirò fuori la valigia grande dall’armadio. La aprì sul letto.
Costumi. Magliette. Libri.
Nessun sex toy.
Li avrebbe lasciati lì.
Ma li guardò. Uno per uno.
Passò un dito sul wand. Sorrise.
Poi chiuse il cassetto.
La città era già di altri.
La loro Firenze — quella degli esami, delle notti afose, dei letti sfatti e dei bicchieri pieni — si stava spegnendo.
Ma qualcosa… non si era ancora detto.
Qualcosa rimaneva lì, in sospeso.
Tra il sapore delle lingue e il silenzio del ritorno.
Un sole caldo, diretto, attraversava le tende leggere della camera di Edo, tagliando il letto in due metà dorate. L’aria profumava di lenzuola stropicciate, birra vecchia, e corpi vissuti.
Si stirò piano. Le gambe nude tra le coperte, il ventre ancora leggermente appiccicoso, i capelli arruffati. Si portò una mano al viso, poi la passò lentamente sul petto, sul ventre, scivolando fino a sfiorare la propria umidità, ancora lì. Non fresca. Ma presente. Come il ricordo di un sogno che non vuole svanire.
Era sola.
Si alzò. I piedi nudi sul parquet freddo la fecero sussultare. Si guardò allo specchio dell’ingresso, riconobbe i segni: il morso leggero sull’interno del braccio, l’arrossamento tra le cosce, il rossore ancora vivo sul petto.
Sorrise.
Poi andò in bagno.
Si spogliò lentamente.
Lasciò cadere la maglietta a terra. Poi gli slip. Salì nella doccia.
Aprì l’acqua. Calda, poi bollente.
Il getto le colpì le spalle, la schiena, scivolò lungo i fianchi, tra le cosce, si infilò nei solchi della notte passata.
Chiuse gli occhi.
Appoggiò le mani al muro.
E cominciò a toccarsi.
Non era come le altre volte. Non era fantasia. Era ricordo puro.
La lingua di Chiara. Il sapore del corpo maschile. Le mani sui seni. Il respiro condiviso.
Ma più di tutto, quel contatto brevissimo: la lingua di Chiara contro la sua.
Sopra un cazzo. Ma pur sempre l’una nell’altra.
Le dita di Giulia scivolarono dentro. Due, poi tre.
Il getto dell’acqua batteva sul clitoride con forza.
Mosse il bacino. Cercò il ritmo.
I muscoli le tremavano. La bocca si aprì in un gemito.
Venire fu rapido.
E profondo.
Un singhiozzo del corpo.
Un collasso dolce.
Rimase lì, sotto l’acqua, qualche minuto.
Poi uscì.
Si avvolse in un asciugamano e andò in cucina.
Sul tavolo c’era un biglietto.
Scritto a penna, su un tovagliolo.
“Giù, noi portiamo Tatiana alla stazione. Hai dormito come una regina. A dopo. — M+E+C”
Sorrise.
Il silenzio era irreale. L’appartamento sembrava un tempio dopo la messa. I bicchieri vuoti, i vestiti sparsi, l’odore del sesso nell’aria.
Raccolse le sue cose. Uscì.
Firenze, fuori, era un’altra città.
I vicoli erano pieni di turisti, cappelli di paglia, gruppi guidati da un ombrellino colorato.
Il caldo era già feroce. L’asfalto bollente. I motorini che rombavano tra i vicoli stretti.
Giulia camminava come staccata da tutto.
In un altro tempo.
Quando arrivò a casa, trovò le tapparelle semi abbassate, il profumo familiare delle piante sul davanzale.
Chiara non c’era.
Tornava anche lei dai suoi genitori, il giorno dopo.
Anche Giulia doveva fare la valigia.
Tirò fuori la valigia grande dall’armadio. La aprì sul letto.
Costumi. Magliette. Libri.
Nessun sex toy.
Li avrebbe lasciati lì.
Ma li guardò. Uno per uno.
Passò un dito sul wand. Sorrise.
Poi chiuse il cassetto.
La città era già di altri.
La loro Firenze — quella degli esami, delle notti afose, dei letti sfatti e dei bicchieri pieni — si stava spegnendo.
Ma qualcosa… non si era ancora detto.
Qualcosa rimaneva lì, in sospeso.
Tra il sapore delle lingue e il silenzio del ritorno.
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