L'Ostrica
di
Micina
genere
etero
LA SORPRESA
9.02 di lunedì. Sono in ritardo come sempre, oggi per colpa della pioggia che intensifica il traffico. Lancio la giacca sull’appendiabiti e mi fiondo ad accendere il PC (necessito di caffè). Il telefono sta già squillando, rispondo mentre con le mani mi liscio i capelli arruffati dall’umidità. Suonano anche al citofono. Ascolto la voce della signora dall’altra parte della cornetta, guardo sul monitor del videocitofono, rispondo alla signora, riguardo il monitor (è lui!!), apro la porta, rispondo ancora alla signora, che liquido nel giro di cinque secondi, cerco di nuovo di pettinarmi con le mani (voglio un caffè).
Appena compare dalla porta, già sorridente, le guance mi si infiammano. Non ho alcun motivo per averne soggezione, ma quello lo sguardo insistente, che ogni volta percepisco su di me, mi manda nei matti.
Mi piace la sua voce calda e il suo modo di fare pacato, ma per il resto è imperscrutabile e io odio quando le persone non si lasciano guardare dentro, ne resto affascinata e incuriosita (o meglio fregata).
Ci salutiamo e lo prego di accomodarsi in attesa che il Grande Capo si liberi. Niente, lui non ascolta, resta lì, immobile e mi fissa.
“Caffè?”, ancora niente.
Abbasso lo sguardo e mi rimetto (anzi inizio) a fare le mie cose, un po' impacciata, spero non si noti.
Finalmente viene convocato in sala riunioni. Sospiro quasi sollevata, ma la sensazione dura poco. Il telefono squilla: il Grande Capo richiede un paio di caffè. Corro a prepararli alla velocità della luce e ingurgito il primo come se non ci fosse un domani, chiedendomi perché il lunedì debba sempre essere così difficile. Una passata ai capelli, una lisciata al vestito e lentamente percorro il lungo corridoio dello studio e porto i caffè ai signori. Entro, appoggio il vassoio sul tavolo e cerco di non guardarlo. I suoi occhi su di me li sento.
Finalmente mi metto a lavorare concentrata su quello che devo fare. Per primo rileggo gli appunti del giorno prima e rispondo a qualche e-mail, come di consueto ad inizio mattinata. Mentre sono al telefono con la signora di prima e cerco di dare risposte più convincenti, sento qualcosa, una presenza, alzo lo sguardo. Lui è lì, bello come il sole, che mi fissa. Ancora una volta termino in fretta la conversazione con la signora.
“Posso aiutarti?” gli chiedo.
“Domani sei invitata a cena, lasciami il tuo indirizzo così ti mando un taxi per le 20” (Porca boia!).
Non so quale espressione e colore del viso ho e non so nemmeno se la mia voce esce, ma accetto e lascio il mio indirizzo su un post-it.
Da quel momento l’ansia si è impadronita di me. Sono un automa che fa le cose quotidiane senza riflettere, con lo stomaco in subbuglio e la tachicardia perenne. Una tortura che non vedo l’ora finisca.
1° APPUNTAMENTO
Sono sul taxi e non riesco a respirare. Una mezzora interminabile.
Appena l’auto si ferma la portiera si apre e il mio braccio è afferrato da una mano forte e sicura che mi aiuta a scendere. E’ lui, è davanti a me e mi guarda compiaciuto. E io d’improvviso sto bene, sono felice di essere lì.
Entriamo nel locale e il cameriere ci fa accomodare ad un tavolo appartato. Ordina lui per entrambi, io confermo solo con sguardi di approvazione. Mi dice di assaggiare il vino, bianco e con le bollicine, me ne racconta la storia. Io lo ascolto e bevo volentieri sperando che l’imbarazzo svanisca.
Arrivano ostriche al tavolo e non riesco a guardarle senza che sulla fronte compaia un punto interrogativo. Lui vede la mia espressione, sorride!
La sua mano si allunga verso di me appoggiandosi sui miei capelli, all’altezza della nuca. Arrossisco e non capisco. Poi lo vedo afferrare la conchiglia dell’ostrica con la mano libera, sento i capelli tirare dolcemente sotto la stretta delle sue dita, la mia testa si inclina all’indietro. “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, me lo sussurra all’orecchio, “Così, brava! Ora lasciala scivolare in gola senza masticare”.
Ho il cuore che va a mille e riesco solo a dire: “E’ salata, sa di mare”. Non avevo mai assaggiato ostriche prima d’ora e non so quale sia il modo migliore per mangiarle, ma questo mi piace davvero tanto.
Ora mi sta raccontando di un viaggio in India. La sua voce, le bollicine ed ho voglia di ostriche!!! Le guardo d’istinto e lui prontamente ripete il gesto di prima “Apri la bocca e chiudi gli occhi”. Mi innamoro di quel sapore e di quel rituale. Guardo di nuovo il piatto, ancora tre, sorrido!
Per la cronaca non ne sono avanzate.
Ora arrivano altre cruditè di mare, buonissime he, ma che noia dover mangiare con le proprie mani.
Parlo anch’io finalmente, il vino e la confidenza che si sta creando mi fanno lentamente sciogliere. E tra pesce, dolci e chiacchiere il tempo vola e la cena finisce.
Usciamo dal ristorante e lo seguo in una passeggiata senza meta, qualche sbuffo di sigaretta, qualche parola, non troppe in realtà.
“Ora ti faccio assaggiare quello che ritengo sia il rum più buono che esista!”
“D’accordo” (come al solito la sua non era una domanda).
Saliamo sul taxi, il tipo è lo stesso di prima. Dopo dieci minuti l’auto si ferma e scendiamo, ma non davanti ad un locale come mi aspettavo, c’è il portone di un palazzo, un ascensore e la Porta del paradiso.
Entriamo e subito inizia a sbottonarmi il cappotto (ho caldo e arrossisco), me lo sfila e lo appoggia su una sedia all’ingresso. Io mi guardo un po' intorno pronta a navigare in quello che sembra un gran bel appartamento, mi piacerebbe avere qualche dettaglio in più sulla sua personalità. Ma no!!
Appoggia le mani sulle mie spalle e mi fa roteare in modo da porgergli la schiena, trattengo il respiro (non so per quale motivo) e mi ritrovo con un foulard sugli occhi (sa di buono). Ora mi afferra le braccia e mi fa appoggiare le mani sopra le natiche, mi sta legando i polsi. Mi rigira verso di se, sento il suo fiato sulle guance.
“Che fai?” chiedo timorosa.
“Ti faccio assaggiare il rum”
Mi spinge con garbo contro una parete e poi più nulla, silenzio, per un tempo che sembrava infinito.
Tintinnii di vetri che si incontrano, passi, passi, passi. L’ansia ritorna.
D’un tratto arriva il calore: dita che si introducono nella mia bocca, sapore di cioccolata, di nuovo la mia testa inclinata all’indietro e un liquido caldo che scende lungo la gola, il petto, lo stomaco e ancora più giù. Sento quel bruciore pervadermi ovunque. Sento le mutandine umide, il suo respiro addosso e la camicetta sbottonarsi. La pelle del seno inizia a scaldarsi sotto le sue mani roventi. Lo stringe. Il mio respiro si fa affannoso, aspetto ogni gesto con trepidazione. Finalmente arriva la sua bocca, la sua lingua umida, il suo corpo che si comprime contro di me. Sento il cazzo spingere sulla mia eccitazione.
E’ un bacio infinito, che calma la mia ansia, ma non la mia voglia di essere sua.
D’un tratto si stacca da me (no!!!!!), ma è ancora lì (Cosa fa?).
La gonna si alza, i collant scendono fino alle ginocchia, poi ancora nulla.
Dopo un po’ la sua bocca ritorna a torturare la mia e insieme la sua mano infuocata sul seno. L’altra mano inizia a scorrere a palmo aperto sull’interno coscia, lentamente, sale, sale e non si ferma. Incontra i miei slip, sono un lago e ora quello sfregamento uccide ogni mia difesa (se mai ci fosse stata). Il mio clitoride lo implora di non fermarsi, insieme alla sua lingua che si è completamente impadronita della mia bocca. La mente è offuscata, voglio di più.
Mi sente.
La mano sale ancora, fino al monte di venere, poi prende a scendere portando con se il mio intimo. Le sue dita scivolano tra le labbra, raccolgono i miei umori e risalgono a massaggiare il clitoride. D’istinto mi sporgo in avanti il basso ventre. Lui mi asseconda e le dita (due credo) entrano dentro di me, lentamente, ma con convinzione. Vanno sempre più su, sempre più in profondità ed esplorano tutto quel che possono. Si muovono avanti ed indietro, dolci, forti e ben presto la danza aumenta il suo ritmo. Sento i miei liquidi schizzare sulla pancia e sulle cosce, sento il calore colare lungo le gambe.
Le ginocchia non mi reggono e la schiena scivola lungo la parete, vorrei lasciarmi cadere, ma non mi è concesso. Sono arpionata e scossa da quella forza. Mi avvolge un orgasmo infinito e mi abbandono completamente ai suoi gesti. Non sono più in grado di intendere e volere.
Ha smesso di baciarmi da qualche minuto, credo si sia goduto la scena di me ansimante, con la bocca spalancata e il cervello completamente appannato.
Le sue dita sono ancora dentro di me, più delicate ora, ma continuano a muoversi e a muoversi e ancora e più forte. All’ennesimo orgasmo lo imploro di smettere. Sono sfinita, con la salivazione azzerata e completamente prosciugata.
Ho ripetuto la supplica per altri alcuni infiniti orgasmi e solo ora che il pavimento è un vero e proprio lago, le sue mani scivolano via da me, lasciandomi lì, tremante e ansimante.
Ricordo i polsi slegati, la benda tolta e un abbondante sorso d’acqua, un cappotto, un taxi.
Ricordo di essermi chiesta perché non abbia voluto di più, ricordo di essermi svegliata stamattina con lo stesso pensiero. Voglio il suo cazzo.
9.02 di lunedì. Sono in ritardo come sempre, oggi per colpa della pioggia che intensifica il traffico. Lancio la giacca sull’appendiabiti e mi fiondo ad accendere il PC (necessito di caffè). Il telefono sta già squillando, rispondo mentre con le mani mi liscio i capelli arruffati dall’umidità. Suonano anche al citofono. Ascolto la voce della signora dall’altra parte della cornetta, guardo sul monitor del videocitofono, rispondo alla signora, riguardo il monitor (è lui!!), apro la porta, rispondo ancora alla signora, che liquido nel giro di cinque secondi, cerco di nuovo di pettinarmi con le mani (voglio un caffè).
Appena compare dalla porta, già sorridente, le guance mi si infiammano. Non ho alcun motivo per averne soggezione, ma quello lo sguardo insistente, che ogni volta percepisco su di me, mi manda nei matti.
Mi piace la sua voce calda e il suo modo di fare pacato, ma per il resto è imperscrutabile e io odio quando le persone non si lasciano guardare dentro, ne resto affascinata e incuriosita (o meglio fregata).
Ci salutiamo e lo prego di accomodarsi in attesa che il Grande Capo si liberi. Niente, lui non ascolta, resta lì, immobile e mi fissa.
“Caffè?”, ancora niente.
Abbasso lo sguardo e mi rimetto (anzi inizio) a fare le mie cose, un po' impacciata, spero non si noti.
Finalmente viene convocato in sala riunioni. Sospiro quasi sollevata, ma la sensazione dura poco. Il telefono squilla: il Grande Capo richiede un paio di caffè. Corro a prepararli alla velocità della luce e ingurgito il primo come se non ci fosse un domani, chiedendomi perché il lunedì debba sempre essere così difficile. Una passata ai capelli, una lisciata al vestito e lentamente percorro il lungo corridoio dello studio e porto i caffè ai signori. Entro, appoggio il vassoio sul tavolo e cerco di non guardarlo. I suoi occhi su di me li sento.
Finalmente mi metto a lavorare concentrata su quello che devo fare. Per primo rileggo gli appunti del giorno prima e rispondo a qualche e-mail, come di consueto ad inizio mattinata. Mentre sono al telefono con la signora di prima e cerco di dare risposte più convincenti, sento qualcosa, una presenza, alzo lo sguardo. Lui è lì, bello come il sole, che mi fissa. Ancora una volta termino in fretta la conversazione con la signora.
“Posso aiutarti?” gli chiedo.
“Domani sei invitata a cena, lasciami il tuo indirizzo così ti mando un taxi per le 20” (Porca boia!).
Non so quale espressione e colore del viso ho e non so nemmeno se la mia voce esce, ma accetto e lascio il mio indirizzo su un post-it.
Da quel momento l’ansia si è impadronita di me. Sono un automa che fa le cose quotidiane senza riflettere, con lo stomaco in subbuglio e la tachicardia perenne. Una tortura che non vedo l’ora finisca.
1° APPUNTAMENTO
Sono sul taxi e non riesco a respirare. Una mezzora interminabile.
Appena l’auto si ferma la portiera si apre e il mio braccio è afferrato da una mano forte e sicura che mi aiuta a scendere. E’ lui, è davanti a me e mi guarda compiaciuto. E io d’improvviso sto bene, sono felice di essere lì.
Entriamo nel locale e il cameriere ci fa accomodare ad un tavolo appartato. Ordina lui per entrambi, io confermo solo con sguardi di approvazione. Mi dice di assaggiare il vino, bianco e con le bollicine, me ne racconta la storia. Io lo ascolto e bevo volentieri sperando che l’imbarazzo svanisca.
Arrivano ostriche al tavolo e non riesco a guardarle senza che sulla fronte compaia un punto interrogativo. Lui vede la mia espressione, sorride!
La sua mano si allunga verso di me appoggiandosi sui miei capelli, all’altezza della nuca. Arrossisco e non capisco. Poi lo vedo afferrare la conchiglia dell’ostrica con la mano libera, sento i capelli tirare dolcemente sotto la stretta delle sue dita, la mia testa si inclina all’indietro. “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, me lo sussurra all’orecchio, “Così, brava! Ora lasciala scivolare in gola senza masticare”.
Ho il cuore che va a mille e riesco solo a dire: “E’ salata, sa di mare”. Non avevo mai assaggiato ostriche prima d’ora e non so quale sia il modo migliore per mangiarle, ma questo mi piace davvero tanto.
Ora mi sta raccontando di un viaggio in India. La sua voce, le bollicine ed ho voglia di ostriche!!! Le guardo d’istinto e lui prontamente ripete il gesto di prima “Apri la bocca e chiudi gli occhi”. Mi innamoro di quel sapore e di quel rituale. Guardo di nuovo il piatto, ancora tre, sorrido!
Per la cronaca non ne sono avanzate.
Ora arrivano altre cruditè di mare, buonissime he, ma che noia dover mangiare con le proprie mani.
Parlo anch’io finalmente, il vino e la confidenza che si sta creando mi fanno lentamente sciogliere. E tra pesce, dolci e chiacchiere il tempo vola e la cena finisce.
Usciamo dal ristorante e lo seguo in una passeggiata senza meta, qualche sbuffo di sigaretta, qualche parola, non troppe in realtà.
“Ora ti faccio assaggiare quello che ritengo sia il rum più buono che esista!”
“D’accordo” (come al solito la sua non era una domanda).
Saliamo sul taxi, il tipo è lo stesso di prima. Dopo dieci minuti l’auto si ferma e scendiamo, ma non davanti ad un locale come mi aspettavo, c’è il portone di un palazzo, un ascensore e la Porta del paradiso.
Entriamo e subito inizia a sbottonarmi il cappotto (ho caldo e arrossisco), me lo sfila e lo appoggia su una sedia all’ingresso. Io mi guardo un po' intorno pronta a navigare in quello che sembra un gran bel appartamento, mi piacerebbe avere qualche dettaglio in più sulla sua personalità. Ma no!!
Appoggia le mani sulle mie spalle e mi fa roteare in modo da porgergli la schiena, trattengo il respiro (non so per quale motivo) e mi ritrovo con un foulard sugli occhi (sa di buono). Ora mi afferra le braccia e mi fa appoggiare le mani sopra le natiche, mi sta legando i polsi. Mi rigira verso di se, sento il suo fiato sulle guance.
“Che fai?” chiedo timorosa.
“Ti faccio assaggiare il rum”
Mi spinge con garbo contro una parete e poi più nulla, silenzio, per un tempo che sembrava infinito.
Tintinnii di vetri che si incontrano, passi, passi, passi. L’ansia ritorna.
D’un tratto arriva il calore: dita che si introducono nella mia bocca, sapore di cioccolata, di nuovo la mia testa inclinata all’indietro e un liquido caldo che scende lungo la gola, il petto, lo stomaco e ancora più giù. Sento quel bruciore pervadermi ovunque. Sento le mutandine umide, il suo respiro addosso e la camicetta sbottonarsi. La pelle del seno inizia a scaldarsi sotto le sue mani roventi. Lo stringe. Il mio respiro si fa affannoso, aspetto ogni gesto con trepidazione. Finalmente arriva la sua bocca, la sua lingua umida, il suo corpo che si comprime contro di me. Sento il cazzo spingere sulla mia eccitazione.
E’ un bacio infinito, che calma la mia ansia, ma non la mia voglia di essere sua.
D’un tratto si stacca da me (no!!!!!), ma è ancora lì (Cosa fa?).
La gonna si alza, i collant scendono fino alle ginocchia, poi ancora nulla.
Dopo un po’ la sua bocca ritorna a torturare la mia e insieme la sua mano infuocata sul seno. L’altra mano inizia a scorrere a palmo aperto sull’interno coscia, lentamente, sale, sale e non si ferma. Incontra i miei slip, sono un lago e ora quello sfregamento uccide ogni mia difesa (se mai ci fosse stata). Il mio clitoride lo implora di non fermarsi, insieme alla sua lingua che si è completamente impadronita della mia bocca. La mente è offuscata, voglio di più.
Mi sente.
La mano sale ancora, fino al monte di venere, poi prende a scendere portando con se il mio intimo. Le sue dita scivolano tra le labbra, raccolgono i miei umori e risalgono a massaggiare il clitoride. D’istinto mi sporgo in avanti il basso ventre. Lui mi asseconda e le dita (due credo) entrano dentro di me, lentamente, ma con convinzione. Vanno sempre più su, sempre più in profondità ed esplorano tutto quel che possono. Si muovono avanti ed indietro, dolci, forti e ben presto la danza aumenta il suo ritmo. Sento i miei liquidi schizzare sulla pancia e sulle cosce, sento il calore colare lungo le gambe.
Le ginocchia non mi reggono e la schiena scivola lungo la parete, vorrei lasciarmi cadere, ma non mi è concesso. Sono arpionata e scossa da quella forza. Mi avvolge un orgasmo infinito e mi abbandono completamente ai suoi gesti. Non sono più in grado di intendere e volere.
Ha smesso di baciarmi da qualche minuto, credo si sia goduto la scena di me ansimante, con la bocca spalancata e il cervello completamente appannato.
Le sue dita sono ancora dentro di me, più delicate ora, ma continuano a muoversi e a muoversi e ancora e più forte. All’ennesimo orgasmo lo imploro di smettere. Sono sfinita, con la salivazione azzerata e completamente prosciugata.
Ho ripetuto la supplica per altri alcuni infiniti orgasmi e solo ora che il pavimento è un vero e proprio lago, le sue mani scivolano via da me, lasciandomi lì, tremante e ansimante.
Ricordo i polsi slegati, la benda tolta e un abbondante sorso d’acqua, un cappotto, un taxi.
Ricordo di essermi chiesta perché non abbia voluto di più, ricordo di essermi svegliata stamattina con lo stesso pensiero. Voglio il suo cazzo.
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto sucessivo
Tacco 15 (seguito de "L'Ostrica")
Commenti dei lettori al racconto erotico